Epimenide da Creta
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Shamaneixemo endouropeo
di Gabriele Costa
http://www.continuitas.com/sciamanismo.pdf
Tra i molti pregiudizi che gli studi dell’Ottocento e del Novecento ci hanno lasciato in eredità, uno è ancora oggi pervicacemente diffuso, ed è l’idea che gli Indeuropei - e di conseguenza poi anche il mondo che noi chiamiamo classico – non abbiano mai conosciuto una fase etnolinguistica e culturale preistorica, che la loro tradizione debba dunque essere costitutivamente priva di ogni presunta bruttura o irrazionalità tipica delle civiltà primitive e ‘inferiori’, e pertanto che credenze, riti e perfino singoli episodi, ad esempio di cannibalismo, sacrifici umani, cacciatori di teste, etc., inequivocabilmente attestati in abbondanza nella documentazione residua, vadano attribuiti a ininfluenti e marginali influssi esterni, estranei alla civiltà indeuropea, e poi a quella classica, nel suo complesso (cfr. Costa, 2001, 2002, 2003a, 2004). (Così come quello in Costa, 2003b, anche il presente lavoro fa parte di una più ampia ricerca sulla grecità arcaica, la filosofia preplatonica e i loro rapporti con la tradizione poetica e sapienziale indeuropea, i cui risultati definitivi saranno pubblicati in Costa, 2006f, volume a cui qui, per motivi di spazio, si rinvia per ogni ulteriore approfondimento dossografico e bibliografico, e per il necessario inquadramento epistemologico, storico-filosofico e linguistico-ricostruttivo generale.)
Questo atteggiamento, culturale prima ancora che scientifico, che certo ha radici lontane che risalgono in parte agli autori classici stessi e che attraversa tutta la storia dell’umanesimo occidentale, è direttamente collegabile alla teoria invasionista e calcolitica sulle origini indeuropee, e a una visione del mondo indeuropeo, ad essa connessa, ideologicamente connotata.
La teoria calcolitica sulle origine induropee, che è ancora oggi quella standard, prevedendo infatti per i popoli di lingua indeuropea una storia compressa in pochi millenni, e postulando il loro arrivo, per il tramite di invasioni rapide e cruente, nelle sedi storiche in epoca cronologicamente troppo bassa, lascia del tutto indefinite le loro fasi preistoriche, come se gli Indeuropei, diversamente da tutti gli altri popoli del mondo, non avessero un passato che risalga oltre il V-IV millennio.
Secondo poi questa teoria, quel che accomuna in tutto o in parte le lingue e le culture indeuropee, dall’Irlanda all’India, ma che non rientra nei canoni linguistici e culturali ricostruiti, indicati a priori come superiori a ogni forma definibile come appartenente a una cultura etnologicamente ‘primitiva’ perché appunto gli inizi della cultura indeuropea non risalirebbero oltre l’età dei metalli, sarebbe genericamente da attribuire al cosiddetto sostrato indo-mediterraneo, cioè alle popolazioni nonindeuropee preesistenti nelle sedi storiche all’arrivo degli Indeuropei, o a influssi seriori e secondari provenienti da culture altre, loro sì considerate primitive.
Le due istanze, quella culturale e quella scientifica, si sono insomma intrecciate fino a formare una visione del mondo indeuropeo che ha poca verosimiglianza scientifica, che non assomiglia a nessun altra vicenda etnolinguistica e storica che conosciamo, e che tuttora inficia la ricerca, impedendole di vedere quel che da sempre è sotto gli occhi di tutti, e cioè che gli Indeuropei, in realtà, sono “gente normale” (cfr. Ballester, 1999).
A partire dal 1996 (cfr. Alinei, 1996, 2000, 2003; Costa, 1998, 2000, 2001, 2002, 2004, 2006a, 2006f), è tuttavia disponibile una nuova teoria sulle origini indeuropee, una teoria che finalmente riconcilia la linguistica comparata con i propri assunti evolutivi e storico-linguistici, con i dati provenienti dalle ricerche più recenti della paletnologia, dell’archeologia e della genetica, e risolve una volta per tutte le aporie più vistose della teoria calcolitica (ma anche di quella neolitica di C. Renfrew e L. L. Cavalli Sforza).
Secondo tale teoria, compiutamente elaborata in primis da Mario Alinei e sviluppata poi anche da altri studiosi tra cui lo scrivente, e denominata ‘teoria della continuità paleolitica’ (in inglese: Paleolithic Continuity Theory = PCT), la patria originaria degli Indeuropei sarebbe l’Africa, la stessa cioè di tutte le popolazioni moderne e di tutti i phyla linguistici del mondo; i più antichi insediamenti delle popolazioni indeuropee fuori dall’Africa corrisponderebbero ai territori occupati attualmente dalle lingue indeuropee stesse;
l’Europa sarebbe stata occupata, fin dalle prime datazioni determinate dalle ricerche, dagli Indeuropei insieme alle altre popolazioni non indeuropee presenti poi storicamente in loco, come ad esempio quelle uraliche: il rapporto etno-linguistico preistorico tra gli Indeuropei e gli altri popoli eurasiatici si configurerebbe allora come di adstrato/parastrato e non di superstrato/sostrato, saremmo cioè in quell’ambito che in linguistica teorica si definisce come di ‘lingue in contatto’; il sostrato indo-mediterraneo in quanto tale non esisterebbe e non esisterebbero popoli pre-indeuropei perché l’arrivo degli Indeuropei, e delle altre genti, coinciderebbe col primo popolamento euroasiatico di Homo sapiens sapiens; le lingue indeuropee, ma anche quelle non-indeuropee presenti nel territorio eurasiatico, sarebbero già state divise e formate a partire almeno dal mesolitico; ogni invasione massiva neolitica o calcolitica sarebbe esclusa, e le limitate invasioni e infiltrazioni locali documentate dall’archeologia o ipotizzate dalla genetica costituirebbero fattori di ibridazione e non di sostituzione; l’agricoltura si sarebbe diffusa nell’Eurasia secondo un modello complesso e integrato, a mosaico, di sviluppi locali, di acculturazione e di limitata diffusione demica da parte di gruppi an-indeuropei; le popolazioni di cultura kurganica emerse nel calcolitico, indicate dalla teoria calcolitica, nella versione di M. Gimbutas, come gli Indeuropei stessi, sarebbero invece di origine altaica, e la loro influenza sul mondo indeuropeo sarebbe stata linguisticamente, geneticamente e culturalmente piuttosto limitata; nella loro
lunghissima storia, la continuità dei contatti trans-tribali e l’identità etno-linguistica e socio-culturale delle popolazioni di lingua indeuropea, sarebbero state assicurate dalla tradizione orale e sapienziale riflessa dalla e nella lingua poetica indeuropea (cfr. Costa, 1998, 2000, 2001, 2002, 2004, 2006a, 2006f).
All’interno della PCT, anche questioni etnolinguistiche e storico-religiose quali ad esempio le tassonomie poetiche più arcaiche, i sacrifici di sangue o il culto delle teste tagliate, trovano allora una spiegazione scientificamente economica, storicamente lineare e etnologicamente coerente, poiché quanto appena detto consente di attribuire rettamente ai popoli indeuropei alcuni di quei dati che erano stati in precedenza
assegnati alle inesistenti lingue e culture di sostrato, considerandoli come vestigia di una comune eredità della vastissima e poco variata cultura paleo-mesolitica, e non valutandoli pertanto, questi o altri in generale, come extra-indeuropee a priori, ma attribuendoli o meno anche agli Indeuropei in base alle risultanze della comparazione.
Insomma, tali dati si inquadrano oggi perfettamente nella storia etnolinguistica indeuropea così come la delinea la teoria della continuità paleolitica, prevedendo cioè anche per questi popoli una preistoria paleo-mesolitica e delle fasi culturali e linguistiche preistoriche lontane, e un rapporto di contatto e di interscambio coi popoli coevi e contermini non pregiudizialmente violento e prevaricatore, e certo non ‘superiore’ a ogni influsso cosiddetto barbaro o selvaggio, o perfino estraneo a fasi etnolinguistiche ‘primitive’.
Seppure con alcune illustri eccezioni (Rohde, Dodds, Burkert, etc.), la ricerca ha tra l’altro finora sottovalutato, se non misconosciuto, anche l’importanza delle numerose e significative vestigia dello sciamanismo nelle culture di lingua indeuropea, attribuendole per lo più a influssi vicino-orientali tardi e esotici.
Di tali vestigia, basterà qui ricordarne solo alcune: per il mondo greco, Empedocle, Fr., B111:
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...TESTO IN GRECO- (che non mi riesce di postare ma che si trova nel testo consultabile in pdf)
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“e tutte le medicine che si producono come rimedio dei morbi e della vecchiaia, tu potrai conoscere, perché completerò soltanto per te tutti questi precetti.
Saprai calmare la forza dei venti incessanti, che sulla terra avventandosi con le loro folate distruggono i raccolti; e poi di nuovo, a tuo piacimento, riporterai gradite le brezze.
Dalla fosca pioggia farai tempestivo per la gente il secco, ed anche farai dal secco in estate, a ristoro degli alberi, i getti d’acqua che sprizzano in alto.
Saprai riportare su dall’Ade il vigore di un uomo ormai finito”.
Per il mondo celtico (cfr. Corradi Musi, 2004), si può citare quel che racconta Pomponio Mela, 3, 6, 48:
“Sena in Britannico mari Ossismicis adversa litoribus, Gallici numinis oraculo insignis est, cuius antistites perpetua virginitate sanctae numero novem esse traduntur: Gallizenas vocant, putantque ingeniis singularibus praeditas maria ac ventos concitare carminibus, seque in quae velint animalia vertere, sanare quae apud alios insanabilia sunt, scire ventura et praedicare, sed nonnisi dedita navigantibus, et in id tantum, ut se consulerent profectis”.
Altresì nota da tempo e oramai assodata, è l’importanza del ruolo che lo sciamanismo gioca, tra l’altro, nella definizione della figura centrale del pantheon germanico, quella del dio Wotan/Odino; ad esempio, Snorri, Ynglingasaga, VII, parlando lui dice:
“Il suo corpo giace come se dormisse o fosse morto, mentre egli diviene un uccello o una belva, un uccello o un drago e si porta lontano in un attimo in paesi lontanissimi”.
Per il mondo indiano antico (cfr. Crevatin, 1979), si possono ricordare testi come Rg-Veda, 8, 48, 1-3; 9, 113, 6-7; 10, 97, 1-6, o l’inno di Rg-Veda, 10, 136; mentre per la tradizione iranica antica, è sufficiente citare lo Artāi Vīraz Nāmak, un testo pahlavi con interpolazioni posteriori, ma che verosimilmente nella sua parte essenziale risale al periodo pre-sasanide, forse dunque al III-IV secolo d.C., e che si rifà per certo a una tradizione orale molto antica, ove troviamo la descrizione di un viaggio nell’aldilà di tipo evidentemente sciamanico, ottenuto grazie a un rituale estatico e all’uso di droghe (cfr. Belardi 1979, 1996).
E così si potrebbe continuare per le altre tradizioni indeuropee...
Insomma, il riesame senza pregiudizi delle molte e significative testimonianze di miti e riti sciamanici nelle tradizioni greca, italica, celtica, germanica, iranica, indiana, anatolica, etc., l’adeguato sfruttamento degli studi più recenti (cfr. Costa, 2004, 2005a, 2005b, 2006a, 2006b, 2006c, 2006d, 2006e), e soprattutto l’inquadramento generale del problema all’interno della teoria della continuità paleolitica, al contrario di quel che si è ritenuto finora, consente di far emergere con chiarezza l’evidenza di una fase sciamanica preistorica originale e propria alla storia etnolinguistica delle popolazioni indeuropee, uno sciamanismo indeuropeo le cui ultime propagini sono ancora ben vitali, tra l’altro, nelle grecità arcaica e storica (cfr. Costa, 2006f).
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...così come Epimenide, lo sciamano cretese, che, chiamato a purificare Atene dalla prima grande epidemia di peste delle sua storia, purificò la città, modificò i riti funebri, e le diede quella costituzione che poi fu fissata per iscritto da Solone(cfr. Plutarco, Solone, 12, Svenbro, 1988).
Epimenide, uno dei padri della costituzione ateniese e della logica occidentale, profeta, terapeuta, maestro di tecniche della respirazione diaframmatica (cfr. Suida, s.v., Gernet, 1945), che gli consentivano di staccarsi dal corpo e viaggiare nel tempo e nello spazio, e dell’incubazione, dormì in una caverna per 57 anni (cfr. Diogene Laerzio, I, 109), e nel sonno e nel digiuno “incontrò gli dei e i loro responsi, e si imbattè in Aletheia e Dike” (Massimo di Tiro, 38,3) che gli donarono il novmo".
Quando morì ultracentenario a Sparta, racconta lo storico locale Sosibio (in Diogene Laerzio, I, 115) che il suo corpo non fu né bruciato né inumato ma conservato, perché si scoprì che la sua pelle “era tatuata di lettere” (Suida, s.v.).
Per i Greci, un uomo tatuato o è uno schiavo o è un barbaro; ma il corpo tatuato di Epimenide, greco e uomo libero, rappresenta invece il soma di uno sciamano che la scrittura tatuata trasforma in sema, in segno e in stele: la tomba di Epimenide è il suo stesso corpo, ma il corpo tatuato è un’iscrizione, pronta per essere letta (cfr. Svenbro, 1988).[/i] Licurgo, fedele alla tradizione orale e ai suoi taboo (cfr. Costa, 1998, 2000), proibì l’uso della scrittura nella legislazione, mentre Numa volle che alla sua morte i suoi scritti fossero interrati con lui; Epimenide invece accetta la scrittura segreta e iniziatica (cfr.Costa, 1998, 2000), ma rifiuta la separazione tra corpo umano e corpo scritto: la Verità di cui è maestro resta con lui, inscritta su di lui.
L’iscrizione sul suo corpo, sulla sua pelle, letta ad alta voce, consente a Epimenide, aldilà della morte del soma, di tornare come sema tra i vivi, perché la sua parola ritorna attraverso la voce che il lettore gli cede ad ogni lettura, ad ogni esegesi della traccia, ridando così significato al segno inscritto: “il soffio che lo sciamano cretese sapeva così ben controllare [...] è ora insufflato in lui quando il lettore pone il suo apparato vocale al servizio dello scritto” (Svenbro, 1988), e trasforma le lettere morte in voce vivente nel luogo stesso dove è custodito il suo corpo, incarnandosi così non la [psiche (? da correggere la mia trascrizione)] in corpi diversi (quel che noi chiamiamo metensomatosi, ma che Greci in realtà chiamavano palingenesia), ma [psicheat (? da correggere la trascrizione)] diverse nello stesso corpo (e questa è la metempsicosi).