La Greghia e l mito de ła demograsia ouropea

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Messaggioda Berto » sab lug 25, 2015 7:52 am

La Greghia e l mito de ła demograsia ouropea
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Re: La greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » sab lug 25, 2015 7:53 am

La Grecia e il mito della democrazia europea
di NADIA URBINATI
04 luglio 2015

http://www.repubblica.it/cultura/2015/0 ... -118359847

In quel crogiuolo di pensiero radicale e critico che fu il gruppo riunito intorno a Jeremy Bentham, nella Londra degli anni Trenta dell'ottocento, avvenne un passaggio epocale di modelli politici: dalla Roma repubblicana all'Atene periclea. Il Settecento fu romano, come ci spiegò Arnaldo Momigliano, sia quando fu mito imperiale e cesaristico sia quando fu mito repubblicano. E non fu democratico. Nonostante le rivoluzioni costituzionali settecentesche americana e francese avrebbero inaugurato la democratizzazione in occidente, esse non nacquero all'insegna della democrazia, il nome ancora allora di un pessimo governo. I padri fondatori americani pensavano con orrore alle assemblee democratiche e congegnarono rappresentanza e federalismo come strategie per imbrigliare il demos: sostituendo i delegati eletti ai cittadini in assemblea, e rompendo la sovranità nazionale nell'articolazione federale. Circa i francesi, come avrebbe scritto con la sua penna inconfondibile Carlo Marx, essi vestirono i panni degli antichi romani come a coprire la mancanza di un linguaggio loro proprio che servisse a denotare la loro rivoluzione. E come i concittadini di Catone e di Cicerore, anch'essi disdegnavano la democrazia e riponevano nella virtù dei pochi tutta la fiducia nel futuro della rivoluzione, la quale deragliò verso la tirannia dei virtuosi perché fatta nel nome di una libertà che doveva essere meritata e non lasciata a tutti.

Ci volle la paura napoleonica per svegliare i liberali dal mito o dal terrore della virtù degli antichi e farli desiderosi di studiarli gli antichi invece di imitarli o mitizzarli. A Benjamin Constant, che dopo tutto continuava a rovescio la linea mitica settecentesca quando suggeriva ai suoi lettori di abbandonare gli antichi poiché avevano poco da dire ai moderni, John Stuart Mill, il più brillante del gruppo di Bentham, contrappose una strategia più convincente: quella della ricostruzione delle istituzioni e delle procedure inventate dall'Atene democratica, da Solone e Clistene fino a Pericle e Efialte. E il suo amico George Grote, sulla cui Storia della Grecia Momigliano scrisse nel 1952 pagine esemplari, si diede a ricostruire la storia politica, religiosa, filosofica e infine istituzionale dell'Atene classica, emancipando la democrazia dall'identificazione con il governo rozzo delle masse. Ne venne fuori un quadro straordinario di immaginazione costituzionale, di raffinatezza della conoscenza dei comportamenti umani collettivi, di cui già David Hume aveva colto l'originalità. Furono gli ateniesi dunque a mettere la democrazia sui binari delle procedure di decisione e dei controlli costituzionali, non gli spartani con le loro piazze di plebisciti urlati. Furono gli ateniesi a valorizzare il voto singolo e a prestare attenzione al suo conteggio, ad abbandonare la valutazione imprecisa del grido della massa, a scegliere la strada sicura e soprattutto libera da contestazioni dell'aritmetica.

I padri della democrazia moderna, liberale e costituzionale, furono dunque riattratti dalla Grecia antica, ma non per farne un mito irripetibile e pre-moderno, bensì per farne a tutti gli affetti il primo e fondamentale capitolo della storia dei moderni, che cominciava, ha spiegato Josiah Ober con la pratica democratica come "potere di fare succedere le cose insieme", non potere bruto, ma potere regolato da procedure e norme, dalla selezione per mezzo della lotteria all'elezione dei leader, alla diretta decisione popolare in assemblea. Una democrazia che escogitò sistemi di controllo delle proposte di legge (e dei proponenti) e delle leggi approvate; che, come Aristotele scrisse, sapeva assegnare ai pochi un ruolo nel governo dei molti.

A questa democrazia costituzionale, Mill e i liberali inglesi dell'ottocento si rivolsero per comprendere in che cosa la democrazia moderna era diversa da quella antica. E videro che tre furono le ragioni di superiorità dei moderni: l'invenzione della rappresentanza, l'emancipazione femminile e la liberazione del lavoro schiavo. Tre condizioni che rendevano la democrazia moderna capace di superare quella antica realizzando meglio il suo principio dell'eguaglianza politica. Quel modello, quella forma di governo per la quale, disse Pericle nell'orazione funebre, tutto il mondo ci ammira, ha ancora tanta forza simbolica da farci partecipare empaticamente ai destini di questo popolo che vuole riprendere Europa per impedire che nuovi despoti la conquistino. La priorità della politica su tutte le sfere sociali sta in questo mito che è squisitamente europeo perché e in quanto mito greco di una vita pubblica politica. Nelle parole di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é uno modo politico di vivere insieme nel

quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte im
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Re: La greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » sab lug 25, 2015 7:57 am

Le raixe de ła vera demograsia łè stà ente łe comounedà claneghe del Pałeołetego endoe ke tuti łi podea e gavea da dir ła sua parké a se podese tor na deçixion ke ła ndese ben par tuto el clan.


https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_democrazia
Tuttora è in atto un approfondimento sulla natura assembleare e non dinastica della regalità in mesopotamia. Il primo assiriologo a iniziare uno studio di questo tipo fu Thorkild Jacobsen nell'articolo "Primitive Democracy in Ancient Mesopotamia" nel "Journal of Near Eastern Studies" edito dall'Oriental Istitute of Chicago,nel 1943.
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Re: La greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » sab lug 25, 2015 8:09 am

La demograsia comounal no ła ga fondamento ente coeła grega.

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_democrazia
La dottrina cristiana e il messaggio egualitario del Vangelo, la rinascita degli studi aristotelici, la nascita delle prime teorie contrattualistiche, l'assemblearismo dei comuni, sono gli elementi principali che compongono la concezione medievale della democrazia.

Marsilio da Padova
"Lo scrittore che meglio incarna l'ideale democratico nel pensiero politico medievale è Marsilio da Padova, in cui i concetti di sovranità popolare e corporativa, di rappresentanza, ecc. vengono applicati largamente alla vita dello stato e altresì a quella della Chiesa".

https://it.wikipedia.org/wiki/Discussio ... democrazia
Mi pare che in questa voce manchi la trattazione dell'assemblearismo germanico come elemento determinante nella formazione della democrazia comunale. Alberto Pento --79.38.249.59 (msg) 08:04, 25 lug 2015 (CEST)
Marsilio da Pava
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Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion
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Re: La greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » sab lug 25, 2015 8:36 am

Democrasia vera (no ła pol esar ke direta), referendo, Xvisara
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Re: La greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » sab lug 25, 2015 9:43 am

Xermagna de Taçito: istitusion e costumi
posting.php?mode=post&f=114

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... EyLUU/edit
Immagine

VII

El poder comounidaro demogratego de li jermani e l’onor

Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt. Nec regibus infinita aut libera potestas, et duces exemplo potius quam imperio, si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt. Ceterum neque animadvertere neque vincire, ne verberare quidem nisi sacerdotibus permissum, non quasi in poenam nec ducis iussu, sed velut deo imperante, quem adesse bellantibus credunt. Effigiesque et signa quaedam detracta lucis in proelium ferunt; quodque praecipuum fortitudinis incitamentum est, non casus, nec fortuita conglobatio turmam aut cuneum facit, sed familiae et propinquitates; et in proximo pignora, unde feminarum ululatus audiri, unde vagitus infantium. Hi cuique sanctissimi testes, hi maximi laudatores. Ad matres, ad coniuges vulnera ferunt; nec illae numerare aut exigere plagas pavent, cibosque et hortamina pugnantibus gestant.

Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima fila. D'altronde, mettere a morte, imprigionare, sferzare è concesso solo ai sacerdoti e ciò non per punizione o per ordine del comandante, ma come per imposizione del dio che credono presente fra i combattenti.
Portano in battaglia immagini di belve e simboli divini tratti dai boschi sacri, e - cosa che più d'ogni altra sprona al coraggio - la formazione di uno squadrone di cavalleria o di un cuneo avviene non per casuale raggruppamento, ma in base alle famiglie e ai clan; i loro cari stanno nei pressi, da dove possono udire le urla delle donne e i vagiti dei bambini.
Questi i testimoni più sacri; da loro la lode più ambita: presentano le ferite alle madri, alle mogli, che hanno l'animo di contarle e di esaminarle; ed esse recano ai combattenti cibi ed esortazioni.

VIII

Memoriae proditur quasdam acies inclinatas iam et labantes a feminis restitutas constantia precum et obiectu pectorum et monstrata comminus captivitate, quam longe inpatientius feminarum suarum nomine timent, adeo ut efficacius obligentur animi civitatum, quibus inter obsides puellae quoque nobiles imperantur. Inesse quin etiam sanctum aliquid et providum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt. Vidimus sub divo Vespasiano Veledam diu apud plerosque numinis loco habitam; sed et olim Albrunam et compluris alias venerati sunt, non adulatione nec tamquam facerent deas.

Si ha ricordo di eserciti, ormai sul punto di ripiegare e di cedere, rinsaldati dalle insistenti preghiere delle donne che mostravano il petto e che indicavano loro lo spettro dell'imminente schiavitù; schiavitù che temono per le loro donne assai più che per sé, tanto che si sentono più saldamente vincolate quelle popolazioni dalle quali si pretendono, come ostaggi, anche nobili fanciulle. Attribuiscono anzi alle donne un che di sacro e di profetico e non ne sottovalutano i consigli o ne disattendono i responsi. Abbiamo veduto noi romani, al tempo del divo Vespasiano, Velleda considerata da molti come un dio; ma anche in passato venerarono Albruna e parecchie altre, non per adulazione, né per farne delle dee.


XI
Demograsia jermanega

De minoribus rebus principes consultant; de maioribus omnes, ita tamen, ut ea quoque, quorum penes plebem arbitrium est, apud principes pertractentur. Coeunt, nisi quid fortuitum et subitum incidit, certis diebus, cum aut incohatur luna aut impletur; nam agendis rebus hoc auspicatissimum initium credunt. Nec dierum numerum, ut nos, sed noctium computant. Sic constituunt, sic condicunt: nox ducere diem videtur. Illud ex libertate vitium, quod non simul nec ut iussi conveniunt, sed et alter et tertius dies cunctatione coeuntium absumitur. Ut turbae placuit, considunt armati. Silentium per sacerdotes, quibus tum et coercendi ius est, imperatur. Mox rex vel princeps, prout aetas cuique, prout nobilitas, prout decus bellorum, prout facundia est, audiuntur, auctoritate suadendi magis quam iubendi potestate. Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare.

Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo subiscono un preventivo esame da parte dei capi.
Si radunano, tranne casi di improvvisa emergenza, in giorni particolari, nel novilunio o nel plenilunio, perché credono che siano i periodi più favorevoli per prendere iniziative.
Non contano il tempo, come noi, per giorni, ma per notti; con tale criterio fissano date, così si accordano: per loro è la notte che guida il giorno.
Dal loro spirito di libertà deriva questo inconveniente, che non si presentano alle riunioni contemporaneamente, come dietro comando, ma perdono due o tre giorni per l'attesa dei partecipanti.
Quando la massa dei convenuti lo ritiene opportuno, siedono in assemblea, armati.
Il silenzio viene imposto dai sacerdoti che, in quelle occasioni, hanno anche il potere di reprimere.
Quindi prendono la parola i re o i capi, secondo l'età, la nobiltà, la gloria militare e l'abilità oratoria e li stanno ad ascoltare più per l'autorevolezza che hanno nel persuadere che per l'autorità.
Se le idee espresse non piacciono, manifestano disapprovazione con mormorii; se invece piacciono, battono insieme le framee: il plauso espresso con le armi è il più onorevole.
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Re: La greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » gio mar 10, 2016 7:03 pm

Democrazia: il grande imbroglio
Tratto dal libro «Sudditi» di Massimo Fini, ed. Marsilio
http://www.raixevenete.com/democrazia-i ... -imbroglio

Che cos’è, realmente, la democrazia? Quando si cerca di definirla iniziano i guai. John Holmes, uno storico e teorico americano del liberalismo, ha scritto che i critici di destra della democrazia «si autodefiniscono negativamente» in opposizione al liberalismo e alla democrazia. C’è del vero. Ma si potrebbe dire, altrettanto legittimamente, che la democrazia si «autodefinisce negativamente» in opposizione alle dittature. Perché quando si cerca di darle un contenuto positivo, preciso e definito, si entra in un ginepraio.
Anche se restringiamo il campo alla democrazia liberale, che è quella che qui ci interessa perché è la forma che si è affermata in Occidente, e scartando quindi la democrazia diretta, quella socialista, quella corporativa, quella popolare, ci si trova di fronte a un animale proteiforme, mutante e sfuggente, di cui pare di essere sempre sul punto di cogliere l’essenza che tuttavia ci sfugge.
(…)
Cerchiamo da profani, di capirci almeno qualcosa. Democrazia significa, etimologicamente, «governo del popolo». Svotare1-raixe venetecordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo. Quindi non è tanto paradossale scoprire che se il popolo ha governato qualcosa è stato in epoche preindustriali, preliberai, predemocratiche.
Non è necessario andare a scovare, come da Alain de Benoist, remote realtà islandesi come l’Althing, una forma di autogoverno comparsa intorno all’anno Mille, dove «il thing, o parlamento locale, designa nel contempo un luogo e un’assemblea in cui gli uomini liberi detentori di diritti politici eguali, si riuniscono a date fisse per pronunciare la legge». Basta osservare la comunità di villaggio europea in epoche medievale e rinascimentale, prima che lo Stato nazionale si affermasse definitivamente assorbendo tutto il potere. L’assemblea del villaggio, formata da capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto o assente, decideva assolutamente tutto ciò che riguardava il villaggio. A cominciare dall’essenziale: la ripartizione all’interno della comunità delle tasse reali e dei canoni che alimentano il bilancio comunale. E poi veniva tutto il resto: nomina il sindaco, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani delle messi, i riscossori di taglia, votava le spese, contraeva debiti, intentava processi, decideva la vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione delle strade, dei ponti, della chiesa, del presbiterio e così via.

Ma quella era la vecchia, cara democrazia diretta, che non sapeva nemmeno d’esser tale, che non aveva nome né teorizzatori, e che in Francia fu definitivamente spazzata via pochissimi anni prima della Rivoluzione, nel 1787, quando, sotto pressione dell’avanzante borghesia e della sua smania normativa e prescrittivi, un decreto reale, col pretesto di uniformare e regolare un’attività che aveva sempre funzionato benissimo, limitò il diritto di voto agli abitanti che pagano almeno dieci franchi di imposta e, soprattutto, introdusse il principio – che doveva diventare l’ambiguo cardine del potere politico in Occidente – della rappresentanza ) l’assemblea non decide più direttamente ma elegge dai sei ai nove membri…). Lo Stato assoluto reclamava per sé i diritti che quegli zoticoni dei contadini, degli autentici screanzati, si erano permessi di praticare. E poiché lo Stato è troppo grande territorialmente e complesso giuridicamente perché il popolo possa dire direttamente la sua, nacque la democrazia rappresentativa dove il cittadino, formalmente detentore del potere, lo delega a un altro che diventa il suo rappresentante, mentre il rappresentato, retrocesso alla condizione di governato, partecipa al momento decisionale attraverso periodiche elezioni che divengono, di fatto, l’unico momento in cui egli esercita, o si dice che eserciti, quel potere che è suo. E’ quindi all’interno del regime rappresentativo che va posta l’inquietante domanda: qual è l’elemento cardine della democrazia?

Sarà, forse, il consenso? Niente affatto. Il consenso può esistere anche nelle dittature, come insegnano il nazismo e fascismo, spesso anzi è assai più ampio di quello che i governatori possono ottenere in un regime democratico. Sarà allora il fatto che in democrazia il consenso è spontaneo e nelle dittature coatto? Anche questo è dubbio. Nazismo e fascismo ebbero per un certo periodo un consenso sicuramente spontaneo e volontario. Caduta l’egemonia dell’antifascismo militante, che aveva velato pudicamente per alcuni decenni la vergognosa verità, oggi non c’è libro di storia che non parli degli «anni del consenso» al regime mussoliniano.
Sono quindi le elezioni? Ma anche in Unione Sovietica, persino in Bulgaria, com’è noto, si tenevano elezioni.
E’ il pluripartitismo? Max Weber nota – e siamo già negli anni Venti del Novecento – che «l’esistenza dei partiti non è contemplata, da nessuna Costituzione» democratica e liberale. Non possono quindi essere i partiti l’elemento caratterizzante della democrazia liberale che esisteva anche prima della loro istituzionalizzazione.
Sarà, come alcuni dicono, «il potere della legge»? Ma il potere della legge esiste anche negli Stati autoritari, anzi più uno Stato è autoritario più questo potere è forte e invalicabili. Si obbietterà che negli Stati autoridemocrazia-italia_raixe venetetari la legge è arbitraria e discrimina fra cittadino e cittadino. E’ perciò, allora, «l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge» il clou della democrazia? Ma anche questo nei regimi comunisti i cittadini sono uguali, almeno formalmente, davanti alla legge.

E allora il principio della rappresentanza? Ma anche il monarca «rappresenta il popolo».
Sarà dunque, come dice Popper, che la democrazia è quella forma di governo caratterizzato da un insieme di regole che permettono di cambiare i governanti senza far uso della violenza. Neppure questo. E’ storico che nelle aristocrazie il governo può passare da una fazione a un’altra senza spargimento di sangue.
E si potrebbe andare avanti, per pagine e per decenni, ma non si troverebbe la regola-base della democrazia liberale. Scriveva Carl Becker: «democrazia è una parola che non ha referente, dal momento che non c’è nessuna precisa e palpabile cosa o oggetto al quale tutti pensano quando pronuncia questa parola».
La democrazia è innanzitutto e soprattutto un metodo. Come ha intuito per primo Hans Kelsen. La democrazia è costituita da una serie di procedure formali, avalutative, cioè prive di contenuto e di valori, per determinare la scelta dei governanti sulla base del meccanismo del prevalere della volontà della maggioranza. Essendo una pura forma priva di contenuti valoriali è fondamentale che almeno questa forma sia rispettata. Ma nemmeno questo, come vedremo, avviene.
Inoltre, le procedure, seguendo il criterio della maggioranza, possono mutare e mutano nel tempo, a tal punto da potersi trasformare, con mezzi democratici, in un sistema sostanzialmente autoritario. Ma poiché non esiste un’essenza della democrazia, non esiste neppure una vera linea di confine per cui si possa dire con sicurezza che si è passati da un sistema all’altro.
Un esempio è il fenomeno berlusconiano in Italia – Paese di cui ci serviremo spesso in questo pamphlet, non perché c’interessi particolarmente, dato che il nostro discorso è generale, ma perché esasperando le ipocrisie, le falsità, le menzogne della democrazia le smaschera – dove un solo individuo ha potuto impadronirsi, con mezzi democratici, o comunque senza che le procedure democratiche potessero impedirlo, di un potere enorme.

(…)
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Re: La Greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » mar mag 09, 2017 10:16 pm

Comun, Arengo, Concio, Mexoevo, Istitusion
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Impariamo il Federalismo dalla Germania. Altro che abbasso Merkel!
9 Mag 2017

http://www.lindipendenzanuova.com/impar ... sso-merkel

Già nello nome dello Stato Repubblica federale di Germania si manifesta la struttura federale dello Stato tedesco. La Repubblica federale di Germania è formata dai “Länder” federali che sono stati in parte rifondati e in parte creati dopo il 1945, ma sono nati tutti prima del “Bund”, la Federazione. Non sono semplici province, bensì Stati con propri poteri statali. Ogni Land ha una propria Costituzione che deve corrispondere ai principi dello Stato di diritto repubblicano, democratico e sociale in aderenza alla legge fondamentale. Per il resto i Länder sono liberi nella formulazione della loro Costituzione.

TRADIZIONI TEDESCHE
La struttura federativa è un’antica tradizione costituzionale tedesca in-terrotta solo dal regime hitleriano a partire dal 1933. Il Federalismo tedesco, pur avendo profonde radici storiche, è stato in passato considerato spesso espressione di spezzettamento della nazione se non addirittura sciagura nazionale (ahimè!). Oggi si costata che la struttura federale del Paese comporta grandi vantaggi, consentendo di rispettare o soddisfare ampiamente aspirazioni, usanze e peculiarità regionali.
In numerosi Stati la concentrazione delle funzioni amministrative, dell’attività economica e delle istituzioni culturali nella capitale o in pochi grandi centri si è rivelato uno svantaggio e fonte di difficoltà; per cui la richiesta di regionalizzazione, sempre più insistente, si è estesa su scala mondiale. Il tradizionale Federalismo tedesco ha contribuito a risparmiare alla Repubblica federale quelle difficoltà. Ma anche le tendenze centrifughe, spesso indicate come risvolto negativo del Federalismo, non si sono quasi manifestate nella Germania federale. La sua popolazione è più omogenea che non in molti altri Stati.

Le differenze etniche, una volta piuttosto marcate, sono state stemperate dai grandi spostamenti della popola-zione nel dopoguerra e dall’elevata mobilità imposta dalla moderna vita economica. Perché il Federalismo? Pertanto oggi, pur potendo sembrare un paradosso, nel caso della Germania federale il senso del Federalismo va visto in prevalenza sotto un aspetto generale dello Stato. La democrazia acquista maggiora concretezza quando il cittadino confrontato con esigenze e problemi che ovviamente può meglio seguire nel più ristretto ambito del suo “Land” (Stato confederato), può col suo voto, partecipare più consapevolmente al processo democratico.
La pubblica amministrazione, operando in un “Land” federale con maggiore aderenza alla realtà locale, riscuote presso il cittadino, che le è anche più vicino, maggiore fiducia che non le autorità insediate nella spesso lontana capitale federale. L’amministrazione del “Land”, potendosi giovare della conoscenza delle condizioni regionale, può contribuire alla cura e conservazione di valori culturali e costumi locali nelle loro molteplici forme. Nell’ambito della sua autonomia un “Land” potrebbe anche sperimentare nuove iniziati-ve in determinati settori, per esempio in quella dell’istruzione, fornendo modelli per adeguate riforme.
Si dà non di rado il caso che partiti politici, che a livello federale stanno all’opposizione, in alcuni “Länder” siano invece al governo. Così tutti i partiti hanno la possibilità di assumersi democraticamente responsabilità di governo e di dimostrare la loro capacità di governare.

Ma i “Länder” possono soprattutto costituire, specialmente con la loro partecipazione all’attività legislativa attraverso il Bundesrat (Consiglio federale), un utile elemento di equilibrio del potere. Infatti la Legge Fondamentale considera di tale importanza la struttura federale in “Bund” (Federazione) e “Länder” (Stati confederati), e il concorso di questi alla legislazione federale, che queste due norme sono state sottratte a qualsiasi modifica anche costituzionale.

LE COMPETENZE DEI“LÄNDER”
L’attività maggiore dei “Länder” si esplica nell’amministrazione. Se si eccettuano le poche autorità di vertice federale con base amministrativa propria (ad esempio, l’amministrazione delle dogane o delle forze armate), la fase esecutiva delle leggi federale è devoluta interamente alle autorità dei ”Länder”, rispettando in ciò la tradizione tedesca. I “Länder” attuano le leggi federali con ampia autonomia e senza specifiche diret-tive del Bund. Il Governo tedesco si limita a vigilare che l’esecuzione delle leggi federali avvenga in aderenza al diritto vigente. Solamente alcune funzioni amministrative espressamente indi-cate nella legge fondamentale vengono esercitate dai “Länder” su delega del “Bund”. In questi casi i “Länder” sono soggetti alle direttive del Governo federale non solo sotto il profilo del controllo giuridico degli atti amministrativi, ma anche sotto quello della loro discrezionalità.

Tra i settori alla facoltà legislativa dei “Länder” figurano il diritto comunale, alcuni aspetti di ecologia e la maggior parte dell’ordinamento di polizia. Ma è nel campo culturale che le leggi dei “Länder” hanno maggiore rilevanza. La scuola dell’obbligo, le scuole tecniche, i ginnasi, i licei e le scuole speciali (per gli handicappati) sono regolate da leggi regionali, ossia dei “Länder”, come lo è pure l’istruzione degli adulti.
Anche gli aspetti essenziali delle scuole professionali e del perfezionamento, nonché degli studi universitari, sono regolati da leggi dei “Länder”, con competenza parziale del legislatore federale.

AUTONOMIA AMMINISTRATIVA COMUNALE
L’autonomia amministrativa comunale come espressione della libertà dei cittadini ha in Germania un’antica e salda tradizione, che si può forse ricondurre ai privilegi delle città libere del medioevo, allorché il diritto civile comunale sciolse gli individui dalle catene della feudale servitù della gleba. Questa tradizione di libertà civica si manifesta nell’autonomia amministrativa delle città, dei comuni e delle province, libertà esplicitamente garantite dalla legge fondamentale e da tutte le Costituzioni dei “Länder”.
La legge fondamentale stabilisce due principi diversi: i “Länder” devono garantire ai Comuni la facoltà di gestire sotto propria responsabilità -nell’ambito della legge – tutte le questioni della comunità locale; tutte le città, i Comuni e le Province debbono essere organizzate democraticamente. Per motivi storici gli statuti comunali si differenziano fortemente da “Land” a “Land”, sebbene la prassi amministrativa comunale fosse ovunque largamente omogenea.

Fra questi rientrano specialmente i trasporti pubblici urbani e vicinali, la costruzione di strade locali, l’approvvigionamento idrico, elettrico, del gas, l’edilizia abitativa, la costruzione e manutenzione di scuole elementari, medie, ginnasi, teatri e musei, di ospedali e impianti sportivi e di piscine, l’istruzione degli adulti e la cultura dei giovani.

In questo “ambito opperativo proprio” le amministrazioni comunali sono soggette solo a un controllo di legalità. Lo Stato cioè, può solo vigilare sull’osservanza delle leggi; ogni comune opera secondo un proprio potere discrezionale. Molti dei compiti elencati superano talvolta le possibilità ecomiche ed organizzave dei comuni e piccoli centri; essi possono allora venire assolti dalla provincia (Landkkreis), l’ente territoriale superiore, anche essa organo dell’autonoma locale, il cui Consiglio (Kreistag) risulta dalle elezioni provinciali a suffragio diretto. In molti casi i Comuni e le Province operano anche da organi esecutivi di leggi regionali e federali. In questi casi le amministrazioni comunali sono soggette non solo ad un controllo di legalità, ma ricevono a volte al riguardo dalle autorità regionali precise e dettagliate direttive.

FINANZIAMENTO DELL’AUTONOMIA AMMINISTRATIVA
L’ autonomia e l’autogestione co-munale si atrofizzano se ai Co-muni mancano i fondi di cui hanno bisogno per l’espleta-mento dei loro compiti. Le più importanti fonti d’entrata dei Comuni sono le imposte. I Comuni hanno un diritto costituzionalmente garantito di riscuotere determinate imposte. Tra que-ste rientrano in prima luogo l’imposto sull’industria e i commerci e l’imposta immobiliare, come altre imposte minori tipo quelle sulle bevande: Inoltre i comuni ricevono dallo Stato e dai “Länder” fede-rali quote di altre entrate tributarie, ad esempio quelle sui salari e sui redditi. In cambio i comuni devono versare allo Sta-to e ai “Länder” federali una parte delle loro entrate dall’imposta sulle industrie e i commerci.

Si è d’accordo sul fatto che l’autogestione comunale va mantenuta e rafforzata. Essa fornisce al cittadino, in modo semplice, la possibilità di cooperazione e di controllo, ad esempio attraverso il colloquio con i consiglieri comunali, attraverso la presa in visione dei piani urbanistici o di bilanciodel proprio comune. In questo modo città e comuni sono in un certo senso le più piccole celle politiche dello Stato, il cui funzionamento autonomo e democratico è un premessa dell’esistenza della libertà e del diritto nello stato e nella società.

I PICCOLI PARTITI E LA CLAUSOLA DEL 5 PER CENTO
Un numero oscillante di piccoli partiti ha sempre cercato di entrare nel Parlamento federale e nei parlamenti regionali. Alle prime elezioni per il “Bundestag” (Dieta federale) nel 1949, questi piccoli partiti ottennero insieme il 27,9% dei voti; nel 1987, alle votazioni per l’11ª legislatura, hanno ottenuto insieme solo l’1,3%. Questo vistoso regresso è dovuto non per ultimo alla clausola di sbarramento del 5 %, contenuta nella legge elettorale federale ed in quelle di tutti i “Länder”. Essa stabilisce che possono inviare deputati in parlamento solo quei partiti che nel relativo territorio abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti. La Corte Costituzionale federale ha espressamente dichiarato la conformità di questa clausola alla Legge Fondamentale. Solo poche volte partiti di estrema destra o di estrema sinistra sono riusciti superare questa clausola di sbarramento. Il Partito Comunista di Germania (Kpd) è stato rappresentato al “Bundestag” solo una volta: dal 1949 al 1953 con 15 deputati. Tra i partiti di estrema destra, solo il “Deutsche Reichspartei” ebbe dal 1949 al 1953 con cinque deputati una esigua rappresentanza al “Bundestag”. Dopo l’introduzione della clausola del 5% i partiti radicali di destra non sono mai più riusciti a superare questo ostacolo alle elezioni per il “Bundestag”.

Per la rappresentanza di minoranze etniche si rinuncia alla clausola del 5%. Per questo il “Südschleswigsche Wählerver-band”, che raccoglie la locale minoranza danese, è rappresentata al Parlamento re-gionale dello “Schleswig-Holstein”, seb-bene ottenga meno del 5% dei voti. Le elezioni comunali offrono talvolta un’immagine molto diversa dalle elezioni per il “Bundestag” e per i Parlamenti regionali. A livello comunale spessosvolgono un ruolo importante i cosiddetti “partiti municipali”, cioè raggrup-pamenti elettorali indipendenti al di fuori dei partiti affermati.

IL DIVIETO DI PARTITI
“I partiti che per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti tentano di pregiudicare o abbattere l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della Re-pubblica Federale di Germania” (art. 21 secondo comma della Legge Fondamentale) possono essere dichiarati incostituzionali dalla Corte Costituzionale federale e di conseguenza venire sciolti. In base a queste disposizioni fu vietato, già nel 1952, il “Sozialistische Reichspartei”, senza dub-bio il partito di destra più estremista del dopoguerra. Nel 1956 fu dichiarato incostituzionale anche il Partito Comunista di Germania (Kpd); ne ha raccolto l’eredità il Partito Comunista tedesco (Dkp), fondata nel 1968, senza tuttavia raggiungere la consistenza del precedente Kpd. Né il Governo federale né il “Bundestag” o il “Bun-desrat” (consiglio federale) hanno fatto uso della loro facoltà di chiedere alla Corte costituzionale federale il divieto del Dkp (nota personale: tanto in Germania i comunisti non costituiscono una minaccia).

IL SISTEMA ELETTORALE
Le elezioni per tutte le rappresen-tanze popolari sono per principio generali, dirette, libere uguali e segrete. È elettore ed è eleggibile ogni tedesco che abbia compiuto il 18° anno di età. Nella Repubblica Federale di Germania non esistono elezioni preliminari. I candidati per le elezioni vengono designati dagli iscritti ai partiti (e solo da questi). Il sistema elettorale per le elezioni al “Bundestag” è complesso, è un cosiddetto “sistema pro-porzionale-personale. 248 deputati, ossia la metà dei membri del “Bundestag”, vengono eletti in collegi elettorali secondo il sistema della maggioranza relativa. Gli altri 248 deputati vengono eletti attraverso le liste regionali dei partiti. Ma il conto di tutti i voti avviene in modo che il “Bundestag” risulta com-posto in misura quasi pro-porzionale alla distribuzio-ne dei voti (con la limitazione della clausola di sbarramento del 5 per cento illu-strata prima). Il partito che ha ottenuto nella circoscrizione elettorale più mandati di quanti gliene spetterebbero in base alla percentuale dei suoi voti nella lista regionale, può conservare questi cosiddetti “Überhangsmandate” (mandati in eccedenza). Il tal caso il “Bundestag” ha più di 496 membri con pieno diritto di voto.
(a cura di Veronika Holzner) da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La Greghia e l mito de ła demograsia ouropea

Messaggioda Berto » dom dic 31, 2017 7:00 pm

Democrazia italiana una delle peggiori dell'occidente


I primati dello stato italiano e dell'Italia in Europa e nel mondo
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All'origine della nostra povertà, del naturale rancore e del più che giusto ribaltamento:

LA NATURA CLASSISTA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
di GUGLIELMO PIOMBINI

https://www.miglioverde.eu/la-natura-cl ... e-italiana

In questo libro davvero meritevole di lettura, Costituzione, Stato e crisi. Eresie di libertà per un paese di sudditi,lo studioso padovano Federico Cartelli disseziona con cura la nostra carta costituzionale, rilevando tutti i suoi caratteri illiberali, statalisti, accentratori. Le sue critiche trovano piena conferma nell’inarrestabile processo di espansione dello Stato avvenuto dal dopoguerra a oggi sotto l’egida di una Costituzione che non ha mai frenato l’aumento della tassazione, della spesa pubblica, del debito pubblico, della burocrazia, dell’alluvione legislativa.

A cosa dovrebbe servire, invece, una Costituzione?
A proteggere coloro che sono senza potere da coloro che esercitano il potere pubblico. Storicamente i ceti operosidella società (il “Terzo Stato”) hanno visto nelle costituzioni uno strumento per difendersi dalla spogliazione dei frutti del proprio lavoro da parte delle classi politico-burocratiche parassitarie. Infatti, come testimonia la storia dei regimi socialisti, quando l’esercizio del potere politico non conosce limiti legali, le nomenklature che controllano le leve fiscali e redistributive dello Stato possono procurarsi ogni genere di privilegio sfruttando in maniera illimitata i produttori di ricchezza.

L’esistenza di uno Stato, democratico o meno che sia, divide sempre la società in due grandi classi: quella dei pagatori di tasse che si guadagnano da vivere producendo beni e servizi richiesti dal mercato, e quella dei consumatori di tasse mantenuti dalle imposte. Nella regolazione dei rapporti fra questi due ceti sociali, come ha operato fino a oggi la Costituzione italiana?
Se escludiamo i primi decenni del “miracolo economico”, quando gli apparati fiscali e burocratici non avevano ancora avuto il tempo di ampliarsi e organizzarsi, la Costituzione ha di fatto ha sempre funzionato a vantaggio della classe che vive di trasferimenti statali, e a svantaggio della classe che opera nel settore privato dell’economia.
Questa tendenza ha avuto un’accelerazione negli ultimi decenni, durante i quali si è avuto un colossale travaso di ricchezze dal settore privato al settore statale. Nel 1996 le entrate dello Stato italiano ammontavano a più di 450 miliardi di euro, nel 2003 hanno raggiunto i 600 miliardi, e nel 2013 i 760 miliardi. L’aumento della spesa è stato ancora più rapido di quello delle entrate. La spesa pubblica, che nel 1996 superava di poco i 500 miliardi di euro, ha raggiunto i 600 miliardi nel 2001, ha quasi toccato i 700 miliardi nel 2005, per poi superare gli 800 miliardi nel 2013.

Questi numeri rivelano che nell’arco di una ventina d’anni, caratterizzati da una bassissima crescita economica, i privati sono stati costretti a suon di campagne intimidatorie e denigratorie orchestrate dall’alto (“evasori”, “bottegai”, “parassiti”) a versare nelle mani dei membri dell’apparato statale 300 miliardi aggiuntivi all’anno, oltre ai 500 miliardi che già pagavano!
Se escludiamo le esperienze storiche delle rivoluzioni comuniste, probabilmente non si è mai verificata un’espropriazione di ricchezze private così rapida e imponente. Grazie dunque alla “Costituzione più bella del mondo” il peso fiscale complessivo sulle imprese ha raggiunto, nel corso degli anni, il 70 per cento degli utili: un livello di depredazione che non ha eguali al mondo.
Questo processo è stato favorito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la cui linea interpretativa sembra infatti congegnata apposta per favorire, sempre e comunque, gli interessi di coloro di coloro che vivono di spesa pubblica. Le recenti dichiarazioni di incostituzionalità del mancato adeguamento delle pensioni più elevate o degli stipendi dei dipendenti pubblici, ad esempio, seguono una linea che favorisce, per partito preso, le categorie dei consumatori di tasse a danno delle categorie dei pagatori di tasse.

Per la Corte i benefici che il potere politico attribuisce, anche una tantum, ai consumatori di tasse rimangono tali per sempre. Poiché è impossibile trovare nel testo della Costituzione questo principio, la Corte ha dovuto creare una dottrina su misura, quella dei “diritti acquisiti”, che sancisce ufficialmente una pesante discriminazione a danno dei produttori privati di reddito. La Corte infatti non riconosce un analogo diritto in capo ai pagatori di tasse privati, perché se il governo riduce un’imposta o aumenta una detrazione fiscale, questa non diventa mai un “diritto acquisito” in capo al contribuente. Il governo può tranquillamente revocarla in qualsiasi momento, anche retroattivamente, senza incorrere in censure di incostituzionalità.

Nell’ordinamento italiano, quindi, non c’è nessuna previsione che possa anche solo rallentare la progressiva invadenza del settore pubblico a danno del settore privato. Le imposte, la spesa pubblica, il debito pubblico e la burocrazia possono solo aumentare, mai diminuire, mentre le misure di segno opposto rischiano sempre la bocciatura per incostituzionalità, dato che danneggerebbero questo o quel “diritto acquisito”. Vitalizi, pensioni retributive e stipendi degli statali sembrano dunque diventati variabili indipendenti dall’economia. Se anche il prodotto interno lordo italiano dovesse dimezzarsi, i ceti produttivi dovranno saldare questi impegni fino all’ultimo euro.
In questo modo l’Italia è diventata un inferno fiscale, uno stato di polizia tributaria nel quale fare attività d’impresa è diventato molto pericoloso. Aprire la partita IVA significa diventare un bersaglio dello Stato, che può saltarti addosso con tutto il suo apparato e un po’ alla volta portarti via la tranquillità personale, i risparmi, l’attività, la casa e nei casi più tragici anche la vita.

Sfogliando le pagine economiche dei quotidiani si possono trovare appaiate quasi ogni giorno due generi di notizie: da un lato nuovi privilegi, aumenti e benefit concessi a questa o quella categoria statale; dall’altra nuove tasse, multe, sanzioni e restrizioni imposte alle categorie private. Le pagine di cronaca riportano frequenti casi di sanzioni stratosferiche a imprenditori, professionisti, artigiani o commercianti per questioni formali della minima importanza, e numerosi casi di totale impunità per i dipendenti statali responsabili di mancanze gravissime o addirittura reati: pare che nemmeno chi venga scoperto commettere furti o rapine sul luogo di lavoro possa essere licenziato. Queste misure discriminatorie hanno determinato una situazione fortemente sbilanciata.

Fino a qualche decennio fa, invece, c’era un certo equilibrio tra le condizioni di impiego nel settore privato e nel settore pubblico. Soprattutto nelle regioni del nord il settore privato garantiva gli stipendi più elevati, tanto che, negli anni Sessanta, un operaio della Fiat guadagnava più di un impiegato pubblico. Oggi una situazione del genere è diventata impensabile. In Italia, come ricordava Oscar Giannino in una recente trasmissione radiofonica, la retribuzione lorda è mediamente di € 33.000 nel settore pubblico e di € 23.400 nel settore privato; in Francia è di € 35.000 nel pubblico e di € 34.000 nel privato; in Gran Bretagna è di € 34.000 nel pubblico e di € 38.000 nel privato. Anche per quanto riguarda le pensioni, in Italia quelle degli statali sono del 72 % più alte rispetto a quelle dei privati, malgrado la crescente esosità dei contributi previdenziali imposti a questi ultimi.

Solo in Italia esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Al vertice della casta statale si trovano circa un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit, e che si sono assicurate un flusso crescente di entrate personali per mezzo di metodi fiscali incivili e vessatori sanciti dalla legge a danno dei lavoratori non garantiti: solve et repete,accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, ecosì via.

Questa persecuzione fiscale delle attività private ha arricchito notevolmente le categorie che vivono di spesa pubblica, ma ha prodotto delle conseguenze rovinose sull’economia del suo complesso. Negli anni ’50 e ’60, quando le tasse erano basse e i controlli fiscali molto blandi, l’economia cresceva a due cifre e gli italiani sono passati dalla miseria al benessere; negli anni ’70 e ’80 le tasse e la spesa pubblica sono aumentate e la crescita è diminuita; negli anni ’90 e 2000 tasse e spese sono ulteriormente aumentate e la crescita si è arrestata; oggi l’imposizione fiscale e la spesa pubblica sono elevatissime, il paese è in recessione perenne e gli italiani si stanno impoverendo.
Questa guerra scatenata dallo Stato contro l’apparato produttivo del paese, tuttora in pieno svolgimento, non ha alcuna giustificazione razionale, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista economico. La spesa pubblica italiana era considerata eccessiva già negli anni Novanta; pochi ne chiedevano l’ulteriore aumento, nessuno chiedeva di raddoppiarla in meno di vent’anni. Nella società italiana non è mai esistita una domanda di “maggior Stato” tale da giustificare quell’elenco interminabile di nuove tasse introdotte negli ultimi anni.

Anche dal punto di vista economico questa offensiva fiscale non sembra avere una legittimazione plausibile. La decisione delle classi governanti di dare il via all’escalation di tasse e spesa pubblica non ha migliorato il livello qualitativo di nessun servizio pubblico rispetto a vent’anni fa, ma ha aumentato a dismisura le occasioni di spreco e di corruzione, la corsa ai privilegi odiosi e ingiustificati, ha distrutto una larga fetta del tessuto produttivo privato costringendo alla chiusura centinaia di migliaia di piccole imprese, ha provocato l’aumento della disoccupazione e più in generale l’abbassamento del tenore di vita delle famiglie.

Quando la tassazione supera un certo livello, l’equilibrio pacifico tra la classe dei pagatori di tasse e quella dei consumatori di tasse si rompe, e i ceti produttivi diventano le vittime sacrificali delle caste legate allo Stato. Oggi infatti viviamo in uno Stato classista che perseguita e depreda i lavoratori del settore privato, cioè gli unici che di fatto producono ricchezza e sopportano per intero il carico fiscale, per tutelare e mantenere legioni di statali improduttivi supertutelati, pensionati d’oro o baby, membri privilegiati della casta e altri sprechi colossali. Ma quando il numero dei consumatori di tasse diventa troppo alto rispetto a quello dei produttori, la società muore.

In definitiva, è difficile chiamare “Costituzione”, almeno nel senso classico del termine, una carta che tutela solo i membri dell’apparato statale a scapito del resto della popolazione. Fino ad oggi la Costituzione della Repubblica Italiana non è mai stata intesa dei politici, dei magistrati e dei giuristi come uno strumento di protezione della società civile dal potere, ma come base di partenza ideologica per la sua progressiva espansione. Tutto questo non dipende solo da un’interpretazione deformante del testo costituzionale, ma anche dai difetti genetici del dettato costituzionale, così nitidamente messi in luce da Federico Cartelli.



L'orrenda costituzione italiana
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Re: La Greghia e l mito de ła demograsia ouropea

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Democrazia italiana una delle peggiori dell'occidente


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LA NATURA CLASSISTA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
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In questo libro davvero meritevole di lettura, Costituzione, Stato e crisi. Eresie di libertà per un paese di sudditi,lo studioso padovano Federico Cartelli disseziona con cura la nostra carta costituzionale, rilevando tutti i suoi caratteri illiberali, statalisti, accentratori. Le sue critiche trovano piena conferma nell’inarrestabile processo di espansione dello Stato avvenuto dal dopoguerra a oggi sotto l’egida di una Costituzione che non ha mai frenato l’aumento della tassazione, della spesa pubblica, del debito pubblico, della burocrazia, dell’alluvione legislativa.

A cosa dovrebbe servire, invece, una Costituzione?
A proteggere coloro che sono senza potere da coloro che esercitano il potere pubblico. Storicamente i ceti operosidella società (il “Terzo Stato”) hanno visto nelle costituzioni uno strumento per difendersi dalla spogliazione dei frutti del proprio lavoro da parte delle classi politico-burocratiche parassitarie. Infatti, come testimonia la storia dei regimi socialisti, quando l’esercizio del potere politico non conosce limiti legali, le nomenklature che controllano le leve fiscali e redistributive dello Stato possono procurarsi ogni genere di privilegio sfruttando in maniera illimitata i produttori di ricchezza.

L’esistenza di uno Stato, democratico o meno che sia, divide sempre la società in due grandi classi: quella dei pagatori di tasse che si guadagnano da vivere producendo beni e servizi richiesti dal mercato, e quella dei consumatori di tasse mantenuti dalle imposte. Nella regolazione dei rapporti fra questi due ceti sociali, come ha operato fino a oggi la Costituzione italiana?
Se escludiamo i primi decenni del “miracolo economico”, quando gli apparati fiscali e burocratici non avevano ancora avuto il tempo di ampliarsi e organizzarsi, la Costituzione ha di fatto ha sempre funzionato a vantaggio della classe che vive di trasferimenti statali, e a svantaggio della classe che opera nel settore privato dell’economia.
Questa tendenza ha avuto un’accelerazione negli ultimi decenni, durante i quali si è avuto un colossale travaso di ricchezze dal settore privato al settore statale. Nel 1996 le entrate dello Stato italiano ammontavano a più di 450 miliardi di euro, nel 2003 hanno raggiunto i 600 miliardi, e nel 2013 i 760 miliardi. L’aumento della spesa è stato ancora più rapido di quello delle entrate. La spesa pubblica, che nel 1996 superava di poco i 500 miliardi di euro, ha raggiunto i 600 miliardi nel 2001, ha quasi toccato i 700 miliardi nel 2005, per poi superare gli 800 miliardi nel 2013.

Questi numeri rivelano che nell’arco di una ventina d’anni, caratterizzati da una bassissima crescita economica, i privati sono stati costretti a suon di campagne intimidatorie e denigratorie orchestrate dall’alto (“evasori”, “bottegai”, “parassiti”) a versare nelle mani dei membri dell’apparato statale 300 miliardi aggiuntivi all’anno, oltre ai 500 miliardi che già pagavano!
Se escludiamo le esperienze storiche delle rivoluzioni comuniste, probabilmente non si è mai verificata un’espropriazione di ricchezze private così rapida e imponente. Grazie dunque alla “Costituzione più bella del mondo” il peso fiscale complessivo sulle imprese ha raggiunto, nel corso degli anni, il 70 per cento degli utili: un livello di depredazione che non ha eguali al mondo.
Questo processo è stato favorito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la cui linea interpretativa sembra infatti congegnata apposta per favorire, sempre e comunque, gli interessi di coloro di coloro che vivono di spesa pubblica. Le recenti dichiarazioni di incostituzionalità del mancato adeguamento delle pensioni più elevate o degli stipendi dei dipendenti pubblici, ad esempio, seguono una linea che favorisce, per partito preso, le categorie dei consumatori di tasse a danno delle categorie dei pagatori di tasse.

Per la Corte i benefici che il potere politico attribuisce, anche una tantum, ai consumatori di tasse rimangono tali per sempre. Poiché è impossibile trovare nel testo della Costituzione questo principio, la Corte ha dovuto creare una dottrina su misura, quella dei “diritti acquisiti”, che sancisce ufficialmente una pesante discriminazione a danno dei produttori privati di reddito. La Corte infatti non riconosce un analogo diritto in capo ai pagatori di tasse privati, perché se il governo riduce un’imposta o aumenta una detrazione fiscale, questa non diventa mai un “diritto acquisito” in capo al contribuente. Il governo può tranquillamente revocarla in qualsiasi momento, anche retroattivamente, senza incorrere in censure di incostituzionalità.

Nell’ordinamento italiano, quindi, non c’è nessuna previsione che possa anche solo rallentare la progressiva invadenza del settore pubblico a danno del settore privato. Le imposte, la spesa pubblica, il debito pubblico e la burocrazia possono solo aumentare, mai diminuire, mentre le misure di segno opposto rischiano sempre la bocciatura per incostituzionalità, dato che danneggerebbero questo o quel “diritto acquisito”. Vitalizi, pensioni retributive e stipendi degli statali sembrano dunque diventati variabili indipendenti dall’economia. Se anche il prodotto interno lordo italiano dovesse dimezzarsi, i ceti produttivi dovranno saldare questi impegni fino all’ultimo euro.
In questo modo l’Italia è diventata un inferno fiscale, uno stato di polizia tributaria nel quale fare attività d’impresa è diventato molto pericoloso. Aprire la partita IVA significa diventare un bersaglio dello Stato, che può saltarti addosso con tutto il suo apparato e un po’ alla volta portarti via la tranquillità personale, i risparmi, l’attività, la casa e nei casi più tragici anche la vita.

Sfogliando le pagine economiche dei quotidiani si possono trovare appaiate quasi ogni giorno due generi di notizie: da un lato nuovi privilegi, aumenti e benefit concessi a questa o quella categoria statale; dall’altra nuove tasse, multe, sanzioni e restrizioni imposte alle categorie private. Le pagine di cronaca riportano frequenti casi di sanzioni stratosferiche a imprenditori, professionisti, artigiani o commercianti per questioni formali della minima importanza, e numerosi casi di totale impunità per i dipendenti statali responsabili di mancanze gravissime o addirittura reati: pare che nemmeno chi venga scoperto commettere furti o rapine sul luogo di lavoro possa essere licenziato. Queste misure discriminatorie hanno determinato una situazione fortemente sbilanciata.

Fino a qualche decennio fa, invece, c’era un certo equilibrio tra le condizioni di impiego nel settore privato e nel settore pubblico. Soprattutto nelle regioni del nord il settore privato garantiva gli stipendi più elevati, tanto che, negli anni Sessanta, un operaio della Fiat guadagnava più di un impiegato pubblico. Oggi una situazione del genere è diventata impensabile. In Italia, come ricordava Oscar Giannino in una recente trasmissione radiofonica, la retribuzione lorda è mediamente di € 33.000 nel settore pubblico e di € 23.400 nel settore privato; in Francia è di € 35.000 nel pubblico e di € 34.000 nel privato; in Gran Bretagna è di € 34.000 nel pubblico e di € 38.000 nel privato. Anche per quanto riguarda le pensioni, in Italia quelle degli statali sono del 72 % più alte rispetto a quelle dei privati, malgrado la crescente esosità dei contributi previdenziali imposti a questi ultimi.

Solo in Italia esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Al vertice della casta statale si trovano circa un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit, e che si sono assicurate un flusso crescente di entrate personali per mezzo di metodi fiscali incivili e vessatori sanciti dalla legge a danno dei lavoratori non garantiti: solve et repete,accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, ecosì via.

Questa persecuzione fiscale delle attività private ha arricchito notevolmente le categorie che vivono di spesa pubblica, ma ha prodotto delle conseguenze rovinose sull’economia del suo complesso. Negli anni ’50 e ’60, quando le tasse erano basse e i controlli fiscali molto blandi, l’economia cresceva a due cifre e gli italiani sono passati dalla miseria al benessere; negli anni ’70 e ’80 le tasse e la spesa pubblica sono aumentate e la crescita è diminuita; negli anni ’90 e 2000 tasse e spese sono ulteriormente aumentate e la crescita si è arrestata; oggi l’imposizione fiscale e la spesa pubblica sono elevatissime, il paese è in recessione perenne e gli italiani si stanno impoverendo.
Questa guerra scatenata dallo Stato contro l’apparato produttivo del paese, tuttora in pieno svolgimento, non ha alcuna giustificazione razionale, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista economico. La spesa pubblica italiana era considerata eccessiva già negli anni Novanta; pochi ne chiedevano l’ulteriore aumento, nessuno chiedeva di raddoppiarla in meno di vent’anni. Nella società italiana non è mai esistita una domanda di “maggior Stato” tale da giustificare quell’elenco interminabile di nuove tasse introdotte negli ultimi anni.

Anche dal punto di vista economico questa offensiva fiscale non sembra avere una legittimazione plausibile. La decisione delle classi governanti di dare il via all’escalation di tasse e spesa pubblica non ha migliorato il livello qualitativo di nessun servizio pubblico rispetto a vent’anni fa, ma ha aumentato a dismisura le occasioni di spreco e di corruzione, la corsa ai privilegi odiosi e ingiustificati, ha distrutto una larga fetta del tessuto produttivo privato costringendo alla chiusura centinaia di migliaia di piccole imprese, ha provocato l’aumento della disoccupazione e più in generale l’abbassamento del tenore di vita delle famiglie.

Quando la tassazione supera un certo livello, l’equilibrio pacifico tra la classe dei pagatori di tasse e quella dei consumatori di tasse si rompe, e i ceti produttivi diventano le vittime sacrificali delle caste legate allo Stato. Oggi infatti viviamo in uno Stato classista che perseguita e depreda i lavoratori del settore privato, cioè gli unici che di fatto producono ricchezza e sopportano per intero il carico fiscale, per tutelare e mantenere legioni di statali improduttivi supertutelati, pensionati d’oro o baby, membri privilegiati della casta e altri sprechi colossali. Ma quando il numero dei consumatori di tasse diventa troppo alto rispetto a quello dei produttori, la società muore.

In definitiva, è difficile chiamare “Costituzione”, almeno nel senso classico del termine, una carta che tutela solo i membri dell’apparato statale a scapito del resto della popolazione. Fino ad oggi la Costituzione della Repubblica Italiana non è mai stata intesa dei politici, dei magistrati e dei giuristi come uno strumento di protezione della società civile dal potere, ma come base di partenza ideologica per la sua progressiva espansione. Tutto questo non dipende solo da un’interpretazione deformante del testo costituzionale, ma anche dai difetti genetici del dettato costituzionale, così nitidamente messi in luce da Federico Cartelli.



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