El mito roman entel nasionałeixmo tałian

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Messaggioda Berto » mar feb 04, 2014 8:00 am

El mito roman entel nasionałeixmo tałian
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Ke oror coante stronsade kel dixe sto omo!

Caro Abruzzo, perché scadi nelle più trite “balossate” patriottiche?

http://www.lindipendenza.com/caro-abruz ... triottiche

Su Tabloid, periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia (anno XLIII, n. 4-6, settembre-dicembre 2013, pagg- 70-72), Franco Abruzzo ha pubblicato un pezzo titolato “Quando Il Caffè univa già l’Italia. L’illuminismo milanese che anticipò il Risorgimento” a presentazione della riproposizione di un articolo di Gian Rinaldo Carli, pubblicato nel 1765 proprio sullo storico periodico lombardo.

A un certo punto della sua presentazione, Abruzzo scrive:
«Anche in questo momento cruciale della storia nazionale, i giornali saranno chiamati a giocare un ruolo di primo piano nella diffusione delle idee di rinnovamento e di riscatto del popolo italiano e nella costruzione dello Stato nazionale inteso come organizzazione politica della Nazione italiana (che già esisteva da mille anni attraverso l’opera dei suoi scrittori, santi, poeti, scienziati, artisti, scultori, musicisti, politologi, storici, giornalisti ed economisti).

La lingua (?), le tradizioni(?), la comune fede cristiana(?), i costumi (?), l’eredita romana e latina (?), il mito di Roma (?) – (che per prima aveva unificato la Penisola, dando la sua cittadinanza ai popoli che la abitavano dalle Alpi alla Sicilia, dal Quarnaro alla Sardegna ) – dicevano che la Nazione c’era (???).
Quando la vocazione militare e il disegno espansionistico settecentesco del Piemonte sabaudo nella valle padana incrociarono le aspirazioni e l’anelito di tutto il popolo italiano alla libertà scocco la scintilla che avrebbe portato l’Italia al ruolo di soggetto politico autonomo nello scenario europeo e internazionale.
Sotto la regia di un grande statista, Camillo Benso Conte di Cavour, e la determinazione di Vittorio Emanuele II di Savoia a diventare Re d’Italia o a ritirarsi in esilio come il signor Vittorio Emanuele di Savoia.
L’Italia repubblicana non deve aver timore di celebrare quel Re, Padre della Patria, che fece una scommessa al limite dell’impossibile, e il mito di Roma nel Risorgimento (rilanciato con 30 anni di anticipo sul 1861 da Giuseppe Mazzini e poi anche da Cavour nel formidabile discorso davanti al primo Parlamento italiano il 27 marzo 1861, quando indicò la Città eterna come capitale della Nuova Italia).

Se il Risorgimento fu progresso per l’Italia (?) lo dobbiamo anche al Re Galantuomo (?), che difese lo Statuto e il Tricolore davanti a Radetzky vittorioso nel 1849.
La Nazione, con Cavour e Vittorio Emanuele, deve onorare adeguatamente e sempre Giuseppe Mazzini, creatore della coscienza nazionale attraverso la severa scuola del sacrificio, e Giuseppe Garibaldi, che mise la sua spada, la sua audacia generosa ed entusiastica, il suo genio militare al servizio dei sogni del popolo italiano.
Non dimenticando mai che dietro la conquista della Unità e della Libertà, c’è una schiera infinita di martiri e di combattenti caduti per tener fede alla missione, individuata dal giansenista Mazzini, di distruggere l’Impero d’Austria visto come mosaico di popoli oppressi.
Eppure nel 2011, 150° dell’Unità nazionale, nessuno ha pensato al “Caffè” e agli Uomini del “Caffè”, che hanno avviato quel processo conclusosi con successo 100 anni dopo: l’Italia libera e unita».

Commentando la pubblicazione nel 2008 del cosiddetto “Appello di Blois” contro l’ingerenza della politica nell’interpretazione della storia, Timothy Garton Ash aveva scritto sul Guardian: «Perché la gente possa affrontare queste cose, le deve innanzitutto conoscere: questi temi devono essere insegnati a scuola e ricordati pubblicamente. Ma, prima di essere insegnati, devono essere oggetto di ricerca. Bisogna rivelare le prove, verificarle e riverificarle. Bisogna opporvi altre interpretazioni per vagliarle. Questo processo di ricerca e verifica storica implica la più completa libertà, limitata solo dal rispetto per le leggi contro la calunnia e la diffamazione, e scritte per proteggere persone viventi ma non certo i governi né gli orgogli nazionali».

Franco Abruzzo ha grandi doti di cultura e intelligenza che hanno permesso a lui, cosentino, di essere stato per più 18 anni Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e di farlo con serietà e coraggio.
Per questo spiace vederlo nella parte dell’acritico divulgatore delle più trite balossate patriottiche e di farlo con il linguaggio di un sillabario per “Balilla” e “Giovani italiane”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio mar 06, 2014 10:05 am

Roma capitale, la summa del parassitismo pubblico

http://www.lindipendenza.com/roma-capit ... o-pubblico

di CLAUDIO ROMITI

Sul caso emblematico del dissesto amministrativo della Capitale non c’è molto da dire: trattasi della summa italiota del parassitismo politico-burocratico. Parassitismo sostenuto dalla più bieca demagogia fondata sul cosiddetto bene comune. Demagogia vigliaccamente usata come una clava dal sindaco Marino allorchè, sotto la pressione della tigre di carta Renzi, ha minacciato di bloccare i servizi pubblici se il governo non avesse provveduto in tempi molto rapidi a mettere una congrua toppa nel bilancio del comune di Roma.

Una Città eterna divenuta nel corso dei decenni, in quanto sede dei più grandi carrozzoni gestiti dalla politica, una sorta di grande mela, la cui economia viene keynesianamente stimolata da un costante flusso di quattrini proveniente soprattutto dalle zone più produttive del Nord e del Centro. Ciononostante le varie amministrazioni che ruotano attorno al Campidoglio vivono costantemente sull’orlo del baratro finanziario. In particolare il comune e le varie società partecipate operano facendo concorrenza ai famosi buchi neri galattici, facendo sparire al pari di quest’ultimi enormi risorse materiali.

A questo proposito occorre ricordare che il buon Berlusconi, onde dare una mano all’allora sindaco Alemanno – uno dei tanti mistici dell’economia sociale di mercato -, creò una cosiddetta bad company in cui allocare gran parte del colossale indebitamento capitolino, ammontante a circa 10 miliardi di euro. D’altro canto occorreva pur sostenere un ex-camerata, convertito al loffio liberalismo di Silvio, che aveva solo fatto assumere nelle municipalizzate qualche nutrito battaglione di parenti ed amici. Alcuni la chiamano democrazia acquisitiva, altri la definiscono deficit spending all’amatriciana. Sta di fatto che soprattutto Roma, proprio in virtù del suo essere ricettacolo di ogni pubblico sperpero, rappresenta da sempre un modello di spoil system rovesciato. Ad ogni avvicendamento politico cresce notevolmente l’esercito dei nullafacenti che secondo l’attuale primo cittadino sono determinanti nel gestire i chimerici servizi pubblici locali (tanto è vero che lo stesso Marino ha portato il numero degli addetti al proprio staff da 58 a 78, con un aggravio per le casse comunali di un milione e 600 euro).

Dunque, è d’obbligo citare l’esemplare commento dell’ex-sindaco Veltroni il quale, interpellato dalla policamente corretta Gruber,
ha sostanzialmente dichiarato che nessuna risorsa è sprecata quando serve ad alimentare la complessa gestione della Capitale d’Italia.
Ovviamente costui, a suo tempo altrettanto prodigo in termini di spesa comunale allegrotta, non poteva certo ammettere di aver concretamente contribuito alla linea politica del “metti un posto a tavola, tanto paga sempre Pantalone”.
Nel pulcinellesco teatrino della politica “bene comune” Roma e i suoi fulgidi amministratori eletti occupano da sempre un posto di rilievo.
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » ven mag 09, 2014 10:25 pm

Arkeołoghia/arkeołoja de l'ara veneta (ła ‘gnoransa e łe falbarie o menxogne de l’arkeołoja nasionałista tałiana)
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Arkeołoghia veneta (na bona parte fata pasar par romana)
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » lun giu 02, 2014 12:45 pm

Che palle questi quattro sassi romani. Riscopriamo cos’è la nostra Padania

http://www.lindipendenza.com/che-palle- ... ra-padania (Padania???)

di GIANFRANCESCO RUGGERI

Giugno, ore due di un caldissimo pomeriggio e sono sperso in un sito archeologico, mentre una notissima e famosissima archeologa ci descrive con dovizia di particolari i resti romani di non so quale teatro. Il tempo passa e il sole picchia sempre più, nemmeno una pianta sotto cui ripararsi, ma dopo ben 45 minuti finalmente tace e penso di andarmene, quando inizia a parlare un suo collega. Non capisco più nulla e in fondo al gruppo sbotto: “che palle questi quattro sassi romani!” Senza che me ne accorgessi l’illustre archeologa si è messa proprio accanto a me, la guardo, mi guarda, stupefatta a bocca aperta non riesce ad emettere suono, sembra la Boldrini quando i grillini le assaltano il banco alla Camera. Abbasso gli occhi, la testa, le orecchie, abbasso tutto e me ne vado via prima che mi tiri uno di quei quattro sassi romani.

È un episodio realmente accadutomi qualche anno fa, riguardo al quale mi rendo conto di aver sbagliato i modi, i tempi, le forme, ma più passa il tempo, più mi convinco di aver pienamente ragione nel contenuto: che palle, questi quattro sassi romani! Mi accorgo sempre più che la nostra società è in preda ad un’ossessiva ossessione romanofila, così che un paese, un luogo meritano attenzione solo e soltanto se possono vantare qualcosa di romano, di presunto romano, di simili romano. La società in cui viviamo è ancora vittima dell’idea fascista che la civiltà sia stata portata dai romani e così tutto quello che è romano è degno di attenzione, se non di venerazione. La romano-mania è così forte, che se andate al supermercato trovate in vendita persino “Amore e sesso nell’antica Roma” di Alberto Angela: ma chissenefrega, veramente chissenefrega di come facevano l’amore i romani!

Casualmente pochi giorni orsono leggevo una banalissima guida turistica della bergamasca, dove si nota con facilità l’eccessiva attenzione al più insignificante elemento romano quasi non esista altro in grado di nobilitare un territorio: ad Azzano San Paolo si segnala la presenza di “laterizi romani”, in pratica pezzi di mattone, a Zanica si parla di “due speroni in ferro e di due fibbie in bronzo”, mentre a Comun Nuovo non c’è proprio nulla di romano, dato che il paese è stato fondato solo nel 1200: sarà per questo che la descrizione dedicata al paese è tra le più brevi del testo?

Il punto è un altro, chiediamoci se sono utili queste notizie. Servono a descrivere il territorio? Aiutano a capire i luoghi? Se voi foste sotto l’ombrellone al mare e il vostro vicino di sdraio vi chiedesse notizie sul luogo in cui vivete, gli rispondereste mai che nel vostro paese hanno trovato 4 mattoni o 2 speroni romani? Se malauguratamente foste di Comun Nuovo, dove di romano non c’è nulla neanche a cercarlo col lanternino, fareste scena muta?

Ebbene, se io abitassi nei tre paesi citati, direi che vi passa la Morla, rigorosamente al femminile, perché in Padania i corsi d’acqua che finiscono con la A sono femminili, con buona pace degli italici, che cercano di maschilizzarli tutti. Nessuno di voi saprà cos’è la Morla, nè chi abita nei tre paesi in questione si sognerebbe mai di farne menzione, perché non le dà alcun valore, dato che noi padani non abbiamo la minima conoscenza di noi stessi, della nostra storia, né del nostro territorio. La Morla è un corso d’acqua naturale, giunta a Bergamo piega a sud e con un alveo rettilineo e artificiale giunge fino a Comun Nuovo, dove si suddivide nei campi che irriga fino a perdersi e sparire. Lo storico Menant scrive che la Morla è la spina dorsale del sistema idraulico della media pianura bergamasca e proprio grazie ad essa è nato nel 1200 il paese di Comun Nuovo.

Ogni angolo di Padania ha la sua Morla, cercate attorno a casa vostra e troverete qualcosa di simile ed ogni Morla è un testimonianze del nostro ingegno e della nostra laboriosità. Pensate che la Morla ha un alveo artificiale lungo più di 10 Km, interamente scavato a mano, a pich e pala, dai nostri padanissimi antenati poco prima dell’anno 1000, nei cosiddetti “secoli bui”. Allora chiediamoci, sono più importanti due speroni giusto perché sono romani od un corso d’acqua naturale deviato dall’uomo con il suo alveo artificiale lungo più di 10 Km grazie al quale è nato un intero comune, grazie al quale hanno prosperato altri paesi ed ancora oggi si irrigano i campi? Ebbene come detto la Morla non è un caso isolato, tutti voi avete la vostra Morla più o meno grande che scorre vicino a casa vostra, perché tutta la Padania è stata costruita dal nostro lavoro, dalla nostra fatica e sopratutto dal nostro ingegno.

Carlo Cattaneo riassume perfettamente quanto sto dicendo quando scrive: noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; (…). Abbiamo preso le acque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri e le abbia­mo diffuse sulle àride lande. Questa è la verità, dove vi era palude abbiamo regolato le acque, dove il suolo era arido abbiamo portato l’irrigazione e con la nostra inventiva e perseveranza abbiamo creato una delle più grandi macchine idrauliche che esistano al mondo. Immagino che girando per la nostra terra non abbiate mai dato troppo peso ai canali e ai singoli fossatelli che vi capita di incontrare, che oggi distruggiamo, cementifichiamo e copriamo, ebbene quello che a voi sembra un’insignificante nullità è in realtà una minuscola porzione di un sistema idraulico immenso, senza il quale oggi la nostra terra semplicemente non esisterebbe.

Il Cattaneo ci insegna che gli elementi naturali originari erano come le parti di una vasta macchina agraria alla quale mancava solo un popolo che (…) ordinasse gli sparsi elementi; è quello che abbiamo fatto noi padani, non certo i romani che si sono limitati a centuriare la nostra terra. La tanto osannata centuriazione altro non è se non la suddivisione del territorio in maglie rettangolari da assegnare ai soldati per favorire la colonizzazione delle terre e badate bene che si sono limitati a centuriate le terre più fertili, non hanno costruito il territorio, se ne sono soltanto impadroniti. La centuriazione romana è l’equivalente degli Homestead act con cui gli statunitensi si sono spartiti le terre dei nativi, dopo averle divise in maglie rettangolari. C’è dell’ingegno in tutto ciò? C’è dell’onesto lavoro? Se la Padania è un immenso deposito di fatiche dipende da noi, non dai romani che ci hanno lasciato giusto due mattoni e quattro sassi.

Non solo abbiamo realizzato una macchina idraulica efficientissima, di più, abbiamo creato il bello nel vero senso della parola. Parlandovi del Grand Tour vi dicono sempre che gli stranieri valicavano le Alpi per visitare le città d’arte, Firenze, Roma, Napoli, ma vi nascondono sempre il fatto che superate le montagne quegli stessi stranieri restavano sbigottiti nel vedere quanto era bella la nostra terra e nei loro diari di viaggio si rinvengono facilmente entusiastiche descrizioni. Scrive Joseph Jérome de Lalande nel 1786 che “Cette plaine de Lombardie qui s’étend depuis Turin jusqu’à Rimini & Venise, sur une longueur de 90 lieues est la plus vaste, la plus délicieuse & l’une de plus fertiles qu’il y ait en Europe” e badate bene che la Lombardia di Lalande, che si estende da Torino a Rimini e a Venezia, altro non è che la Padania di oggi. Molti sono quelli che rimangono stupiti dall’abbondanza di acque “che irrigano, ma non inondano” (Edward Gibbon 1764), altri viaggiatori descrivono la nostra terra come un “giardino perpetuo” (François Deseine, 1699), grazie alla presenza delle marcite, riguardo alle quali il Cattaneo scrive che una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo. Altri autori si spingono oltre descrivendo la nostra terra come una sorta di giardino in festa e questa impressione è data loro dai tralci di vite maritata, che correndo di albero in albero danno l’impressione di essere “ghirlande” (Silhouette, 1770). E chi credete che abbia inventato questo modo di coltivare la vite che ha fatto bella la nostra terra? Non certo i romani, che arrivati in Padania l’hanno trovata ovunque e l’hanno solo ribattezzata arbustum gallicum!

Mentre tutti si sbrodolano con la romanità, quanti sanno che la nostra terra era internazionalmente considerata un’icona paesaggistica di valore mondiale, come oggi lo è la Toscana? Quanti di voi sono consci che molto abbiamo distrutto, ma che molto di quel bello rimane tutt’oggi? E quanti sono invece i nostri fratelli rimbambiti da una malsana idea di mediterraneità che li porta a riempire la nostra terra di sughere, ulivi, palme e cipressi cercando di scimmiottare le colline toscane o lidi ancor più lontani? Non conosciamo il valore paesaggistico della nostra terra, non comprendiamo che il cipresso è l’albero della romanità, non sappiamo che al suo posto si potrebbe piantare il pioppo cipressino, che è un’essenza tipica della Padania, dove questa specie è stata selezionata nel XVII secolo, tanto tipica da essere nota in inglese con il nome di Lombardy Poplar.

Chiudo prendendo di petto persino il simbolo stesso della romanità, il Colosseo. Certo è un monumento imponente, ammirevole, decisamente interessante, ma soprattutto celebrato ed osannato ad ogni piè sospinto. Ma veramente credete voi che costruire quel famoso anfiteatro abbia richiesto più ingegno e più fatica di quanto ne sia servito per deviare la sconosciuta Morla e scavarle un alveo artificiale di più di 10 km oltre alla relativa rete di canali minori? Né va dimenticato che la Morla fin dai secoli bui ha nutrito generazioni e generazioni di padani, mentre il Colosseo era il luogo in cui i civilissimi romani si divertivano a far sbranare dai leoni donne e bambini. Anche prescindendo da queste considerazioni di ordine morale e pur con tutto il rispetto che è necessario avere per un tale monumento, è comunque necessario aver ben chiaro in mente che il Colosseo rappresenta solo un infimo granello di sabbia al confronto di ciò che noi abbiamo fatto e costruito nel corso dei secoli in Padania, dove i romani hanno lasciato giusto due speroni e quattro sassi!

Così quando pomposamente vi dicono che tutte le strade portano a Roma, rispondete loro orgogliosamente che tutti i canali scorrono in Padania! Padania libera, anche e soprattutto dalla nostra ignoranza per noi stessi.
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » ven lug 11, 2014 9:32 pm

http://laveja.blogspot.it/2010_04_01_archive.html


La stirpe romana

http://2.bp.blogspot.com/_fA-GF1Dsh_M/S ... ani.39.jpg

Il 21 aprile 753 avanti Cristo è il giorno in cui, secondo la tradizione, veniva fondata Roma.
È vero che su questa data, fin dall' antichità sono stati sollevati molti dubbi ed essa rappresenta piuttosto un giorno simbolico: il Versacrum, la festa della primavera, dal vigoroso risveglio della natura e del rinnovarsi della vita.
Addirittura qualcuno, anagrammando il nome di Roma, ha scoperto che significa Amor, amore.
Ma è più facile che questo nome fatidico derivi da un arcaico «Stroma», cioè la città del fiume.
Ed è questa la tesi che ci convince di più, data anche la grande importanza del Tevere per i popoli di queste zone.
Per quanto riguarda l'anno di fondazione di Roma, esiste ancor più incertezza.
Da un insediamento permanente, anche in epoca anteriore alla data convenzionale, si sviluppa il primo nucleo della città.
E' probabile che in questa epoca si siano completati degli accordi fra tribù che permisero un'intesa permanente fra le popolazioni stanziate sul Palatino e quelle del Quirinale che avevano creato la loro roccaforte sul Campidoglio.
Non è da escludere che nel frattempo gruppi etruschi si fossero già stabiliti sulle rive del Tevere nei pressi dell'isola Tiberina e nella zona del Foro, dove già nell'antichità c'era una strada che faceva riferimento preciso agli artigiani etruschi del luogo.

Ma come appariva, anche fisicamente, questa popolazione romana che nell'VIII secolo avanti Cristo si trovava probabilmente in via di formazione?

Il gruppo del Palatino e quello del Quirinale erano senza dubbio i due popoli principali: da un lato i Latini e dall'altro i Sabini, popolazioni piuttosto affini anche linguisticamente, ma tutt'altro che identiche.
Non vi è dubbio che i Sabini, già nella tradizione romana più antica, fanno pensare ad un gruppo di provenienza nordica o alpina emigrato in Italia in epoca più recente.
Di questo gruppo, infatti, ci sono state tramandate caratteristiche fisiche centro-europee, come capelli di frequente rossi o biondastri, statura slanciata, cranio dolicocefalo e visi piuttosto ovali.
Questi dati somatici, ricavabili da alcune descrizioni antiche, sono confermati anche da alcuni reperti ossei e da sculture in nostro possesso.
I Romani facevano maschere funebri molto accurate: da esse possiamo trarre, con una certa precisione, anche alcuni dati somatici.
Il ceppo latino abitante sul Palatino, invece, si era stanziato nel Lazio e più precisamente sui colli Albani, in un'epoca anteriore ai Sabini, in zone probabilmente già abitate da genti liguri.
Pertanto avevano assorbito parte di questa popolazione ed anche molti dei caratteri psichici e somatici, di tipo più strettamente mediterraneo.
In questo, il lettore deve aver ben chiara la differenza enorme che, sia sul piano fisico sia su quello culturale, separano le varie popolazioni dell'Italia antica dagli Italiani di oggi.
Potremmo parlare di popolazioni romano-italiche per questa prima epoca e di «latini», o meglio neolatini per quelle successive, già a partire dal II secolo dopo Cristo.
Con la parola neolatini (l'accezione inglese latini è causa di molti equivoci), anche oggi si intende un insieme di razze diverse, che hanno una comune eredità culturale, e una lingua derivata da quella dei Romani (Latini), ma che mostrano, solo in percentuali minime, l'appartenenza etnica ai ceppi originari del Lazio antico.
Potremmo dire che il fenomeno che si verificò nell'America Latina aveva avuto un importante precedente anche in altre parti dell'Europa sottomesse dai Romani.

Da Roma ereditarono la cultura e la lingua ma non i caratteri etnici dominanti.

I Romani erano in numero talmente limitato come popolo, che non poterono praticare una colonizzazione di tipo «anglo-sassone» con la sostituzione di popolazioni proprie a quelle preesistenti.
Né una colonizzazione del tipo «arabo» caso in cui la poligamia su larga scala moltiplicò a milioni la popolazione araba.
I Romani erano strettamente monogami e non molto prolifici fin dall'inizio della loro storia.
II numero dei cittadini romani nella Roma originaria si aggirava probabilmente sui 30.000 di cui la metà nel Contado.
Pochi erano anche gli schiavi, tutti di origine italico-mediterranea.
Neppure all'epoca dell'unificazione del Lazio, alla fine della monarchia, la popolazione doveva superare gli 800.000 abitanti.
Una volta unificati gli Italici affini a Latini e Sabini, si formarono le 17 tribù storiche che costituirono la spina dorsale della struttura della cittadinanza romana e della vera nazione romanoitalica originaria.
Complessivamente la popolazione raggiunse allora 3 milioni di abitanti circa, cifra che si mantenne fino al periodo precedente la prima guerra punica.
Da allora la popolazione romana andò diminuendo continuamente fino a ridursi progressivamente a non più di un milione di individui alla fine del I secolo dopo Cristo, quando l'imperatore Vespasiano decise di liberarla dal servizio militare obbligatorio, per impedire l'estinzione di alcune tribù, che come quella dei Velini era ridotta a poche centinaia di persone.

Perché questa decadenza e questa trasformazione?

La popolazione romana primitiva conobbe un periodo florido con l'introduzione di nuovi metodi d'allevamento, la sistemazione della valle del Tevere, la bonifica delle paludi e la conoscenza di nuove tecniche agricole che furono probabilmente tra i risultati più positivi dell'azione dei re pastori della prima epoca.
Il disboscamento del Lazio, territorio che oggi è completamente privo di foreste, ma che allora era coperto da fittissime selve e da paludi, fu una delle prime opere dei monarchi romani, e fu una delle imprese che caratterizzarono, nelle epoche successive, gli insediamenti romani in altre parti d'Europa.
In questa epoca, appare ai nostri occhi una solida popolazione rurale di tipo centro-europeo di grande forza fisica, dal tronco possente, dalla spalle larghe, con gambe più corte, ma più robuste di quelle dei nordici, di struttura prestante ed armonica e di notevole statura media.
Il legionario romano era abituato a marciare per decine di chilometri anche in un solo giorno, con carichi che fra armi e salmerie erano spesso di 30 o 40 kg ed anche più.
Non è assolutamente fondata la concezione diffusa in certi Paesi dell'Europa settentrionale che i Romani fossero una popolazione di tipo strettamente mediterraneo, di struttura fisica fragile, di altezza inferiore alla media europea, come ad esempio furono i Mongoli o altre popolazioni mediterranee.
I Romani erano incineratori e quindi non abbiamo referti scheletrici abbondanti.
Quel poco che ci rimane dice però innanzi tutto una cosa assai poco nota: gli scheletri delle popolazioni romano-italiche primitive appartenevano ad individui fisicamente più forti, prestanti e di più alta statura rispetto a quelli che abitarono l'Italia verso la fine del I secolo dopo Cristo.
Tanto per intendersi, all'epoca della distruzione di Pompei (79 avanti Cristo), l'unico periodo per il quale abbiamo una serie di referti scheletrici molto numerosi, la statura degli italici era più bassa e l'ossatura meno forte che nell'epoca arcaica o repubblicana.
La ragione di questa progressiva decadenza fisica è stata attribuita a vari fatti e ha dato luogo alle più strane tesi.

Fra questa è compresa una fantasiosa ipotesi di uno storico inglese che attribuì tale decadenza ed un progressivo avvelenamento dei Romani per i sali di piombo contenuti nel vino!
Ma fin dall'inizio della storia appare chiaro che la causa essenziale di questa decadenza fu l'enorme sacrificio di vite umane ricaduto sia sulle spalle del contadino che del nobile romano, in quella straordinaria impresa che portò Roma e la limitata popolazione italica al dominio del mondo allora conosciuto.
L'impero romano non fu certo fatto con le poche centinaia di morti delle battaglie navali inglesi e con le scarse perdite delle guerre coloniali europee.
Il servizio militare obbligatorio per il giovane romano durava 20 anni più 5 o 6 anni di addestramento.
Venivano presi i giovani di leva a 17/18 anni e non venivano rilasciarli quasi mai prima dei 40 anni.
«Legio» significava in latino «scelta».
Ogni anno si faceva la scelta o leva di tutti i maschi adulti, sani e adatti alle armi, lasciando a incombenze agricole o casalinghe quelli deboli e malaticci, assieme alle donne e agli anziani.
Questo sistema durato per secoli non favorì certo la razza romana.
Inoltre finché i Romani furono in grado di sospendere le principali attività belliche in autunno, per riprenderle a marzo, all'inizio della primavera, avevano qualche mese da dedicare alla famiglia e alla convivenza con la propria moglie e quindi alla procreazione dei figli.

Le guerre si combatterono prima nelle zone rivierasche del Mediterraneo, e poi in zone sempre più lontane dall'Italia, ai remoti confini dell'Impero.
Si cominciò a porre il problema delle «vedove bianche», cioè delle famiglie in cui la presenza dell'uomo era sempre più rara.
In seguito gli insediamenti di colonie romane e latine avvennero entro i confini dell'Italia storica, ci furono spostamenti di popolazioni all'interno del territorio italico, ma non una ulteriore perdita etnica come avvenne più tardi con la formazione di colonie in lontane zone dell'Impero.
Inoltre, durante il periodo della fondazione di colonie in Italia, le donne seguivano gli uomini che avevano avuto assegnazioni di terre.
La donna romana, però, non era una nomade, come le donne barbare (???) e spesso finì per rimanere a casa da sola nella speranza, quasi sempre vana, del ritorno del proprio uomo partito in gioventù.
Il problema demografico era già gravissimo alla fine della seconda guerra punica, a causa delle enormi perdite dei giovani romani sui vari fronti di guerra: si calcola infatti che circa la metà degli uomini cadde in queste lunghe campagne militari.
Basti pensare che nella sola battaglia di Canne perì un quarto della gioventù dell'Italia centrale.
La battaglia di Aurasio, contro Cimbri e Teutoni, distrusse i 2/3 della nobiltà e dei cavalieri: i primi, come era consuetudine, chiamati alle armi e a pagare col sangue il loro debito verso la Repubblica.
Le guerre civili, anche queste spietate, fecero il resto.
Il processo di decadenza demografica divenne allora un fatto irreversibile.
Quando poi i confini dell'Impero si allargarono sui tre continenti, il ritorno per il legionario divenne sempre più problematico.
Non era ormai più pensabile che un soldato di stanza ai confini della Scozia, o fra le montagne del Caucaso, potesse tornare a Roma per la famiglia.
Era un viaggio che avrebbe richiesto due anni di tempo.

Questa ragione geografica, oltre alle continue perdite su tutti i fronti di guerra, portò ad un vero collasso l'etnia romana, al volgere dell'era volgare.

Il problema fu compreso in tutta la sua drammaticità da Augusto, ma nonostante i provvedimenti presi dal grande imperatore il processo di diminuzione della popolazione romana era ormai divenuto irreversibile.
Perdite di guerra, insediamenti coloniali, mancanza di procreazione, causata dalla divisione delle famiglie, sono le tre cause principali che portarono progressivamente alla fine della razza romana.
Per cui, a parte alcuni ceppi originari, etnicamente depauperati, rimasti ancora insediati, specie sulle montagne dell'Italia centrale, (le pianure erano da tempo divenute latifondi lavorati da schiavi o da semi liberi che continuarono a resistere nel Medioevo), la stirpe romana può, come tale, ritenersi quasi distrutta alla fine del II secolo dopo Cristo.

Roma sopravvisse soprattutto per una continuità storica, culturale ed anche territoriale che prese corpo prima nella trasformazione dell'Impero, da pagano a cristiano, ed in seguito con la «surroga» dei poteri dell'Impero in vaste aree d'Italia da parte dei Pontefici romani.

E' stato il cattolicesimo e la struttura anche giuridica della Chiesa ad ereditare ampiamente il patrimonio di Roma.

E' stato detto che la Chiesa cattolica è il proseguimento dell'Impero romano in forma teologica, e il Papa un imperatore romano tornato più o meno al rango dell'antico «Rex Sacrorum» (???).
Ma pur sottolineando i legami innegabili fra la romanità del tardo impero e la nuova istituzione cattolica, cultura e nazione romana da un lato, cristianesimo e nazione giudaica dall'altro, furono dei fattori opposti e si combatterono fermamente.
La continuità diretta fra Roma ed il cristianesimo esprime il senso della continuità morale e religiosa della civiltà europea tra Roma, Medioevo ed età moderna con aspetti puramente formali e rituali del tardo Impero ripresi dalla Chiesa (paramenti, liturgie e gerarchie cattoliche di vario genere).

Roma chiuse comunque la sua vicenda storica senza lasciare singoli eredi diretti, ma un patrimonio civile e morale comune a tutti i popoli dell'Occidente europeo ed anche dell'Oriente.

Il confronto con quella grande stirpe eroica e terribile insieme, ha tuttavia ossessionato gli italiani per secoli.
Gli italiani si sentirono un poco come certi nobili decaduti, discesi anche per una limitata ascendenza dai rami collaterali di qualche grande famiglia.
Una cosa però è certa: la grandezza di Roma li ha immunizzati da una sorta di nazionalismo moderno e dalle frustrazioni che ne sono spesso la causa (???).
Gli italiani non concepiscono nella maniera di altri popoli europei sentimenti di superiorità o inferiorità verso le altre nazioni (???).
II nome di Roma, di cui in qualche modo a torto o a ragione si sentono eredi, è talmente grande e universale, da non consentire il nascere di un limitato nazionalismo (???).
E' necessario provocare il sentimento nazionale degli italiani, per avere delle reazioni.
Ma è un sentimento discontinuo e contingente.
Quale famiglia di autentica nobiltà, del resto, per quanto impoverita e abbattuta, le cui origini si perdono nella notte dei secoli, può sentirsi veramente offesa dagli sberleffi di un plebeo maleducato o da un millantatore?
Questa è stata la grande forza dell'Italia anche nei momenti oscuri della sua storia. L'italiano fin da quando nasce respira questo senso di composta sicurezza che confina nell'indifferenza, ed anche nella eccessiva confidenza nei confronti di un patrimonio civile e culturale, che dovrebbe, per certo, comprendere meglio, e amministrare con più cura.


Fonte: da srs di Paolo Possenti da «Le radici degli italiani» volume I: «Il millennio Romano»; capitolo VII; editore Effedieffe, edizioni, 2001.

(VR 26 aprile 2010)


Ke oror, coante ensemense!

Li se ga dexmentegà li etruski ke li stà i primi re de Roma e coeli ke gà da orexente a bon aparte de le istitusion romane.
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » ven ott 03, 2014 7:34 am

El mito de Roma e dei romani al servisio de la Talia-Caorle

viewtopic.php?f=43&t=1090

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... rminio.jpg


Łi barbari romani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... l0bVE/edit

Teotobourgo
na bataja de tera ke come coela de mar a Lepanto la ga canvià el corso de la storia d’Ouropa
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... xSeTg/edit
Immagine

Teotoburgo – el degheio par li barbari romani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... VUY00/edit
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » ven ott 03, 2014 7:39 am

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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio gen 22, 2015 9:40 am

Europa, Islam, il confronto

http://www.ereticamente.net/2015/01/eur ... ronto.html

Due ricordi.

La grande Roma, quella vera, quando la Patria era in pericolo, nominava un dittatore, con i pieni poteri. E armava i cittadini. Poi, grazie agli Dei, arrivarono Cesare ed Augusto e nacque il più grande Impero della Storia (ke par bona sorte lè termenà).

Qualche anno fa “nacque” (eufemismo ipocrita) la cosiddetta “primavera araba”, Fu assai curioso constatare una strana… coincidenza. In un mese e mezzo circa scoppiò la “primavera araba” in Iran, Siria, Egitto, Iraq, Libia, Tunisia, Marocco, Algeria.

In Iran (Paese islamico ma non arabo), fu stroncata subito. “Non è aria” dissero gli eredi dei Persiani. Negli altri Paesi, prima c’erano: Assad, Moubarak, Saddam Hussein, Gheddafi, Zine El-Abidine Ben Alì in Tunisia, il re del Marocco, Muhammad V°. (Discorso a parte l’Algeria che ha una guerra civile da decenni). E’ rimasto solo il siriano Assad, sotto tiro, ed il sovrano del Marocco, per altro non propriamente un chierichetto. Là la polizia “interroga col bastone”. In altre parole, i regimi del Nord Africa, a parole qualche volta democratici, nei fatti assolutisti, mantenevano condizioni sulle quali si fondava un equilibrio sopportabile. E l’occidente continuava a lucrare, prendendo petrolio e pagandolo per lo più con armi e/o petroldollari (sarebbe interessante indagare su eventuale doppia numerazione del biglietto verde). Improvvisamente dal cilindro della Storia, è uscita “la primavera”. Contemporaneamente, cosa che è probabile come trovare uno statista oggi in Italia. Che fosse invece in atto una guerra sotterranea con i soliti attori, nessuno lo dice. USA, Inghilterra, Francia, Israele, Russia e Cina cercavano, con tutti i mezzi, leciti e no, di accaparrarsi le fonti di energia (petrolio, ma non solo), le materie prime, e le posizioni geo–strategiche nello scacchiere mondiale.

La “democrazia” portata sulla punta delle baionette è credibile come le promesse elettorali: zero assoluto. Addirittura sotto zero in terre ove non è capita né desiderata.

Solo che qualche volta il gioco si rompe e scoppia fra le mani di chi lo ha inventato. Se l’uomo avesse memoria, ricorderebbe la faccenda di Mattei, ammazzato perché insegnò agli arabi a pretendere di più, molto di più dall’obolo peloso che gli occidentali gettavano loro. Lesa maestà delle sette sorelle.

Nella guerra coloniale ciascuno ha commesso le porcherie che riteneva, spesso sbagliando, favorevoli ai propri interessi. Che poi sono gli interessi delle lobby, peressere chiari. Le armi (americane) di distruzione di massa di Saddam non esistevano (più): le aveva usate contro i Curdi. Gheddafi aveva stabilito un rapporto con Jorghe Heider, e buoni sentimenti con l’Italia: inaccettabile dalla Francia e dall’Inghilterra. E la Francia socialista mandò gli aerei a bombardare e fu l’inizio del caos attuale. La Siria è diventata Nazionalsocialista: inaccettabile! E d’improvviso il popolo siriano “si ribellò”. Peccato che i ribelli sono composti da ventitre nazionalità differenti. La settima flotta yankee non può andare in soccorso della “legione straniera” ribelle siriana, dato che Putin ha una base navale, l’unica per ora, nel Mediterraneo, proprio in Siria. Meglio la prudenza! In Egitto la “democrazia” è cominciata male, è durata poco, ed è finita nelle mani dei militari, al solito. Il tunisino Alì è scappato, con la cassa: alla prossima puntata. Dell’Algeria ho detto.

Cioè, se prendete una carta geografica, vedrete che il Nord Africa è un caos pericoloso, con ampie zone in mano agli estremisti islamici. Facilmente prevedibile.

E non parliamo del Califfato: nato e cresciuto grazie ai maneggi dei servizi degli USA, della Turchia, alleata, e dell’immancabile Israele, la nota stonata del tutto. I tagliagole sono armati di armi americane, foraggiati da Arabia Saudita ed Emirati, alleati degli Usa, e sui quali non si scatena la vendetta “democratica” per salvaguardare i diritti umani, come in Kossovo, in Iraq, in Siria, in Libia… Razza di sepolcri imbiancati, nido di vivere oro-dipendenti!

Ora credo che una persona adulta, col cinismo dei tre millenni di storia, col coraggio intellettuale dello scetticismo storico, deve compiere un’analisi spietata sul futuro.

E’ oggettivamente in atto una guerra interna all’islam per la supremazia. Ma questa è tattica. Tattica in funzione dello scopo vero e finale. Guerra all’odiata Europa, guerra ai bianchi europei, invasione del Vecchio continente.

E non sarebbe la prima volta, nella Storia.

Ma in Europa sta nascendo, dopo settanta anni di droga propagandistica, di subliminale od addirittura esplicito annichilimento culturale-etnico, una forte, crescente reazione a tutto questo. E la presa di coscienza terrorizza i detentori abusivi dei poteri governativi. Francia, Inghilterra, Grande Germania, Ungheria, Austria, Belgio, Olanda, Danimarca ed anche, in parte Italia e Spagna, vedono crescere la ribellione allo status quo.

E la Merkel si avvicina a Putin, allontanandosi da Obama: la storia dei trecento “consiglieri militari” (eufemismo) Tedeschi in Iraq, in aiuto dei peshmerga Curdi, la dice lunga.

Che piaccia o no, con buona pace dei pessimisti cronici, sull’asse Berlino – Mosca sta nascendo la nuova Europa. Ci vorrà tempo, e si dovranno superare difficoltà enormi.

Ma si farà. Sta nella natura europea.
Bianca e libera.
La prossima Roma, dopo Washington, sarà Berlino. Mosca deve aspettare un “giro”.
Ci sarà il confronto con l’islam.
E dopo, quello con il Nord America.

Mercoledì, 21 gennaio 2015. Fabrizio Belloni Cell. 348 31 61 598

Ke oror, sto envaxà dai romani ! Manco mal ke ła storia ła ga scançełà l’enpero roman kel gheva desfà l’Ouropa e gràsie ai xermani l’Ouropa lè renasesta.
A parte Roma sol resto se pol descouterghene!
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio gen 22, 2015 9:54 am

Ençeveltà tałega, straji, połedega, caste, corusion
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Corusion tałiana e romana
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El mito roman (l’etno-soço rasixmo e ła ‘gnoransa, a łe raixe del mito)
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Łi barbari romani: çeveltà e ençeveltà, masacri e rexistense
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Re: El mito roman entel nasionałeixmo tałian

Messaggioda Berto » gio ago 20, 2015 5:26 am

??? Ke oror ???

Dal 27 agosto ogni giovedì con il «Corriere» una serie di quaranta volumi sulla nostra civiltà
L’eredità culturale di Roma antica ha segnato la storia dell’Occidente
Il richiamo ai doveri dei governanti e l’idea universale della cittadinanza Ecco i motivi portanti di una concezione etico-politica sempre attuale
di Giovanni Brizzi

http://www.corriere.it/cultura/15_agost ... 4aa4.shtml

Il tema del retaggio lasciato dall’antica Roma all’Occidente è talmente vasto da poter riempire intere enciclopedie. Col volgere dei secoli infatti, dopo la conclusione della sua parabola storica, l’Urbe è divenuta grado a grado, nella memoria e nell’emozione delle età successive, un autentico luogo dello spirito, una sorta di categoria del pensiero; sicché i modelli politici e ideali che ha via via offerto ai posteri come exempla e come parametri di confronto cui ispirarsi, sono stati davvero infiniti e vanno dalla lingua (un latino che, affiancato nelle sue differenti versioni, dal greco e dall’infinita varietà dei dialetti locali, si è poi imposto a lungo, nell’Europa dei secoli seguenti, come strumento delle classi colte) al lessico militare e politico e all’intero pantheon dei rispettivi simboli; dagli sviluppi del diritto all’evoluzione di alcune forme letterarie o artistiche e al dibattito circa la struttura ideale, repubblica o impero, cui ispirarsi, sopravvissuto fino alle vicende delle grandi rivoluzioni al chiudersi del XVIII secolo.

Due almeno di questi motivi sembrano qui meritare un accenno. Una prima costante, lungo il solco tracciato dalla storia di Roma fino all’età di Costantino e all’avvento dell’impero cristiano, è la presenza, termine di confronto obbligato per chiunque detenesse il potere, della forma politica ideale fondata sul teorico «governo dei migliori». Questa poggia, a Roma, sul concetto di «virtus e su altre qualità e meriti concreti» che debbono esser prerogativa dei magistrati alla guida dello Stato (Emilio Gabba). In Honos et Virtus, in effetti, la coppia di valori divinizzati da alcuni Grandi della Repubblica per richiamarsi al merito, la Virtus coincide non con l’eccellenza nella funzione militare soltanto; ma con il complesso di valori proprio del buon cittadino e, in sostanza, con l’accettazione del munus serviano, del dovere verso lo Stato di cui il servizio in armi rappresenta solo l’espressione più alta; mentre l’Honos richiama un consenso del popolo destinato a sfociare negli honores, le cariche cittadine che ne sono l’esito necessario.

La correlazione tra gli obblighi verso la «cosa di tutti» e i pubblici uffici è un principio teoricamente ineludibile, che condiziona molto a lungo i governanti di Roma. Pur ferito e inquinato da ambizione, corruzione e violenza, questo ideale sopravvive; e a porvi fine è solo il graduale imporsi di una funzione imperiale che ambisce a farsi assoluta e a sciogliersi dall’obbligo di giustificare il proprio potere. Più volte fallito, il tentativo riesce infine a partire da Costantino; che si appoggia alla più diffusa ed efficace tra le religioni orientali, un Cristianesimo il quale, da Paolo di Tarso in poi, fa derivare omnis potestas a Deo. Distruggendo il rapporto esistente tra responsabilità e potere, lo svincolarsi del sovrano dal munus verso lo Stato scioglie però dallo stesso obbligo anche i cittadini; che, trasformati in sudditi, saranno tenuti ormai solo ad un’obbedienza senza iniziative.

Il secondo motivo portante è la civitas, la cittadinanza, che si allarga ad abbracciare idealmente l’intera ecumene. Pur ridimensionato nelle sue ambizioni più concrete, l’universalismo dell’Urbe si rivela destinato a sopravvivere, come un principio fondamentale, ben oltre la fine dell’età romana; e ciò perché si tratta di un sogno che era stato il «frutto di una concezione... imperiale o brutale solo in apparenza» e perché davvero Roma aveva saputo, da ultimo, aprirsi a qualunque abitante dell’impero. Capace di chiamare a far parte di una realtà comune prima la popolazione della penisola, poi via via tutto il genere umano; capace di fare prima dell’Italia «un’unica città, che intratteneva » con il potere un tempo egemone «lo stesso tipo di rapporti paradossali e straordinari che, due secoli più tardi, Elio Aristide», nella sua orazione A Roma, «avrebbe sentito esistere tra l’Urbe e tutta la terra abitata », il genio politico romano aveva creato, «una concezione originale del diritto di cittadinanza».

La civitas seppe, oltretutto, mantenere in vita, rispettandolo, ogni singolo particolarismo giuridico, religioso o culturale presente nell’ambito dell’impero; e far germogliare ad un tempo i fermenti ideali necessari alla realizzazione «di quella cosmopoli con cui l’impero stesso, rivale della città di Dio, sarebbe giunto quasi a identificarsi».

Se il primo di questi grandi temi rappresenta una delle idealità politiche più alte e autenticamente fondanti per l’Occidente intero, il secondo vede Roma creare, «conciliandola sapientemente con l’autonomia locale delle leggi e dei costumi... una concezione originale del diritto di cittadinanza, non duplice… ma sdoppiata o, se si vuole, a due livelli» (Claude Nicolet), tale da render non solo l’Italia, ma l’intera orbe di allora patriam diversis gentibus unam, una patria per i popoli più diversi. Possa quell’Europa, che è di fatto alla radice stessa del grande Occidente moderno, raggiungere infine un analogo traguardo.
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