Corousion ente ła vecia Roma

Corousion ente ła vecia Roma

Messaggioda Berto » mar gen 14, 2014 12:45 pm

Corusion ente la vecia Roma
http://www.storiain.net/arret/num100/artic7.asp

Ke ghe sipia calcosa de vero?


Molti credono che durante il periodo repubblicano nell'Urbe regnasse la virtù.
Al contrario. I primi testi storici, comparsi attorno al 200 a.C., rivelano che...

NELL'ANTICA ROMA LA CORRUZIONE NACQUE CON IL LATTE DELLA LUPA di FERRUCCIO GATTUSO


Un minimo di corruzione, sosteneva Winston Churchill, serve da benefico olio lubrificante per il marchingegno della democrazia.

Il grande statista britannico sapeva distillare, con sapiente alternanza, la retorica per i momenti duri e il cinismo per quelli meno duri. Indubbiamente, e fuori da ogni luogo comune, si può ben dire che un minimo di corruzione - in uno stato che non sia totalitario e controllore maniacale delle vite dei cittadini - sia fisiologico. La natura umana non cambia certo per editto governativo.
La corruzione, soprattutto quella politica, risale alle origini dell'umanità, e trovò terreno fertile in Roma antica.
E per Roma antica intendiamo sia quella repubblicana, sia quella imperiale.
Questo per smontare la retorica tradizionale che voleva l'Urbe dei primi giorni di gloria opposta - per virtù, morigeratezza e onore - alla Roma degli ultimi anni repubblicani e a quella degli imperatori detentori del potere assoluto. Un mito, questo, che ebbe fortuna mediatica, se così si può dire, negli stessi giorni di Roma antica (ad esempio, sotto Cesare Augusto), così come nei nostri e, inutile dirlo, in quelli del Ventennio fascista, che di Roma e del suo mito fecero una leva retorica per il consolidamento del potere.

Molti conoscono - sempre per quella potente fonte di convinzioni che è il luogo comune - la corruzione del Basso Impero romano, quella degli ultimi giorni prima del tramonto nel V secolo d.C.: fu, quella corruzione, alla base del crollo di Roma e del suo dominio.

Pochi, invece, conoscono la corruzione che nella Roma repubblicana allignò nelle caste privilegiate, quelle dei generali dotati di straordinario potere personale, quelle dei senatori e via dicendo.

E ancora meno si conosce della corruzione nella Roma precedente al III secolo a.C.: non perché essa non esistesse, ma semplicemente perché mancano testi e testimonianze anche indirette sul fenomeno. Quando infatti giungiamo alla prima produzione letteraria, intorno al 200 a.C., ecco spuntare riferimenti alla corruzione e al malcostume, sia in ambito privato, sia in quello pubblico. Si viene a conoscere delle speculazioni dei grossisti, dell'evasione fiscale (anche in quei giorni non mancava un'affilata satira sull'argomento, a cominciare dalla penna infallibile di Plauto), riferimenti all'arroganza del potere politico, malversazione. Insomma, Roma non ha mai avuto un periodo mitico nel quale le tonache dei potenti splendevano candide tra i marmi del Palazzo.
Persino Catone "il censore", voce impettita e retorica delle virtù dell'Urbe che fu - forse non tutti lo sanno -subì la bellezza di 44 processi per corruzione.
Certo, l'accusa di corruzione era una delle armi che gli avversari politici si rivolgevano più spesso contro, pur di annientarsi a vicenda, ma è difficile credere che, su 44 capi di imputazione, Catone non c'entrasse proprio nulla. Soprattutto considerando che, per scalare i gradini del potere, ogni romano "illustre" doveva finanziarsi in modo vergognoso, indebitandosi (gli usurai in Roma non mancavano certo) e firmando ignobili compromessi e clientele.


Con il passaggio dalla repubblica all'Impero, la corruzione si adattò alle nuove forme di organizzazione del potere:

a dire il vero, i primi cesari cercarono di arginare il malcostume, con un controllo più accentratore nelle proprie mani. I vari magistrati, nel periodo precedente ad Augusto, godevano di non pochi privilegi e di libertà d'azione che, con i nuovi reggitori dello Stato, non erano più possibili. Tiberio, ad esempio, fu uno degli imperatori più intransigenti verso la corruzione politica e, in genere, pubblica.
Questo non gli impediva certo di vivere di corruzione morale negli ozi di Capri, nuotando insieme a giovincelli ubbidienti e piacenti, nella sua piscina con la vista sul mare.

La corruzione in Roma antica - è bene dirlo - era almeno dieci volte superiore rispetto alla nostra attuale:
questo non impedì all'Urbe di estendere il proprio dominio sul mondo.
La Città Eterna (???) affiancava alla prepotenza e alla corruzione i più solidi sistemi giuridici, una forma assolutamente unica di imperium, rispettosa delle tradizioni locali, e infine un prestigio culturale e intellettuale che non avevano eguali.
La più ampia forma di corruzione avveniva lontano dal centro del mondo, in quelle provincie romane dove i governatori facevano il bello e il cattivo tempo, dove le leggi venivano applicate in modo elastico e dove le clientele fiorivano senza pudore. C'è da dire che i governatori si trovavano quasi "costretti" a racimolare denaro sporco e a rubare denaro pubblico per potersi finanziare i passaggi di carriera politici successivi: le campagne elettorali chiedevano un impiego di denaro impressionante.


Ecco così che il governatorato nelle provincie

si rivelava un passaggio fondamentale nel cursus honorum di qualsiasi personaggio influente a Roma.
Un altro fattore che portò a un aumento della corruzione fu - come sempre - la crescita della burocrazia pubblica: se nei primi due secoli dell'Impero essa era ancora contenuta, successivamente assunse dimensioni elefantiache. Gli sforzi degli imperatori si rivelarono vani; i potentati personali resistettero anche al controllo occhiuto del divino reggitore di Roma. Concussione e peculato erano all'ordine del giorno, sia durante la repubblica, sia durante l'Impero. I più strenui avversari di questo tipi di reato furono, a distanza di tempo, due personaggi celeberrimi come Caio Gracco e Giulio cesare. Molti processi pubblici precedenti agli interventi legislatori di questi due personaggi si rivelavano teatro di scandalose assoluzioni: la Corte divenne, dopo le leggi di Caio Gracco e di Cesare, più imparziale.


Potentati personali

La nobiltà romana lottò, per tutta la storia secolare, per mantenere il maggior numero di potere nelle proprie mani.
La casta aristocratica cercò sempre di escludere, dal cerchio dei privilegi, le altre classi, i cavalieri prima, i plebei poi.
Per di più, se l'eccessiva burocrazia aveva generato corruzione pubblica endemica nell'Impero, con il coinvolgimento di oscuri funzionari e, insomma dei cosiddetti "pesci piccoli", l'assoluta mancanza di burocrazia nei primi secoli della Repubblica aveva allo stesso modo portato al fiorire di corruzione figlia del potere di pochi "pesci grossi".
I vari magistrati e i pochi funzionari detenevano un potere amplissimo e discrezionale.
Non solo: spesso i magistrati si avvalevano della collaborazione di persone fidate come gli schiavi e i liberti (ex schiavi). Lo stesso ordine pubblico era affidato, clamorosamente, ai singoli nobili, che così creavano formazioni "paramilitari", diremmo oggi, che mantenevano il controllo nelle strade.
Durante la Repubblica, quindi, l'organizzazione sociale risentiva di questa suddivisione "mafiosa" tra boss locali.
È ovvio che, con la nascita della figura accentratrice dell'imperatore, i nobili perdono potere a favore dei notabili e dei funzionari "di corte.
La corruzione resta, semplicemente passa di mano. D'altronde, sia nella Repubblica sia nell'Impero, l'esibizione di clientele era apprezzata socialmente. Il potente camminava spesso nel Foro seguito da un codazzo di clientes: più lungo era il corteo, più ammirato e riverito era il personaggio alla sua guida: questa esibizione aveva persino un nome, l'adsectatio. Il "patrono" - così veniva chiamato - tutelava i suoi clienti in giudizio, con aiuti economici, con interventi in sede politica, raccomandazioni.


I clientes facevano da scorta armata, intervenivano a loro volta con aiuti economici, votavano secondo commissione.

I grandi scrittori romani, soprattutto quelli di ambito conservatore, hanno sempre dipinto questo fenomeno sociale come naturale e tutt'altro che criticabile: lo stesso tacito chiama "parte sana" del popolo quella che segue le grandi famiglie aristocratiche. Per la parte di popolo che non è disposta a ubbidire ai potenti è pronta l'etichetta di "plebe sordida" e potenzialmente agitatrice. Anche Cicerone, storico sostenitore degli aristocratici, ha parole d'elogio verso l'istituto della clientela. Per trovare critiche al fenomeno bisogna leggere Plauto che - nei suoi "Menecmi" - scrive in versi la sua indignazione ("Quanto è folle e dannoso questo costume che abbiamo, e che più di tutti hanno coloro che stanno più in alto! Tutti vogliono avere molti clienti, ma non stanno a guardare se sono buoni o malvagi [...]"). Oppure Sallustio, che nelle sue "Epistole a Cesare" non manca di lamentare come i poveri abbiano perso libertà politica vendendosi ai pochi, singoli potenti ("Ma quando cacciati a poco a poco dai campi la disoccupazione e la povertà ridussero gli umili cittadini a non avere più una dimora sicura, cominciarono a chiedere l'aiuto altrui, a vendere la propria libertà insieme con lo stato. Così a poco a poco il popolo, che era padrone e comandava a tutte le genti, si disperse e in luogo del dominio comune ciascuno procurò a se stesso una servitù personale")


Elezioni poco limpide

I brogli elettorali furono uno degli elementi più vistosi della corruzione in Roma antica. La vita pubblica romana era attraversata da continue campagne elettorali, le quali come detto richiedevano immani finanziamenti. Ad essi provvedevano i ladrocini nei governatorati e il supporto clientelare. Quando però si giungeva al redde rationem elettorale, molti potenti non intendevano rischiare sul responso pubblico. I brogli servivano a "correggere" l'esito delle competizioni. Per avere un voto sicuro, i potenti potevano variare: dall'elargizione di denaro a pioggia per comprare voti, alla realizzazioni di favori ai potenziali elettori, alle intimidazioni fisiche, alla corruzione di coloro che erano addetti allo spoglio dei voti. E infine, alla procrastinazione "ad arte" nelle votazioni. In quest'ultimo caso, l'esempio più celebre è quello di Cicerone, che fece in modo di ritardare legalmente il voto ai danni di Lucio Sergio Catilina, il cui supporto elettorale era costituito da votanti non abbienti e non cittadini, la cui permanenza nell'Urbe si rivelava dispendiosa.
Non c'è dubbio, inoltre, che l'introduzione del voto segreto nella seconda metà del II secolo a.C. contribuì all'espansione della corruzione elettorale. Anche l'aumento del numero di elettori portò a un aumento della corruzione: non mancavano infatti coloro che promettevano per denaro il proprio voto, facendone motivo di commercio e "asta pubblica". Chi offriva di più si beccava il voto. Una forma diffusa di condizionamento del voto erano le coitiones, gli accordi tra candidati per la distribuzione di voti, e le sodalitates, la costituzione di gruppi di elettori influenti (le nostre lobbies) che curavano la propaganda elettorale a favore di determinati candidati.

I candidati più ricchi cercavano altresì di impressionare il pubblico votante con varie ostentazioni propagandistiche, come l'ambitus, praticamente l'arruolamento porta a porta, o l'esibizione dei propri indumenti, come la bianchezza della propria veste. Tra i personaggi che più ricorsero alla corruzione elettorale ci furono Giulio cesare, il suo rivale Pompeo Magno e - ebbene si - l'integerrimo, o così si voleva, Catone. Quest'ultimo disse sempre che, quando aveva corrotto, fu sempre per il "supremo interesse dello Stato".


Arricchimenti "pubblici"

L'erario romano veniva depredato in molti modi. Tra questi anche il "bottino di guerra": comandanti e generali romani all'estero consideravano i territori conquistati come "cosa loro". Denaro e spoglie varie degli sconfitti servivano ad accrescere il proprio potere, ma anche a placare le esigenze dei propri soldati. Pompeo e Cesare trassero dalle conquiste in Asia e Gallia immensi profitti, inimmaginabili oggi. Si dice che il bottino gallico di Cesare equivalesse a più di duemila miliardi di vecchie lire. Ci furono, naturalmente, alcuni processi contro gli abusi di potere nelle provincie: la Legge Calpurina del 149 a.C., molto prima dei due generali citati quindi, aveva cercato di istituire una corte permanente per i reati di concussione, ma gli effetti furono ininfluenti. Come al solito, a pagare erano i "pesci piccoli". Anche le misure adottate da Caio Gracco e la battaglia ciceroniana contro le malversazioni di Verre in Sicilia (descritte nelle "Verrine") non produssero reali cambiamenti.
Con cesare e soprattutto con Augusto i controlli del potere sull'operato dei governatori si fecero più rigorosi, anche grazie alla privazione ai pubblicani (gli esattori delle tasse) di molta discrezionalità personale. Tra i celebri accusati di corruzione lontano da Roma ci fu anche il glorioso condottiero Scipione l'Africano, che però seppe difendersi egregiamente di fronte al Senato. Anche se, sdegnato, si ritirò nella villa di Literno, e vi morì, lontano dalle insidie dell'Urbe.


Di corruzione si parla anche nei confronti di Sulpicio Galba, che nel 149 a.C.
aveva letteralmente depredato territori in Spagna, massacrando la popolazione lusitana, vendendo i sopravvissuti come schiavi e intascando il tutto. Galba fu beneficiato di una scandalosa assoluzione, dopo la quale si cercò di istituire giurie che fossero composte non da senatori, tradizionalmente compiacenti verso i potenti, ma di cavalieri. Alcune leggi (come la Legge Calpurnia voluta dal tribuno Lucio Calpurnia Pisone) pretendevano semplicemente la restituzione del maltolto, altre (come quella graccana) chiedevano la restituzione di una somma raddoppiata. Quest'ultimo provvedimento poteva portare alla rovina del condannato. Negli anni a venire, come dimostrano le scandalose assoluzioni avvenute sotto la dittatura di Sila, il malcostume comunque persistette.
L'esempio più lampante della corruzione di un governatore, lo abbiamo detto, fu quello di Verre, denunciato nelle "Verrine" di Cicerone: al governatore si imputarono estorsioni, rapine, vessazioni , furti e intimidazioni di ogni genere. I siciliani furono letteralmente dissanguati di almeno 40 milioni di sesterzi, ma ci sono fonti che parlano di 100 milioni di sesterzi. La forma più efficiente di estorsione sotto il potere di Verre era quella dell'accordo sotto banco con gli appaltatori (i decumani) incaricati di riscuotere la decima del frumento, che era poi il tributo che la Sicilia doveva a Roma. Il grano che avanzava finiva nelle mani del governatore, che lo vendeva a beneficio del proprio portafoglio.


Un altro sistema usato da Verre era quello di intervenire nelle amministrazioni locali sicule: chi voleva essere eletto doveva pagare a Verre una tangente.

Sotto l'Impero le cose cambiarono: la corruzione non raggiunge più i livelli dei tempi di Verre. La severità di Tiberio fu esemplare, e anche quella di Nerone (spinto dal consigliere fidato Seneca): sotto Nerone i governatori furono inibiti anche nell'allestimento di giochi e spettacoli vari, per evitare che il finanziamento di essi fosse addebitato ai sudditi. Frequenti, nella categoria delle corruzioni pubbliche, le frodi dei publicani, titolari di lucrosi appalti statali. Notizie di tangenti si hanno sin dal 215 a.C., in piena seconda guerra punica. L'esempio è quello di Marco Postumio di Pyrgi, titolare di contratti di fornitura per l'esercito, il quale faceva affondare di proposito vecchie navi, dopo averle caricate di merci di poco valore, per richiedere allo stato l'indennizzo di un valore molto superiore.
L'esempio più celebre della corruzione della nobiltà romana da parte di denaro straniero fu invece quella del "caso Giugurta", reso noto dalla penna di Sallustio: alla morte di Massinissa, antico e fedele alleato di Roma, il regno africano di Numidia passò nelle mani di Giugurta e di altri due figli del re, Aderbale e Iempsale. I tre si combatterono il potere assoluto, cercando i favori di Roma. Chi avrebbe strappato al Senato dell'Urbe l'alleanza in grado di portare con sé la vittoria? Giugurta mandò a Roma ambasciatori che, con immense quantità di oro, cercarono di comprare i senatori il cui compito era esattamente decidere sulla questione africana.


EL DIRITO E LA JUSTISA ROMANI

Infine, la corruzione della Giustizia fu uno dei fenomeni di malcostume a Roma: non esisteva una magistratura permanente, separata dalla politica.

Non esisteva nemmeno un vero codice di leggi paragonabile a quello a noi contemporaneo, e la discrezionalità era quindi ampia. Il diritto romano classico, sul quale si sono formate generazioni di giuristi fino ai tempi nostri, è una elaborazione tardo-imperiale. Nei tempi più antichi la giustizia era amministrata da privati. Nell'epoca repubblicana il pretore, il magistrato pubblico incaricato dell'amministrazione giudiziaria, affidava i giudizi a un giudice scelto dalle parti o da egli stesso designato. Facilmente corruttibile o reso bersaglio di intimidazioni varie, anche fisiche. Sempre Plauto, nei suoi "Menecmi", accenna alla corruzione della Giustizia: i giudici "giocano ai dadi con grande impegno, accuratamente profumati, attorniati da meretrici. Quando sono le tre del pomeriggio fanno chiamare un servo perché vada al comizio a informarsi su quanto è avvenuto al Foro, chi ha parlato a favore, chi ha parlato contro, quante tribù hanno approvato, quante hanno votato contro. Quindi vanno al comizio per non avere noie in seguito alla loro assenza. [...]"


La corruzione della Giustizia durò a lungo,

se ancora sotto l'imperatore Domiziano si sa di misure drastiche prese dal divino Cesare per reprimere il fenomeno. Svetonio infatti nelle "Vite dei Cesari" racconta di come Domiziano "colpì con nota di infamia i giudici venali insieme con i loro coadiutori nel consiglio".
L'ampliamento della burocrazia romana sotto l'Impero portò invece a un altro fenomeno: quello della raccomandazione (commendatio). La caccia al posto era l'attività principale dei rampolli dell'aristocrazia senatoriale e dei giovani rampanti delle classi emergenti. Per ottenerlo era necessario godere di influenti raccomandazioni, nelle quali non è possibile trovare traccia delle qualità specifiche che il candidato poteva vantare per occupare degnamente la posizione cui aspirava, ma solo l'esaltazione di generiche virtù e soprattutto della fedeltà del raccomandato. Ma questo è forse il minore dei mali, e nell'Italia di oggi, sembra un vizio assolutamente radicato. "Mi manda Picone" resta il motto dell'italica gente. Con o senza toga.

BIBLIOGRAFIA
La corruzione politica nell'antica Roma, di Luciano Perelli, pp.322 - Supersaggi Rizzoli, 1994
La corruzione e il declino di Roma, di Ramsay MacMullen - Il Mulino, pp. 449, 1991
Vita dei Cesari, di Svetonio, pp.382 - Garzanti, 1977


La corruzione nell’antica Roma di Silvia Mollo
http://www.istitutocalvino.it/pubbl/sci ... mvirt3.pdf
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Corousion ente la vecia Roma

Messaggioda Berto » mar gen 21, 2014 10:55 pm

Luciano Perelli
LA CORRUZIONE POLITICA NELL'ANTICA ROMA. Tangenti malversazioni malcostume illeciti raccomandazioni
Milano, Rizzoli, 1994
pp. 323

http://www.gatc.it/biblioteca/letture/p ... caroma.htm

Immagine
http://img341.imageshack.us/img341/8049/9uga.jpg

Quest'opera è dedicata alla corruzione politica nella Roma repubblicana, un'epoca lontana ma travagliata da problemi etici della vita pubblica straordinariamente attuali. Una interpretazione diffusa della storia di Roma antica presenta l'epoca repubblicana come un periodo felice dal punto di vista della morale pubblica, popolato da uomini che agivano ispirati da nobili ideali nell'interesse di Roma, mentre all'impero sono attribuiti scadimento morale e corruzione. La realtà fu ben diversa.

Ciascun capitolo affronta un particolare aspetto della corruzione politica dell'antica Roma, corredando la trattazione di una scelta molto ampia di brani tratti da testi classici. Sono gli stessi autori che si studiano nelle scuole, curiosamente evitando quelle parti che trattano questioni tanto scabrose. Scorriamo brevemente i temi trattati nel volume.

La clientela era una associazione che legava un gruppo di persone di rango inferiore a un nobile, il patrono. In cambio di tutela e di assistenza giuridica, i clienti dovevano mostrare devozione al loro patrono, rendendogli numerosi servigi. Tra patrono e cliente esisteva un legame così forte che erano esentati dal testimoniare l'uno contro l'altro. L'esibizione di numerosi clienti da parte del patrono costituiva una fonte di prestigio e di potere di primaria importanza. Queste caratteristiche, secondo l'autore, fanno della clientela l'antecedente delle organizzazioni mafiose moderne.

I brogli elettorali. Il campionario dei metodi per alterare il risultato elettorale era molto vario: elargizioni di denaro e di favori agli elettori, pressioni e intimidazioni al momento del voto, faziosità e corruzione dei magistrati incaricati dello spoglio dei voti e della proclamazione del vincitore. Questo campionario di irregolarità era però continuamente contrastato da iniziative volte a garantire il regolare svolgimento delle elezioni.

La corruzione e le malversazioni dei funzionari dello stato affliggevano coloro che erano sottomessi alla loro autorità. Nonostante il generoso appannaggio ricevuto, i governatori delle provincie e gli alti gradi dell'amministrazione periferica spesso approfittavano con le irregolarità più diverse della propria posizione ai danni delle popolazioni soggette a Roma. Verre, il rapace governatore della Sicilia dei tempi di Cicerone, costituiva un caso tutt'altro che isolato. Ma la corruzione riguardava anche i gradini inferiori dell'amministrazione statale; gli storici classici si occuparono poco di questi episodi, troppo umili per meritare la loro attenzione. Più frequentemente sono citate le frodi dei publicani, titolari di lucrosi appalti statali. Un esempio è quello di Marco Postumio di Pyrgi, titolare di contratti di fornitura per l'esercito, il quale faceva affondare di proposito vecchie navi, dopo averle caricate di merci di poco valore, per richiedere allo stato l'indennizzo di un valore molto superiore.

L'amministrazione della giustizia è un altro settore della vita pubblica romana toccato da ampia corruzione. Il diritto romano classico, sul quale si sono formate generazioni di giuristi fino ai tempi nostri, è una elaborazione tardo-imperiale. Nei tempi più antichi la giustizia era amministrata da privati. Nell'epoca repubblicana il pretore, il magistrato pubblico incaricato dell'amministrazione giudiziaria, affidava i giudizi a un giudice scelto dalle parti o da egli stesso designato. L'assenza di un codice e di un corpo indipendente di magistrati specializzati rendeva il giudizio un evento in buona parte dipendente dalle pressioni, se non proprio azioni di vera e propria corruzione, che le parti in casua potevano esercitare sul giudice. L'autore presenta al lettore numerosi esempi di come i processi fossero spesso volti a favore di un personaggio ricco e potente. I processi erano pubblici, cosa che temperava gli eccessi della corruzione dei giudici e che faceva emergere l'attività di giudici integri e imparziali come termine di confronto per l'attività di tutti gli altri.

Non poteva mancare l'argomento delle raccomandazioni, un flagello che già allora minava l'efficienza dell'amministrazione pubblica. Agli inizi della sua storia Roma era dotata di un apparato statale molto snello, ma con l'allargarsi del dominio di Roma anche l'amministrazione statale divenne più estesa, con ciò moltiplicando i posti nelle carriere statali. La caccia al posto era l'attività principale dei rampolli dell'aristocrazia senatoriale e dei giovani rampanti delle classi emergenti. Per ottenerlo era necessario godere di influenti raccomandazioni, nelle quali non è possibile trovare traccia delle qualità specifiche che il candidato poteva vantare per occupare degnamente la posizione cui aspirava, ma solo l'esaltazione di generiche virtù e soprattutto della fedeltà del raccomandato.

La corruzione politica è un fenomeno che suscita reazioni contrastanti, di riprovazione e di condanna morale, talvolta di accettazione più o meno rassegnata. Può accadere che le ragioni e i sentimenti sui quali si fondano queste reazioni convivano in noi, formando un cocktail dal difficile equilibrio e dal sapore cangiante, raramente gradevole. La curiosità di saperne di più, di conoscere fatti e particolari, è però sempre forte.

Sicuramente l'opera appaga questa curiosità per quanto riguarda la storia di Roma antica. E' anche possibile che qualcuno trovi nella lettura dei poco edificanti episodi descritti dai classici l'amara consolazione che i tempi moderni non sono peggiori di quelli antichi in quanto a corruzione. Il lettore può trovare, però, la spinta per una riflessione più profonda sulla natura pervasiva della corruzione sui modi per combatterla e contenerne gli effetti deleteri. L'analisi storica può servire a sfrondare il problema della corruzione dalla retorica inutile e concentrare l'attenzione sui rimedi, in diversi casi indicati con sorprendente lucidità dai classici stessi. Giampiero Marcello

La corruzione politica e la connessione tra politica e denaro non è un fenomeno solo dei nostri giorni ma è sempre esistito nel corso dei millenni, in varie forme e con varia gravità. Nell'antica Roma, anche prima di arrivare al Basso Impero, diventato proverbiale come regno della corruzione, il fenomeno ebbe dimensioni almeno dieci volte superiore a quelle dei nostri tempi. Il volume documenta con grande copia di testimonianze di autori latini e greci i vari aspetti della corruzione politica durante la Repubblica e i primi due secoli dell'Impero: corruzione legata alle strutture clientelari della società, all'esistenza di potentati personali al di fuori e al di sopra del potere legale, all'importanza e al prestigio della ricchezza come strumento indispensabile di dominio politico. Il volume tratta di associazioni paramafiose (clientela e amicizia), corruzione elettorale e brogli, concussione e peculato, bustarelle, appalti e tangenti, vendita di posti e di cariche, corruzione dei giudici, potere delle raccomandazioni. Il lettore rimarrà impressionato dalle coincidenze col presente, spesso rilevate e sottolineate dal curatore.

LUCIANO PERELLI è stato docente di letteratura latina e di storia romana all'Università di Torino.
E' autore di numerosi saggi e articoli, e collabora a riviste specializzate.
Tra le sue pubblicazioni principali ricordiamo:
-Lucrezio poeta dell'angoscia (Firenze 1969), Il teatro rivoluzionario di Terenzio (Firenze 1973),
-Il movimento popolare nell'ultimo secolo della Repubblica (Torino 1982),
-Il pensiero politico di Cicerone (Firenze 1990), I Gracchi (Roma 1993),
-Storia del mondo antico (Torino 1989), S
-toria della letteratura latina (Torino 19942).



SOMMARIO

Introduzione 5

Avvertenza 20

CAPITOLO I
Le associazioni paramafiose: clientela e amicizia. I potentati personali 21

CAPITOLO II
Corruzione elettorale e brogli 71

CAPITOLO III
Concussione e peculato 131

CAPITOLO IV
Politica e affari: bustarelle, appalti e tangenti 195

CAPITOLO V
La corruzione della giustizia 245

CAPITOLO VI
Le raccomandazioni 281
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Corousion ente ła vecia Roma

Messaggioda Berto » sab ago 29, 2015 8:22 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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