Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » mar mar 07, 2017 9:15 am

Diritto africano


IL DIRITTO IN AFRICA | IL BIANCO E IL ROSSO
Emanuele Porcelluzzi

http://ilbiancoeilrosso.it/2010/01/21/i ... -in-africa

Il diritto è un’entità legata ai contesti, in cui si trova ad operare e viene elaborato, e, quindi, discorrendo di un continente (quello africano) saranno probabili significative variazioni storiche e geografiche. La storia dell’Africa è, in fondo, una storia globale perchè è da sempre un mercato aperto, che accomuna, tra l’altro, vari sistemi statuali nazionali ove si verificano tendenze comuni, figlie della storia globale. Perciò risulta legittimo parlare di diritto africano nella misura in cui lo è parlare di diritto europeo. Coltivando il diritto africano, si sono messe a fuoco metodologie di indagine poi utilizzate nello studio del diritto in generale. È proprio, in Africa, che l’antropologia giuridica è maturata, affinando la sua esperienza di ricerca. Si sono così sviluppate sensibilità dettate dal bisogno di indagare realtà giuridiche, che non si servono della scrittura, nel quadro di un rapporto di potere tra l’antropologo e l’informatore debole e compiacente. Nel diritto africano si è sviluppato il concetto di pluralismo giuridico perchè lo stato africano è, in gran parte, un’invenzione del colonialismo, è, da sempre, relativamente debole e non riesce ad imporre il diritto di sua produzione, soprattutto al di fuori delle città. Sopravvivono, indi, una miriade di ordini giuridici pre-statuali, fondati sul principio di territorialità, come accade nel diritto consuetudinario, valido all’interno di un villaggio o di personalità ossia di diritto applicato ad un soggetto in virtù del suo status. Ne consegue una realtà complessa, costituita da rapporti conflittuali o sussidiari e appellata pluralismo giuridico, utilizzata come modello per comprendere il diritto globalizzato. Il pluralismo africano è il prodotto di una stratificazione di tipo archeologico, tanto è vero che da un’analisi di un ordinamento giuridico tipico dell’Africa sub-sahariana risultano presenti i seguenti strati archeologici: un diritto consuetudinario tradizionale non scritto, tramandato tramite pratiche politiche e culturali, adattato a contesti di sopravvivenza difficili e, quindi, fondato sulla solidarietà del gruppo sia esso nomade o stanziale. Uno strato di diritto musulmano, incardinato sul principio di personalità, applicato ai soli musulmani. Uno strato di diritto coloniale, struttura violenta di spogliazione, che, oltre a codificare la discriminazione razziale ed inventare nuove identità etniche, pretende un monopolio territoriale.Il diritto coloniale, sia di matrice francese o inglese, esclude i nativi dalla proprietà privata e lotta contro quella del villaggio, rafforza strutture giuridiche statuali, creando uno stato proprietario protagonista dell’economia di estrazione mercè lo strumento della concessione amministrativa. Le citate strutture giuridiche fortemente stataliste e centralizzate, ostili nei confronti degli strati giuridici pre-esistenti, ritenuti arretrati e feudali, vengono ereditate dai nuovi stati indipendenti che, quasi vittime di una sindrome di Stoccolma, rafforzano i legami giuridici con la madrepatria coloniale che, dopo averli depredati, li strangola oggi con lo strumento del debito. Le spinte innovatrici accentuano tanto la polemica con il diritto tradizionale che la centralizzazione del potere senza coglierne l’incompatibilità profonda con i valori di società, fondate su solidarietà di gruppo. Infatti, la struttura giuridica della società africana risiede nella piena autonomia del gruppo familiare o etnico e nel conseguente principio di unanimità nella decisione politica, riguardante una molteplicità di gruppi. Di quì l’incompatibilità fra questa sensibilità giuridico-politica africana e la struttura statuale imposta dal colonizzatore, che pretende la centralizzazione della sovranità senza l’accordo del gruppo. Al diffondersi dell’ideologia del libero mercato, spinta da organismi globali dal potere irresistibile, si contrappone la struttura solidaristica del gruppo che è ancora il nemico più temibile di ogni schema di sfruttamento, tant’è che ogni strategia ideologica è buona per delegittimarla. La donna deve essere dunque liberata dalla cosiddetta schiavitù domestica, uguale all’uomo, e come lui lavorare e consumare sul mercato ed, eventualmente, non essere consumata sul mercato europeo del mestiere più antico del mondo. Poi, il fiorente mercato delle telecomunicazioni deve vendere immagini idealizzate dell’Occidente, producendo così mano d’opera di riserva e flussi migranti disperati, assai utili nella costruzione del mercato metropolitano della paura e della sicurezza. L’Africa è sempre al centro del mercato globale e i cinesi sono più graditi perchè almeno non usano l’ipocrisia dei diritti umani per legittimare la loro penetrazione nel continente africano.



Evoluzione del diritto consuetudinario in Africa e sistema dualistico di giustizia
Articolo, 15/09/2004

http://www.altalex.com/documents/news/2 ... -giustizia

Una nota di Danilo Desiderio

Evoluzione del diritto consuetudinario in Africa e sistema dualistico di giustizia

Danilo Desiderio
(Avvocato in Avellino)

Sembrerebbe a prima vista del tutto improprio parlare di un “diritto africano”, date le dimensioni del continente africano e considerato il fatto che in esso coesistono culture, etnie1, razze, lingue e religioni talmente differenti da far impallidire il più timido tentativo di adozione di un approccio comune nei confronti degli Stati che lo compongono. Nonostante infatti operino oggi in Africa numerose organizzazioni a carattere sovranazionale come l’OHADA (Organisation pour l’Harmonisation du Droit en Afrique), che si pongono per obiettivo l’armonizzazione del diritto fra gli stati membri (soprattutto del cd. “diritto d’affari”, allo scopo di offrire agli investitori esteri un quadro giuridico sostanzialmente omogeneo fra i vari Stati) è innegabile che esistano delle profonde differenze tra i sistemi giuridici dei vari Paesi africani. Se però ci riportiamo al periodo anteriore alle colonizzazioni, possiamo tuttavia individuare una matrice comune a tali diritti, costituita dalle antiche pratiche consuetudinarie, ossia da insiemi autonomi di regole a carattere obbligatorio per i loro destinatari, sviluppatesi presso ogni gruppo etnico e da questi posti a fondamento del proprio diritto tribale.

Il diritto consuetudinario infatti, tipico delle culture giuridiche più remote2, costituisce la fonte principale del diritto in Africa. Come tale si contrappone al diritto scritto, che a sua volta è espressione di poteri autoritativi i quali si avvalgono per la sua produzione di una procedura formale e legislativamente fissata.

Fin dalle epoche più remote, il diritto consuetudinario, tramandatosi oralmente ed arricchitosi per effetto di un processo di stratificazione degli usi e delle pratiche vigenti nell'ambito delle varie comunità tribali che si sono avvicendate, ha costituito la componente principale del diritto africano. Questo carattere di prevalenza è venuto a cessare nel XIX secolo quando, per effetto delle colonizzazioni, i singoli Stati africani hanno subito un processo di “acculturazione”, dovuto al contatto con altri sistemi e tradizioni giuridiche tipici degli Stati colonizzatori. Il diritto consuetudinario ha saputo però sorprendentemente resistere a tali cambiamenti, adattandosi ad essi, senza però amalgamarsi con il diritto “moderno” dal quale ancora oggi rimane visibilmente distinto.

L'imposizione del regime coloniale ha infatti determinato la nascita nelle società africane di un sistema “duale”, composto da un lato da un diritto di tipo occidentale, applicato da tribunali presieduti da giudici stranieri, la cui giurisdizione si estendeva su ogni persona sia per le questioni penali che civili, dall’altro lato da un diritto di natura consuetudinaria, applicato da tribunali composti dai capi tradizionali o da collegi di saggi che raccoglievano i componenti più anziani della tribù, del villaggio, o delle comunità in genere, i quali giudicavano su tutte le altre questioni. Quest’ultimo tipo di giustizia poggiava su principi diametralmente opposti a quelli della giustizia coloniale, svolgendo un ruolo di natura conciliativa, piuttosto che giurisdizionale, poiché il giudice consuetudinario, anzichè applicare la legge, cercava di guidare le parti verso il raggiungimento di un compromesso in cui, più che dare ragione ad una di esse e torto ad un’altra, si mirava a ricercare una soluzione idonea a preservare gli equilibri sociali. Accade così che in molti Paesi africani, ad un sistema ufficiale di risoluzione delle controversie, gestito da organi giudiziari statali, si sovrapponga un sistema non-giurisdizionale di risoluzione “amichevole” delle stesse, diffuso soprattutto in certi ambiti rurali. E’ il caso ad esempio del Senegal, uno dei Paesi africani che vanta un sistema giudiziario tra i più collaudati e stabili, in cui accanto ai Tribunali Dipartimentali, i Tribunali Regionali, le Corti d’appello e la Corte di Cassazione, esiste anche un sistema consuetudinario di risoluzione dei conflitti diffuso in relazione a certi tipi di controversie, come ad esempio nel settore della proprietà fondiaria: in tutto il Paese infatti sono diffusi, soprattutto nelle comunità rurali, degli appositi Consigli rurali che svolgono una funzione che è riconducibile grosso modo all’arbitrato3.

Il ruolo svolto da questi giudici consuetudinari nell’ambito delle società africane non è stato intaccato né dall’arrivo dei giudici occidentali all’epoca coloniale, né dall’istituzione delle giurisdizioni moderne dopo il raggiungimento dell’indipendenza da parte dei vari Paesi africani.

Tali tribunali infatti, benché non riconosciuti ufficialmente, furono inizialmente tollerati dalle amministrazioni coloniali, che lasciarono che essi esercitassero la propria giurisdizione, ma esclusivamente sugli africani e, limitatamente all’applicazione del solo diritto consuetudinario in vigore nella zona di rispettiva competenza. Oggi essi continuano ad esistere nella stragrande maggioranza dei Paesi africani, e con essi, la strutturazione di tipo dualistico della giustizia africana. Anzi, a conferma di quanto sia sentito questo tipo di giustizia, si può citare un antico detto, diffuso ancora oggi in tutta l’Africa francofona, secondo cui “Un bon arrangement vaut mieux qu’un mauvais procès” (un buon accomodamento vale più di un cattivo processo).

Ma a fronte di questo profondo radicamento della giustizia consuetudinaria, la giustizia “ufficiale” africana viceversa, sembra essere caduta oggi in una profonda crisi: i sistemi giudiziari dei vari Paesi africani, organizzati secondo forme, regole e procedure identiche a quelle utilizzate nei Paesi occidentali, scontano una generale mancanza di credibilità e di fiducia da parte dei cittadini, aggravata dalla scarsa trasparenza della loro attività e dall’analfabetismo in cui versa buona parte della popolazione. Si aggiungano poi a ciò la parzialità, la corruzione, la negligenza e spesso anche l’incompetenza dei giudici, nonchè la loro forte politicizzazione4.

Venendo ad analizzare le caratteristiche del diritto consuetudinario africano, possiamo constatare che uno dei suoi caratteri più sorprendenti, come di tutti i sistemi di diritto non scritto, è rappresentato dalla flessibilità: nel corso della storia esso ha sempre obbedito a ragioni di opportunità, ed ha sempre saputo dare prova di notevole capacità di adattamento a fatti nuovi ed a circostanze differenti, piuttosto che a cambiamenti dell’ambiente economico, giuridico, politico e sociale. Esso ha saputo addirittura adattarsi all’introduzione dei sistemi giuridici stranieri (come quelli europei), sovrapponendosi ad essi e dando vita a fenomeni di pluralismo giuridico, caratterizzato dalla sussistenza di fonti assai diverse fra loro che in un certo modo hanno saputo mantenersi distinti. E’ il caso della Mauritania, dove coesistono ben quattro sistemi giuridici: il diritto islamico, il diritto consuetudinario africano, il diritto arabo-beduino e consuetudinario berbero e il diritto civile moderno5. Si può citare come esempio anche il Cameroun, paese che ha subito sia la colonizzazione francese che tedesca (sebbene siano rimaste poche tracce del colonizzatore tedesco all’interno del sistema giuridico camerunese), dove accanto ad un diritto di origine occidentale, che costituisce il diritto moderno, sussistono le giurisdizioni di diritto tradizionale, fortemente radicate e basate su usi e tradizioni ancestrali.

La flessibilità del diritto consuetudinario è ben visibile nell’evoluzione subita dalle regole sulla proprietà fondiaria, che ammettono oggi la possibilità di possedere individualmente delle terre, a differenza delle epoche anteriori in cui la terra apparteneva alla famiglia od al gruppo ed il privato cittadino non poteva possederla in proprio, né tantomeno venderla.

Un’altra caratteristica fondamentale del diritto consuetudinario africano è rappresentata dalla sua particolare dinamicità: esso è infatti un sistema le cui regole evolvono in maniera particolarmente rapida con il tempo, per tenere conto delle modificazioni delle condizioni sociali ed economiche.

Prima delle colonizzazioni, quando ancora non esistevano delle raccolte scritte di leggi, la maggior parte dei gruppi etnici aveva sviluppato un proprio diritto di natura consuetudinaria, ricomprendente gli usi autoctoni delle comunità tradizionali, alla cui violazione venivano collegate delle sanzioni locali. Solo pochi Stati prevedevano la possibilità che un’autorità (il sovrano) emettesse degli atti con valore di legge.6

Oggi questo enorme patrimonio, in gran parte disperso (vista la tradizione della maggior parte dei popoli africani a tramandarlo esclusivamente per via orale), è oggetto di un intenso lavoro di ricostruzione e ricerca da parte di molti Stati, i quali si sforzano ora di recuperarlo e di raccoglierlo per iscritto7.

Ma non bisogna pensare che i diritti consuetudinari siano uniformi in tutti i gruppi etnici. Anche all’interno di uno stesso gruppo etnico possono esistere delle differenze, legate a fattori diversi quali la lingua, la prossimità, l’origine, la storia, la struttura sociale ed il sistema economico locale. Accade infatti talvolta che il sistema di diritto consuetudinario in una certa città sia diverso da quello di una città vicina, anche se i due gruppi appartengono alla stessa etnia e parlano perfino la stessa lingua. E’ il caso ad esempio del gruppo di lingua kusasi, in Ghana, dove è possibile distinguere gruppi etnici come gli Agolle ed i Toende, ciascuno dei quali ha un proprio sistema di diritto consuetudinario. In generale però, le regole del diritto consuetudinario dei gruppi etnici che parlano la stessa lingua tendono ad essere abbastanza similari, anche se in alcuni casi sono state rilevate delle differenze abbastanza sensibili, le quali mostrano come sia errato parlare di un diritto consuetudinario uniforme applicabile a tutti i membri di uno stesso gruppo linguistico.

Per comprendere perché le norme del diritto consuetudinario hanno carattere vincolante per i loro destinatari è necessario indagare più da vicino la natura e la portata della struttura sociale e politica nelle società tribali. L'organizzazione sociale delle società tradizionali si basa infatti su una rete assai articolata di gruppi di relazione, la cui cellula di base è costituita dalla famiglia, che intesa in maniera estesa, al punto da ricomprende l’intera stirpe, viene a costituire un gruppo sociale più vasto chiamato “clan”. Un sistema di legami tra clan costituisce a sua volta la tribù, che raccoglie persone che appartengono a varie stirpi, ma che parlano la stessa lingua e che hanno le stesse tradizioni. In ogni gruppo esiste un capo, scelto a causa della sua grande età, che è responsabile dinanzi al capo del gruppo di livello immediatamente superiore. Così, il capo stesso di una famiglia nucleare, che comprende due genitori ed i loro bambini, è responsabile dinanzi al capo della stirpe, che è responsabile dinanzi al capo del clan, responsabile a sua volta dinanzi al capo della tribù. Il capo controlla il terreno agricolo e gli altri beni del gruppo, arbitra le vertenze ed impone sanzioni per controllare il comportamento dei membri del gruppo. A tale riguardo, i poteri dei capi e dei vecchi della stirpe possono essere estremamente estesi. Inoltre, i capi esercitano anche un'autorità morale e rituale, basata sulla credenza di una loro associazione di tipo mistico con gli antenati della tribù. Le relazioni di gruppo determinano la nascita di una serie di diritti e di obblighi ben definiti a carico dei membri del gruppo. I diritti ed obblighi di parentela sono assai specifici quando l'individuo entra in contatto con dei membri della sua stirpe, ma diventano più generali man mano che il grado di relazione si allarga. Il rispetto di tutte le norme tradizionali è infine garantito grazie ad un sistema di sanzioni che possono variare secondo il grado di parentela. Il tipo di sanzione può andare dalla censura all’ammenda, all'ostracismo od anche all'esclusione8.

________________________

1 Basti pensare che la sola Nigeria, lo Stato africano più popoloso, conta più di 250 gruppi etnici, tra cui i maggiori sono costituiti dagli hausa, dai fulani, dagli yoruba, gli ibo, gli edo, gli ijaw e gli ibibio, i nupe, i tiv ed i kanuri. Nello Stato si parlano poi oltre 60 lingue. Per fare un altro esempio, si può citare il caso dell’Etiopia, nel Corno d’Africa, la cui popolazione, di circa 63 milioni di abitanti, è suddivisa in ben 70 etnie che parlano oltre 200, tra lingue e dialetti vari, tra cui l'amharico (lingua ufficiale), il galla (parlato dagli Oromo, che rappresentano il 40% della popolazione), che costituiscono le lingue principali.

2 Henry Sumner Maine, nella seconda metà dell’800, nel descrivere il diritto delle società cosiddette primitive (tra cui annoverava in particolare la società indiana), osservava, in “Village Communities in the East and West”, che in India “ciascun individuo appare schiavo delle consuetudini del gruppo a cui appartiene”.

3 A.B. Fall, “Le juge, le justiciable et les pouvoirs publics: pour une appréciation concrète de la place du juge dans les systèmes politiques en Afrique“, in Revue électronique Afrilex, n° 03/2003

4 Il giudice africano sembra non manifestare, riguardo il potere politico, alcuna indipendenza reale che ne garantisca l’imparzialità (A.B. Fall, ult. cit.).

5 F.A.O., Fiche documentaire: Mauritanie – « Les femmes, l'agriculture et le développement rural »

6 E’ il caso del Rwanda, dove al re (Mwami) era consentito di emanare dei decreti (iteka). (per un approfondimento si rimanda a A. Keità, L. Pes – Università del Piemonte Orientale, Alessandria 2004, “Antropologia giuridica, diritto comparato e diritti africani”, su http://www.jp.unipmn.it/didattica/dispe ... stemig.doc)

7 Quello dell’oralità è sicuramente uno degli aspetti più affascinanti, ma al tempo stesso più problematico della cultura africana: non esistendo la scrittura, importata tramite le colonizzazioni, storicamente (ed ancora oggi) la cultura si è tramandata prevalentemente per via orale. La fine dell’esperienza coloniale nel continente africano ha come conseguenza evidente la creazione di un gran numero di Stati, i quali, per la maggior parte, trovandosi per la prima volta di fronte a un’esperienza organizzativa di tipo statuale (e non solo più tribale) hanno provveduto a dotarsi di Costituzioni e leggi scritte. La caratteristica dell'oralità, espone tuttavia gli africani un serissimo problema di perdita delle proprie conoscenze e della propria identità. Uno dei sistemi adottati in tutta l'Africa subsahariana per tramandare tale cultura è la "griotterie", incentrata sulla figura del “griot”, una sorta di cantastorie, vera e propria biblioteca vivente che ha il compito di tramandare di generazione in generazione quello che potremmo definire il sapere in senso lato, fungendo così da custode della cultura del suo popolo.

8 P. Kuruk, “Le droit coutumier africain et la protection du folklore”, in UNESCO - Bulletin du droit d’auteur, Vol XXXVI, n.2, 2002



???
Il manifesto 12 gennaio 2010
Codici Africani
Un saccheggio in nome della legge
Ugo Mattei
http://www.inventati.org/apm/penale/mat ... 100112.pdf

Diritto consuetudinario, islamico, anglosassone e «socialista». Sono questi i livelli che hanno
caratterizzato i sistemi giuridici africani nel corso della storia. Un milieu andato in pezzi con la
caduta del Muro e sostituito da un'ideologia che in nome del libero mercato ha legittimato le
politiche neocoloniali nel continente.
...


Diritto africano- i principali istituti giuridici, Schemi riassuntivi di undefined. Università di Perugia
Università di Perugia
Scienze politiche
https://www.docsity.com/it/diritto-afri ... ici/334533
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » mar mar 07, 2017 7:50 pm

Diritto aborigeni australiani



Il diritto aborigeno e l'Australia
di Barbara Faedda
http://www.diritto.it/articoli/antropol ... edda6.html


Nella cultura degli aborigeni australiani le Vie dei Canti rappresentano una inestricabile e complicatissima toponomastica musicale
Maurizio Torretti
http://www.lifegate.it/persone/stile-di ... _del_sogno

In tutti i miti della creazione che ritroviamo nelle religioni dei popoli antichi e primitivi, nell’istante in cui una divinità manifesta la volontà di dare vita a se stesso o a un altro dio, di creare la terra, il cielo, l’uomo e gli altri esseri viventi, emette un suono, parla, grida, espira, sospira, tossisce, suona uno strumento musicale. singhiozza, canta. La fonte che emana la forza creatrice è sempre una fonte acustica. Presso gli aborigeni australiani esiste una dimensione temporale sospesa tra il presente e l’ “Alcheringa” o “Tempo del Sogno”, il tempo mitico della creazione durante il quale si è svolta la storia del mondo e ogni cosa è stata espressa dagli antenati per mezzo del canto, attraverso i gesti e la parola.

Il culto magico di questa natura procura agli individui un centro spirituale sito al di fuori di loro stessi, un centro che riunisce ogni singolo uomo in un unico, grande collettivo spirituale, legandolo indissolubilmente all’ambiente in cui vive. Se viene a mancare la ritualizzazione degli antichi eventi mitologici è
inevitabile il sopraggiungere di un decadimento completo, di un grande disorientamento spirituale che si manifesta in modo immediato in tutti gli aspetti della vita individuale e comunitaria. E’ per questo motivo che gli aborigeni nel ricalcare le tjurna djugurba (le orme degli esseri mitici) cioè le antiche Vie dei Canti, visibili soltanto ai loro occhi, ripetono le parole e i suoni degli antenati che, nei lunghissimi e interminabili viaggi attraverso un continente vuoto e privo di vita, facevano esistere il mondo cantandolo. Ogni roccia, ogni
sorgente, un punto d’acqua, una macchia d’eucalipti, rappresenta una traccia concreta di un dramma sacro.

In pratica il continente australiano si può leggere come una partitura musicale. Ancora oggi ogni neonato eredita una sezione di canto per diritto di nascita. Le sue strofe sono proprietà privata inalienabile e delimitano il suo territorio. Una volta adulto e”iniziato” alla rivelazione della creazione gli viene svelata una geografia mitica per apprendere i luoghi in cui gli esseri soprannaturali hanno celebrato riti, danzato o fatto cose
importanti. Egli ha anche il diritto di prestare le sue strofe lungo una pista del canto e acquistare il diritto di passaggio dai suoi vicini, ricevendone aiuto e ospitalità. L’uomo che va in walkabout (viaggio rituale) canta le strofe del suo antenato senza cambiare né una parola né una nota, così facendo ricrea il Creato.

https://it.wikipedia.org/wiki/Le_vie_dei_canti
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » mer mar 08, 2017 9:47 am

Diritto indigeni americani
...

Nativi americani
https://it.wikipedia.org/wiki/Nativi_americani

Aztechi
https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_azteca
La società azteca precolombiana fu una società complessa e altamente stratificata che si sviluppò tra gli Aztechi del Messico centrale nei secoli che precedettero la conquista spagnola. Si basava sulle fondamenta culturali di buona parte della Mesoamerica. Dal punto di vista politico la società si basava su Città-Stato indipendenti chiamate "Altepetl", composte di piccole divisioni chiamate Calpulli, a loro volta divise in uno o più gruppi familiari. Dal punto di vista sociale dipendeva da una divisione relativamente rigida tra nobili e cittadini liberi, entrambi divisi in gerarchie elaborate di stati sociali, responsabilità e potere. Economicamente la società dipendeva dall'agricoltura, e da un accentuato spirito guerriero; altri importanti fattori economici erano il commercio, sia locale che su lunghe distanze, ed un alto grado di specializzazione dei mercati. Anche lo svago era importante. sappiamo che gli aztechi erano una delle società meno evolute dal punto di vista "tecnologico".

Inca
https://it.wikipedia.org/wiki/Inca
Gli Inca furono gli artefici di una delle maggiori civiltà precolombiane che si sviluppò nell'altopiano andino, tra il XIII e il XVI secolo, giungendo a costituirvi un vasto impero.
Il termine Inca è perlopiù usato come sostantivo, generalmente al plurale (gli Inca), ma viene utilizzato anche come aggettivo per qualificare manifestazioni varie di questo popolo (ad esempio si utilizzano espressioni quali architettura inca, religione inca, scrittura inca). Il complesso delle attività culturali e formative della collettività in esame viene comunemente indicato come civiltà inca, ma non è raro l'utilizzo del termine gli Inca per riferirsi, in senso lato, alla loro cultura.

Maya
https://it.wikipedia.org/wiki/Maya
Gli antichi maya furono una popolazione insediatasi in Mesoamerica dove hanno sviluppato una civiltà nota per l'arte, per l'architettura, per i raffinati sistemi matematici e astronomici, e per la scrittura, l'unico sistema noto di scrittura pienamente sviluppato nelle Americhe precolombiane. La civiltà maya si sviluppò in una zona che comprende l'odierno sudest messicano, il Guatemala e il Belize, oltre a porzioni occidentali dell'Honduras e di El Salvador. Questa regione è costituita dalle pianure del nord, che comprendono la penisola dello Yucatán, dagli altopiani della Sierra Madre, che si estendono dallo stato messicano del Chiapas verso tutto il sud del Guatemala e poi in El Salvador, e dalle pianure meridionali del litorale del Pacifico.

Durante il periodo preclassico, questa civiltà costituì le prime comunità stanziali e adottò la coltivazione degli alimenti che diventarono base della loro alimentazione, tra cui mais, fagioli, zucche e peperoncino. Le prime città maya si svilupparono tra il 750 a.C. e il 500 a.C. ed esse vantavano monumentali architetture, come i grandi templi impreziositi da elaborate facciate in stucco. La scrittura geroglifica fu utilizzata a partire dal III secolo a.C. Nel tardo periodo preclassico, un certo numero di grandi città crebbero nel Bacino di Petén e Kaminaljuyu diventò un centro molto importante negli altopiani del Guatemala. Con l'avvento delle costruzioni dei monumenti scolpiti con le date del lungo computo, avvenuto intorno al 250 d.C., si fa coincidere l'inizio del periodo classico.


https://it.wikipedia.org/wiki/Sacrifici ... ura_azteca

http://www.treccani.it/enciclopedia/la- ... la-Scienza)
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » mer mar 08, 2017 9:48 am

Remissione dei debiti o giubileo e liberazione dalla schiavitù, un istituto antichissimo attestato già in epoca sumera


Giubileo
https://it.wikipedia.org/wiki/Giubileo_ebraico
Nell'ebraismo, il giubileo (in ebraico: יובל‎?, yovel) trova le sue radici nella Bibbia ebraica (Tanakh) ed è l'anno al termine dei sette cicli di Shemittah (anni sabbatici); secondo le normative bibliche aveva un impatto speciale sulla proprietà terriera e la relativa gestione in Terra di Israele: la Legge di Mosè (Torah) aveva fissato per il popolo ebraico un anno particolare, al termine di "sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni" (Levitico 25:8). Esiste comunque un dibattito se fosse il 49º anno (ultimo anno dei sette cicli sabbatici, citati come il Shabbat del Shabbat), o se fosse l'anno successivo (50º). Il giubileo ebraico tratta in gran parte di terra, proprietà, e diritti terrieri.
Secondo Levitico, la celebrazione di quest'anno comportava, tra l'altro, la restituzione delle terre agli antichi proprietari, la remissione dei debiti, la liberazione di schiavi e prigionieri, il riposo della terra, e la misericordia divina particolarmente manifesta.
...
???
Il Septuaginta traduce la parola ebraica yovel con "una squillo della tromba di libertà" (ἀφέσεως σημασία, afeseos semasia), e la Vulgata con il latino iobeleus. Tradizionalmente, si pensava che il termine italiano giubileo derivasse dal lemma ebraico yobel (attraverso il latino jubilaeus), che a sua volta deriva da yobhel, che significa montone; l'anno di giubileo era annunciato dal suono dello shofar (in ebraico: שופר‎?), un piccolo corno di montone utilizzato come strumento musicale, durante la ricorrenza di Yom Kippur.

Un'etimologia alternativa nota che il verbo latino iūbilō, "gridare di gioia", precede il Vulgata, e sostiene invece che il latino jubilo (che significa gridare), come anche l'irlandese medio ilach (grido di vittoria), ed il greco antico iuzo (ἰύζω: gridare), derivino dalla radice protoindoeuropea *yu- (gridare di gioia). In tal caso il termine ebraico di "giubileo" proverrebbe dalle vicine lingue indoeuropee, piuttosto che da un'altra parola ebraica.


https://it.wikipedia.org/wiki/Giubileo_ ... _cattolica
Nella Chiesa cattolica il Giubileo è l'anno della remissione dei peccati, della riconciliazione, della conversione e della penitenza sacramentale.
Riprende il nome dal Giubileo ebraico, più precisamente la parola deriva dall'ebraico Jobel (caprone, in riferimento al corno di montone utilizzato nelle cerimonie sacre).


La leggenda del Giubileo

Peter Linebaugh
https://finimondo.org/node/1370

Etimologicamente, giubileo deriva da yobel, parola ebraica che significa «corno del capro».
Fin da subito è stato associato alla musica — un corno, una cornetta, una tromba — e successivamente al canto. Il corno discende dal cornu del pastore; la tromba e la trombetta dalla buccina del soldato romano; questi corni sono strumenti di incontro e di militanza. Nelle Indie occidentali e nelle isole dei Mari del Sud la conchiglia a spirale emette un suono molto esteso. Era usata dai Tritoni dell’antica mitologia, e dagli schiavi haitiani il 21 agosto 1791 come richiamo alla guerra di liberazione nella prima vittoriosa rivolta di schiavi della storia moderna. La prima cosa a proposito del giubileo, quindi, è che si ascolta.
«Il dieci del settimo mese, farai echeggiare un suon di tromba. È il giorno dell’espiazione e in quello farete udir la tromba per tutto il vostro paese. Voi santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete la libertà nel paese per tutti i suoi abitanti». (Levitico 25:9-10)
La seconda cosa da dire è che il giubileo è in uso da lungo tempo. Lo si può trovare spiegato nell’Antico Testamento, soprattutto nel Levitico 25 ma anche altrove. Esso comprende sette idee. Primo, avviene ogni cinquant’anni. Secondo, promette la restituzione della terra («i beni venduti rimangano, fino all’anno del Giubileo, in possesso del compratore; nel giubileo, questi ne esca e l’altro rientri nel suo possesso», 25:28). Terzo, il giubileo esige la cancellazione dei debiti. Quarto, libera gli schiavi e i servitori vincolati («Qualora un tuo fratello si fosse con te indebitato e si fosse venduto a te, non gl’imporre delle fatiche da schiavo», 25:39). Quinto, il giubileo è un anno di maggese («sarà un anno di totale riposo per la terra», 25:5). Sesto, è un anno senza lavoro («non seminerete, e non mieterete quello che è nato da sé e non vendemmierete le viti che non sono state potate: è il giubileo, anno sacro per voi», 25:11-12). Settimo, il giubileo esprime la sovranità divina («la terra è mia e voi siete presso di me soltanto come forestieri e ospiti», 25:23).

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Un parere prevalente è che il giubileo fosse uno stratagemma antiaccumulazione, simile al potlatch o al carnevale, che in realtà ha mantenuto l’accumulazione. Ponendo restrizioni sul debito, la schiavitù e la proprietà fondiaria, il giubileo ha rafforzato un sistema sociale basato sul denaro, il credito e lo sfruttamento. Era il freno che faceva funzionare il motore. Scrivendo su Israel Law Review, Westbrook afferma che il giubileo riassume le leggi di liberazione dei prigionieri e dagli impegni, oltre alla legge del maggese, comuni ai sumeri, ai babilonesi e agli israeliti. Si trattava di una normale valvola di sicurezza legale e agraria dei tempi antichi. Questo riduce la giustizia all’opinione dei giudici. La virtù liberatoria che è l’essenza del giubileo diventa il legalismo prestidigitatorio contro cui metteva in guardia José Miranda, teologo messicano della liberazione, quando analizzava il significato della parola ebraica mispat, che significa giustizia o virtù. Miranda avrebbe compreso la critica dei detenuti americani che dicono «nelle aule di giustizia la sola giustizia è nelle aule». La teofania dell’Antico Testamento deriva solo ed esclusivamente dal vocabolo mispat, a sua volta derivato dal grido dell’oppresso — sa’aq/za’aq — un grido distante dal «giusti noi!» delle cricche dirigenti.

Per esaminare il testo biblico sul Giubileo dobbiamo conoscere qualcosa dell’antica storia ebraica. Tuttavia, prima di immergerci in questo, intoniamo un canto. In Inghilterra il motivo suggerito è «Dio salvi il Re», in America il titolo è «America».
Hark! come il suono della tromba / proclama alla terra attorno / Il Giubileo! / Dite a tutti i poveri oppressi / Non devono più essere vessati / Né i padroni molestare / La loro proprietà (...) Da ora in poi questo Giubileo / Mette tutti in Libertà / Lasciateci essere felici / Visto che ogni uomo è ritornato / al suo possesso / Non più come fannullone da compiangere / dalla tristezza dei padroni!
Si tratta de «L’Inno del Giubileo; ovvero, una canzone da cantare all’inizio del Millennio, se non prima». È stata composta nel 1782 da Thomas Spence, «il non nutrito avvocato del diseredato seme di Adamo». Le sue origini sono oscure. Potrebbe essere stata scritta dal compositore elisabettiano dottor John Bull, oppure potrebbe essere stata in origine un canto tedesco dei bevitori di birra. Diventò l’inno nazionale britannico nel 1745, l’anno della conquista della Scozia giacobita, combinando la paura della sconfitta col fervore della conquista, emozioni espresse anche dal suo ritmo gagliardo.
Il motivo è piaciuto sia in alto che in basso. I soldati francesi, americani, inglesi e tedeschi lo cantavano in battaglia durante la prima guerra mondiale, ognuno con parole differenti naturalmente. Handel lo usò, come pure Beethoven. Anche Weber lo usò nella sua Ouverture of Jubilation (1818), composta per il cinquantesimo anniversario dell’ascesa del re di Sassonia. Non è certo che egli abbia sentito la canzone di Spence. Ritengo che si possano distinguere tre tradizioni del giubileo nella storia moderna: un giubileo aristocratico (in Vaticano c’è una “porta del giubileo”; i monarchi hanno un giubileo tutto per loro se durano almeno cinquant’anni), un giubileo borghese (che considereremo fra breve) e un giubileo proletario (a cui penso che Spence abbia dato vita in tempi recenti).

La storia del giubileo è cominciata nel XIII secolo a.C. quando, si ipotizza, Mosé condusse gli schiavi fuori dall’Egitto. Trecento anni dopo, Salomone e Saul formarono la monarchia d’Israele. Quattrocento anni dopo questo, nel 587, Gerusalemme venne distrutta e gli ebrei furono fatti prigionieri dai babilonesi. Essi ritornarono alla fine del VI secolo che dà inizio al periodo del post-esilio, quando i preti tentarono di riunire ancora i pezzi collezionando, diffondendo e copiando numerose canzoni, leggi, pratiche rituali, tradizioni e memorie orali. La Torah, o “Legge di Mosé” — i primi cinque libri dell’Antico Testamento — furono il risultato.

Essi incorporarono diverse tradizioni d’autore (J, E, D e P). José Miranda distingue due tendenze politiche all’interno di queste tradizioni: la tendenza “esodica”, libertaria, o Kadesh, e la tendenza legale, convenzionale, o sinaitica. La prima si riferisce al periodo rivoluzionario; la seconda si riferisce alla controrivoluzione sociopolitica sotto la monarchia. In quanto parte di P, o del Codice sacerdotale, il Levitico è stato scritto durante l’era post-esiliare, quando Israele si trovava sotto il dominio persiano. Il Levitico sottolinea l’unicità e la vetustà delle regole e dei costumi israelitici, e generalmente cade sotto la tendenza sinaitica. Nel 1877 Klostermann identificò un distinto “Codice di santità” all’interno di P. Esso comincia col capitolo 25, ed è parte della tendenza Kadesh. Il capitolo 25 rappresenta una memoria non del periodo della monarchia ma di quello rivoluzionario precedente. Quindi, il Levitico 25 è lo spostamento condensato in un codice legislativo di una esperienza egualitaria precedente di cinquecento anni. Può essere utile paragonarlo alla Carta dei Diritti, in parte originata dai periodi rivoluzionari, che altrimenti sarebbero stati completamente cancellati dalla Costituzione degli Stati Uniti di padroni, mercanti e schiavisti.
Sotto la monarchia ebbe luogo la differenziazione di classe. Era questo il periodo della denuncia profetica, la collera di Isaia, le lamentazioni di Geremia, il disprezzo di Ezechiele. Durante questo periodo il giubileo era stato espresso come parte di una poetica visionaria di denuncia, quando i profeti cercarono di risvegliare la gente dal loro torpore verso la superbia e l’idolatria dei loro governanti. Le loro denunce vennero scritte nell’VIII secolo, due o tre secoli prima del Levitico, quindi più vicino all’esperienza della liberazione del XIII secolo. Isaia denuncia i padroni e gli affaristi latifondisti che spopolano la terra: «Guai a quelli che aggiungono casa a casa, e uniscono campo a campo, sino ad occupare ogni spazio e diventano i soli proprietari nel centro del paese» (5:8).
Michea s’identifica con i senza terra e riferisce di un’assemblea di distribuzione della terra: «Guai a coloro che meditano cose inique, e preparano il male nei loro letti: lo mettono in esecuzione appena spunta il mattino, perché hanno la forza in mano. Essi bramano i campi e li usurpano, le case, e se le prendono; fanno violenza all’uomo e alla sua casa, al proprietario e al suo possesso» (2:1-2). «Siamo spogliati di tutto! La parte del mio popolo è venduta, e più nessuno la restituisce! Fra i ribelli son divisi i nostri campi! Per questo, tu non avrai nessuno che misuri con la corda le porzioni nell’adunanza del Signore» (2:4-5).
Ma come ha potuto una poetica visionaria diventare un codice legislativo? Venne fatto una specie di accordo di classe, ci fu cioè un risveglio della classe dei preti e dei padroni nei confronti degli spossessati, dei debitori e degli schiavi, la cui cooperazione contro il dominio persiano venne ricercata attraverso l’accettazione della possibilità pratica del giubileo, almeno da parte dei preti e degli scribi che avevano messo assieme la Bibbia.
Com’era il periodo precedente? È importante non considerarlo in termini etici; questo è un contributo indubbio e saliente della dottrina recente.
Il termine “Ebreo” deriva da ‘apiru dalla lingua egizia; è un epiteto peggiorativo che indica un fuorilegge, un insubordinato, un oppositore all’imperialismo egiziano. La gente sopravviveva grazie all’agricoltura pluviale (grano, olio, vino) e ad un’economia pastorale (greggi bovine, pecore e capre). Attrezzi di ferro negli altipiani di Canaan, terrapieni di roccia, intonaci di calce spenta per cisterne d’acqua, sono alcuni dei cambiamenti tecnologici della fine del XIV secolo che disturbarono le strutture sociali e il sistema di spartizione delle terre. La produttività della terra e la conservazione del surplus permisero lo sviluppo indigeno delle classi e la formazione di piccole città-Stato.
Gli studiosi avevano proposto tre modelli per la colonizzazione di Canaan: 1) il modello più antico e familiare dell’invasione, 2) il modello dell’immigrazione e dell’infiltrazione che Alt suggerì nel 1925, 3) il modello della rivolta interna proposto per la prima volta da Mendenhall nel 1962. Scrive Norman Gottwald: «in precedenza Israele era una eclettica formazione di popolazioni canaanite marginali e povere, fra cui contadini “feudalizzati”, ‘apiru mercenari e avventurieri, pastori transumanti, coltivatori organizzati tribalmente e nomadi pastori, e probabilmente anche artigiani ambulanti e preti scontenti». I soliti sospettati, in altre parole. Egli conclude, «una classe in sé, fin qui una congerie di segmenti separati in lotta della popolazione, è diventata una classe per sé» — Israele. La prima letteratura di Israele, quindi, dava voce alla coscienza rivoluzionaria delle sottoclassi canaanite. Invero, la primissima letteratura di Israele era una “bassa” letteratura sia come origini che come argomenti.
Il punto è fondamentale e incide su tutto il seguito. La teologia della liberazione richiede un riassestamento della religione cristiana e di quella ebraica. José Miranda fornisce un esempio conciso. La parola ebraica sedakah significa «giustizia». Eppure, sin dal sesto secolo d. C. è stata tradotta con «elemosina» o «carità». La differenza fra giustizia e carità è la medesima che sussiste fra uguaglianza e oppressione, essendo la carità un rapporto tra non uguali laddove la giustizia è un rapporto fra uguali. Sono passati quattordici secoli da quando la cattiva traduzione di una singola parola ha aiutato a perpetuare la condiscendente ed ipocrita pietà delle classi dominanti che rubano le vostre sigarette mentre vi aiutano a reperirle invitandovi a non farne uso.

Il linguaggio del giubileo non è né di perseveranza legale né di propositi didattici. Esso è «un atto linguistico che continua ad avere una pericolosa forza in ogni genere di contesto che non sia né legislativo né didattico» — come sostiene Sharon Ringe. Il suo significato è spiegato attraverso l’esperienza e le lotte degli oppressi. Il suo argomento accende Isaia. «Lo spirito del Signore Dio è su di me, poiché il Signore mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per portare la buona novella ai poveri, a curare i cuori stanchi, ad annunziare la libertà agli schiavi, la liberazione ai prigionieri, a proclamare l’anno di grazia del Signore e un giorno di vendetta per il nostro Dio; a consolare tutti gli afflitti» (61:1-2).
«L’anno di grazia del Signore» — concordano tutti i commentatori — è il Giubileo. È chiaro da questo passaggio che il giubileo non è un accordo socialdemocratico di leggi per preservare un sistema di scambio di merci contro la rivolta periodica. Isaia ha allargato il significato del giubileo dalla manovra di miglioramento del Levitico al giorno di vendetta a favore degli afflitti, dei prigionieri, dei cuori stanchi, degli schiavi. Isaia parla con una classe sconfitta. La classe non elemosina più riforme; chiede giustizia.
Le parole di Isaia furono le prime di Gesù. Quando Gesù ritornò a Nazareth e iniziò a predicare, aprì il rotolo di pergamena del profeta Isaia nella sinagoga e proclamò «l’accettabile anno del Signore». La Bibbia di Ginevra del 1560 annotò a margine della prima predica di Gesù: «egli allude all’anno del Giubileo, che è menzionato nella Legge, per mezzo del quale questa grande liberazione è stata raffigurata». Poi egli aggiunge «oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete udita coi vostri orecchi». Questa è la chiave. Non è una questione di interpretazione, ma un argomento di azione. La eschaton non è del futuro; è presente. Adesso. È stata proclamata. Gesù era la tromba. Ecco perché cercarono di lanciarlo da una rupe.
Così passiamo dalla Legge (Levitico), alla Poetica (Isaia), alla Realizzazione (Luca). La liberazione del giubileo è tenuta a mente: remissione dei debiti, liberazione dei prigionieri, niente lavoro, sovranità divina. Tuttavia qualcosa viene persa in questa progressione: letteralmente, la base materiale. Non viene detto nulla della terra. Che rappresenti una sconfitta, sostituire la chiacchiera del paradiso in cielo con la camminata sulla terra confiscata? Se così è, si tratta forse di un riflesso delle basi urbane del primo cristianesimo, che dopo secoli di vita cittadina non credeva nella preghiera a favore della restituzione della terra? Gesù conosceva lo sfruttamento proletario. «Gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi», conclude una parabola a proposito della registrazione dei salari ai contadini. Queste sono anche le parole usate da Nat Turner nella grande rivolta della Contea di Southampton, Virginia, nel 1831: «Devo sollevare e preparare me stesso, e ammazzare i miei nemici con le loro stesse armi... perché si sta avvicinando in fretta il periodo in cui i primi devono essere gli ultimi e gli ultimi devono essere i primi».

L’ermeneutica del giubileo non si limita all’antichità. L’esperienza della classe lavoratrice nei confronti del giubileo è più prossima al traguardo di quanto non lo siano stati le parole e i fatti del figlio illegittimo di un falegname alla periferia dell’Impero romano duemila anni fa. Nella resistenza della classe lavoratrice alla storia della crudeltà possiamo trovare sia una scrittura che un’ermeneutica.
Nel 1834 The Southern Rosebud pubblicò la descrizione di un bambino afroamericano che intonava: «Non sentite la tromba del Gospel suonare il Giubileo?». Questo è il primo esempio che ho trovato sull’uso del giubileo nella storia pubblica afroamericana. Senza dubbio, ci sono riferimenti precedenti. Eppure ci conviene prendere il 1834 come nostro punto di partenza approssimativo. «Non sentite la tromba del Gospel suonare il Giubileo?», cantava la piccola voce. A rischio d’essere un tantino monotoni, dobbiamo sottolineare tre elementi: primo, nella domanda c’è un invito all’azione. Ci chiede di ascoltare. I bambini vogliono essere ascoltati. La tromba indica una proclamazione, un richiamo. Secondo, il giubileo viene compreso senza ulteriori spiegazioni. L’ambiguità dei suoi significati (debiti, terra, libertà, niente lavoro) era necessariamente politica nel sud schiavista durante gli immediati postumi della ribellione di Nat Turner. Si presumeva che gli ascoltatori sapessero cosa il giubileo volesse dire. Terzo, la “buona notizia” proclamata dal Gospel collega l’antico ed il nuovo Testamento. La buona notizia viene proclamata adesso. Adesso è il momento. Non è questione del tempo che si è compiuto, o di oggettive circostanze che sono pronte; la tromba ha suonato. È la voce di Ezechiele (7:14): «Suonate pure la tromba e sia per tutto pronto, ma nessuno si farà avanti a combattere».

Naturalmente il giubileo è realista, e naturalmente la classe dominante in tutti i periodi ha affermato il contrario. Ad esempio, The Interpreter’s Bible (1953) trova «quasi impossibile credere che le leggi [del giubileo]... fossero strettamente osservate o anche che lo potessero essere. Siamo di fronte a un costume ri-edito alla luce di un ideale». Gli archivisti di utopie devono negare ogni alternativa. Eppure, la proprietà privata, individuale, della terra è un fenomeno recente. Le staccionate, le siepi, le sbarre divisorie, i muri di pietra, il filo spinato, i cartelli “non oltrepassare” e “tenersi alla larga” sono innovazioni capitaliste del meum et tuum. Prima di queste l’agricoltura veniva svolta in campi aperti e i più poveri avevano diritti comuni.
L’accumulazione originale del capitale in Inghilterra fu il risultato della recinzione della terra, del commercio e delle conquiste imperiali. La terre comuni diventarono proprietà privata attraverso l’erezione di staccionate e siepi. «La forma parlamentare di furto è quella delle leggi sulla recinzione delle terre comuni, in altre parole, i decreti con i quali i padroni garantiscono a se stessi la terra della gente come proprietà privata, decreti di espropriazione del popolo». L’imperialismo saccheggia i popoli di altri paesi e li trasforma in schiavi salariati o schiavi schiavizzati. Inoltre, coloro che erano abituati a vivere sulle terre comuni, essendo espropriati dalle recinzioni, sono costretti a diventare compagni del vento e a vendersi come operai salariati ai padroni delle fabbriche e dei campi. Entrambe queste tendenze erano familiari a Tommy Spence.
La controversia sulla brughiera della città di Newcastle del 1771 gli aveva insegnato che era possibile intraprendere con successo una lotta contro le recinzioni. La borghesia aspirava a vendere o ad affittare 89 acri della terra cittadina. L’amico di Tommy Spence, Thomas Bewick, aveva ricevuto un’educazione grazie al diritto di pascolo sulle terre comunali posseduto dalla zia. Così Spence conosceva personalmente, da Bewick e da molti altri, l’importanza delle terre comunali. La gente demolì la sede dove venivano stabiliti gli affitti e le staccionate e disperse il bestiame. Gli abitanti vinsero, e il diritto al pascolo venne ripristinato per i liberi residenti e le vedove. Come risultato di questa esperienza Tommy Spence scrisse ed effettuò la sua famosa lettura alla Società filosofica di Newcastle nel 1775, dove propose l’abolizione della proprietà privata: «il paese di ogni popolo... è proprio la loro terra comune», egli scrisse. «I primi proprietari terrieri [erano] usurpatori e tiranni», continuava. Lo sono ancora. Egli raccomandò di fissare un giorno in cui gli abitanti di ogni distretto si incontrassero «per riprendere possesso dei loro diritti da tempo perduti».
Nel giro di pochi anni Spence chiamò questo giorno stabilito “giubileo”. Il vocabolo girava già per l’Inghilterra, ma fu Spence a dargli un significato rivoluzionario nell’era del capitalismo industriale. Nel frattempo, i filosofi liberali di Newcastle lo espulsero dalla loro Società, non per via delle sue idee o perché le avesse pubblicate, ma per averle divulgate sotto forma di volantini da mezzo penny diffusi per le strade e nelle taverne. Questo era ancora più irritante delle sue stesse idee, perché attaccava le pretenziosità della Società filosofica che considerava la filosofia una discussione chiusa. Ciò che rendeva Spence pericoloso per la borghesia non era il fatto che fosse un proletario o che avesse idee ostili alla proprietà privata, ma entrambe le cose. Egli portò le sue idee al proletariato di Newcastle, la cui forza si era già vista nello sciopero generale del 1740, quando fra le altre cose furono assaltate le banche del Paese. Thomas Spence era favorevole all’insurrezione; egli era un rivoluzionario che aveva fornito una teoria alle pratiche del rovesciamento del governo inglese. Di certo, il governo lo pensava; nel decennio 1790-1800 lo arrestò quattro volte in quanto «elemento pericoloso» e autore di pubblicazioni sediziose. Malgrado le esperienze in tribunale e in galera, malgrado gli insulti e le minacce di morte da parte di membri dell’Associazione per la Conservazione della Libertà e della Proprietà contro i Repubblicani e i Livellatori, continuò la diffusione dei propri opuscoli.

La prima generazione di seguaci di Spence era piena di contraddizioni, a volte atei e a volte devoti, a volte piccoli padroni e a volte poveri, a volte liberi pensatori e a volte religiosi, ora ubriachi ed ora sobri, e in questo seguirono il loro maestro che, malgrado la sua lettura da libero pensatore a Newcastle, era capace di brandire l’autorità biblica quanto un eminente di Harvard. Essi vissero in un periodo in cui il furto era praticato in modo massiccio: fra il 1801 e il 1831 vennero sottratti alla popolazione agricola 3.511.770 di acri di terre comunali.
Thomas Evans nel 1798 era segretario della London corresponding society. Venne imprigionato per tre anni e sedici mesi a Newgate. Dopo la morte di Spence, nel 1813, egli aveva formato la Society of spencean philanthropists della quale si era autonominato “bibliotecario”. «Ho vissuto abbastanza da essere testimone delle conseguenze delle recinzioni, e delle tasse; dell’espulsione di chi viveva nei cottage spigolando nei campi aperti, avendo diritto alla terra comune, al suo cottage, alla sua casupola; del furto delle sue poche provviste, del suo maiale, del suo pollame, del suo combustibile; quindi, della sua riduzione a mendicante, a schiavo».
Maurice Margarot, un giacobino radicale, venne trasportato in Australia nel 1793 a bordo del H. M. S. Surprize con altri ottantatré condannati. Cospirò coi prigionieri irlandesi. Nel 1810 ritornò a Londra. Prima di morire scrisse Proposal for a Grand National Jubilee: Restoring to Every Man his Own and thereby Extinguishing both Want and War. Egli calcolava che ogni persona in Inghilterra avrebbe potuto disporre di cinque acri di terra. Vent’anni dopo Allen Davenport calcolò che, se la terra inglese fosse stata divisa equamente, ogni uomo, donna e bambino avrebbe potuto disporre di sette acri. Poiché la popolazione era cresciuta notevolmente in quei venti anni la discrepanza fra le due stime è difficile da spiegare. Forse Davenport non escludeva l’Irlanda dai suoi calcoli, o forse Margarot non includeva nei suoi solo i maschi adulti.
A Londra nel 1804 Allen Davenport, un veterano metodista, ricevette da un suo compagno calzolaio un opuscolo di Spence: «Lessi il libro, e divenni velocemente sempre più spenceano. Predicai la dottrina ai miei compagni di lavoro e a chiunque altro...». In quanto sindacalista (fu leader nello sciopero dei calzolai nel 1813) e in quanto inveterato oppositore del sistema legale («Se cogliete un chicco, non violate una legge? Se vi portate via un granello di sabbia, non commettete un furto?»), attraversò il ponte spenceano tra giacobinismo radicale del decennio 1790-1800 e cartismo del decennio 1830-1840, contribuendo così ad espandere il giubileo dalle lotte agricole a quelle salariali.

Nella terza decade del XIX secolo il giubileo era presente su entrambi i lati dell’Atlantico, un’idea e una pratica comuni ai lavoratori sia delle piantagioni che delle fabbriche di cotone. Esso possedeva leader profetici oltre ad un’esperienza insurrezionale. Nei decenni che seguirono, la tradizione del giubileo si accrebbe. In America si concentrò sulla schiavitù e trovò una vittoria nella Guerra civile. In Inghilterra si concentrò sulla terra e trovò forza fra i cartisti.
«Pensate che lo stato attuale delle terre comuni nei sobborghi di Nottingham abbia un effetto sul morale delle popolazioni ivi residenti?» — chiedeva un investigatore del “Comitato selezionato parlamentare sulla recinzione delle terre comunali” nel 1844. La risposta illustra le contraddizioni della borghesia: «Un effetto certamente assai pregiudizievole... provoca generalmente una grande mancanza di rispetto nei confronti delle leggi del paese; a titolo di esempio potrei dire che, quando giunge il giorno in cui le terre diventano comunabili, in genere il 12 agosto, la popolazione esce fuori, distrugge le staccionate, abbatte i cancelli e commette un gran numero di atti illegali che certamente ha il diritto di compiere, in base al diritto delle terre comuni di cui era titolare».
«Pregiudizievole... mancanza di rispetto... illegali»: eppure la gente ha un «diritto» di cui è «titolare». Lo scambio è interessante per un’altra ragione. Perché il 12 agosto? Nel 1839 la Convenzione nazionale cartista aveva accettato il 12 agosto come giorno di festa per iniziare uno sciopero generale. Sembra quindi che i comunalisti di Nottingham, osservando il 12 agosto come giorno di livellamento, stessero agendo in conformità coi cartisti nazionali. William Benbow, autore di The Grand National Holiday and Congress of the Productive Classes (1831), aveva consigliato il 12 agosto. «Quando si propone una grande festa nazionale, una festività, non bisogna lasciar pensare ai nostri lettori che si tratti di una proposta nuova. Era una consuetudine fra gli ebrei». Benbow si riferisce al Giubileo. Egli chiedeva una festa lunga un mese per tenere un congresso delle classi produttrici, un mese di discussione universale in ogni città, villaggio, paese, distretto.
Il progetto venne approvato dalla stampa cartista. The Glasgow Agitator reclamava la nazionalizzazione della terra. George Petrie in Man chiedeva l’abolizione della proprietà privata, una «desolante, barbara e innaturale istituzione». Doherty in The Poor Man’s Advocate si batté con fervore per il progetto e per la cancellazione del debito nazionale.

Il giubileo non morì del tutto nella seconda metà del XIX secolo, sebbene avesse cessato d’essere la conchiglia della rivoluzione. Michael Davitt della Lega della terra irlandese lo usò nella lotta contro il dominio imperiale britannico. «L’irlandese, bandito da pecore e buoi, riappare dall’altro lato dell’oceano come feniano, a viso aperto con la vecchia regina dei mari» — scriveva Marks, e avrebbe potuto aggiungere che l’irlandese aveva scagliato il giubileo in faccia alla pietà inglese nella persona di Edward McGlynn, il prete di S. Stefano a Manhattan e alleato dei Knights of Labor, il quale durante il sermone nel giorno di San Patrizio del 1887 aveva paragonato le antiche leggi irlandesi bretoni al Giubileo, e come risultato venne scomunicato. Henry George spesso ne invocò l’idea e sostenne che il giubileo era «assolutamente fatale all’idea di proprietà privata della terra». Nel notare che Charles Marks era influenzato da alcuni cartisti seguaci di Spence, o che il pomposo e sciovinista H. M. Hyndman aveva paragonato Il manifesto comunista al giubileo di Spence, cadiamo nell’archeologia.
Il giubileo ha espresso la liberazione dall’imperialismo nel XIII secolo a. C. Si era opposto alla schiavitù, alla proprietà, al credito-e-debito, all’etica del lavoro, all’inquinamento della terra, e aveva raccomandato la rivoluzione ogni cinquant’anni. Per diverse migliaia di anni il suo significato è stato distorto o ignorato. Con l’avvento del capitalismo industriale la reclusa classe lavoratrice dell’Inghilterra e quella schiavizzata afroamericana riscoprirono il giubileo. Lo adottarono come sinonimo di libertà e anticapitalismo; ne estesero il significato e gli diedero incisività.
Allo stesso tempo, la borghesia — giacché il giubileo non poteva esser negato — sviluppò un’ermeneutica che sottraeva il giubileo al suo splendore liberatorio trasformandolo in «linguaggio figurativo». Il linguaggio dell’azione diventò un linguaggio d’ornamento, una retorica, un’allegoria, «solo parole». Da un lato ciò permise dei progressi nella critica testuale e filologica, ma dall’altro lato aprì la porta alla pedanteria e al cinismo, estraendo il dente rivoluzionario dalla bocca biblica. Fondamentalmente si tratta di un argomento reazionario, se non blasfemo.
Il “grande criticismo” dell’ermeneutica borghese del XIX secolo ha trasformato la parola viva nella mano morta del passato. La sua interpretazione del giubileo è nel migliore dei casi riformista, nel peggiore reazionaria. Laddove il giubileo si oppone al lavoro, sostiene che si trattava di un ideale impossibile, se non immorale. L’aspetto ecologico, come la dottrina dei sabbatari, viene ignorato o ridotto ad un arretramento delle condizioni tecnologiche. La liberazione rivoluzionaria dalla schiavitù è assente o ridotta ad un’arcaica, quando non barbarica, estensione del dovere della vendetta sanguinaria fra clan feudali. La restituzione della terra e la cancellazione dei debiti sono considerate del tutto utopiche o poco pratiche, o al limite vengono consentite come una sorta di compromesso attuato molto tempo fa per alleviare la transizione verso una “civiltà” agricola!
Il Giubileo viene usato dalla borghesia in occasioni istituzionali. Sulla Campana della Libertà di Filadelfia del 1776 è incisa una frase tratta dal Levitico 25 — «You shall proclaim liberty throughout the land». Ma ha un suono patetico. Perché? Perché è rotta. Si è rotta, secondo la tradizione afroamericana, quando Abramo Lincoln firmò il suo Proclama di emancipazione.

[Diavolo in corpo, n. 2, maggio 2000]


Entemena di Lagash
che aveva restituito il figlio alla madre e la madre al figlio, che con la sua giustizia li aveva riscattati dalla schiavitù dei creditori spietati.
https://it.wikipedia.org/wiki/Entemena
Entemena, o Enmetena (... – ...), è stato il quarto re della prima dinastia di Lagash, ed era figlio di En-anna-tum I.
Il suo nome è legato alla contesa che Lagash ebbe con la città di Umma per un territorio chiamato gu-edinna. Inizialmente la contesa fu posta al giudizio del re di Kish, Mesilim, ma la contesa proseguì. Entemena ha lasciato il racconto più approfondito del conflitto, ma manca la versione di Umma.
Durante il suo regno, Entemena confermò la supremazia di Lagash sulla Mesopotamia, sconfiggendo insieme a Lugal-kinishe-dudu di Uruk, successore di Enshakushanna, Illi di Umma.[senza fonte]
Di Entemena è noto anche un editto di remissione degli interessi sui debiti. Secondo quanto riportano le sue iscrizioni, egli avrebbe "stabilito la libertà" non solo su Lagash, ma anche ad Uruk, Larsa e Bad-tibira.


Urukagina
https://it.wikipedia.org/wiki/Urukagina
Urukagina, anche detto Uru-inim-gina o Uruinimgina (floruit 2380 a.C.-2360 a.C.; ... – ...), fu un ensi (titolatura regale in uso nella Mesopotamia protodinastica) di Lagash, famoso per un editto che emanò.
Urukagina succedette a Lugal-anda come ensi di Lagash; non divenne famoso per le sue conquiste militari, ma, al contrario, per la sua legislazione basata sui principi di libertà (la riforma di Urukagina è il più antico documento ad usare questa parola), uguaglianza e giustizia, e per le riforme sociali e morali che ne conseguirono. In particolare si concentrò sulla lotta alla corruzione, ampiamente diffusa all'interno della vasta burocrazia statale, e alla separazione tra "Stato" (il Palazzo) e "Chiesa" (il Tempio). Urukagina sosteneva che era stato il suo dio Ningirsu a ordinare di "restaurare i decreti del passato".
Il suo regno subì un forte colpo quando Lugalzaggesi, ensi della vicina Umma, distrusse tutti i principali santuari di Lagash. Urukagina sopravvisse alla disfatta, anzi, i documenti redatti dai suoi scribi che descrivono i saccheggi e le distruzioni di Lugalzaggesi suggeriscono che Urukagina avesse scelto di non opporsi militarmente al suo avversario, confidando nella giustizia degli dèi.
Il codice di Urukagina rendeva esenti da tassazione le vedove e gli orfani; obbligava la città a pagare le spese funebri (incluse le libagioni per il viaggio del morto nel mondo inferiore); e decretò che i ricchi dovessero usare l'argento nelle contrattazioni con i poveri, e se il povero non desiderava vendere, nessuno poteva forzarlo a farlo.

Gudea
https://it.wikipedia.org/wiki/Gudea
Gudea (... – ...) è stato un ensi ("re") della città di Lagash, nella Mesopotamia meridionale.
Regnò dal 2144 al 2124 a.C. circa. Molto probabilmente non era originario della città, ma avendo sposato Ninalla, figlia del governatore Ur-Baba (2164-2144 a.C.) di Lagash, entrò a far parte della dinastia di Lagash. Sul trono gli succedette il figlio Ur-Ningirsu.
...
Le riforme sociali di Gudea, tra cui la cancellazione dei debiti la concessione alle donne del permesso di detenere le terre di famiglia, potrebbero essere state davvero nuove, oppure, secondo alcuni, potrebbero in realtà essere state un ritorno alla tradizione sumera. Sebbene Gudea diede molta attenzione al dio della guerra Ningirsu, il suo regno fu pacifico ed egli fu un restauratore della tradizione.
Dopo di lui, Lagash entrò in crisi e declinò, aprendo la strada alla terza dinastia di Ur, che conquistò il potere nella Mesopotamia meridionale.

Isme-Dagan
https://en.wikipedia.org/wiki/Ishme-Dagan_I
https://fr.wikipedia.org/wiki/Ishme-Dagan_Ier

Isbi-Erra
https://en.wikipedia.org/wiki/Ishbi-Erra
https://it.wikipedia.org/wiki/Ishbi-Erra
Ishbi-Erra (... – ...) è stato il primo re della dinastia di Isin, a Ur.

Abramo di Ur
https://it.wikipedia.org/wiki/Abramo
Abramo (in ebraico: אַבְרָהָם, Avraham, "Padre di molti/dei popoli"; in arabo: ابراهيم‎, Ibrāhīm; ... – ...) è un patriarca dell'ebraismo, del cristianesimo e dell'islam.
La sua storia è narrata nel Libro della Genesi ed è ripresa dal Corano. Secondo Genesi (17,5), il suo nome originale era אַבְרָם (Avram, Abram), poi cambiato da Dio in Avraham.

http://www.homolaicus.com/at/abramo.htm


???
La festa Heb Sed
https://it.wikipedia.org/wiki/Heb-Sed
Con il termine di Heb-Sed ("festa di Sed" o "festa giubilare"), si suole intendere una cerimonia che veniva celebrata dagli antichi Re egiziani al compimento del loro trentesimo anno di regno.
Secondo l'ipotesi più discussa, avanzata in origine da Petrie (e forse influenzata dalle nozioni di Frazer), si ritiene che l'Heb-Sed derivi dall'antichissima usanza, risalente al periodo protodinastico, di mettere a morte il re quando questi, data l'età avanzata, non fosse più stato in grado di difendere il proprio popolo. La cerimonia, perciò, doveva servire al regnante per dimostrare la sua ancor valida vigoria fisica. Nel recinto della piramide a gradoni di Re Djoser (III Dinastia, a Saqqara) si trovano due strane costruzioni a forma di lettera "B" che si ritiene costituissero una sorta di "mete" tra cui il re doveva eseguire una corsa rituale.
Sempre sulla scia di Petrie, il rito sarebbe consistito anche nel portare il sovrano ad una sorta di catalessi procurata da una pozione di fiori di loto, e dopo aver raggiunto questo stato, il re veniva deposto dai sacerdoti in un sarcofago, ove restava per diversi giorni. Al risveglio risultava in perfetta forma fisica e mentale, sicché il re si "rigenerava" riacquistando il proprio vigore; successivamente, la festa veniva ripetuta con cadenza non periodica.
Benché non certo, lo sviluppo effettivo della cerimonia durava circa due mesi ed era suddivisa in tre fasi: nella prima veniva ripetuto il cerimoniale di incoronazione; nella seconda aveva ampio ruolo la famiglia del sovrano; nella terza veniva eretto il pilastro djed.



Yodel, giubilo, iubilō, sibilo, jobēl, jō’āb
viewtopic.php?f=44&t=940

Ku Ku Yodel e ła Xvisara canta
viewtopic.php?f=28&t=848

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... lo-440.jpg
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » mer mar 08, 2017 10:13 am

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » mer mar 08, 2017 10:15 am

Diritto delle genti


Diritto internazionale
https://it.wikipedia.org/wiki/Diritto_internazionale
Il diritto internazionale, chiamato anche "diritto delle genti" (ius gentium), è quella branca del diritto che regola la vita della comunità internazionale. Può essere definito come il diritto della Comunità degli Stati, quindi un diritto al di sopra di essi e dei loro ordinamenti giuridici interni. Meno corretta la definizione di diritto del rapporto tra stati, perché se è vero in senso formale che viene posto in essere tra i vari Stati, in senso materiale non è sempre indirizzato ai rapporti tra questi, ma può anche incidere all'interno delle comunità.

Ius gentium (Diritto delle genti)
http://www.simone.it/newdiz/newdiz.php? ... o=2&id=727
Nel diritto romano era il complesso delle norme giuridiche fondate sulla ragione naturale (naturalis ratio) comune a tutti i popoli (gentes) che avevano raggiunto un pari grado di sviluppo.
Tale complesso di norme sorse a seguito dell’intensificarsi dei traffici commerciali con popoli stranieri, al fine di regolare i rapporti negoziali tra cives romani e peregrini.
Per la disciplina di siffatti rapporti non era possibile fare ricorso alle norme del ius civile, in ragione del principio della personalità della legge [vedi], secondo cui allo straniero non era applicabile il diritto romano.
Onde soddisfare tale esistenza fu istituito nel 241 a.C. un magistrato speciale, il praetor peregrinus. Costui, deputato a presiedere i processi tra soggetti non muniti della cittadinanza romana, elaborava le norme dirette a risolvere i relativi conflitti.
Poiché il (Diritto delle genti) comprendeva un gruppo di disposizioni basate sulla ragione naturale e, in quanto tali, suscettibili di applicazione generalizzata per tutti i popoli, Gaio [vedi] lo denominò anche ius naturale. In seguito, nella tricotomia ulpiano-giustinianea (ius civile, ius naturale e ius gentium), coniata da Ulpiano [vedi] ed accolta da Giustiniano I [vedi], il ius naturale acquisì una valenza autonoma, quale complesso dei precetti di convivenza dettati dalla natura a tutti gli esseri viventi.
Uno dei fondamentali princìpi del (Diritto delle genti) fu quello della bona fides, che assumeva a criterio di responsabilità l’osservanza dei patti e della parola data fra galantuomini, indipendentemente dal ricorso a formalità solenni che, d’altronde, tra persone di lingua e cultura differenti sarebbero state inattuabili e incomprensibili.


Ulpiano

http://www.simone.it/newdiz/newdiz.php? ... zionario=2

https://it.wikipedia.org/wiki/Eneo_Domizio_Ulpiano
Eneo Domizio Ulpiano (in latino: Eneus Domitius Ulpianus; Tiro, 170 circa – Roma, 228) è stato un politico e giurista romano, considerato uno dei maggiori esponenti della dottrina giuridica romana.
Nato a Tiro nell'allora provincia romana della Siria, attorno al 170, Ulpiano fu fra gli esponenti più importanti della giurisprudenza romana del suo tempo: formulò e sistemò molte norme del diritto amministrativo, diritto civile romano dell'epoca, che rimangono tutt'oggi a fondamento del diritto moderno e materia di studio nelle facoltà di giurisprudenza.


Trattato del diritto delle genti dedicato alle potenze alleate ed ai loro ministri
Immanuel Kant
https://it.wikisource.org/wiki/Trattato ... elle_genti
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » gio mar 09, 2017 8:07 am

Diritti Umani Universali

Diriti e doveri omani naturałi e ogniversałi
viewtopic.php?f=205&t=2150
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » gio mar 09, 2017 8:08 am

Diritti che non esistono o che sono subordinati ad altri diritti che sono però prevalenti o di ordine superiore.

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 0x500.jpeg

viewtopic.php?f=25&t=2584


Non esiste il diritto all'ospitalità e all'accoglienza assoluta e obbligatoria.
Non esiste il diritto alla cittadinanza mondiale, poiché la cittadinanza esiste soltanto legata alle comunità locali: si è cittadini della propria città e del proprio paese, nazione, stato ma non di tutte le città, di tutti i paesi, di tutte le nazioni e di tutti gli stati.


Accoglienza o ospitalità imposta o forzata è un crimine contro l'umanità
viewtopic.php?f=196&t=2420

La solidarietà come libertà e non come schiavitù
viewtopic.php?f=132&t=752

Migrare e non migrare, accogliere e non accogliere, diritti e doveri
viewtopic.php?f=194&t=2498
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 4378115973

Diritti Umani Universali dei Nativi o Indigeni Europei
viewtopic.php?f=25&t=2186

Il razzismo anti Nativi e Indigeni europei
viewtopic.php?f=25&t=2372

Manipolatori e malversatori dell'Ordine Naturale dei Diritti Umani Universali
viewtopic.php?f=141&t=2023

Manipolazione criminale dei valori e dei diritti umani universali, quando il male appare come bene
viewtopic.php?f=25&t=2484
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » gio mar 09, 2017 8:10 am

Criminali che non rispettano i diritti umani universali


In tale categoria rientrano:

tutte le dottrine, le ideologie e i sistemi politico religiosi totalitari e teocratici come il comunismo, il fascismo, il nazismo e l'islamismo;
e tutti coloro che perseguono e praticano tali dottrine e tali sistemi;
taluni fondatori e tutti gli attuatori di tali dottrine come ad esempio Maometto, Hitler, Stalin e Mao Zedong o Mao Tse-tung le cui dottrine e pratiche politiche hanno causato decine e centinaia di milioni di morti.


Utopie demenziali e criminali
viewtopic.php?f=141&t=2593

Utopie che hanno fatto e fanno più male che bene e molto più male del male che pretenderebbero presuntuosamente e arrogantemente di curare.
Totalitarismi maomettano (mussulmano o islamista), comunista (internazicomunista), nazista (fascista e nazista), globalista, idolatria cattolico-ecumenista, ...


La proprietà non è un furto e un male ma un bene prezioso e rubare non è un bene ma un male
viewtopic.php?f=141&t=2495

Accoglienza o ospitalità imposta o forzata è un crimine contro l'umanità
viewtopic.php?f=196&t=2420

Diritti Umani Universali dei Nativi o Indigeni Europei
viewtopic.php?f=25&t=2186

Manipolatori e malversatori dell'Ordine Naturale dei Diritti Umani Universali
viewtopic.php?f=141&t=2023

Il razzismo anti Nativi e Indigeni europei
viewtopic.php?f=25&t=2372

Manipolazione criminale dei valori e dei diritti umani universali, quando il male appare come bene
viewtopic.php?f=25&t=2484

I falsi buoni che fanno del male
viewtopic.php?f=141&t=2574



Islam e integrazione: il problema della Dichiarazione Islamica dei Diritti Umani
Written by Staff Rights Reporter on Gen 25, 2015

http://www.rightsreporter.org/islam-e-i ... itti-umani

Si fa un gran parlare di integrazione da parte degli stranieri e si arriva pure a sostenere che l’aumento dell’estremismo islamico in Europa sia il frutto proprio della mancanza di una adeguata politica di integrazione.

Noi non siamo molto d’accordo con questa teoria e spieghiamo perché. Secondo il nostro modestissimo parere la mancata integrazione degli stranieri nei Paesi europei (nel nostro caso parleremo di Italia) non dipende tanto dalla situazione sociale in cui molti stranieri si vengono a trovare, che è certamente importante, ma non decisiva per una piena comprensione dei valori che alimentano le nostre democrazie, valori che dovrebbero essere proprio alla base di qualsiasi forma di integrazione. Per capire meglio il nostro ragionamento prendiamo proprio i casi più eclatanti di mancata integrazione che riguardano principalmente gli immigrati musulmani (anche di seconda e terza generazione) che in moltissimi casi rifiutano di accettare quei valori fondamentali su cui si basano le democrazie europee, valori che fanno capo a due documenti specifici che sono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, inutile negarlo, lo scontro tra la nostra cultura e quella musulmana si manifesta su tutti quegli articoli che parlano di libertà individuali e di parità di Diritti tra generi e soprattutto nel differente approccio al concetto di legge. Mentre nelle due dichiarazioni sopra citate i punti focali sono i Diritti Individuali basati esclusivamente su un concetto laico del Diritto, nella Dichiarazione Islamica dei Diritti Umani il concetto di fondo è la legge islamica, la Sharia, che si basa esclusivamente su precetti religiosi.

E chiarissimo e lampante che tra le due visioni di insieme la differenza è abnorme e non conciliabile. E’ quindi impossibile che un qualsiasi residente in Europa possa accettare che i propri concetti di Diritto laici vengano spazzati via da un concetto teocratico che in molti punti fa addirittura a pugni con quanto stabilito dalle dichiarazioni dei Diritti accettate nel nostro continente in quanto stabilisce con chiarezza la supremazia della legge islamica rispetto alle leggi nazionali. In particolare nei seguenti articoli che non possono in nessun caso essere accettati in Europa e che, per dirla tutta, andrebbero messi fuorilegge:

Art. 4 – Il diritto alla giustizia

1) Ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge islamica e che nessun’altra legge gli venga applicata…

5) Nessuno ha il diritto di costringere un musulmano ad obbedire ad una legge che sia contraria alla Legge islamica. Il musulmano ha il diritto di rifiutare che gli si ordini una simile empietà, chiunque esso sia: «Se al musulmano viene ordinato di peccare, non è tenuto né alla sottomissione né all’obbedienza» ( ḥadīth )[1].

O ancora la definizione di equità di un processo e di presunzione di innocenza:

Art. 5 – Il diritto ad un processo giusto

1) L’innocenza è condizione originaria: «Tutti i membri della mia Comunità sono innocenti, a meno che l’errore non sia pubblico» ( ḥadīth ). Questa presunzione di innocenza corrisponde quindi allo «statu quo ante» e deve rimanere tale, anche nei confronti di un imputato, fino a che esso non sia stato definitivamente riconosciuto colpevole da un tribunale che giudichi con equità.

2) Nessuna accusa potrà essere rivolta se il reato ascritto non è previsto in un testo della Legge islamica… …

4) In nessun caso potranno essere inflitte pene più gravose di quelle previste dalla Legge islamica per ogni specifico crimine: «Ecco i limiti di Allah, non li sfiorate» (Cor. II:229)…

Inoltre, relativamente al libero pensiero, troviamo delle fondamentali differenze tra le due Dichiarazioni; infatti per i Paesi firmatari della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si legge:

Articolo 18

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.

Articolo 19

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

mentre nella Dichiarazione islamica troviamo:

Art. 12 – Il diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola

1) Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. Nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica: «Se gli ipocriti, coloro che hanno un morbo nel cuore e coloro che spargono la sedizione non smettono, ti faremo scendere in guerra contro di loro e rimarranno ben poco nelle tue vicinanze. Maledetti! Ovunque li si troverà saranno presi e messi a morte» (Cor., XXXIII:60-61). … 4) Nessun ostacolo potrà essere frapposto alla diffusione delle informazioni e delle verità certe, a meno che dalla loro diffusione non nasca qualche pericolo per la sicurezza della comunità naturale e per lo Stato: «Quando giunge loro una notizia rassicurante o allarmante, essi la divulgano; se l’avessero riferita all’Inviato di Dio e a quelli di loro che detengono l’autorità, per domandare il loro parere avrebbero saputo se era il caso di accettarla, perché di solito si fa riferimento alla loro opinione» (Cor. 4,83).

Ora, è chiaro che se anche le seconde generazioni di musulmani crescono apprendendo che i loro Diritti sono tutelati dalla Dichiarazione islamica dei Diritti Umani invece che dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, lo scontro tra civiltà e ideologie diverrà immancabile e a farne le spesa sarà proprio quella integrazione di cui tanto si parla.

E qui sarebbe il caso anche di fare un lungo ragionamento sul concetto di integrazione, che non significa che noi europei ci dobbiamo adattare alle usanze e alle leggi di chi viene nel nostro continente ma è esattamente il contrario. Come si risolve questo problema? Si risolve dal basso, inserendo obbligatoriamente lo studio dei Diritti Umani nelle scuole e un piano di studio che compari le varie dichiarazioni e ne evidenzi le differenze in termini di Diritto. Se a una bambina musulmana viene spiegato che lei ha gli stessi Diritti di un maschio musulmano quando questa andrà a casa saprà che qualsiasi forma di costrizione nei suoi confronti è di fatto una violazione della legge, della nostra legge che è l’unica che tutti sono tenuti a rispettare se veramente vogliono essere integrati. Ed è questo il punto focale della nostra iniziativa: è impossibile accettare che la legge islamica prevalga sulle leggi nazionali e per questo che dai prossimi giorni daremo il via a due iniziative congiunte. La prima è volta a chiedere che in Italia l’insegnamento dei Diritti Umani così come enunciati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani venga reso obbligatorio e non come semplice complemento dello studio del Diritto Civile. La seconda iniziativa è volta rendere fuorilegge la dichiarazione islamica dei Diritti Umani in quanto chiaramente incompatibile sia con le nostre leggi che con tutte le legislazioni dell’Unione Europea in quanto pone la legge islamica al di sopra delle leggi nazionali, un vero e proprio bastione contro l’integrazione. Le due iniziative, in particolare quella in Europa, verranno aperte da un dettagliato esposto che renderemo pubblico appena possibile cioè non appena verranno recepiti e messi in discussione, il che ci auguriamo avverrà prima possibile.


Preistoria e storia del diritto, fonti varie
viewtopic.php?f=205&t=2521

Diritto islamico


Shariʿah o sharia
https://it.wikipedia.org/wiki/Shari'a
Shariʿah o sharia (in arabo: شريعة‎, sharīʿa) è un termine arabo dal senso generale di "legge" (letteralmente "strada battuta"), che può essere interpretata sotto due sfere, una più metafisica e una più pragmatica. Nel significato metafisico, la sharīʿah è la Legge di Dio e, in quanto tale, rimane sconosciuta agli uomini.

Sharia o legge islamica per Maometto ed il Corano
viewtopic.php?f=188&t=1460

La Sharia non è la legge di D-o ma soltanto quella dell'idolo Allah
viewtopic.php?f=188&t=2470
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8731864964
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » gio mar 09, 2017 8:47 am

Per una carta universale dei diritti religiosi e spirituali
viewtopic.php?f=24&t=1788

AAA Difesa dei Diritti Umani degli atei, degli agnostici, degli aidoli e degli ebrei
viewtopic.php?f=205&t=2492
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 5715209437
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