Ouropa: romani e barbari ??? No anca tanto altro

Ouropa: romani e barbari ??? No anca tanto altro

Messaggioda Berto » sab ott 10, 2015 7:35 am

Ouropa: romani e barbari ??? No anca tanto altro
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Re: Ouropa: romani e barbari ??? No anca tanto altro

Messaggioda Berto » sab ott 10, 2015 7:36 am

Ha ancora senso chiamarli «barbari»?
di Federico Marazzi

http://www.medioevo.it/rivista/2013/Set ... li-barbari

Le popolazioni che fecero vacillare (???) e poi cadere l’impero di Roma furono viste come una sorta di castigo di Dio e il loro irrompere sulla scena interpretato come il preludio alla fine del mondo. Eppure, già qualche voce isolata del tempo e poi, piú massicciamente, la storiografia moderna hanno notevolmente ridimensionato quei giudizi e propongono un’immagine nuova delle «gentes externae»

Una fibula in forma d’aquila, in oro almandine, perle naturali e vetro verde, dal tesoro di Domagnano (San Marino). Oreficeria gota del periodo di re Teodorico (493-526). Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

L’immagine delle frontiere dell’impero romano, affacciate sull’ignoto di un mondo di cui non si arrivava a percepire i confini, abitato da popolazioni selvagge e potenzialmente minacciose per la civiltà, appare, già chiara e drammatica, nelle parole di un anonimo scrittore di cose militari, attivo nel IV secolo: «Bisogna innanzitutto rendersi conto che il furore di popoli che latrano tutt’intorno stringe in una morsa l’impero romano e che la barbarie infida, protetta dall’ambiente naturale, minaccia da ogni lato i nostri confini. Infatti, questi popoli si nascondono per lo piú nelle selve o s’inerpicano sui monti o sono difesi dai ghiacci; alcuni invece vagano e sono protetti dai deserti e dal sole cocente. Ci sono poi popolazioni difese dalle paludi e dai fiumi, che non è facile scovare e che tuttavia lacerano la pace e la quiete con improvvise incursioni. Genti come queste, che si difendono ricorrendo alla natura dei luoghi o alle mura delle città e delle fortezze, devono essere aggredite con varie e nuove macchine militari» (Anonimo, De Rebus Bellicis, par. 6; traduzione Andrea Giardina). ???

Accenti apocalittici
Nella cultura romana, dal III secolo d.C., inizia a essere fortemente presente la sensazione che coloro che popolano il mondo al di fuori dei confini, regno del disordine e della violenza, possano prima o poi sopraffare le difese militari e irrompere in quelle terre che secoli di governo romano avevano reso ricche e pacifiche. ???

Queste idee vengono talora espresse con accenti apocalittici, come se lo sconvolgimento dell’ordine stabilito da Roma dovesse essere il preludio alla fine del mondo. All’indomani del saccheggio di Roma da parte della popolazione germanica dei Visigoti, nel 410, san Gerolamo scriveva: «La costernazione ha paralizzato tutte le mie facoltà (…) Quando la fiamma piú brillante di tutto il mondo è stata spenta o, piuttosto, quando l’impero romano è stato decapitato e (...) quando l’universo intero è perito con la perdita della sola Roma, allora ho preferito tacere» (Commentario al profeta Ezechiele, prefazione; traduzione dell’autore). ???
Eppure, quegli stessi Visigoti che avevano osato compiere l’estremo oltraggio nei confronti dell’impero, saccheggiandone l’antica capitale e gettando san Gerolamo nella piú cupa disperazione, non apparivano solo come cieche furie devastatrici anche a coloro che furono contemporanei di quegli eventi. Qualche anno dopo, lo scrittore cristiano Paolo Orosio descriveva il re visigoto Ataulfo, stabilitosi in Gallia con il suo popolo, come un uomo che si poneva con chiarezza il problema di convivere con i Romani e le loro istituzioni, cercando di preservare, in qualche modo, l’edificio organizzativo delle istituzioni imperiali: «Ataulfo, che dopo l’invasione dell’Urbe e la morte di Alarico si era presa in moglie Placidia, la sorella dell’imperatore, caduta prigioniera (…). Costui (…), partigiano convinto della pace, preferí militare fedelmente sotto l’imperatore Onorio e impegnare i Goti a difesa dello Stato romano (...). Ataulfo, convintosi per lunga esperienza che né i Goti potevano in alcun modo ubbidire alle leggi, a motivo della loro sfrenata barbarie, né era opportuno abrogare le leggi dello Stato, senza le quali lo Stato non è Stato, scelse di procacciarsi con le forze dei Goti almeno la gloria di restaurare nella sua integrità, anzi d’accrescere il nome romano, e d’esser stimato presso i posteri restauratore dell’impero di Roma» (Storie contro i pagani, VII, 43, traduzione di Gioachino Chiarini). ???

Attualità di un dibattito
Dunque, il problema dell’impatto delle popolazioni che, fra IV e V secolo d.C., sono entrate nell’impero romano, sino ad abbatterlo completamente nella metà occidentale, non può essere liquidato come uno scontro fra due campi rigidamente avversi e separati fra loro. La realtà è complessa e tale appariva, come si è appena visto, anche ai contemporanei di quegli eventi. La riflessione su questa fase storica ha appassionato ininterrottamente gli intellettuali dell’Occidente, poiché essa è stata sempre sentita come uno dei grandi punti di svolta della nostra storia. In Italia e in Europa, da qualche decennio, gli studiosi di storia, di archeologia, di storia dell’arte e di storia della letteratura ne discutono con rinnovata passione.
Questo dibattito aveva conosciuto in precedenza altri momenti di grande fermento. Tra la fine del XVIII e la prima metà del XX secolo esso si era alimentato con le riflessioni, emerse tra le classi piú colte d’Oltremanica, sui successi, ma anche sulle possibilità di durata dell’immenso impero britannico. D’altro lato, la discussione fu alimentata anche dall’acquisita consapevolezza, da parte dei Tedeschi (dal 1870 uniti in un nuovo e aggressivo impero) del ruolo determinante riconquistato nello scacchiere politico europeo. Essi si consideravano, per lingua e razza, gli eredi degli antichi invasori germanici dell’impero romano, e vedevano nella potenza prussiana il miglior risultato del connubio fra l’energia e il valore di quegli invasori e la tradizione di uno Stato militarmente forte ed efficiente nel governare, propria dell’impero di Roma.
Anche il successo dell’unificazione d’Italia, che trovava il suo primo cemento ideale nel ricordo della conquista romana della Penisola, dalle Alpi alla Sicilia, aveva suscitato, presso gli intellettuali di casa nostra, una viva riflessione sui perché quell’unità si fosse sgretolata sotto i colpi delle «invasioni barbariche». ???
Il medesimo dibattito aveva interessato anche i nostri «cugini» d’Oltralpe, impegnati a far quadrare i conti fra la matrice «latina» di tratti determinanti della propria identità culturale (primo fra tutti quello rappresentato dalla lingua francese) ???, e il marchio portato dal nome stesso della loro nazione, «Francia», che rimandava direttamente al ricordo di una delle popolazioni che avevano invaso l’antica Gallia romana all’inizio del V secolo, i Franchi, che, nell’arco di cent’anni, avevano stabilito il proprio dominio sulla quasi totalità di essa. Dunque, nell’Europa moderna, il dibattito sullo scontro fra Romani e «barbari» trovava alimento nella spinta delle principali entità nazionali a ricercare solide radici alla propria identità, ed eventualmente anche a sostenere iniziative per l’ampliamento della propria sfera d’influenza geopolitica.

Una discussione piú pacata
Oggi, le ragioni per rendere di nuovo attuale, in Europa, la discussione sulle dinamiche d’incontro e scontro fra l’impero di Roma e le «gentes externae» sono intrise di richiami al presente quanto – e forse ancor piú – di allora. Tuttavia, i connotati di queste ragioni sono differenti e il richiamo al passato – a quel passato – è meno diretto ed esplicito, e la discussione si svolge in genere con toni piú riflessivi e non cosí accesi.
In Germania, per esempio, nessuno immaginerebbe piú di esaltare con accenti nazionalistici il trionfo dei Germani sui Romani e in Italia, l’arrivo dei Longobardi nel VI secolo, che spezzò dopo lungo tempo l’unità augustea della Penisola, non è piú percepito come una ferita viva nel corpo di un’identità patria di matrice esclusivamente latina.
Questo cambiamento di prospettiva è stato imposto da diversi fattori, dei quali vale la pena ricordare almeno i piú importanti: con la fine della seconda guerra mondiale, in Italia e in Germania si è rapidamente sbiadito il nazionalismo «a tinte forti» dei decenni precedenti e, contemporaneamente, nel campo avverso si è assistito alla dissoluzione degli imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna. Successivamente, la nascita del progetto dell’Unione Europea ha posto perfino in discussione (almeno in linea di principio) il concetto stesso delle sovranità nazionali e l’irrompere dei flussi migratori dall’interno e dall’esterno del Vecchio Continente sta portando a un rimescolamento profondo delle identità linguistiche, religiose e culturali che ne hanno caratterizzato la sua storia recente.
Non a caso, quindi, storici e archeologi negli ultimi anni hanno iniziato sempre piú ad affrontare il problema della evoluzione e del declino dell’impero di Roma e del suo incontro/scontro con le popolazioni che vivevano all’esterno dei suoi confini sotto prospettive diverse. Per esempio gli studi piú recenti sono stati caratterizzati da una riscoperta della presenza e della persistenza, nelle varie regioni dell’impero e anche in epoca piuttosto tarda (III-IV secolo d.C.), di tradizioni culturali, religiose e linguistiche native accanto a quelle imposte dai conquistatori romani.
Lo stesso concetto di frontiera dell’impero ha mutato pelle, tramutandosi da barriera fra la civiltà e la barbarie in membrana osmotica fra mondi non sempre e non ovunque sul piede di guerra l’uno con l’altro, bensí connessi da un continuo e silenzioso processo di scambi di persone, cose e costumanze, che «contamina» l’identità tanto dei Romani quanto del multiforme universo «barbarico». Anche il processo di disintegrazione del dominio di Roma in Occidente, tradizionalmente definito di declino e caduta dell’impero, è stato reinterpretato come un complesso e ramificato percorso di «trasformazione» del mondo romano. Vengono cosí mettendosi in luce anche gli aspetti negoziali e non necessariamente traumatici del passaggio dal governo imperiale alle realtà dei cosiddetti Regni romano-germanici, che, alla fine del V secolo, avevano soppiantato completamente la «pars Occidentis» dell’impero romano.

Un impero «multietnico»
Infine, è stata revisionata profondamente la tradizionale interpretazione dello scontro fra Romani e «barbari» come di una contrapposizione fra compagini etnicamente compatte e consolidate. È stato piuttosto sottolineato da un lato il perdurare del carattere «multietnico» dell’impero romano, dall’altro il fatto che i gruppi che invadono in armi l’impero sono spesso costituiti da agglomerati assai eterogenei al proprio interno, e che anzi la formazione dell’identità e perfino del nome dei popoli che premono ai confini di Roma è frutto di una storia quasi sempre assai recente, stimolata in molti casi proprio dall’esigenza di organizzare la migrazione da una regione all’altra e lo scontro militare con l’impero.
Questo processo, complesso e magmatico, di scomposizione e ricomposizione delle matrici culturali, antropologiche e politiche dei popoli invasori dell’impero è stato definito, in questi ultimi anni, con l’affascinante termine di «etnogenesi» (dal greco ethnos = popolo e ghénesis = formazione), che pone in rilievo la fisionomia tutt’altro che cristallizzata e impermeabile degli attori del colossale sconvolgimento della carta geopolitica dell’Europa che si verifica tra il V e il VI secolo della nostra era.
Queste nuove chiavi di lettura del fenomeno storico delle cosiddette «invasioni barbariche» sono in qualche misura debitrici del clima culturale del nostro tempo. Oggi, l’Europa occidentale è avviata verso forme sempre piú intense di integrazione fra gli Stati e interessata da fenomeni massicci di immigrazione, anche da aree molto lontane geograficamente e culturalmente. Guardando al periodo compreso fra il III e il V secolo, ciò che affascina di piú è probabilmente, da un lato, il riuscito tentativo di tenere insieme popolazioni fra loro estremamente eterogenee, rendendole in varia misura partecipi del medesimo ideale di governo universale del mondo «civilizzato»; d’altro lato, l’idea di porre in evidenza gli aspetti non solo conflittuali della migrazione di nuovi popoli sulle terre già dell’impero romano o, comunque, relativizzare il concetto di «dissoluzione» del mondo romano, proponendone piuttosto una prospettiva di «trasformazione», aiuta forse non solo a conoscere meglio la complessità di ciò che avvenne in quel convulso periodo della storia d’Europa, ma anche a esorcizzare timori latenti nella società di oggi. In particolare, mi riferisco alle inquietudini che derivano dalla consapevolezza di vivere un presente in cui il ricco Occidente convive con mondi circostanti attanagliati da grande povertà e instabilità e s’interroga sul modo in cui riuscirà nel futuro (se vi riuscirà) a mantenere la propria posizione di privilegio e di dominio e come saprà gestire l’afflusso, al proprio interno, di masse di persone che, provenendo da quei mondi, cercano qui lavoro e integrazione e portano in dote diverse (e non sempre bene accette) tradizioni culturali, sociali e religiose.

Tempi durissimi (???)
Gli eventi susseguiti all’«attacco all’Occidente» dell’11 settembre 2001 e l’irrompere della crisi che sta coinvolgendo in diversa misura le economie europee hanno prodotto qualche ripercussione, in sede storiografica, nella valutazione delle dinamiche che portarono alla fine dell’impero romano e al ruolo avuto in tal senso dalle popolazioni «barbariche». Per esempio, l’archeologo inglese Bryan Ward-Perkins, in un saggio dal significativo titolo La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, 2008) ha criticato radicalmente la posizione di quanti avevano optato per un’interpretazione soft della conclusione della parabola storica dell’impero romano. Dati alla mano, i secoli in cui si fronteggiarono barbari e Romani furono tempi durissimi, secondo Ward-Perkins, in cui l’integrazione fra genti e civiltà avvenne a prezzo di sconvolgimenti sociali ed economici radicali e in cui gli standard di vita delle popolazioni delle terre appartenute all’impero retrocessero a livelli preistorici, con conseguenze drammatiche sulla demografia del continente.
Problemi e prospettive attuali possono effettivamente aver contribuito a stimolare un nuovo interesse verso la fine del mondo antico, e anche a sollecitare un approccio meno esclusivamente «catastrofista» a questo tema. Tutto ciò è stato reso possibile dagli eccezionali progressi della ricerca archeologica che hanno messo a disposizione nuovi dati sull’evoluzione dei commerci, dei modi di abitare, sulla cultura, sulle strutture socio-politiche, sui gusti artistici e sulle tecniche belliche di questi secoli.
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Re: Ouropa: romani e barbari ??? No anca tanto altro

Messaggioda Berto » sab ott 10, 2015 7:40 am

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