Strage degli Hutu e dei Tutsi

Strage degli Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 25, 2014 8:21 pm

Strage degli Hutu e dei Tutsi
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 1743#p1743

???
Ła łate de vaca: ła majoransa de łi Hutu contadini opresi e sfrutà contro ła megnoransa de łi Tutsi pastori de vake, dominanti e opresori par secołi, ...
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... Z5WDg/edit



Gino Quarelo
Il conflitto Tutsi-Hutu etnico-tribale che origini storiche ha?


Dragor Alphan
È politico, non etnico-tribale, creato nel 1955 dal vescovo svizzero André Perraudin con il "Manifesto del Popolo Hutu" per criminalizzare i Tutsi.


Ruanda: dal Manifesto Bahutu al genocidio del 1994
09 Aprile 2014

https://www.infoaut.org/approfondimenti ... o-del-1994


Si è parlato molto del genocidio ruandese, sarebbe meglio chiamarlo genocidio del 1994 visto che, come andremo a vedere, fu il secondo in ordine di tempo. Tra le altre cose, se ne è sempre parlato con una visione “occidentale” presentandolo, attraverso i media, quasi come un esplosione di violenza che ha turbato una “pacifica” convivenza.

Molto poco si è detto invece sull'ossatura ideologica di un regime di stampo razzista che diede il via ai massacri come ultimo atto al fine di mantenere il proprio potere.

Hutu Power: il Manifesto Bahutu del 1957

Il 24 marzo del 1957 viene pubblicato in Ruanda un documento di 12 pagine intitolato: “Note sull’aspetto sociale del problema razziale indigeno nel Rwanda”, redatto da nove intellettuali hutu che si definiscono “cristiani impegnati”. I loro nomi sono: Maximilien Niyonzima, Grégoire Kayibanda, Claver Ndahayo, Isidore Nzeyimana, Calliope Mulindaha, Godefroy Sentama, Sylvestre Munyambonera, Joseph Sibomana e Jouvenal Habyarimana.

Alcuni studiano presso il seminario di Kigali, Kayibanda e Niyonzima sono i redattori del giornale ufficiale della chiesa cattolica Ruandese: “Kinyamateca”, che è l'unico organo di stampa locale permesso dalle autorità coloniali belghe, Milidadabi è il segretario al vescovato di Kabgayi oltre che direttore dell' Azione Cattolica in Ruanda.

Un ruolo fondamentale nella redazione e nella diffusione del Manifesto Bahutu lo ebbe la congregazione missionaria belga dei “Padri Bianchi” mascherando l'appoggio al Manifesto con “la promozione di un’era di maggior giustizia e democrazia nella societa’ ruandese”.

Il Manifesto si basa sulla teoria “storico-etnica” inventata dal colonialismo belga che individua i tutsi come una popolazione nilotica proveniente da Etiopia e Egitto che colonizzò il Ruanda schiavizzando la popolazione locale Hutu. Questa è la teoria dalla cui partenza il Manifesto Bahutu rivendica un “processo democratico” nel paese capace di metter fine alla secolare supremazia dei tutsi e al “servilismo feudale” cui gli hutu erano costretti.

Anche se, in apparenza, il Manifesto Bahutu contiene rivendicazioni progressiste quali la riforma agraria, la soluzione del problema indigeno in Ruanda ecc...; esso è il testo di base per la supremazia razziale Hutu e il regime razzial-nazista instaurato da Jouvenal Habyarimana all'indomeni dell'indipendenza, citando un passo del manifesto: “Qualcuno si domanda se esiste veramente un conflitto sociale o se è un conflitto razziale. Noi pensiamo che queste riflessioni siano semplice letteratura. Nella realtà e nel pensiero del popolo il problema non è sociale. Il problema risiede nel monopolio politico che i tutsi dispongono. Un monopolio politico che, esaminando le attuali strutture esistenti, si trasforma in un monopolio economico e sociale dei tutsi che, con grande disperazione per gli hutu, condanna la maggioranza della popolazione a restare eternamente della mano d’opera subalterna". Possiamo notare come gli autori del documento, attraverso un abile falsificazione storica, identificano gli hutu come vittime del “colonialismo tutsi”. La tesi è sviluppata grazie alla teoria del “colonialismo a due fasi” che individua come “prima fase” il colonialismo dei tutsi sugli hutu e come “seconda fase” il colonialismo belga in Ruanda.

Sempre citando un atro passo: “Senza gli Europei noi saremmo stati condannati ad uno sfruttamento disumano e, tra i due mali bisogna scegliere il minore” (il colonialismo europeo),“un colonialismo progressista e buono rispetto alla supremazia razziale dei nilotici” vediamo,quindi,come si attui una distinzione della popolazione ruandese come i dominati (hutu) e i dominatori (tutsi) vengano raffigurati come due popolazioni ben distinte in questo “documento” redatto da “intellettuali cristiani”, “intellettuali” che,volutamente,non si soffermano a riflettere sul fatto che entrambe le “etnie” parlino la stessa lingua (il Kinyaruanda, una lingua bantu) ,abbiano gli stessi usi e costumi e vivano negli stessi villaggi e nelle stesse città.

Il manifesto Bahutu è quindi in realtà un manifesto razziale, che si basa sulla distinzione di due blocchi etnici incitando una parte della popolazione (gli hutu) a ribellarsi contro i tutsti anziché parlare di popolazione ruandese nel suo insieme e individuare nel colonialismo belga il vero male del paese.

Il contesto storico

Il potere coloniale belga comincia a sgretolarsi con la fine della Seconda Guerra Mondiale sotto la spinta dei primi movimenti politici africani, nel 1952 il Belgio annuncia la preparazione di un piano decennale di sviluppo nel Ruanda e nel Burundi con l'obbiettivo di “preparare” le due colonie africane all'indipendenza.

L'opposizione più radicale nel paese contro il colonialismo belga era promossa dalla borghesia tutsi attraverso un progetto di indipendenza basato non sull'etnicità ma sul nazionalismo, attraverso il concetto secondo il quale ogni ruandese (indipendentemente dalla sua provenienza etnica) aveva il diritto di gestire il proprio paese senza interferenze esterne, soprattutto se provenienti dalla ex potenza coloniale. L’indipendenza dal Belgio era un diritto per i ruandesi e non una gentile concessione da parte della potenza coloniale europea.

Visto il precipitare degli eventi il colonialismo belga sostenne la creazione di forze politiche di chiara matrice etnica affidando il compito di creare una “intellighenzia” politica hutu alla chiesa cattolica, "intellighenzia" che aveva il compito di incanalare il risentimento della popolazione (dopo decenni di imposizioni e repressioni da parte del colonialismo belga) verso i tutsi, grazie al sostegno finanziario del movimento internazionale democristiano, la Chiesa e il Belgio favorirono la creazione di partiti “hutu” da contrapporre a tutti quei partiti che avevano sposato una causa anticoloniale basata sul nazionalismo e non sull'etnicismo.

Il Manifesto Bahutu, nacque per dare a tutti questi partiti “hutu” uno spessore ideologico pseudo rivoluzionario capace di confondere la loro politica basata sulla supremazia razziale attraverso una maschera democratica e progressista.

Con queste premesse si arriva,nel 1962, all'indipendenza accompagnata nel frattempo dallo sterminio di 100mila ruandesi di etnia tutsi seguita dalla fuga di numerosi sopravvissuti in Uganda e in Burundi. Nel 1973 in Ruanda, il generale Juvénal Habyarimana prende il potere attraverso un colpo di Stato instaurando un regime razzial-nazista basato sulla supremazia hutu, attraverso la teoria dell “hutu power” che trova il suo fondamento ideologico nel Manifesto Bahutu, concretizzatasi attraverso il piano di “soluzione finale” ideato e attuato negli anni '90.

L'Hutu Power e il regime razzista di Habyrimana

Dal 1973 fino al 1994 il regime di Habyrimana giocò la carta etnica per isolare le popolazioni del centro e del sud del paese poco sensibili al nuovo regime razzista instaurato nel paese. Le “origini etniche” furono registrate sui documenti di identità, come al tempo del colonialismo belga, e servivano per determinare l'accesso ai servizi pubblici attraverso un sistema di “quote razziali”. Tuttavia grazie alla copertura mediatica di Belgio, Francia e Vaticano, il regime di Habyrimana appariva “democratico” giocando sull'ambiguità della gestione del paese, a favore della maggioranza (durante il periodo del partito unico) e successivamente aprendosi al multipartitismo, giocando così sull’ambiguità della volontà elettorale della maggioranza. “Gestione del paese a favore della maggioranza” significava gestione del potere a favore dell'elite dominante hutu, ossia a favore del famelico clan presidenziale aggrappato allo sfruttamento delle risorse del paese, grazie alla ex potenza coloniale, oltre che alla Francia e al Vaticano facendo così conoscere al popolo ruandese una dittatura trentennale a connotazione razziale.

1994: il genocidio

L'11 gennaio del 1994 il generale canadese Dellaire, al comando dei caschi blu dell' ONU giunti in Ruanda per far rispettare l'accordo di Arusha del 1993, spedisce un fax al quartier generale di New York dove informa i massimi esponenti delle Nazioni Unite della preparazione, da parte del regime, dell'avvio delle operazioni di “pulizia etnica” da parti delle locali milizie Interahamwe, ben 4 mesi prima dell'inizio ufficiale delle “operazioni” con la connivenza del palazzo di vetro, che già sapeva dei preparativi in corso. L'ufficio dell'ONU fu capace di lavorare a pieni ranghi solo dopo il termine del genocidio, e questo ritardo costò alle Nazioni Unite una quantità di accuse che le portarono nel marzo 1996 a ritirare i propri contingenti.

Il 6 aprile del 1994 alle 20.30, l'aereo presidenziale con a bordo Juvenal Habyarimana, presidente del Ruanda, si sta preparando all’atterraggio. A bordo c’è anche il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, più una piccola folla di accompagnatori. Il gruppo è di ritorno da una riunione di emergenza dei capi di stato africani durante la quale Habyarimana ha promesso di installare un governo di transizione nazionale a partire dall'8 aprile. Da mesi il governo tergiversa sull'attuazione degli accordi di Arusha, firmati rispettivamente il 30 ottobre del 1992 e il 9 gennaio del 1993 ,i quali stabiliscono una tregua alla guerra civile che dhe dal 1990 vede il governo razzista di Kigali contrapporsi ai ribelli del Front Patriotique Rwandais (FPR), guidati da Paul Kagame (attuale presidente del paese). Gli accordi avrebbero comportato non solo il passaggio a un governo di transizione a base allargata ma anche l'interruzione da parte francese, del supporto politico, militare ed economico al regime di Habyarimana.

Mentre l'aereo si prepara all'atterragio viene colpito da due missili terra-aria ed esplode in volo, poche ore dopo nelle strade è già l'inferno. Accusando i ribelli dell' FPR dell'attentato, il governo da l'avvio a un massacro sistematico, e pianificato già da alcuni anni, attraverso l'addestramento delle tristemente note milizie Interahamwe e l'uso propagandistico della tv e della radio di stato (Radio Télévision Libre des Mille Collines).

Il Ruanda contava all'epoca circa 7 milioni di abitanti e in 100 giorni vengono eliminate dall'esercito (dalle milizie Interahamwe e dalla guardia presidenziale) circa 800.000 persone. In una corsa contro il tempo l'FPR riuscirà a entrare a Kigali e porre fine al massacro.
Inizierà un esodo che vedrà un milione di persone di etnia hutu, tra cui i principali esecutori dei massacri, riversarsi nell'allora Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) inseguiti dalle truppe del nuovo governo insediatosi a Kigali che coglierà la palla al balzo per occupare le principali zone diamantifere congolesi e iniziare quel processo di furto delle risorse che continua tutt'ora e che è parte importante dell'economia ruandese.

In questa storia l'implicazione della Francia ha un sapore coloniale: Parigi sostenne il regime razzista di Habyiarimana in ragione di una lettura dell' avanzata dei ribelli dell' FPR come un'espansione del fronte di influenza anglo-americano nella zona. Addestrati e formati in Uganda (con il supporto USA e britannico), i membri dell' FPR erano ritenuti da François Miterrand una minaccia per la tutela degli interessi francesi nella regione.

Quando nel luglio del 1994 l'FPR prende il controllo del paese, i rapporti tra Francia e Ruanda diventano tesi. Poco tempo prima il governo francese, avendo capito che la capitolazione del regime era inevitabile, cercò attraverso le vie ufficiali delle Nazioni Unite di organizzare una “missione umanitaria” per portare in salvo gli ideatori principali del genocidio; nel 2000 Jean-Christophe Mitterrand, figlio di François Mitterrand, sarà arrestato dalle autorità francesi per traffico di armi verso il Ruanda.

Nel novembre 1994 è stato istituito il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir, con sede ad Arusha, in Tanzania), incaricato di processare i responsabili di atti di genocidio e di altre gravi violazioni dei diritti umani in Ruanda o da cittadini ruandesi in paesi vicini tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994. Le inchieste del Tpir si sono concluse nel 2010 e le decisioni in appello dovranno essere comunicate entro la fine del 2015. Uno dei processi storici è stato quello a carico di Jean Kambanda, primo ministro del cosiddetto governo ad interim costituito il 9 aprile 1994, condannato all’ergastolo nel settembre 1998. E’ durato sette anni il processo ai “media dell’odio”, tra il 2000 e il 2007. Ferdinand Nahimana, uno dei fondatori della Radio Television Libre des Mille Collines (Rtlm), è stato condannato a 30 anni di carcere. In tutto il Tpir ha emesso 47 condanne e ha prosciolto 12 persone.

Nel 2009, Protasi Zigiranyairazo, noto come ‘Mister Z’, l’ex prefetto di Ruhengeri e cognato del presidente Habyarimana nonché uno dei principali responsabili del genocidio del 1994, venne prosciolto da ogni accusa. I suoi legali hanno basato la loro difesa sul fatto che non c’era alcuna prova del suo coinvolgimento nella pianificazione del genocidio. D’altra parte nove pianificatori del genocidio sono tutt’ora latitanti, tra cui uno dei principali finanziatori dei massacri, l’uomo d’affari Felicien Kabuga, visto per l’ultima volta in Kenya 20 anni fa.

Se da un lato numerosi esecutori e responsabili dei massacri avvenuti in Ruanda vent'anni addietro sono stati giudicati e condannati, sia in Tanzania attraverso il Tpir sia in Ruanda attraverso le “gacaca” (corti comunitarie), restano a piede libero i banchieri e i trafficanti di armi che finanziarono e armarono il governo razzista di Habyarimana.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Straje de li Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » lun feb 03, 2014 2:59 pm

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http://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio_del_Ruanda

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???

I Tutsi erano stati estromessi dal potere dagli Hutu, che costituivano l'85% della popolazione e dalla rivoluzione del 1959 detenevano completamente il potere. Il 6 aprile del 1994 l'aereo presidenziale dell'allora presidente Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, fu abbattuto da un missile terra-aria, mentre il presidente era di ritorno insieme al collega del Burundi Cyprien Ntaryamira da un colloquio di pace.
Ancora oggi è ignoto chi fece partire quel missile: le ipotesi più accreditate portano alle frange estremiste del partito presidenziale, le quali non accettavano la ratificazione dell'accordo di Arusha (1993) che concedeva al Fronte Patriottico Ruandese (RPF), composto in prevalenza da esiliati Tutsi, un ruolo politico e militare importante all'interno della società ruandese; un'altra ipotesi sostiene che fu proprio l'RPF a compiere l'attentato, convinto che il suo ruolo negli eventi sarebbe stato marginale e che i patti non sarebbero stati rispettati; qualche anno più tardi è stata incriminata la moglie del presidente, che proprio quel giorno, contrariamente alle sue abitudini, decise di prendere un mezzo alternativo all'aereo, forse perché conosceva in anticipo la sorte del marito o forse perché lei stessa ne aveva tessuto le trame.
Il giorno 7 aprile a Kigali e nelle zone controllate dalle forze governative (FAR, Forze Armate Ruandesi), con il pretesto di una vendetta trasversale, iniziarono i massacri della popolazione Tutsi e di quella parte Hutu imparentata con questi o schierata su posizioni più moderate, ad opera della Guardia Presidenziale e dei gruppi paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi, con il supporto dell'esercito governativo. Il segnale dell'inizio delle ostilità fu dato dall'unica radio non sabotata, l'estremista "RTLM" che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli "scarafaggi" tutsi.
Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo; vennero massacrate più di un milione di persone in maniera pianificata e capillare. Uno dei massacri più efferati fu compiuto a Gikongoro, l'allora sede dell'istituto tecnico di Murambi: oltre 27.000 persone vennero massacrate senza pietà e la notte dalle fosse comuni il sangue uscì andando ad inumidire il terreno. Per dare un'idea sommaria di quello che avvenne, basti pensare che in un giorno vennero uccise circa ottomila persone, circa 333 all'ora, ovvero 5 vite al minuto.
Il massacro non avvenne per mezzo di bombe o mitragliatrici, ma principalmente con il più rudimentale ma altrettanto efficace machete. Il genocidio ruandese ebbe termine nel luglio 1994 con la vittoria dell'RPF nel suo scontro con le forze governative. Giunto a controllare l'intero paese l'RPF attuò una risposta al genocidio che aggravò ulteriormente la situazione umanitaria in quanto comportò la fuga di circa un milione di profughi Hutu verso i paesi confinanti Burundi, Zaire, Tanzania e Uganda.
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Re: Straje de li Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » lun feb 03, 2014 3:11 pm

Origini di Hutu e Tutsi
http://it.wikipedia.org/wiki/Origini_di_Hutu_e_Tutsi

Hutu
http://it.wikipedia.org/wiki/Hutu
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Gli Hutu (Abahutu in kirundi ed in kinyarwanda) sono una delle etnie che occupano la regione situata tra il Burundi e il Rwanda. Fra queste, gli Hutu sono senza dubbio il gruppo più numeroso. L'85% dei ruandesi e l'85% dei barundi sono Hutu.
Anche se secondo alcuni si tratta di una suddivisione artificiale, basata più sulla classe sociale che sull'etnia, poiché non vi sono significative differenze linguistiche o culturali tra gli Hutu e gli altri gruppi etnici nell'area, (quali i Tutsi), vi sono nondimeno differenze fisiche, principalmente nella statura media e nell'aspetto, oltre che nell'autoidentificazione collettiva degli interessati.
Hutu e Tutsi hanno d'altronde la stessa religione e lingua. Alcuni studiosi fanno anche notare il ruolo importante che i colonizzatori belgi ebbero nella creazione delle idee di razze Hutu e Tutsi. Ci si riferisce al dibattito sull'origine camitica della gente tutsi.
-Gli Hutu arrivarono nella regione dei Grandi Laghi intorno al I secolo d.C., scacciando i Twa. ???
-Gli Hutu dominarono sull'area, attraverso una serie di piccoli regni, fino al Quindicesimo secolo.
-Si pensa che a quel tempo i Tutsi arrivarono nell'area dall'Etiopia e sottomisero gli Hutu.
La monarchia tutsi sopravvisse fino alla fine dell'era coloniale negli anni 1950; i dominatori Belgi usavano e codificavano le divisioni etniche per mantenere saldo il proprio controllo.
-La monarchia tutsi cadde rapidamente e la regione fu divisa tra Ruanda e Burundi nel 1962.
Tuttavia, i Tutsi rimasero dominanti nel Burundi, mentre gli Hutu ebbero il controllo del Ruanda fino al 1994.
Forti tensioni etniche portarono al genocidio ruandese, che è stato rappresentato nel film Hotel Rwanda.

Tutsi
http://it.wikipedia.org/wiki/Tutsi
Immagine
I Tutsi (Abatutsi in kirundi ed in kinyarwanda, impropriamente noti anche come Vatussi o Watussi) (IPA:tʊt͡si,vɑtussi) sono, insieme a Twa e Hutu, una delle tre classi sociali delle nazioni di Ruanda e Burundi nella regione africana dei Grandi laghi.

Twa
http://it.wikipedia.org/wiki/Twa
Immagine
I pigmei Twa (Abatwa in kirundi ed in kinyarwanda) rappresentano una delle più antiche comunità autoctone della regione dei Grandi laghi dell'Africa centrale.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab dic 31, 2016 8:15 pm

???

Ruanda, il comportamento dei musulmani durante il genocidio
di Enrico Muratore | 24 dicembre 2015

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... io/2329195

Nel 1884 la Conferenza di Berlino regalò il Congo al re del Belgio Leopoldo II e decretò la spartizione dell’Africa tra le potenze europee. Alla Germania, tra l’altro, spettò il Ruanda. Nel 1893 il conte von Götzen, primo tedesco a giungere in Ruanda, convinse il Mwami Kigeli IV Rabugiri a sottomettersi, in cambio di fucili per difendere il suo regno dalle scorrerie arabe.

La popolazione del Ruanda, strutturata in clan, si suddivideva in tre classi: i Tutsi, allevatori, nobili e guerrieri (14% della popolazione); gli Hutu (agricoltori, 85%) ed i Twa (vasai e giullari di corte, 1%). I matrimoni misti erano frequenti e gli Hutu, acquisendo bestiame, potevano ascendere socialmente. Hutu e Tutsi condividevano una sola lingua, il kinyarwanda, e un Dio unico, Imana, che proteggeva i suoi figli dando la caccia ad una belva feroce chiamata Morte. Quando cacciava, tutti si dovevano nascondere perché Morte non trovasse preda né rifugio. Ma un giorno una vecchia andò a raccogliere verdure: Morte si insinuò sotto la sua gonna e la donna morì. Tre giorni dopo, sua nuora, che la odiava, vide che sulla tomba erano apparse delle crepe come se la morta stesse cercando di tornare alla vita. Allora picchiò la terra con un grosso pestello, gridando: “Rimani morta!”. Fu la fine della possibilità che Imana aveva dato all’uomo di sfuggire alla morte.

La sconfitta nel primo conflitto mondiale ed il Trattato di Versailles segnano la fine dell’impero coloniale tedesco. La Società delle Nazioni affida il mandato sul Ruanda-Urundi al Belgio, che nel 1908 aveva già ereditato il Congo dal suo Re, dopo 24 anni di sfruttamento personale ed atrocità in cui erano periti almeno cinque milioni di congolesi. Anche in Ruanda-Urundi i belgi prenderanno decisioni foriere di gravi conseguenze, come quella, nel 1933, di istituire carte d’identità etniche e così negare agli Hutu ogni possibilità di ascensione sociale, dopo avere imposto loro il lavoro forzato e riservato ai Tutsi l’accesso all’educazione (affidata alla Chiesa) e all’amministrazione.

Dal 1868 intanto, l’arcivescovo di Algeri, Monsignor Lavigerie, aveva creato i Missionari d’Africa, meglio noti come Pères blancs, i quali, ai giuramenti di castità, povertà ed obbedienza, aggiungevano quello dell’evangelizzazione dell’Africa. Nel 1900 essi fondano le prime missioni in Ruanda. Nel 1922 è eretto il vicariato apostolico. Nel 1946 Charles Mutara III Rudahigwa, primo Mwami a convertirsi al cristianesimo, dedica il regno al Cristo Re, anche se le credenze tradizionali non scompaiono completamente e Dio in Ruanda continuerà saldamente a chiamarsi Imana.

Il cristianesimo (soprattutto il cattolicesimo) è abbracciato dal 95% della popolazione e trionfa anche dopo l’indipendenza nel 1962, prima sotto il Presidente Kayibanda (un ex seminarista), ed in seguito sotto Juvenal Habyarimana. Nel settembre 1990 Giovanni Paolo II effettua una visita apostolica in Ruanda. Ma un mese dopo l’esercito dei Tutsi del Fronte Patriottico Ruandese attraversa il confine ugando-ruandese. E’ l’inizio della guerra civile e del crescendo di follia che il 7 aprile 1994 sfocerà nel genocidio.

Come ogni altra struttura sociale a quel tempo, le differenti confessioni furono confrontate al genocidio. Tra esse era presente anche un’esigua minoranza musulmana: nel libro Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie (il cui titolo è tratto da una lettera che un gruppo di pastori protestanti Tutsi scrisse ai propri superiori Hutu durante il genocidio) Philippe Gourevitch afferma che essa “apparentemente (…) non era stata attiva nel genocidio, avendo anche cercato di salvare dei Tutsi”. Nel 1995, anche il Presidente Bizimungu lodò pubblicamente il comportamento della comunità musulmana in un contesto in cui i membri Hutu delle altre confessioni avevano invece in maggioranza partecipato all’uccisione dei loro correligionari, vicini e persino parenti Tutsi.


???
Ma cosa hanno fatto concretamente i musulmani durante il genocidio in Ruanda? È vero che il loro comportamento è stato migliore di quello delle altre confessioni? E perché? Risponderemo a queste domande in un prossimo articolo.


Mi credo ke i musulmani łi se gapie tegnesto fora parké łi jera na megnoransa, manco del 4/5% de ła popołasion e ghe convegneva star boni parké en Afrega no łi skersa e gnanca łi fa i boni come en Ouropa.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 4:15 pm

???

Le colpe della Chiesa nel genocidio del Rwanda
26 aprile 2014
http://www.terrelibere.org/7498-le-colp ... del-rwanda

A marzo la Corte d’Appello di Roma ha negato l’estradizione di Jean-Baptiste Rutihunza, un sacerdote accusato di gravissimi crimini nell’ambito del genocidio in Rwanda. È solo la punta dell’iceberg di decine di casi che coinvolgono uomini di Chiesa. Sempre, puntualmente, protetti

A metà marzo, a pochi giorni dal ventennale del genocidio del Rwanda, l’Italia “festeggiava” la ricorrenza negando l’estradizione di un sacerdote accusato di genocidio e crimini contro l’umanità. E così padre Jean-Baptiste Rutihunza potrà stare ancora in Vaticano presso il quartier generale dei Fratelli della Carità.

L’avvocata che segue la vicenda per le associazioni ruandesi sostiene che si tratta di un giallo internazionale che si muove tra Africa, Vaticano, Italia e Francia. L’ambasciata ruandese a Parigi ha trasmesso a quella italiana un dossier incompleto con documentazione insufficiente. La IV Sezione della Corte di Appello di Roma avrebbe quindi osservato che le accuse erano frutto del “profondo odio razziale diffuso tra la popolazione”.

La grave vicenda di Rutihunza è solo la punta di un iceberg. E la traccia di ferite che vent’anni dopo sono aperte sia in Africa che in Europa. In questione non è semplicemente il ruolo giocato dalla Chiesa cattolica ruandese in relazione agli eventi genocidari, ma anche l’assistenza e la copertura che l’istituzione ecclesiastica nel suo complesso sembra avere in più occasioni offerto ad autori di crimini efferati solo perché indossavano i paramenti sacri.


Il boia di Gatara

All’epoca del grande massacro che, fra l’aprile e il luglio del 1994, portò allo sterminio di circa un milione di ruandesi prevalentemente appartenenti al gruppo sociale dei tutsi, padre Rutihunza era rappresentante legale di una struttura religiosa gestita dai Fratelli della Carità presso la cittadina di Gatara, nel distretto meridionale di Nyanza. Il centro ospitava in quel periodo centinaia di bambini con gravi problemi motori e, stando a quanto raccontato da diversi sopravvissuti ma non accolto dal Tribunale italiano, il religioso che oggi risiede in Vaticano avrebbe giocato un ruolo più che attivo negli eventi genocidari, indicando ai gruppi paramilitari hutu, tra cui i noti interahamwe, i bambini disabili di origine tutsi da prelevare e uccidere. Nel far ciò, Rutihunza si sarebbe avvalso della collaborazione di Célestin Ugirashebuja, sindaco del vicino comune di Kigoma. A Gatara, secondo il Tribunale internazionale di Arusha, l’organo istituito in Tanzania dalle Nazioni Unite per far luce sui tragici eventi del 1994, nei mesi plumbei della mattanza furono uccisi 4.338 bambini, i cui cadaveri vennero poi interrati in fosse comuni.

Dopo che l’esercito ribelle del Fronte Patriottico Ruandese (Rpf), composto prevalentemente da tutsi della diaspora nati e cresciuti in Uganda e guidato dall’attuale presidente Paul Kagame, ebbe sconfitto nel luglio del 1994 il regime genocidario dell’hutu power, ponendo così fine alle uccisioni di massa, padre Rutihunza aveva trovato rifugio in un primo momento nella vicina Repubblica Democratica del Congo. Successivamente, nel 1996, si era spostato in Tanzania, per poi approdare, un anno dopo, nella capitale italiana. A Roma era rimasto, ospite di una struttura della sua comunità di appartenenza, fino a quando il Tribunale di Arusha non aveva spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti. La notizia era stata diffusa dagli organi di stampa, e il prelato si era quindi per un periodo spostato nuovamente, stavolta in Belgio. Tornato all’ombra del cupolone due anni fa, lavora attualmente come receptionist presso la sede centrale della congregazione di cui è membro. La sua estradizione, sulla quale dovrà pronunciarsi a breve la Corte di appello di Roma e in seguito, presumibilmente, anche la Cassazione, è ora richiesta non più dal tribunale di Arusha ma dallo stesso governo ruandese dopo che, circa cinque anni fa, la procura generale di Kigali ha avocato a sé il caso. Interpellato qualche tempo fa da “Repubblica”, quello che nel suo Paese di origine è noto come il “boia di Gatara” ha respinto tutte le accuse mossegli, sostenendo di essere vittima di una «vendetta politica».


Orrore in sacrestia

Dopo la pubblicazione della notizia relativa alla presenza a Roma di Rutihunza, nel 2012, la Santa Sede ha fatto sapere, per bocca del portavoce vaticano padre Federico Lombardi, di «non avere nulla a che fare» con il sacerdote ruandese, al quale «non è mai stata offerta protezione alcuna». Eppure, non è la prima volta che il Vaticano incappa in accuse simili. Il caso più noto è probabilmente quello di padre Athanase Seromba, un religioso anch’egli proveniente dal piccolo Paese dei Grandi Laghi che la corte di Arusha ha condannato all’ergastolo nel 2008. Padre Seromba è stato riconosciuto colpevole di aver fatto trucidare durante il genocidio 1.500 tutsi rifugiatisi nella sua parrocchia situata a Nyange, nella prefettura di Kibuye. Il sacerdote aveva fatto entrare in chiesa la popolazione in fuga dalle milizie radicali hutu con la promessa che lì nessuno avrebbe osato toccarli. Ma l’edificio, presto circondato dai genocidari, si era invece subito rivelato per quel che era: una prigione collettiva che Seromba aveva messo in piedi con la complicità di aguzzini e autorità locali. Il consenso e l’autorità morale del prete avevano quindi giocato un ruolo fondamentale nella strage che sarebbe seguita: difficilmente i miliziani avrebbero potuto portare a compimento il proprio progetto criminale se il sacerdote non si fosse mostrato d’accordo e, a quanto pare, impegnato in prima persona nella pianificazione del massacro. Era stato lo stesso Seromba – dopo aver tenuto prigionieri per giorni all’interno della sua chiesa, in condizioni disumane, senza acqua, cibo né servizi igienici, più di mille uomini, donne e bambini – a dare l’ordine di spianare l’edificio con i bulldozer, mentre i miliziani hutu sparavano, lanciavano granate e si accanivano a colpi di machete contro chiunque tentasse la fuga dalle finestre del luogo di culto. Nei giorni precedenti la “soluzione finale”, ai suoi prigionieri, inconsapevoli del ruolo giocato dal religioso, che gli chiedevano di pregare per loro, Seromba aveva risposto: «Credete che il Dio dei tutsi sia ancora vivo?».

In seguito all’arrivo dell’Rpf, il prete genocidario, che si è sempre dichiarato innocente, si era rifugiato in Italia, a Firenze, assumendo un nuovo nome (Anastasio Sumbabura) e continuando a dire messa come se nulla fosse accaduto. La diocesi del capoluogo toscano aveva infatti deciso di ospitarlo presso la parrocchia dell’Immacolata, a Montughi. Dopo il riconoscimento e la denuncia, l’allora procuratrice del tribunale Onu, Carla Del Ponte, aveva accusato il Vaticano di aver esercitato forti pressioni sul governo italiano per evitarne l’estradizione. Alla fine il sacerdote non era stato estradato e si era invece costituito. Dopo la condanna in primo grado a 15 anni di carcere, risalente al 2006, due anni dopo era arrivata la sentenza definitiva, di cui si è detto. Attualmente Seromba sta scontando l’ergastolo in Benin.


Il parroco con l’elmetto

Casi analoghi ai due già citati e che sembrano chiamare in causa il ruolo della gerarchia ecclesiastica nella mancata condanna dei crimini genocidari o, peggio, nell’offrire protezione ai religiosi che li hanno commessi, in realtà non mancano. Wenceslas Munyeshyaka nella primavera del 1994 ricopriva il ruolo di parroco della chiesa della Sainte Famille, nella capitale Kigali. A partire dal 1995, diversi sopravvissuti lo hanno accusato di torture, stupri e trattamenti inumani e degradanti nei confronti delle persone che, in maniera simile a quanto accaduto con Seromba, gli si erano affidate cercando protezione all’interno del luogo di culto. Decine di testimonianze concordano nel ritrarre il prelato come un agente al servizio degli interahamwe, che si sarebbero avvalsi della sua collaborazione per stilare liste di persone da prelevare dalla chiesa per poi trucidarle in altri luoghi. In quegli stessi giorni pare che il sacerdote, che girava armato all’interno del complesso della Sainte Famille, si sia inoltre macchiato del crimine di violenza sessuale nei confronti di diverse donne ospitate all’interno dell’edificio. Talvolta, sempre secondo le testimonianze, il prelato offriva salvezza in cambio di favori sessuali.

La successiva vicenda giudiziaria di Munyeshyaka è indice della difficoltà che più volte è stata incontrata dal Tribunale penale internazionale per i crimini commessi in Ruanda nell’ottenere l’estradizione di imputati rifugiatisi in Francia. Dal 1995 ad oggi, l’ex parroco della Sainte Famille è stato arrestato e poi rilasciato in diverse occasioni, sempre in virtù di cavilli burocratici. Lo stesso tribunale di Arusha, in vista del suo prossimo scioglimento, ha alla fine acconsentito a farlo processare oltralpe ma, ad oggi, la giustizia stenta a fare il suo corso, e padre Munyeshyaka esercita indisturbato il ministero sacerdotale in un piccolo paese della provincia francese. Nel frattempo, tuttavia, il prete è stato processato e condannato all’ergastolo in contumacia, nel novembre 2006, da un tribunale militare ruandese.

È di nuovo una storia di mancata protezione di civili tutsi in cerca di rifugio all’interno di un’istituzione ecclesiastica quella che è valsa a padre Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare dell’esercito, una condanna a 25 anni di carcere in primo grado, poi ridotta a 23 in appello, per genocidio e crimini contro l’umanità. Nel 1994, il sacerdote era responsabile del seminario minore San Leone di Gitarama. Secondo quanto appurato dal tribunale di Arusha, nei mesi in cui le forze regolari e quelle paramilitari scorrazzavano per il piccolo paese africano massacrando impunemente migliaia di persone, Rukundo consegnò ai miliziani diversi cittadini tutsi ospitati nel suo seminario. Dopo la fine del genocidio, l’ex cappellano militare si era trasferito in Svizzera, dove inizialmente era riuscito ad ottenere lo status di rifugiato e dove nel 2001 era stato arrestato dalle autorità su richiesta del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Ad Arusha, Rukundo è stato condannato con sentenza passata in giudicato nell’ottobre del 2010.


Sorella morte

Non solo preti. Anche alcune suore, stando a quanto finora accertato, presero parte attiva ai massacri ispirati dall’odio etnico e perpetrati dal regime genocidario in mezzo al colpevole silenzio della comunità internazionale. La storia più nota è, da questo punto di vista, quella raccolta dall’associazione African Right e dettagliata nelle pagine di Not so innocent: when women became killers. Al centro di quel rapporto vi sono le due figure di Gertrude Mukangango, madre superiora del convento di Sovu, in provincia di Butare, e della sua consorella Julienne Kizito, soprannominata in patria gapysi, “l’animale”.

Il pattern è sempre il solito: quando cominciano i massacri, suor Gertrude accoglie in un primo momento all’interno del proprio convento diverse famiglie di tutsi in fuga. Poi, una mattina, decide che per i suoi ospiti è venuto il momento del “distacco dell’anima dal corpo”. Per sei settimane, la religiosa agisce in combutta con gli aguzzini consegnandogli le persone da assassinare. Quanto a suor Julienne, che collabora attivamente con la superiora, una sopravvissuta sostiene di averla vista indicare ai killer un tutsi che lavorava come assistente nel convento. La religiosa stessa aveva poi cosparso di benzina il malcapitato per consentire ai miliziani di bruciarlo vivo.

Dopo la fine del genocidio, le due consorelle trovano una calorosa accoglienza presso il monastero belga di Maredsous. Quando all’interno del chiostro arriva la notizia che Gertrude e Julienne sono ricercate dal tribunale di Arusha, la madre badessa che le ospita dichiara semplicemente: «Siamo convinti che queste accuse sono false, ma il nostro principio è quello di mantenere il silenzio». Le due suore verranno in seguito processate e condannate in Belgio insieme ad altri due genocidari ruandesi. Il caso dei «quattro di Butare» ebbe all’epoca una certa risonanza perché le condanne vennero comminate applicando il principio della giurisdizione universale, in base al quale uno Stato può perseguire un crimine commesso in uno Stato straniero da cittadini stranieri se si configura come un crimine contro l’umanità tutta.

Sempre a Butare si sarebbe infine macchiata di crimini orribili suor Theophister Mukakibibi, condannata nel 2006 a 30 anni di carcere da un tribunale gacaca. L’accusa è in questo caso quella di aver aiutato i paramilitari hutu a massacrare centinaia di tutsi ricoverati nell’ospedale in cui suor Theophister lavorava. Nei giorni della follia genocidaria, la religiosa avrebbe scortato i miliziani dalle loro vittime, avrebbe rifiutato il cibo ai tutsi che erano ospitati nel nosocomio e avrebbe gettato un bambino vivo dentro una latrina. I tribunali gacaca, istituiti nel 2001 dal governo ruandese per giudicare localmente quanti sono accusati di aver preso parte alle stragi del 1994, sono ispirati ai tribunali di villaggio tradizionali e al principio del coinvolgimento nel giudizio delle presunte vittime. Proprio per questo, sono stati spesso al centro di polemiche perché non ritenuti in grado di garantire una sufficiente imparzialità di giudizio, esponendo allo stesso tempo gli accusatori al rischio di ritorsioni da parte di parenti e amici dell’imputato.


Assolti ma chiacchierati

Esistono infine casi più controversi, riguardanti cioè religiosi che, sospettati di complicità con i genocidari, sono stati assolti in sede giudiziaria. È il caso ad esempio di Augustin Misago, l’ex vescovo di Gikongoro, oggi deceduto, che era stato accusato di non aver agito per evitare la morte di 30 bambini e di non aver fatto nulla per salvare un altro sacerdote, padre Niyomugabo, condannandolo così a morte. Misago è stato assolto da tutte le accuse da parte di un tribunale ruandese nel 2010, continuando tuttavia ad essere duramente criticato da diversi sopravvissuti e da alcuni gruppi di attivisti per i diritti umani per l’atteggiamento assunto durante i massacri e per non aver mai pronunciato in seguito alcuna parola di pentimento a nome dell’istituzione ecclesiastica. Infine, nel 2010 è stato archiviato dalla giustizia belga il caso di Guy Theunis, membro della Società dei Missionari d’Africa, i cosiddetti Padri Bianchi. Il sacerdote era stato arrestato e imprigionato in Ruanda nel 2005 prima di essere trasferito in Belgio, suo Paese di orgine. Theunis era stato accusato dalla magistratura ruandese di complicità con i genocidari per aver pubblicato sulla rivista da lui diretta, Dialogue, del materiale razzista tratto dalla periodico estremista hutu Kangura («Svegliatevi»). La magistratura belga lo ha ritenuto innocente. È un fatto acclarato, tuttavia, che Kangura fosse, insieme alla Radio Télévision Libre des Mille Collines, uno dei principali organi di informazione che, già prima dell’inizio dei massacri, avevano cominciato a fare una propaganda martellante volta a fomentare l’odio etnico.


Uno scandalo con radici antiche

La raccolta di dati sul coinvolgimento di alti prelati, semplici sacerdoti e suore nelle stragi del 1994 è tuttora in corso da parte di diverse organizzazioni per i diritti umani. Saranno le aule di tribunale a dire, caso per caso, se le accuse rivolte a singoli membri del clero ruandese hanno fondamento o meno. Certo è che, alla luce dei casi citati e di considerazioni più generali riguardanti la storia recente del Paese, le domande che sorgono sono tante e urgenti. Se il Vaticano è stato costretto, una volta messo alle strette e dopo svariate inchieste giornalistiche, a spendere in più occasioni, negli ultimi anni, diverse parole di pentimento e di vicinanza nei confronti delle vittime dei preti pedofili, non risulta che abbia mai riconosciuto pubblicamente l’entità del suo fallimento nel propagandare gli ideali evangelici di umanesimo e di fratellanza nella regione dei Grandi Laghi.

Ad essere in questione non è solo il coinvolgimento di uomini e donne di Chiesa nei massacri. È noto che la follia genocidaria non è nata dal nulla. Prima del 1994, decenni di propaganda “etnista” e di stragi “parziali” ai danni dei tutsi da parte del potere hutu, insediatosi dopo l’ottenimento dell’indipendenza dal Belgio, avevano già preparato il terreno per quello che, nei piani dei genocidari, doveva essere il destino finale degli inyenzi, gli scarafaggi, come venivano frequentemente chiamati i tutsi sulle frequenze di Radio Mille Collines. Quella del genocidio ruandese è una storia che comincia molto prima degli anni ’90, già al tempo della colonizzazione belga, ma soprattutto dopo la cosiddetta “rivoluzione sociale” del 1959 e l’indipendenza del 1962. È in seguito a questi due eventi che comincia ad affermarsi con forza nel Paese una nozione puramente numerica di democrazia, per cui quella che era l’élite dominante dei tutsi al tempo della monarchia sacra e della colonizzazione comincia ad essere vista come una minoranza di «privilegiati» che ha per anni tenuto sottomesse le masse povere hutu. Il 1959 segna il rovesciamento della situazione: d’ora in poi saranno gli hutu a governare in nome della “maggioranza”: all’origine dei massacri di tutsi che accompagnano tanto il periodo dell’indipendenza quanto i decenni successivi, e che determinano la creazione di grandi comunità di rifugiati nei Paesi confinanti (da quella ugandese sorgerà l’Rpf), c’è spesso, per quanto possa sembrare sorprendente, una malintesa nozione di “giustizia sociale”.

Ma la cristallizzazione di identità etniche che tali non sono è in realtà il frutto dell’opera sistematica di divisione della popolazione in gruppi di “superiori” e “inferiori”, “ricchi” e “poveri”, “nilotici” e “bantu” sulla quale i colonizzatori, aiutati in questo dai missionari cattolici, hanno storicamente costruito il proprio potere. Beninteso, le tre identità di hutu, tutsi e twa erano già presenti nella regione dei Grandi Laghi prima dell’arrivo dei belgi e degli uomini di Chiesa europei. Eppure, la deflagrazione dell’odio “etnico” è in qualche modo più tarda e, secondo diversi storici, va ricondotta alla strategia del divide et impera di cui si è detto. Una strategia nella quale la Chiesa cattolica, istituzione potentissima nel piccolo Paese africano e a lungo in grado di esercitare un monopolio totale sulla ricerca storica e antropologica, ha avuto un ruolo di primo piano.

È tramite l’istituzione ecclesiastica che si è formata l’élite hutu radicale che ha guidato il Paese nei decenni successivi all’indipendenza e prima della presa del potere da parte dell’Fpr. Ed è anche nei seminari e nelle università gestite da ecclesiastici che venivano insegnate teorie prive di fondamento, come quella che accreditava una differenza fisica marcata fra hutu e tutsi, in quanto questi ultimi sarebbero stati i discendenti di antiche popolazioni provenienti dal corno d’Africa, più “regali”, intelligenti e all’apparenza più simili agli europei.

La successiva vicinanza della Chiesa ruandese al regime dell’hutu power e all’ottica etnista che lo animava nasce dunque già al tempo della colonizzazione, quando l’alleanza era stata stabilita invece con l’élite dominante tutsi che faceva parte della cerchia del re sacro, un’élite la cui identità “altra” doveva essere appunto necessariamente codificata e cristallizzata in opposizione a quella degli hutu “inferiori” e sottomessi. Con la “rivoluzione sociale” del 1959, cambiano i rapporti di forza e, tanto i vecchi colonizzatori quanto la Chiesa, decidono di abbandonare i tutsi in favore degli hutu, ora al potere, per mantenere comunque il controllo della situazione. La Chiesa diventa così alfiere degli hutu “oppressi” che devono difendersi dai tutsi sempre pronti a riconquistare l’antico potere, e finisce per sostenere politicamente il regime genocidario. Non è certo un caso se Vincent Nsengiyumva, arcivescovo di Kigali dal 1976 fino al momento della sua morte per mano dell’Fpr nel giugno del 1994, era anche il presidente del comitato centrale del partito di governo che pianificò i massacri.

Il punto è che la Chiesa cattolica si è sempre rifiutata di affrontare questi e altri nodi decisivi, parlando spesso di complotti contro il Vaticano e trincerandosi dietro la responsabilità personale delle eventuali “mele marce”. Nel 1996, Giovanni Paolo II disse, rivolto al popolo ruandese: «La Chiesa non può essere ritenuta responsabile per le colpe di alcuni suoi membri che hanno agito contro il Vangelo; essi saranno chiamati a rendere conto delle proprie azioni». Si provi ad immaginare quante e quali sarebbero state le sacrosante reazioni di sdegno se tale frase fosse state pronunciata a proposito dei crimini commessi dai preti pedofili.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 4:26 pm

???

Dio e l'odio. Le colpe della Chiesa nel genocidio in Rwanda
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... -in-rwanda

“Mai come in Rwanda la Chiesa ha fatto scempio dei suoi princìpi fondamentali”. A vent'anni di distanza dai massacri e dalle violenze che in cento giorni hanno provocato quasi un milione di morti, un saggio di Vania Lucia Gaito fa luce sulle responsabilità della Chiesa cattolica nel genocidio ruandese. Pubblichiamo la recensione e le pagine iniziali del libro.


LE ORIGINI DEL MALE
recensione di Giampaolo Petrucci

Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici.

È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario.

Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità. Principalmente quelle della Chiesa cattolica, radicate nella storia coloniale e missionaria dell’ultimo secolo, che sono l’oggetto dell’ultima fatica di Vania Lucia Gaito, giornalista e psicologa già autrice del saggio sui preti pedofili "Viaggio nel silenzio" (Chiarelettere, 2008).

Nel libro di recentissima pubblicazione "Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica" (L’asino d’Oro Edizioni, 2014, euro 12,00) l’autrice ripercorre approfonditamente le trasformazioni sociali e culturali del secolo precedente al genocidio, rintracciando in esse i prodromi dei cento giorni, per «comprendere i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà di distruzione», individuabili nel connubio tra potere, fede e fanatismo. «Mai come in Rwanda – chiarisce l’autrice nella premessa – la Chiesa cattolica ha fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi princìpi fondamentali, del suo primo comandamento: ama il prossimo tuo».

Ed è forse proprio questo il nodo più difficile da comprendere per chi ha sempre sentito parlare, ieri come oggi, di un conflitto “etnico” in Rwanda: chi accese la fiamma dell’odio, sottolinea Gaito, «non era un hutu, non era un tutsi, non era ruandese. Era bianco». E, si potrebbe aggiungere, europeo, imperialista, imbevuto delle ottocentesche teorie razziste, cattolico. Quando i tedeschi arrivarono a fine Ottocento nel “paese delle mille colline”, racconta l’autrice nella prima parte del libro dedicata alla ricostruzione storica, il concetto di razza era estraneo alla popolazione ruandese. «Lo esportammo così come oggi pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In nome di una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti e li imposero a un intero popolo».

Con la fine della Prima Guerra Mondiale e la Conferenza di Parigi (Trattato di Versailles, 28 giugno 1919), la Germania lasciava il posto al Belgio sul ponte di comando del piccolo paese africano. La Chiesa locale, guidata dal vicario apostolico mons. Léon-Paul Classe e assecondata dall’amministrazione belga, avviò un processo di “conversione” della società locale, ottenendo per il cattolicesimo lo status di religione di Stato, stringendo alleanze con la leadership aristocratica tutsi e diffondendo – grazie alle pubblicazioni dei missionari e alla fitta rete di scuole, ospedali e parrocchie con cui i missionari si garantivano il pieno controllo sociale – una nuova dottrina razziale per la quale i tutsi (alti, ricchi e più chiari), rappresentavano l’etnia “superiore” su cui Chiesa e coloni avrebbero investito per il futuro del Rwanda.

Quando poi i tutsi alzarono la testa contro i coloni belgi, il corso della storia del piccolo paese africano prese una direzione opposta, proprio perché il potere acquisito dalla Chiesa cattolica, braccio “cultural-spirituale” dell’occupante, cominciò a vacillare. Per continuare a garantirsi una base strategica nel cuore dell’Africa, da fine anni Cinquanta i missionari ribaltarono strategia, presero a denunciare la discriminazione degli hutu, a rivendicarne l’emancipazione e la parità di trattamento, radicalizzando ancor più l’etnicizzazione di un conflitto sociale che nasceva su ragioni di diseguaglianza economica.

Protagonista di questo voltafaccia, mons. André Perraudin, padre bianco svizzero, consapevole, scrive Gaito, «che occorreva rovesciare la monarchia, stabilire alleanze con chi, grato dell’appoggio ricevuto, avrebbe continuato a lasciare il potere, le scuole e gli ospedali nelle mani della Chiesa». E così, nel 1959, nacque il Partito nazionale ruandese, sostenuto dalla monarchia tutsi, che rivendicava l’indipendenza del Rwanda, una riforma agraria e amministrativa e la laicizzazione dell’istruzione.

Per tutta risposta fu fondato il Parmehutu (Partito per l’emancipazione degli hutu) – guidato dal segretario di Perraudin e ispirato al Manifesto degli hutu scritto praticamente sotto dettatura del monsignore – che si caratterizzò da subito come partito aggressivo e profondamente razzista. Seguirono due anni di massacri noti come “piccolo genocidio”, una riscossa sociale degli hutu (con 300mila tutsi uccisi e molti sfollati nei paesi limitrofi, tra cui l’attuale presidente Paul Kagame) per la quale i Padri Bianchi esultavano e gli autori della strage riservavano ai missionari grande riconoscenza.

Nel 1961 cadde la monarchia e l’ex segretario del vescovo, Grégoire Kayibanda, guidò la neonata Repubblica fino al 1973, quando un colpo di Stato militare portò al potere il cugino Juvénal Habyarimana, amico della famiglia reale belga, fervente cattolico, che poteva vantare il sostegno di larga parte d’Europa, anche della Francia, che cominciava ad allungare le mani sul Rwanda. Seguì un periodo di soppressione delle libertà fondamentali e il conflitto etnico divenne feroce.

Nel 1987 i profughi ruandesi scappati dal “piccolo genocidio” in Uganda fondarono il Fronte patriottico ruandese, con l’obiettivo di rovesciare la dittatura e rientrare in patria, che dette vita ad anni di guerra e di violenze sulle popolazioni hutu. L’odio razziale raggiungeva in quegli anni un punto di non ritorno, e invano furono siglati gli Accordi di Arusha del 1993 con cui doveva nascere un governo di transizione a guida hutu-tutsi. Il governò importò dalla Cina un’ingente quantità di machete che distribuì tra la popolazione. Invano tentarono anche i governi occidentali e le istituzioni internazionali di opporsi alla deriva, chiedendo l’applicazione dei trattati. Poi arrivò l’esplosione dell’aereo presidenziale a sancire che ormai era troppo tardi. Dell’attentato furono incolpati i miliziani del Fronte patriottico. L’intreccio tra odio e panico nella popolazione fece il resto. Furono compilate liste di proscrizione e i cento giorni di massacro ebbero inizio, in strada, nelle scuole, negli ospedali, nelle chiese. Lasciando sulla strada quasi un milione di persone trucidate, principalmente tutsi ma anche hutu “moderati”.

La seconda parte del libro traccia il profilo di alcuni protagonisti ecclesiastici di quella vicenda. Una galleria degli orrori tale da far rabbrividire anche il più fantasioso regista di film horror. Ritratti di “uomini di Dio” riemersi, anche recentemente in occasione del ventennale, nell’ambito di interpretazioni del genocidio “non allineate” alle gerarchie cattoliche, ancora colpevolmente lontane dall’ammettere le proprie implicazioni e proclamare il doveroso mea culpa (tra le italiane, quella dell’Espresso e di Adista).

Si tratta di preti e suore, amministratori di ospedali e istituzioni pubbliche, che hanno partecipato attivamente e con dedizione alla grande strage e che, una volta concluso il genocidio con la presa del potere da parte del Fronte, sono fuggiti in Europa per evitare la giustizia dei tribunali e vivono ora in parrocchie, impiegati nella catechesi dei bambini e in altre attività sociali, sotto la copertura di diocesi e Vaticano.

Tra gli altri, padre Athanase Seromba, a lungo ospite della diocesi di Firenze, accusato di aver accolto duemila tutsi in cerca di protezione, di averli chiusi nella parrocchia e di aver chiamato i soldati che hanno poi abbattuto la chiesa e giustiziato i sopravvissuti al crollo. E padre Emmanuel Uwayezu (protetto dalla diocesi di Firenze e da quella di Empoli), direttore di un collegio ruandese, accusato di aver abbandonato i suoi studenti nelle mani delle milizie hutu. E p. Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare, accusato di aver consegnato ai miliziani i tutsi ospitati nel suo seminario. Oppure il padre bianco Guy Theunis, direttore di uno dei principali organi di informazione che, già prima del genocidio, avevano lanciato una campagna di incitazione all’odio etnico. E ancora, per passare al “ramo femminile”, suor Gertrude Mukangango e la consorella Julienne Kizito (soprannominata “l’animale”), complici attive dei massacri; e suor Theophister Mukakibibi, condannata, tra l’altro, per aver gettato un bambino vivo in una latrina.

Quello che c’è dopo – il cammino di un popolo che tenta timidamente di fare i conti con il proprio passato e guardare con speranza verso il futuro – è narrato dall’autrice con dovizia di particolari, attraverso interviste, testimonianze, citazioni di articoli di giornale. Il quadro, sul piano dell’assunzione di responsabilità della Chiesa cattolica, a molti anni dalla fine del genocidio, è tutt’altro che incoraggiante: ad ogni livello della scala gerarchica, la Chiesa continua a respingere al mittente le accuse di complicità e a ritenere missionari e vescovi di allora “uomini santi” votati esclusivamente all’edificazione del Regno di Dio. E, nella migliore delle ipotesi, a ignorare e denigrare l’importante operato di quanti, come Vania Lucia Gaito con quest’imprescindibile volume, lavorano incessantemente e faticosamente per portare alla luce una verità scomoda, oscurata dalla Chiesa e troppo spesso glissata anche nelle narrazioni dei grandi media mainstream.




DIO E L'ODIO

di Vania Lucia Gaito, tratto da "Il genocidio del Rwanda – Il ruolo della Chiesa cattolica", L’asino d’Oro Edizioni

Premessa

La prima volta che parlai del Rwanda, di cosa era accaduto in Rwanda, fu una sera d’inverno del 2008, a Trento. Ero stata invitata a tenere un convegno sulla genesi della pedofilia e della pederastia nella Chiesa cattolica.
Mi avevano detto che ci sarebbe stato freddo, invece trovai una temperatura mite, quasi primaverile. Forse fu per quello che la sala messa a disposizione degli organizzatori dalla Regione si riempì in fretta. A un certo punto, accennai alle responsabilità della Chiesa anche in altre situazioni vergognose, non solo nelle migliaia di vicende di abusi sessuali sui bambini. Parlai dei danni procurati dalle cosiddette missioni caritatevoli. Presi ad esempio il Rwanda, sottolineando il ruolo che avevano giocato la Chiesa e i missionari nella genesi delle teorie razziali, nei genocidi. Mi guardarono sorpresi. Genocidi? Al plurale? Perché al plurale?

Così raccontai. Raccontai quello che non sapevano. Vicende, meccanismi, motivazioni. Guardavo le facce e leggevo stupore, annichilimento e come una sorta di affascinato raccapriccio. Io raccontavo e loro ascoltavano, dritti, tesi sulle sedute delle poltroncine imbottite che improvvisamente diventavano scomode. E il tempo gocciolava via. Ogni tanto mi fermavo, chiedevo se fossero stanchi. Scuotevano le teste e basta, solo gli occhi chiedevano di andare avanti. Gli altri relatori ascoltavano con lo stesso interesse, muti, dimentichi del tempo che stavo rubando ai loro interventi. Alle undici salì un usciere, fece cenno a uno degli organizzatori: si stava facendo tardi. Provai a chiudere. Mi sommersero di domande.
Alle undici e mezzo fece capolino di nuovo l’usciere. Con la faccia seccata, questa volta. Era stanco e voleva andare a casa. Si fermò sulla soglia, come a ricordarci con la sua presenza che era ora di andare via. Dopo un poco fece due passi nella sala, e dopo un poco ancora si sedette. Dimenticando l’ora.
A mezzanotte ne salì un altro, più determinato. E praticamente ci sgomberò. Restarono tante cose non dette, tante domande a cui non avevo avuto il tempo di rispondere. Un discorso lasciato in sospeso e quella voglia di capire, di conoscere. Non erano tanto gli agghiaccianti dettagli di stupri, omicidi a colpi di machete e stermini a interessarli. Era il perché, era il comprendere i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà di distruzione. Perché certi meccanismi, che coniugano il potere con il fanatismo, sono sempre gli stessi, uguali in qualunque parte del mondo, soprattutto quando il potere si rende forte con la fede, che sia cattolica o musulmana, ebraica o buddista. Era il meccanismo di quel trinomio che erano interessati a capire, potere-fede-fanatismo.
La strumentalizzazione della fede, di qualsiasi fede, per ottenere e mantenere il potere. La strumentalizzazione della fede, di qualsiasi fede, per istigare un uomo contro un altro uomo ad annientarlo, massacrarlo a colpi di machete e mazze chiodate. Ecco, quella strumentalizzazione è la stessa ovunque.
È in nome di una ricompensa promessa dalla fede divenuta fanatismo cieco che un musulmano si imbottisce di esplosivo e si fa saltare in aria come un pacco di stracci su un autobus, in una scuola, in un centro commerciale.
È in nome di quella fede che i palestinesi di Gaza vengono bombardati da Israele con il fosforo bianco che li cuoce vivi, corrode le carni, fa morire in un’agonia straziante e fa desiderare che la morte arrivi presto, presto, con il suo pietoso sudario d’oblio.
È in nome di quella fede che si aizzano uomini contro altri uomini, li si spinge a ucciderli tutti, uomini, donne, bambini, perché di quella razza bisogna distruggere perfino le radici.

Perché proprio il Rwanda, quindi? Altri genocidi, fin troppo vicini, fin troppo benedetti dalla Chiesa, ce n’erano. La ex Jugoslavia, alle porte di casa nostra, ricordi di tempi non lontani. Il genocidio del Kosovo, portato avanti dai militari serbi, figlio delle politiche razziali di Pavelic´e del regime ustaša appoggiati dal cardinale Stepinac, beatificato da Giovanni Paolo II. Un regime che usava continuamente termini come Dio, religione, papa, Chiesa, per attuare i suoi stermini. Vescovi e preti sedevano nel Sabor, il parlamento ustaša. Religiosi fungevano da ufficiali della guardia del corpo di Pavelic´. I cappellani ustaša giuravano obbedienza dinanzi a due candele, un crocifisso, un pugnale e una pistola. I gesuiti, ma più ancora i francescani, comandavano bande armate e organizzavano massacri. Affermavano che non era «più peccato uccidere un bambino di 7 anni, se questo infrange la legge degli ustaša».
O anche la dittatura militare in Argentina, con l’allora nunzio apostolico, amico intimo di Emilio Massera, Pio Laghi, denunciato dalle Madres di Plaza de Mayo al governo italiano perché «collaborò attivamente con i membri sanguinari della dittatura militare e portò avanti personalmente una campagna volta a occultare, tanto verso l’interno quanto verso l’esterno del paese, l’orrore, la morte e la distruzione. Monsignor Pio Laghi lavorò attivamente smentendo le innumerevoli denunce dei familiari delle vittime del terrorismo di Stato e i rapporti di organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani».
E ancora, la dittatura spagnola del generalissimo Franco, che rovesciò la repubblica spagnola armato di fucili e crocifisso. Il sodalizio con la Chiesa, già durante la guerra civile, aveva portato il vescovo di Salamanca, Enrique Pla y Daniel, a scrivere in una lettera pastorale che lo scontro cruento fra i cittadini spagnoli «riveste sì l’aspetto esteriore di una guerra civile, ma è in realtà una crociata» e ancor più «una crociata per la religione, per la patria e per la civiltà».

Perché dunque proprio il Rwanda?
Perché in Rwanda quei meccanismi, quelle commistioni, quelle manipolazioni della fede, quella brama di potere erano particolarmente ‘nudi’, evidenti a chiunque volesse dare un’occhiata più da vicino, soffiando via la polvere.
Perché quello del Rwanda sarebbe dovuto essere l’ultimo genocidio, quello che fa dire a un uomo, a ogni uomo: mai più.
Perché in Rwanda non c’erano sovrastrutture ideologiche e culturali a coprire l’infamia.
Perché in Rwanda non si è consumata una lotta tribale, come tentarono di farci credere.
Perché il Rwanda può essere la Grecia, la Spagna, l’Italia. Sì, l’Italia.
Perché il potere usa sempre Dio e l’odio, in una combinazione letale.
Perché mai come in Rwanda la Chiesa cattolica ha fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi princìpi fondamentali, del suo primo comandamento: ama il prossimo tuo...

1. Un regno camitico nel cuore dell'Africa

Quando arrivò l’uomo bianco, noi possedevamo la terra ed egli portava la Bibbia. Ci ha insegnato a pregare e ci ha detto: «Chiudete gli occhi e pregate». Quando abbiamo aperto gli occhi, noi portavamo la Bibbia e lui possedeva la terra.
Mwalimu Julius Nyerere,
padre dell’indipendenza della Tanzania

«Erano le 17 e 43 minuti del 6 aprile 1994. Fino a quel momento, era stato un mercoledì come gli altri a Kigali. All’Hôtel des Milles Collines, rendez-vous della crema cittadina, i cooperanti belgi e canadesi si affollavano attorno alla piscina vociando con i loro orrendi accenti mentre ingurgitavano birra Primus o Mateus Rosé. Benché non fossero ancora le sei del pomeriggio, per la maggior parte erano già brilli e in fregola.
«In tutto il tempo che ho passato da quelle parti, non sono mai riuscito a capire che cosa facessero i cooperanti, salvo mangiare i soldi della Banca mondiale e dare la caccia alle puttane. I soldi non mancavano mai, le puttane nemmeno. Erano ancora più numerose dei cooperanti. Anche la barmaid era una puttana, benché avesse soltanto 17 anni. Lo so perché la conoscevo, si chiamava Mado. In circostanze normali, le tutsi sono le donne più fiere del mondo, ma in certe circostanze anche le donne più fiere diventano puttane. Tutti sanno quello che è successo in Italia e in Francia all’arrivo degli americani durante l’ultima guerra. Perfino le Figlie di Maria si vendevano per una tavoletta di cioccolata. Almeno, quelle del Milles Collines costavano più care.
«Pur essendo le donne più fiere del mondo, in quelle circostanze erano puttane, perché quelle circostanze non erano normali. E non erano normali perché le donne in questione erano tutsi mentre l’etnia dominante era hutu. In Rwanda gli hutu avevano tutti i diritti, i tutsi nessuno. E sui passaporti c’era scritto tutsi oppure hutu».
Lui si chiama in un altro modo, ma i ruandesi lo chiamano Dragor. È italiano ma il Rwanda lo conosce bene: gli ha dato molto e gli ha preso altrettanto. Forse più di quanto gli abbia dato. E, sebbene adesso viva a Nizza l’Africa gli è rimasta dentro, incancellabile. Di quell’Africa, di quel Rwanda, di quella tragedia, ogni tanto parla. Per non dimenticare.

«Mado stava piangendo perché un grosso commerciante hutu, appena tornato da Parigi, le aveva ordinato un Pernod e lei aveva risposto che il bar era sprovvisto di quel liquore. ‘Sei una selvaggia’ aveva sbraitato l’hutu in francese per far capire a tutti che era appena tornato da Parigi, cercando goffamente d’imitare l’accento parigino. ‘Una contadina’ aveva aggiunto alzando ancora di più la voce: in Rwanda paysanne, contadina, è un insulto. ‘Come fai a non avere il Pernod? Non sei... non sei...’. Una pausa in cerca della parola giusta, poi scandì le sillabe come fanno gli africani ignoranti quando pronunciano una parola difficile: ‘Ci-vi-li-sée’.
«Ci-vi-li-sée. Non scorderò mai quella parola e quella pronuncia. Ci-vi-li-sée. Perché in quel momento, da lontano, venne un rumore che fece tremare leggermente i bicchieri e le bottiglie sui tavoli. Un rombo di tuono, un colpo di fucile. Si sarebbe potuto scambiare per l’uno o per l’altro. Invece era il rumore di un aereo che si disintegrava in una palla di fuoco. L’aereo del presidente dittatore del Rwanda, Juvénal Habyarimana. E quel rumore segnò il confine. Da quel momento il Rwanda non sarebbe più stato lo stesso».

1.1. La colonizzazione

Geograficamente, il Rwanda è poco più grande della Sicilia. Un pugno di terra stretto tra i confini dei colossi centroafricani: la Tanzania, il Congo, l’Uganda. Ma non assomiglia alla Sicilia, assomiglia alla Svizzera: colline verdi, terrazzate fino in cima per permettere le coltivazioni, e un clima eccezionalmente mite e secco dove l’inverno non esiste. Lo chiamano «il paese delle mille colline». A guardarlo dall’aereo il verde invade gli occhi, mangia ogni ritaglio di terra.
A Kigali non sembra neppure che vi sia stata la guerra. Manciate di case basse sparpagliate per le colline, la terra rossa disegna lunghi serpenti tra il verde brillante. All’arrivo in aeroporto, tutti i sacchetti di plastica vengono sequestrati. Fa parte del programma per l’ambiente: i sacchetti di plastica sono inquinanti, e quindi proibiti. Formano grandi montagne in un angolo. Che cosa ne facciano, poi, come se ne liberino, non si sa.

I bianchi sono m’zungu, stranieri. E i loro pregiudizi su di noi sono tanti quanti sono i nostri su di loro. Essere m’zungu, in Rwanda, significa essere oggetto di richieste continue: bambini che si attaccano ai vestiti, alle gambe, tendono le mani in un perpetuo chiedere. Vogliono qualche spicciolo, qualche dolce. Ma non solo i bambini. Per i ruandesi, per gli africani, un m’zungu significa denaro, opportunità, tecnologia, ricchezza. Non immaginano neppure che anche tra i bianchi c’è la miseria, la più grande delle disgrazie. Non immaginano quante persone, proprio nella terra che credono ricca e felice, facciano la fila alle mense dei poveri per un pasto caldo, per un letto.

Qui è considerato maleducato scattare foto alle persone senza aver chiesto prima il permesso. Ed è considerato maleducato chiedere a quale etnia appartengano. Nella nuova Costituzione ruandese si legge che lo Stato si impegna a «combattere l’ideologia del genocidio e tutte le sue manifestazioni, sradicare divisioni etniche, religiose o di altro tipo e promuovere l’unità». E dopo quello che è accaduto qui, parlare di etnia, di hutu, di tutsi, significa farsi guardare con sospetto. Non solo dalle istituzioni, ma anche dalla gente. Hanno paura. E nei loro occhi c’è sempre una domanda non espressa, una richiesta che non sa tradursi in parole: tu da che parte stai, tu a chi credi? Perché anche qui la verità è fatta di tante verità differenti e a cercarne una sola, a volerne trovare una sola, si finisce con il dimenticare da quanto lontano venga la fiamma dell’odio e chi la accese. E invece non bisogna dimenticarlo. Perché chi accese quella fiamma non era un hutu, non era un tutsi, non era ruandese. Era bianco. Era m’zungu.

A portare in Rwanda il concetto di razza furono i bianchi, i colonizzatori. Lo esportammo così come oggi pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In nome di una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti e li imposero a un intero popolo. Un popolo che condivideva la stessa lingua e lo stesso dio, Imana, l’essere supremo, il creatore, il dispensatore di tutti i benefici. Un popolo che aveva una storia, prima che gli imponessimo la nostra. Una storia fatta di secoli di convivenza. Una storia che non comprendeva il concetto di razza, quanto semmai quello di casta. Una storia che i ruandesi non avevano scritto mai: si erano affidati ai miti, alle leggende, ai racconti passati di bocca in bocca. È sempre facile sostituire la storia scritta alla storia raccontata. Le parole sembrano più vere quando si condensano in gocce d’inchiostro sulla carta.
E la storia del Rwanda scritta dai colonizzatori raccontava di tre popolazioni diverse, arrivate in tempi diversi nel paese. I primi erano stati i twa, molti secoli prima della nascita di Cristo: piccoli di statura – non arrivavano al metro e mezzo –, gli uomini cacciavano e le donne pescavano. I bianchi, millenni più tardi, li ribattezzarono pigmei.

Poi arrivarono gli hutu, più o meno duemila anni fa. Si strutturarono in piccoli regni, spesso in rivalità gli uni con gli altri. Sapevano coltivare la terra ed erano appena un poco più alti dei twa: una quindicina di centimetri in più. E furono forse quei quindici centimetri in più a farli sentire migliori, superiori. O forse fu il fatto che i twa fossero rimasti così ‘primitivi’: facevano i cantanti, gli indovini, gli stregoni; tuttavia, nei loro confronti, gli hutu nutrivano una sorta di inspiegabile rispetto, un timore superstizioso, e ritenevano che l’uccisione di un twa provocasse le ire degli spiriti maligni.
Centinaia di anni più tardi, nel XV secolo, arrivarono i tutsi. Provenivano dall’Etiopia, e si portavano appresso la propria cultura, le proprie tradizioni, i propri costumi. Erano alti, più degli hutu. Nei primi anni Sessanta, in Italia, spopolava una canzone di Edoardo Vianello, I watussi, che rimase a lungo in testa alle classifiche e tuttora è una delle più popolari tra le hit di quegli anni. La suonavano i jukebox dei bar sulle spiagge, la ballavano le maggiorate nei primi, scandalosi, bikini, sul ritmo dell’hully gully. I tutsi, però, avevano ben poco in comune con gli «altissimi negri» cantati da Vianello. Erano un popolo di pastori: avevano enormi mandrie di bovini, e queste costituivano la loro grande ricchezza. Non impiegarono troppo tempo a prendere il potere, annettendo un po’ alla volta tutti i piccoli regni degli hutu in un unico Stato, governato dal mwami, il re. E sebbene al mwami fosse riconosciuto ogni potere per diritto divino, nelle decisioni di governo si avvaleva anche degli abiiru, un gruppo di consiglieri composto esclusivamente da hutu. Agli hutu, infatti, erano attribuiti poteri sovrannaturali che, associati alla potenza militare dei tutsi, costituivano il cuore dello Stato. Gli abiiru stabilivano le regole di governo: pur non governando essi stessi, suggerivano se fare una guerra oppure no, designavano l’erede legittimo e la famiglia dalla quale doveva provenire.

Nella storia scritta dai colonizzatori, influenzati dalle teorie razziali assai diffuse in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, si esagerarono le differenze tra hutu e tutsi e si minimizzarono le somiglianze. Il significato stesso dei termini ‘hutu’ e ‘tutsi’, anche se originariamente riferiti a due differenti etnie, nel corso del tempo si era evoluto: soprattutto i matrimoni misti avevano sfumato le differenze etniche, se pure ve ne erano state, e alla fine i termini hutu e tutsi erano essenzialmente etichette di classe e di casta. A differenza di quanto si può presumere leggendo la storia scritta dai colonizzatori, il 90 per cento dei tutsi apparteneva alle masse di contadini poveri e non alla classe aristocratica, e non tutti gli hutu erano servi della gleba. I termini hutu e tutsi indicavano quindi differenti classi sociali: i primi erano i poveri, i secondi erano i ricchi. Ma una tale organizzazione della società non era immutabile: quando il figlio di un hutu si arricchiva entrava nel novero dei potenti, quando il figlio di un tutsi si impoveriva diveniva nulla più che un popolano. Esistevano diversi meccanismi di condivisione del potere. Le funzioni di capo non erano ereditarie e, in linea di principio, erano accessibili a tutti. Il re poteva nominare capo anche una persona di origini modeste, come riconoscimento della sua lealtà, del suo coraggio o per importanti servigi resi. Non era insolito che un hutu avesse particolare influenza sul re nelle questioni di governo. Gli abiiru, del resto, avevano un grande ascendente.
I primi europei che arrivarono in Rwanda furono i tedeschi, alla fine del XIX secolo, e ci rimasero per una ventina d’anni. Forse l’unico vero elemento di civiltà che esportarono nel «paese delle mille colline» fu l’abolizione della schiavitù, ma si dimostrarono subito molto più interessati allo sfruttamento economico del paese che alla diffusione di valori etici e culturali. E, subito dopo, giunsero i missionari: i Padri bianchi.


???

Rwanda, in Italia i veri boia del genocidio: preti e suore
Scritto il 20/7/14
http://www.libreidee.org/2014/07/rwanda ... ti-e-suore

Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.

Principalmente quelle della Chiesa cattolica, radicate nella storia coloniale e missionaria dell’ultimo secolo, che sono l’oggetto dell’ultima fatica di Vania Bambini, vittime del genocidio in RwandaLucia Gaito, giornalista e psicologa già autrice del saggio sui preti pedofili “Viaggio nel silenzio” (Chiarelettere, 2008). Nel libro di recentissima pubblicazione “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica” (L’asino d’Oro edizioni, 2014) l’autrice ripercorre approfonditamente le trasformazioni sociali e culturali del secolo precedente al genocidio, rintracciando in esse i prodromi dei cento giorni, per «comprendere i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà di distruzione», individuabili nel connubio tra potere, fede e fanatismo. «Mai come in Rwanda – chiarisce l’autrice nella premessa – la Chiesa cattolica ha fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi princìpi fondamentali, del suo primo comandamento: ama il prossimo tuo».

Ed è forse proprio questo il nodo più difficile da comprendere per chi ha sempre sentito parlare, ieri come oggi, di un conflitto “etnico” in Rwanda: chi accese la fiamma dell’odio, sottolinea Gaito, «non era un hutu, non era un tutsi, non era ruandese. Era bianco». E, si potrebbe aggiungere, europeo, imperialista, imbevuto delle ottocentesche teorie razziste, cattolico. Quando i tedeschi arrivarono a fine Ottocento nel “paese delle mille colline”, racconta l’autrice nella prima parte del libro dedicata alla ricostruzione storica, il concetto di razza era estraneo alla popolazione ruandese. «Lo esportammo così come oggi pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In nome L'orroredi una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti e li imposero a un intero popolo».

Con la fine della Prima Guerra Mondiale e la Conferenza di Parigi (Trattato di Versailles, 28 giugno 1919), la Germania lasciava il posto al Belgio sul ponte di comando del piccolo paese africano. La Chiesa locale, guidata dal vicario apostolico monsignor Léon-Paul Classe e assecondata dall’amministrazione belga, avviò un processo di “conversione” della società locale, ottenendo per il cattolicesimo lo status di religione di Stato, stringendo alleanze con la leadership aristocratica tutsi e diffondendo – grazie alle pubblicazioni dei missionari e alla fitta rete di scuole, ospedali e parrocchie con cui i missionari si garantivano il pieno controllo sociale – una nuova dottrina razziale per la quale i tutsi (alti, ricchi e più chiari), rappresentavano l’etnia “superiore” su cui Chiesa e coloni avrebbero investito per il futuro del Rwanda. Quando poi i tutsi alzarono la testa contro i coloni belgi, il corso della storia del piccolo paese africano prese una direzione opposta, proprio perché il potere acquisito dalla Chiesa cattolica, braccio “cultural-spirituale” dell’occupante, cominciò a vacillare.

Per continuare a garantirsi una base strategica nel cuore dell’Africa, da fine anni Cinquanta i missionari ribaltarono strategia, presero a denunciare la discriminazione degli hutu, a rivendicarne l’emancipazione e la parità di trattamento, radicalizzando ancor più l’etnicizzazione di un conflitto sociale che nasceva su ragioni di diseguaglianza economica. Protagonista di questo voltafaccia, monsignor André Perraudin, padre bianco svizzero, consapevole, scrive Gaito, «che occorreva rovesciare la monarchia, stabilire alleanze con chi, grato dell’appoggio ricevuto, avrebbe continuato a lasciare il potere, le scuole e gli ospedali nelle mani della Chiesa». E così, nel 1959, nacque il Partito nazionale ruandese, sostenuto dalla monarchia tutsi, che Monsignor André Perraudinrivendicava l’indipendenza del Rwanda, una riforma agraria e amministrativa e la laicizzazione dell’istruzione.

Per tutta risposta fu fondato il Parmehutu (Partito per l’emancipazione degli hutu) – guidato dal segretario di Perraudin e ispirato al Manifesto degli hutu scritto praticamente sotto dettatura del monsignore – che si caratterizzò da subito come partito aggressivo e profondamente razzista. Seguirono due anni di massacri noti come “piccolo genocidio”, una riscossa sociale degli hutu (con 300.000 tutsi uccisi e molti sfollati nei paesi limitrofi, tra cui l’attuale presidente Paul Kagame) per la quale i Padri Bianchi esultavano e gli autori della strage riservavano ai missionari grande riconoscenza. Nel 1961 cadde la monarchia e l’ex segretario del vescovo, Grégoire Kayibanda, guidò la neonata Repubblica fino al 1973, quando un colpo di Stato militare portò al potere il cugino Juvénal Habyarimana, amico della famiglia reale belga, fervente cattolico, che poteva vantare il sostegno di larga parte d’Europa, anche della Francia, che cominciava ad allungare le mani sul Rwanda. Seguì un periodo di soppressione delle libertà fondamentali e il conflitto etnico divenne feroce.

Nel 1987 i profughi ruandesi scappati dal “piccolo genocidio” in Uganda fondarono il Fronte patriottico ruandese, con l’obiettivo di rovesciare la dittatura e rientrare in patria, che dette vita ad anni di guerra e di violenze sulle popolazioni hutu. L’odio razziale raggiungeva in quegli anni un punto di non ritorno, e invano furono siglati gli Accordi di Arusha del 1993 con cui doveva nascere un governo di transizione a guida hutu-tutsi. Il governò importò dalla Cina un’ingente quantità di machete che distribuì tra la popolazione. Invano tentarono anche i governi occidentali e le istituzioni internazionali di opporsi alla deriva, chiedendo l’applicazione dei trattati. Poi arrivò l’esplosione dell’aereo presidenziale a sancire che ormai era troppo tardi. Dell’attentato furono incolpati i miliziani del Fronte patriottico. L’intreccio tra odio e panico nella popolazione fece il resto. Furono compilate liste di proscrizione e i cento giorni di massacro ebbero inizio, in strada, nelle scuole, negli ospedali, nelle chiese. Lasciando sulla strada quasi L'esodo tra i cadaveriun milione di persone trucidate, principalmente tutsi ma anche hutu “moderati”.

La seconda parte del libro traccia il profilo di alcuni protagonisti ecclesiastici di quella vicenda. Una galleria degli orrori tale da far rabbrividire anche il più fantasioso regista di film horror. Ritratti di “uomini di Dio” riemersi, anche recentemente in occasione del ventennale, nell’ambito di interpretazioni del genocidio “non allineate” alle gerarchie cattoliche, ancora colpevolmente lontane dall’ammettere le proprie implicazioni e proclamare il doveroso mea culpa (tra le italiane, quella dell’Espresso e di Adista). Si tratta di preti e suore, amministratori di ospedali e istituzioni pubbliche, che hanno partecipato attivamente e con dedizione alla grande strage e che, una volta concluso il genocidio con la presa del potere da parte del Fronte, sono fuggiti in Europa per evitare la giustizia dei Athanase Serombatribunali e vivono ora in parrocchie, impiegati nella catechesi dei bambini e in altre attività sociali, sotto la copertura di diocesi e Vaticano.

Tra gli altri, padre Athanase Seromba, a lungo ospite della diocesi di Firenze, accusato di aver accolto duemila tutsi in cerca di protezione, di averli chiusi nella parrocchia e di aver chiamato i soldati che hanno poi abbattuto la chiesa e giustiziato i sopravvissuti al crollo. E padre Emmanuel Uwayezu (protetto dalla diocesi di Firenze e da quella di Empoli), direttore di un collegio ruandese, accusato di aver abbandonato i suoi studenti nelle mani delle milizie hutu. E padre Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare, accusato di aver consegnato ai miliziani i tutsi ospitati nel suo seminario. Oppure il padre bianco Guy Theunis, direttore di uno dei principali organi di informazione che, già prima del genocidio, avevano lanciato una campagna di incitazione all’odio etnico. E ancora, per passare al “ramo femminile”, suor Gertrude Mukangango e la consorella Julienne Kizito (soprannominata “l’animale”), complici attive dei Padre Guy Theunis e suor Julienne Kizitomassacri; e suor Theophister Mukakibibi, condannata, tra l’altro, per aver gettato un bambino vivo in una latrina.

Quello che c’è dopo – il cammino di un popolo che tenta timidamente di fare i conti con il proprio passato e guardare con speranza verso il futuro – è narrato dall’autrice con dovizia di particolari, attraverso interviste, testimonianze, citazioni di articoli di giornale. Il quadro, sul piano dell’assunzione di responsabilità della Chiesa cattolica, a molti anni dalla fine del genocidio, è tutt’altro che incoraggiante: ad ogni livello della scala gerarchica, la Chiesa continua a respingere al mittente le accuse di complicità e a ritenere missionari e vescovi di allora “uomini santi” votati esclusivamente all’edificazione del Regno di Dio. E, nella migliore delle ipotesi, a ignorare e denigrare l’importante operato di quanti, come Vania Lucia Gaito con quest’imprescindibile volume, lavorano incessantemente e faticosamente per portare alla luce una verità scomoda, oscurata dalla Chiesa e troppo spesso glissata anche nelle narrazioni dei grandi media mainstream.

(Giampaolo Petrucci, “Le origini del male”, da “Micromega” del 30 giugno 2014. Il libro: Vania Lucia Gaito, “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica”, L’asino d’Oro edizioni, XIII-157 pagine, 12 euro).
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 4:38 pm

Ruanda, la Chiesa cattolica chiede scusa per il genocidio
Oltre 800.000 persone di etnia Tutsi e alcuni moderati Hutu vennero massacrati dagli estremisti Hutu. Molte delle vittime vennero uccise nelle chiese dove avevano trovato rifugio

http://www.lastampa.it/2016/11/21/vatic ... agina.html

La Chiesa cattolica del Ruanda chiede pubblicamente scusa per il ruolo svolto nel genocidio del 1994. «Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi. Siamo costernati dal fatto che appartenenti alla chiesa abbiano violato il proprio giuramento con Dio», recita un comunicato dei vescovi.
Nel documento, si ammette che elementi della chiesa hanno pianificato, aiutato e posto in essere il genocidio, nel quale oltre 800.000 persone di etnia Tutsi e alcuni moderati Hutu vennero massacrati dagli estremisti Hutu. Molte delle vittime vennero uccise nelle chiese dove avevano trovato rifugio.



Genocidio Ruanda, Chiesa Cattolica: “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi”
Il comunicato è stato diffuso dai vescovi del paese africano che ammettono che alcuni sacerdoti hanno pianificato, aiutato e posto in essere il genocidio, nel quale oltre 800.000 persone di etnia Tutsi e alcuni moderati Hutu
di F. Q. | 21 novembre 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11 ... si/3207113

La Chiesa Cattolica del Ruanda chiede pubblicamente scusa per il ruolo svolto nel genocidio del 1994, dove quasi un milione di persone vennero brutalmente uccise. “Chiediamo scusa per tutti gli errori commessi. Siamo costernati dal fatto che appartenenti alla chiesa abbiano violato il proprio giuramento con Dio”, recita un comunicato dei vescovi ruandesi.

Nel documento si ammette che elementi della chiesa hanno pianificato, aiutato e posto in essere il genocidio, nel quale oltre 800.000 persone di etnia Tutsi e alcuni moderati Hutu vennero massacrati dagli estremisti Hutu. Molte delle vittime vennero uccise nelle chiese dove avevano trovato rifugio, con la complicità di alcuni preti. Come Athanase Seromba, presbitero della chiesa cattolica, condannato all’ergastolo dal Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda.

Secondo quanto riportano le testimonianze, fra 6 aprile e il 20 aprile 1994, Seromba fece abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa al fine di uccidere circa 2000 Tutsi che visi erano rifugiati attirati dallo stesso sacerdote. Poi, partecipò attivamente anche al successivo massacro dei pochi superstiti. Per sfuggire alla giustizia, Seromba fuggì prima nella Repubblica Democratica del Congo, poi in Toscana sotto falso nome. In Italia, fu accolto nella parrocchia dell’Immacolata e S. Martino in Montugni di Firenze. Solo nel 2002 si consegnò alla giustizia internazionale che nel 2008 lo condannò all’ergastolo.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 5:58 pm

Pastore pentecostale guida massacri in Ruanda

Cristiani cattolici
PASTORE PENTECOSTALE TRA I RESPONSABILI DEL GENOCIDIO IN RUANDA

http://www.cristianicattolici.net/pasto ... uanda.html

Jean-Bosco Uwinkindi, della Chiesa pentecostale, è accusato dal Tribunale Internazionale Penale per il Ruanda di genocidio e crimini contro l'umanità.

Durante il massacro nel quale furono uccise 800.000 persone, il pastore, arrestato in Uganda, avrebbe organizzato e diretto decine di attacchi per uccidere appartenenti all'etnia Tutsi. Molte vittime furono portate nella chiesa di Uwinkindi per essere uccise, secondo le accuse formulate dal Tribunale penale Internazionale, costituito dall'Onu ad Arusha, in Tanzania. Circa 2.000 corpi furono trovati vicino alla sua chiesa dopo la fuga del pastore, avvenuta nel luglio dello stesso anno. Sulla sua testa pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. La portavoce della polizia ugandese, Judith Nabakooba, ha dichiarato che l'uomo è stato arrestato dopo una segnalazione dell'intelligence.
http://www.radio.rai.it/grr/view.cfm?Q_ ... IZIA=60994

In questo i giorni in rete si legge di un articolo pubblicato da La Repubblica, secondo la quale un sacerdote cattolico accusato di genocidio in Ruanda vive a Roma protetto dal Vaticano.

Oltre al citato articolo di la Repubblica in rete praticamente non si trova altro in proposito, sempre e solo l'articolo di la Repubblica ripetuto incessantemente.
http://www.repubblica.it/esteri/2012/09 ... o-43213875

Facciamo notare che:

1) stando all'articolo de la Repubblica, Jean-Baptiste Rutihunza presunto sacerdote cattolico fa parte dei "Fratelli della Carità". Da Wikipedia apprendiamo che tale congregazione che si dedica all'assistenza è composta tutta da laici e quindi non ci sono sacerdoti
lt http://it.wikipedia.org/wiki/Fratelli_della_Carità_di_Gand#Attivit.C3.A0_e_diffusione

2) Sempre lo stesso giornale ci informa che Jean-Baptiste Rutihunza presunto sacerdote "Da un paio d'anni vive nel quartiere generale dei Fratelli della Carità, al riparo delle Mura del Vaticano, dove svolge il lavoro di receptionist."

E da notare che tale quartiere generale non si trova affatto al riparo delle mura vaticane ma in una zona di Roma che tra l'altro non rientra neanche tra le zone extraterritoriali appartenenti al vaticano. Chi vuole puo fare la ricerca per trovare l'indirizzo dei Fratelli della carità per poi verificare se tale zona gode dell'extraterritorialità:
http://it.wikipedia.org/wiki/Zone_extra ... _in_Italia

3) il noto giornale che riporta l'articolo è anticlericale, lo ha dimostrato molte volte, e non è nuovo neanche alla diffusione di bufale, tra le quali quella delle famose scarpette papali targate Prada:
http://www.repubblica.it/2005/k/sezioni ... ffato.html

Il Papa veste Prada? No, era una bufala
https://www.facebook.com/notes/papa-ben ... 5632002836

DIFFIDATE SEMPRE ANCHE SE LE NOTIZIE SEMBRANO PROVENIRE DA FONTI "AUTOREVOLI"

E DIFFIDATE ANCOR DI PIU' QUANDO I PENTECOSTALI SERVENDOSI DI QUESTI FONTI "AUTOREVOLI" ATTACCANO LA CHIESA CATTOLICA PER NASCONDERE I CRIMINI DEI LORO PASTORI


J'accuse e bufale - Il pregiudizio contro i Cristiani più forte dei diritti umani
di
Assuntina Morresi
28 Novembre 2015

https://www.loccidentale.it/articoli/13 ... itti-umani

Il mio articolo sulle importanti dichiarazioni del presidente Mattarella sulla persecuzione dei cristiani ha suscitato la risposta, assai lunga e articolata, di un lettore. La potete leggere tra i commenti al pezzo. Si tratta di un j'accuse nei confronti dei cristiani, e afferma, in sostanza, che anche questi ultimi hanno commesso crimini. L'argomento merita una risposta seria, perché è la "miglior" spiegazione del motivo di tanto silenzio nei confronti delle aggressioni contro i cristiani.

Il puntiglioso elenco degli omicidi ad opera dei cristiani, offerto dal commentatore, inizia con un esempio illuminante. Il massacro del Ruanda viene giustamente indicato da chi ci scrive come il conflitto "fra hutu e tutsi". Giustamente, perché se avesse scritto "fra cattolici e una etnia locale" nessuno avrebbe capito a chi si riferiva. La rivalità, antica, è infatti fra due etnie, quella hutu e quella tutsi, appunto in quanto etnie diverse, e la religione prevalentemente cristiana di una delle due non è stata la causa scatenante, ma è semplicemente uno degli elementi culturali che oggi (tra l'altro non da sempre) differenziano le due popolazioni.

...
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 7:30 pm

???

"LA CHIESA CATTOLICA E' UN'ASSOCIAZIONE A DELINQUERE"

http://dragor.typepad.com/journal_intim ... cat-1.html

Attenzione, non lo dico io. Non intendo esporre al rischio di una denuncia me stesso e chi mi ospita. Non faccio altro che riportare le parole un alto magistrato, il giudice Luigi Tosti, una persona qualificata per esprimersi sull’argomento. E’ un funzionario della Repubblica, un esperto di diritto e un tutore della legge. Mi limito a dire che sono d’accordo.


Perché la Chiesa cattolica è un’associazione a delinquere? Secondo Luigi Tosti, ogni volta che un suo membro commette un crimine, la chiesa si comporta come la mafia e cerca di sottrarlo alla giustizia. Alla richiesta di giustizia risponde immancabilmente con un’omertà di stampo mafioso e il confezionamento di una frottola che diventa la verità ufficiale. E’ una regola consolidata, per quanto enorme sia il crimine commesso dal membro in questione. Non parlo dei crimini storici come le crociate, l’inquisizione, le torture, la caccia alle streghe, le persecuzioni razziste, lo sterminio degli amerindi, le esecuzioni dei patrioti e i soprusi dei missionari che da soli basterebbero a qualificare la chiesa cattolica come un’associazione criminale. Non parlo degli sforzi per nascondere i preti pedofili giocando alle tre tavolette. Non parlo nemmeno della campagna per la diffusione dall’AIDS mediante soppressione del profilattico. No, parlo soltanto della protezione degli assassini, in particolare di quelli affiliati alla chiesa cattolica. La Corte di Cassazione penale ha costantemente affermato che "commette reato di favoreggiamento personale (art. 378 codice penale) “chi aiuta il colpevole di un delitto a sottrarsi alle investigazioni, anche se non ancora in atto".

Athanase Seromba è uno dei più grandi assassini della storia, se non il più grande. In Rwanda ha attirato 2000 persone di etnia Tutsi nella sua chiesa, le ha chiuse dentro e le ha fatte schiacciare dalle ruspe. Questo mostro che fa sembrare degli angioletti perfino i criminali nazisti è stato nascosto dalla chiesa, perfettamente al corrente dei suo crimini, nella parrocchia dell’Immacolata vicino a Firenze. La Chiesa si è opposta al suo arresto e alla sua estradizione in ogni modo possibile, chiedendo anche l’intervento del governo Berlusconi. Finalmente è stato arrestato e condannato, ma la Chiesa cattolica continua a proteggere altri assassini in libertà.

Carlo Isacco Bellomi, un missionario italiano di Caravaggio (Bergamo) presente in Rwanda dal 1941 e collaboratore attivo dei massacri precedenti nel 1959, 1961, 1963, 1965, nel 1994 è di nuovo alla guida degli assassini. Aveva un’autorizzazione di porto d’armi. Secondo l’inchiesta del giornale cattolico Golias, “avrebbe partecipato ai massacri di Resumo, in particolare a quelli della sua parrocchia. Non soltanto durante le sue omelie predicava con virulenza l’odio e la caccia ai Tutsi, ma per tutti i mesi di aprile e maggio 1994 presidiava le barriere con il suo fucile, accompagnato dagli assassini ai quali aveva insegnato l’uso delle armi.” Attualmente questo mostro si nasconde dalle parti di Brescia.

GUY THEUNIS, UN MISSIONARIO BELGA, è un ispiratore del genocidio del 1994 che in Rwanda ha fatto un milione di morti. Sulla rivista rwandese Dialogue ha scritto numerosi articoli di taglio razzista. Era strettamente legato ai genocidari e conosceva bene i loro programmi. Ha confessato di avere saputo tre settimane prima del 7 aprile 1994, data d’inizio dei massacri, lo scopo dei estremisti della CDR (Coalizione per la Difesa della Repubblica, la frazione più radicalmente razzista della cricca del presidente Habyarimana) era “ricominciare i massacri del 1959”. Non dice che approvava questo progetto ma tutto, nella storia di questo personaggio, lo lascia supporre. Nel 1994 la “rivoluzione sociale” doveva dare al “problema tutsi” la sua “soluzione finale” senza commettere “l’errore del 1959”, ossia quello di risparmiare le donne e i bambini. Il 6 settembre 2005 Guy Theunis è stato arrestato durante una sua visita in Rwanda, ma prontamente rilasciato sotto la pressione delle autorità belghe e di Reporter senza Frontiere, mobilitati in aiuto del missionario. Secondo l’accordo, avrebbe dovuto essere giudicato in Belgio. Ma i belgi, che come sottomissione alla Chiesa fanno concorrenza agli italiani, al suo arrivo a Bruxelles si sono affrettati a comunicargli che sbarcava nel paese come “uomo libero”.

Guy Theunis ha contribuito a confezionare la frottola che Il Vaticano ha adottato come verità ufficiale per mascherare i crimini della Chiesa in Rwanda, il dogma che tutti ripetono come pappagalli dai missionari sul terreno ai più alti prelati del Vaticano. Ha capovolto i dati trasformando le vittime in carnefici. Per lui all’origine del genocidio c’è Il Fronte Patriottico Rwandese, un movimento di opposizione armato alla dittatura di Habyarimana composto da esiliati hutu ma soprattutto dai figli dei rifugiati tutsi sfuggiti ai massacri del 1959-64. “E’ un atto suicida che il FPR ha commesso di fronte ai suo congeneri” scrive. “Con la sua offensiva il FPR ha incitato ai massacri numerosi Hutu disperati” per poi concludere cinicamente come un altro pappagallo, il missionario comboniano Aurelio Boscaini sulle pagine del periodico Nigrizia: “Non ci sono mai stati tanti Tutsi in Rwanda come dopo i massacri”, ovviamente omettendo di dire che si trattava degli esiliati di ritorno.

QUESTI SONO SOLTANTO ALCUNI ESEMPI fra tutte le migliaia di casi. Non sto dicendo che tutti i missionari siano assassini o loro complici, ma citatemi una voce, soltanto una, che si sia dissociata dal coro e non abbia pappagallescamente ripetuto la versione ufficiale. E’ chiaro che nessuno può dissociarsi perché sarebbe radiato dalla chiesa. E il silenzio è complice.

La Chiesa esprime la posizione del Vaticano in un articolo dell’Osservatore Romano del 19 marzo 1999: In Rwanda è in corso un’autentica campagna di diffamazione contro la Chiesa cattolica per farla sembrare responsabile del genocidio dell’etnia Tutsi che ha devastato il paese nel 1994. L’arresto di monsignor Misago (accusato di complicità nella strage di 150.000 Tutsi nella sua diocesi) cinque anni dopo i massacri dev’essere considerato come l’ultimo atto di una strategia del governo rwandese per ridurre o eliminare il ruolo conciliatore che fino ad oggi la Chiesa ha sempre avuto nella storia del Rwanda, cercando d’infangarne l’immagine in ogni modo possibile (…). Attualmente l’attenzione della popolazione è polarizzata sul genocidio del 1994. Bisogna in realtà precisare che c’è stato un doppio genocidio: quello contro i Tutsi (e certi Hutu moderati) commesso a partire dal 6 aprile 1994, che ha fatto più di 800.00 vittime, e quello contro gli Hutu, a partire dall’ottobre 1990 fino alla presa del potere da parte del Fronte Patriottico Rwandese (FPR) tutsi nel luglio 1994. Questo genocidio degli Hutu è continuato nella foresta zairese, dove gli Hutu si sono rifugiati senza la minima protezione della comunità internazionale. Il numero delle vittime ammonta a circa un milione. I due genocidi sono entrambi orribili e devono essere ricordati entrambi se si vuole evitare una propaganda unilaterale.

Così questo testo afferma l’esistenza di un secondo genocidio, effettuato dai Tutsi contro gli Hutu. Quest’asserzione non ha nessuna base storica. Qui si ritrovano le parole dei pianificatori dei genocidio dei Tutsi, con i quali la Chiesa di Roma si allinea perfettamente: il genocidio dei Tutsi non sarebbe che una forma di autodifesa. E questo articolo che riprende l’ideologia genocidaria ha tre asterischi. Per chi non lo sapesse, significa che è ispirato dal papa
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