Strage degli Hutu e dei Tutsi

Strage degli Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 7:30 pm

???

Manifesto del Popolo Hutu
https://fulviobeltramiafrica.wordpress. ... /01/14/826

Il Manifesto Bahutu 1957 – La nascita dell’era Hutu Power in Ruanda

Il 24 marzo 1957 viene pubblicato un documento di dodici pagine dal titolo: “Note sull’aspetto sociale del problema razziale indigeno nel Rwanda”. Il documento è conosciuto come il Manifesto Bahutu di cui si puó trovare la sua riproduzione in formato PDF.
http://jkanya.free.fr/manifestebahutu240357.pdf


A redigerlo sono nove intellettuali hutu: Maximilien Niyonzima, Grégoire Kayibanda, Claver Ndahayo, Isidore Nzeyimana, Calliope Mulindaha, Godefroy Sentama, Sylvestre Munyambonera, Joseph Sibomana e Jouvenal Habyarimana.

Questi intellettuali sono tutti dei “cristiani impegnati”. Alcuni di loro studiano presso il seminario di Kigali per divenire preti, Kayibanda e Niyonzima sono i redattori del giornale ufficiale della chiesa: Kinyamateka (unico organo di stampa permesso in Ruanda dall’amministrazione coloniale) e Milindabi e’ il segretario al vescovato di Kabgayi e il direttore dell’Azione Cattolica in Ruanda. Il giornale Kinyamateka é stato recentemente riprodotto su Facebook in lingua Kenyarwanda. Approfittando del gap linguistico la pagina propaga odio etnico e incita al Genocidio.

Dietro le quinte la congregazione dei missionari belgi: i “Padri Bianchi” partecipò attivamente alla redazione del manifesto. I Padri Bianchi mascherarono il loro appoggio al Manifesto con la promozione di un’era di maggior giustizia e democrazia nella societa’ ruandese.

Le rivendicazioni del Manifesto Bahutu.

Il manifesto si basa sulla teoria “storica – etnica inventata dal colonialismo belga che individua i tutsi (i Ibimanuka – Discesi dal cielo) come una popolazione nilotica proveniente dall’Egitto o dall’Etiopia che colonizzò il Ruanda schiavizzando la popolazione originaria del paese: gli Hutu (quelli trovati sul luogo).

Partendo da questa teoria, il manifesto rivendica un processo democratico del paese capace di metter fine alla dominazione aristocratica dei tutsi e al servilismo feudale di cui gli hutu erano costretti. Il manifesto dichiarava che il processo democratico del paese doveva necessariamente passare attraverso la promozione collettiva del popolo e l’emancipazione degli hutu che dovevano acquistare pieni diritti come i tutsi, senza però rimpiazzare quest’ultimi creando un nuovo rapporto di dominio.

Le rivendicazione sociali e politiche del manifesto sono descritte nelle terza parte del documento e si strutturano in tre obiettivi principali:

1. la promozione politica della maggioranza hutu (dissoluzione dei capi tradizionali e della monarchia tutsi e libere elezioni);

2. la soluzione del problema razziale indigeno in Ruanda (un solo popolo senza differenze etniche);

3. la riforma agrari (abolizione del servilismo feudale, introduzione della proprietà’ individuale dei terreni, instaurazione di un credito rurale per lo sviluppo agricolo del paese).

Il colonialismo tutsi peggio di quello europeo.

Il Manifesto Bahutu apparentemente contiene rivendicazioni progressiste e social democratiche ma in realta’ e’ il testo base per la supremazia razziale degli hutu sui tutsi. Tra le righe del documento si comprende che l’aspetto razziale indigeno in Ruanda è’ causato dal monopolio economico, politico e sociale dei tutsi.

“Qualcuno si domanda se esiste veramente un conflitto sociale o se è un conflitto razziale. Noi pensiamo che queste riflessioni siano semplice letteratura. Nella realta e nel pensiero del popolo il problema non è sociale.
Il problema risiede nel monopolio politico che i tutsi dispongono. Un monopolio politico che, esaminando le attuali strutture esistenti, si trasforma in un monopolio economico e sociale dei tutsi che, con grande disperazione per gli hutu, condanna la maggioranza della popolazione a restare eternamente della mano d’opera subalterna.”

I leaders hutu firmatari del Manifesto
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I leaders hutu firmatari del Manifesto
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L’origine di questo dominio sulla maggioranza della popolazione, secondo il Manifesto, proviene dal colonialismo tutsi. Gli autori del documento, attraverso un’abile falsificazione storica, identificano gli hutu come vittime dei coloni tutsi. La tesi è sviluppata grazie alla teoria del “colonialismo a due fasi”. La prima sarebbe quella dei tutsi sugli hutu e la seconda sarebbe quella dei belgi sui ruandesi in generale.

Questi intellettuali cristiani fanno comprendere che la seconda fase del colonialismo ha salvato il paese. “Senza gli Europei noi saremmo stati condannati ad uno sfruttamento disumano e, tra i due mali bisogna scegliere il minore”, cioè il colonialismo europeo, “un colonialismo progressista e buono rispetto alla supremazia razziale dei nilotici”.

Il Manifesto attua una distinzione della popolazione ruandese della colonia belga. I dominati (hutu) e i dominatori (tutsi) vengono raffigurati come due popolazioni etnicamente distinte. Volutamente questi “intellettuali” cristiani non si soffermano a riflettere come due etnie diverse potessero parlare la stessa lingua (il Kinyaruanda, lingua bantu), avere gli stessi usi e costumi e vivere perfettamente mischiati negli stessi villaggi e negli stessi quartieri urbani.

Come giustamente fa notare lo storico belga Bernard Lugan, il Manifesto Bahutu e’ un manifesto essenzialmente razziale. Un testo estremista poiché’ si basa sulla distinzione di due blocchi etnici ben distinti ed incita la maggioranza hutu a ribellarsi alla minoranza tutsi invece di parlare del popolo ruandese nel suo insieme.

Il contesto storico del Manifesto Bahutu.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale anche il potere coloniale belga comincia a sgretolarsi, sotto la spinta dei vari movimenti africani d’indipendenza che miravano allo smantellamento dei privilegi di sfruttamento europeo sul Continente.

Nel 1952 la tutela belga annuncia la preparazione di un piano decennale di sviluppo nel Rwanda e nel Burundi con l’obiettivo di preparare le due colonie africane all’indipendenza che poteva essere concessa solo a lungo termine.

L’opposizione più radicale in Rwanda contro il colonialismo belga era promosso dalla borghesia tutsi che l’amministrazione aveva privilegiato per assicurare il suo dominio sul paese. Come in Burundi, anche in Rwanda, fu l’ex aristocrazia tutsi, divenuta piccola borghesia amministrativa, militare e commerciale, a guidare i sentimenti indipendentisti.

Il progetto di indipendenza della intellighenzia tusti non era basato sull’etnicità ma sul nazionalismo. Ogni ruandese (hutu o tutsi che fosse) aveva il diritto di gestire il proprio paese senza interferenze esterne, soprattutto se provenienti dalla ex potenza coloniale. L’indipendenza dal Belgio era un diritto per i ruandesi e non una gentile concessione da parte della potenza coloniale europea.

La piccola borghesia tutsi concordava con il governo belga sulla necessità a di un periodo di transizione all’indipendenza ma sulla base di precise condizioni: la fase non poteva durare più di due anni, il periodo doveva essere limitato al passaggio di consegne tra l’amministrazione belga e la futura amministrazione ruandese, a favorire la nascita di partiti ruandesi maturi ed, infine favorire le libere elezioni democratiche.

La reazione del Belgio, identica a quella di altre potenze coloniali dell’epoca quali Francia e Inghilterra, fu quella di appoggiare la creazione di forze politiche locali più moderate e disposte a collaborare con l’ex potenza coloniale una volta ottenuta l’indipendenza.

Costretto dagli avvenimenti, il colonialismo belga sostenne la creazione di forze politiche di espressione etnica facendo leva sugli hutu, la maggioranza povera e lontana dal potere. Il compito di creare una intellighenzia politica hutu fu affidato alla Chiesa Cattolica.

Il risentimento della maggioranza della popolazione verso le imposizione e le repressioni subite per decenni dai Belgi, venne abilmente incanalato verso i tutsi. Grazie al sostegno finanziario del movimento internazionale democratico cristiano, la Chiesa e il Belgio favorirono la creazioni di partiti unicamente “hutu” da contrapporre alla versione più radicale dell’indipendenza portata avanti da vari esponenti per la maggioranza tutsi ma anche alcuni hutu.

Il Manifesto Bahutu fu ideato dagli esperti del Vaticano per dotare questi partiti “hutu” di uno spessore ideologico pseudo rivoluzionario, che confondesse la loro politica basata sulla supremazia razziale, offrendo loro una maschera democratica e progressista.

Le dirette conseguenze del Manifesto Bahutu.

La conseguenza diretta di questo manifesto, apparentemente moderato, fu la distinzione netta tra hutu e tutsi che portò ad una radicalizzazione etnica della politica del paese.

Il Manifesto è da considerare come il punto di partenza dell’azione politica dei leader hutu che nulla ebbero ad invidiare ai loro omologhi nazisti.

Qualche mese dopo la pubblicazione del documento, alcuni tra i suoi autori fonderanno dei partiti politici etnici basati sull’odio razziale: Kayibanda fonderà il Movimento sociale muhutu che diventerà PARMEHUTU nel 1959. Habyarimana fonderà l’Associazione per la Promozione sociale delle Masse (APROSOMA). Nello stesso periodo iniziava la campagna per le elezioni amministrative che vide la supremazia del ceto politico hutu estremista che gestirà’ il potere per trenta lunghi e dolorosi anni.

Durante la campagna elettorale i partiti tutsi si concentrarono sul diritto di autodeterminazione del popolo ruandese e la rivendicazione dell’indipendenza dal Belgio. Al contrario i pariti hutu si concentrarono contro il “colonizzatore di razza etiope” rivendicando l’espulsione di tutti i tutsi in Abissinia. Nel 1959 viene inaugurata la pulizia etnica che culminò nel genocidio del 1994.

Con queste premesse, la rivolta hutu del novembre 1959 (mascherata come rivolta contadina) assunse immediatamente una dimensione di pulizia etnica e fu il primo atto dei numerosi massacri perpetrati verso i tutsi dietro lo stimolo delle forze politiche che avevano sostenuto il riscatto della maggioranza oppressa: Belgio e Vaticano.

Centinaia di tutsi vennero massacrati durante la rivolta e 22.000 di essi vennero deportati in un campo di concentramento a Bugesera all’est del paese (all’epoca una area insalubre). All’indipendenza del Ruanda, nel luglio 1962, 120.000 tutsi erano stati costretti a fuggire dalla morte trovando rifugio nei paesi vicini.

Un tentativo di vendetta perpetuato da una minoranza di tutsi esuli in Burundi nel Natale del 1963 provocò la reazione del governo Bahutu nel gennaio 1964 che vide l’eliminazione di 100.000 tutsi e la decapitazione di tutta la leadership politica tutsi ancora presente nel paese.

Questa nuova ondata di pulizia etnica provocò un secondo esodo di 250.000 tutsi. In meno di due anni dall’indipendenza la metà della popolazione tutsi in Ruanda si trovava in esilio in Uganda, Burundi, Zaire e Tanzania.

Una nuova ondata di pulizia etnica fu attuata nel 1973 e culminò con la presa del potere (tramite colpo di stato) di Juvenal Habyrimana che da giovane aspirante prete era divenuto prima politico poi generale dell’esercito.

Di fronte a questa polarizzazione in Ruanda, la minoranza tutsi del vicino Burundi, riusci’ a prendere il controllo del paese grazie al fatto che l’esercito locale creato dai belgi era interamente nelle loro mani.

I tutsi al potere in Burundi riuscirono a respingere tre tentativi di colpo di stato ideati da genocidari hutu (appoggiati dal Ruanda) attraverso il massacro della élite hutu e di diverse migliaia di civili.

Nel corso dei decenni successivi all’indipendenza, questo Manifesto assumerà un ruolo di riferimento per gli hutu al potere e ulteriori elaborazioni ideologiche lo trasformeranno nel testo fondamentale di giustificazione razziale per le politiche di repressione della minoranza tutsi che culmineranno con la teoria del “Hutu Power” di Habyrimana degli anni ’70 e con il piano di “Soluzione Finale” ideato e attuato negli anni ’90. L’era razziale in Ruanda.

Il colpo di stato del 1973 permise a Habyrimana di portare al potere la fazione più estemista degli hutu: quella del nord, proveniente dalle prefetture di Gisenyi e di Ruhengeri. Gli hutu del nord si consideravano gli unici che non avevano subito il dominio tutsi.

Il nuovo regime giocò la carta etnica per isolare l’elite hutu del centro e del sud accusata di essere troppo “moderata” verso i tutsi. Le origini “etniche” furono registrate nelle carte di identità nazionali (come all’epoca dei belgi) e servivano per determinare l’accesso alla scuola, alla sanità e al mondo del lavoro attraverso il sistema di “quota razziale” che attribuiva ai tutsi il 9%.

Grazie alla copertura mediatica internazionale del Belgio e successivamente della Francia; grazie alla complicità del Vaticano e dell’Internazionale Democratica Cristiana, il regime razziale hutu in Ruanda riuscì per trent’anni a far credere al mondo intero di essere un regime democratico.

Durante il periodo del partito unico, Habyrimana giocò sull’ambiguitò della gestione del paese a favore della maggioranza. Durante l’apertura al multipartitismo giocò sull’ambiguità della volontà elettorale della maggioranza.

Per i cittadini occidentali e anche per qualche politico democratico cristiano in buona fede, entrambi ignoranti della dinamica razziale in atto nel paese, questa propaganda funzionò perfettamente.

In codice la gestione del paese a favore della maggioranza significava gestione del potere a favore degli hutu. La volontà elettorale della maggioranza era la volontà hutu visto che tutti i partiti in Ruanda erano su base etnica. I partiti misti (hutu e tutsi) venivano fortemente ostacolati attraverso l’eliminazione fisica dei loro leader.

In breve tempo Habyarimana trasformò il ceto estremista hutu in un famelico clan aggrappato al potere e allo sfruttamento delle risorse del paese, mascherando queste pratiche di arricchimento e la conseguente dittatura dietro l’ideologia del riscatto hutu, mentre la maggioranza della popolazione, in primis gli hutu, sprofondava nella miseria totale.

Grazie alla ex potenza coloniale, alla Francia e al Vaticano, il Ruanda conobbe trent’anni di dittatura a forte connotazione razziale. Questa dittatura conteneva molte similitudini con l’ideologia nazista del genocidio. Queste similitudini furono dimostrate nel 1994 durante i 100 giorni dell’orrore della Soah Africana.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab ago 10, 2019 8:57 pm

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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab ago 10, 2019 8:57 pm

???
Qualcuno sostiene che la Francià soffiò sul fuoco dell'odio etnico


C’est confirmé, la France a été derrière le génocide rwandais
Actualité 1 novembre 2016

https://news.reponserapide.com/2016/11/ ... 2LPzsrh3vE

Le Rwanda a publié, une liste de 22 officiers supérieurs français impliqués, selon lui, dans la planification et l’exécution du génocide de 1994 contre les Tutsis au Rwanda.

La Commission nationale pour la lutte contre le génocide (CNLG), qui a rendu public le document, soutient que ces « acteurs français ont été impliqués dans le génocide à la fois comme auteurs et complices. »

Parmi les officiers supérieurs français accusés d’avoir joué un rôle dans le génocide de 1994 au Rwanda, figure le général Jacques Lanxade. Au moment des faits, le général Lanxade était le chef d’État-Major des armées françaises (1991 à 1995).

Kigali considère que l’opération française Turquoise autorisée par les Nations Unies alors déployée au Rwanda, était une « véritable force d’occupation impliquée dans des crimes graves », soutenus et occultés par la France.

La Commission nationale pour la lutte contre le génocide a publié sur son site, les noms ainsi que les agissements supposés de ces 22 hauts gradés de l’armée française.

La CNLG estime que les forces françaises ne « veulent pas que leurs actes soient connus malgré leurs preuves ».

Début octobre dernier, la justice française a rouvert l’enquête sur l’attentat contre l’avion du président Juvenal Habyarimana, considéré par les experts comme étant l’élément déclencheur du génocide de 1994 dans lequel 800 mille personnes ont été tuées selon l’Onu.


Il Ruanda ha pubblicato una lista di 22 alti funzionari francesi coinvolti, secondo lui, nella pianificazione e nell'esecuzione del genocidio del 1994 contro i tutsi in Ruanda.

La Commissione Nazionale per la Lotta contro il Genocidio (CNLG), che ha reso pubblico il documento, sostiene che questi "attori francesi sono stati coinvolti nel genocidio sia come autori che come complici. »

Tra gli alti ufficiali francesi accusati di aver avuto un ruolo nel genocidio del 1994 in Ruanda c'è il generale Jacques Lanxade. All'epoca degli eventi, il generale Lanxade era il capo di stato maggiore degli eserciti francesi (1991-1995).

Kigali ritiene che l'operazione francese Turchese, autorizzata dalle Nazioni Unite allora dispiegata in Ruanda, fosse una "vera forza d'occupazione coinvolta in gravi crimini", sostenuta e nascosta dalla Francia.

La Commissione nazionale per la lotta contro il genocidio ha pubblicato sul suo sito web i nomi e le presunte azioni di questi 22 alti ufficiali dell'esercito francese.

Il CNLG ritiene che le forze francesi "non vogliono che le loro azioni siano note nonostante le loro prove".

All'inizio dell'ottobre scorso, il sistema giudiziario francese ha riaperto l'inchiesta sull'attentato all'aereo del presidente Juvenal Habyarimana, considerato dagli esperti come l'innesco del genocidio del 1994, in cui, secondo l'ONU, sono state uccise 800.000 persone.


https://www.facebook.com/dragor.alphan. ... ment_reply



Dragor Alphan
È politico, non etnico-tribale, creato nel 1955 dal vescovo svizzero André Perraudin con il "Manifesto del Popolo Hutu" per criminalizzare i Tutsi.


Ruanda: dal Manifesto Bahutu al genocidio del 1994
09 Aprile 2014

https://www.infoaut.org/approfondimenti ... o-del-1994


Si è parlato molto del genocidio ruandese, sarebbe meglio chiamarlo genocidio del 1994 visto che, come andremo a vedere, fu il secondo in ordine di tempo. Tra le altre cose, se ne è sempre parlato con una visione “occidentale” presentandolo, attraverso i media, quasi come un esplosione di violenza che ha turbato una “pacifica” convivenza.

Molto poco si è detto invece sull'ossatura ideologica di un regime di stampo razzista che diede il via ai massacri come ultimo atto al fine di mantenere il proprio potere.

Hutu Power: il Manifesto Bahutu del 1957

Il 24 marzo del 1957 viene pubblicato in Ruanda un documento di 12 pagine intitolato: “Note sull’aspetto sociale del problema razziale indigeno nel Rwanda”, redatto da nove intellettuali hutu che si definiscono “cristiani impegnati”. I loro nomi sono: Maximilien Niyonzima, Grégoire Kayibanda, Claver Ndahayo, Isidore Nzeyimana, Calliope Mulindaha, Godefroy Sentama, Sylvestre Munyambonera, Joseph Sibomana e Jouvenal Habyarimana.

Alcuni studiano presso il seminario di Kigali, Kayibanda e Niyonzima sono i redattori del giornale ufficiale della chiesa cattolica Ruandese: “Kinyamateca”, che è l'unico organo di stampa locale permesso dalle autorità coloniali belghe, Milidadabi è il segretario al vescovato di Kabgayi oltre che direttore dell' Azione Cattolica in Ruanda.

Un ruolo fondamentale nella redazione e nella diffusione del Manifesto Bahutu lo ebbe la congregazione missionaria belga dei “Padri Bianchi” mascherando l'appoggio al Manifesto con “la promozione di un’era di maggior giustizia e democrazia nella societa’ ruandese”.

Il Manifesto si basa sulla teoria “storico-etnica” inventata dal colonialismo belga che individua i tutsi come una popolazione nilotica proveniente da Etiopia e Egitto che colonizzò il Ruanda schiavizzando la popolazione locale Hutu. Questa è la teoria dalla cui partenza il Manifesto Bahutu rivendica un “processo democratico” nel paese capace di metter fine alla secolare supremazia dei tutsi e al “servilismo feudale” cui gli hutu erano costretti.

Anche se, in apparenza, il Manifesto Bahutu contiene rivendicazioni progressiste quali la riforma agraria, la soluzione del problema indigeno in Ruanda ecc...; esso è il testo di base per la supremazia razziale Hutu e il regime razzial-nazista instaurato da Jouvenal Habyarimana all'indomeni dell'indipendenza, citando un passo del manifesto: “Qualcuno si domanda se esiste veramente un conflitto sociale o se è un conflitto razziale. Noi pensiamo che queste riflessioni siano semplice letteratura. Nella realtà e nel pensiero del popolo il problema non è sociale. Il problema risiede nel monopolio politico che i tutsi dispongono. Un monopolio politico che, esaminando le attuali strutture esistenti, si trasforma in un monopolio economico e sociale dei tutsi che, con grande disperazione per gli hutu, condanna la maggioranza della popolazione a restare eternamente della mano d’opera subalterna". Possiamo notare come gli autori del documento, attraverso un abile falsificazione storica, identificano gli hutu come vittime del “colonialismo tutsi”. La tesi è sviluppata grazie alla teoria del “colonialismo a due fasi” che individua come “prima fase” il colonialismo dei tutsi sugli hutu e come “seconda fase” il colonialismo belga in Ruanda.

Sempre citando un atro passo: “Senza gli Europei noi saremmo stati condannati ad uno sfruttamento disumano e, tra i due mali bisogna scegliere il minore” (il colonialismo europeo),“un colonialismo progressista e buono rispetto alla supremazia razziale dei nilotici” vediamo,quindi,come si attui una distinzione della popolazione ruandese come i dominati (hutu) e i dominatori (tutsi) vengano raffigurati come due popolazioni ben distinte in questo “documento” redatto da “intellettuali cristiani”, “intellettuali” che,volutamente,non si soffermano a riflettere sul fatto che entrambe le “etnie” parlino la stessa lingua (il Kinyaruanda, una lingua bantu) ,abbiano gli stessi usi e costumi e vivano negli stessi villaggi e nelle stesse città.

Il manifesto Bahutu è quindi in realtà un manifesto razziale, che si basa sulla distinzione di due blocchi etnici incitando una parte della popolazione (gli hutu) a ribellarsi contro i tutsti anziché parlare di popolazione ruandese nel suo insieme e individuare nel colonialismo belga il vero male del paese.

Il contesto storico

Il potere coloniale belga comincia a sgretolarsi con la fine della Seconda Guerra Mondiale sotto la spinta dei primi movimenti politici africani, nel 1952 il Belgio annuncia la preparazione di un piano decennale di sviluppo nel Ruanda e nel Burundi con l'obbiettivo di “preparare” le due colonie africane all'indipendenza.

L'opposizione più radicale nel paese contro il colonialismo belga era promossa dalla borghesia tutsi attraverso un progetto di indipendenza basato non sull'etnicità ma sul nazionalismo, attraverso il concetto secondo il quale ogni ruandese (indipendentemente dalla sua provenienza etnica) aveva il diritto di gestire il proprio paese senza interferenze esterne, soprattutto se provenienti dalla ex potenza coloniale. L’indipendenza dal Belgio era un diritto per i ruandesi e non una gentile concessione da parte della potenza coloniale europea.

Visto il precipitare degli eventi il colonialismo belga sostenne la creazione di forze politiche di chiara matrice etnica affidando il compito di creare una “intellighenzia” politica hutu alla chiesa cattolica, "intellighenzia" che aveva il compito di incanalare il risentimento della popolazione (dopo decenni di imposizioni e repressioni da parte del colonialismo belga) verso i tutsi, grazie al sostegno finanziario del movimento internazionale democristiano, la Chiesa e il Belgio favorirono la creazione di partiti “hutu” da contrapporre a tutti quei partiti che avevano sposato una causa anticoloniale basata sul nazionalismo e non sull'etnicismo.

Il Manifesto Bahutu, nacque per dare a tutti questi partiti “hutu” uno spessore ideologico pseudo rivoluzionario capace di confondere la loro politica basata sulla supremazia razziale attraverso una maschera democratica e progressista.

Con queste premesse si arriva,nel 1962, all'indipendenza accompagnata nel frattempo dallo sterminio di 100mila ruandesi di etnia tutsi seguita dalla fuga di numerosi sopravvissuti in Uganda e in Burundi. Nel 1973 in Ruanda, il generale Juvénal Habyarimana prende il potere attraverso un colpo di Stato instaurando un regime razzial-nazista basato sulla supremazia hutu, attraverso la teoria dell “hutu power” che trova il suo fondamento ideologico nel Manifesto Bahutu, concretizzatasi attraverso il piano di “soluzione finale” ideato e attuato negli anni '90.

L'Hutu Power e il regime razzista di Habyrimana

Dal 1973 fino al 1994 il regime di Habyrimana giocò la carta etnica per isolare le popolazioni del centro e del sud del paese poco sensibili al nuovo regime razzista instaurato nel paese. Le “origini etniche” furono registrate sui documenti di identità, come al tempo del colonialismo belga, e servivano per determinare l'accesso ai servizi pubblici attraverso un sistema di “quote razziali”. Tuttavia grazie alla copertura mediatica di Belgio, Francia e Vaticano, il regime di Habyrimana appariva “democratico” giocando sull'ambiguità della gestione del paese, a favore della maggioranza (durante il periodo del partito unico) e successivamente aprendosi al multipartitismo, giocando così sull’ambiguità della volontà elettorale della maggioranza. “Gestione del paese a favore della maggioranza” significava gestione del potere a favore dell'elite dominante hutu, ossia a favore del famelico clan presidenziale aggrappato allo sfruttamento delle risorse del paese, grazie alla ex potenza coloniale, oltre che alla Francia e al Vaticano facendo così conoscere al popolo ruandese una dittatura trentennale a connotazione razziale.

1994: il genocidio

L'11 gennaio del 1994 il generale canadese Dellaire, al comando dei caschi blu dell' ONU giunti in Ruanda per far rispettare l'accordo di Arusha del 1993, spedisce un fax al quartier generale di New York dove informa i massimi esponenti delle Nazioni Unite della preparazione, da parte del regime, dell'avvio delle operazioni di “pulizia etnica” da parti delle locali milizie Interahamwe, ben 4 mesi prima dell'inizio ufficiale delle “operazioni” con la connivenza del palazzo di vetro, che già sapeva dei preparativi in corso. L'ufficio dell'ONU fu capace di lavorare a pieni ranghi solo dopo il termine del genocidio, e questo ritardo costò alle Nazioni Unite una quantità di accuse che le portarono nel marzo 1996 a ritirare i propri contingenti.

Il 6 aprile del 1994 alle 20.30, l'aereo presidenziale con a bordo Juvenal Habyarimana, presidente del Ruanda, si sta preparando all’atterraggio. A bordo c’è anche il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, più una piccola folla di accompagnatori. Il gruppo è di ritorno da una riunione di emergenza dei capi di stato africani durante la quale Habyarimana ha promesso di installare un governo di transizione nazionale a partire dall'8 aprile. Da mesi il governo tergiversa sull'attuazione degli accordi di Arusha, firmati rispettivamente il 30 ottobre del 1992 e il 9 gennaio del 1993 ,i quali stabiliscono una tregua alla guerra civile che dhe dal 1990 vede il governo razzista di Kigali contrapporsi ai ribelli del Front Patriotique Rwandais (FPR), guidati da Paul Kagame (attuale presidente del paese). Gli accordi avrebbero comportato non solo il passaggio a un governo di transizione a base allargata ma anche l'interruzione da parte francese, del supporto politico, militare ed economico al regime di Habyarimana.

Mentre l'aereo si prepara all'atterragio viene colpito da due missili terra-aria ed esplode in volo, poche ore dopo nelle strade è già l'inferno. Accusando i ribelli dell' FPR dell'attentato, il governo da l'avvio a un massacro sistematico, e pianificato già da alcuni anni, attraverso l'addestramento delle tristemente note milizie Interahamwe e l'uso propagandistico della tv e della radio di stato (Radio Télévision Libre des Mille Collines).

Il Ruanda contava all'epoca circa 7 milioni di abitanti e in 100 giorni vengono eliminate dall'esercito (dalle milizie Interahamwe e dalla guardia presidenziale) circa 800.000 persone. In una corsa contro il tempo l'FPR riuscirà a entrare a Kigali e porre fine al massacro.
Inizierà un esodo che vedrà un milione di persone di etnia hutu, tra cui i principali esecutori dei massacri, riversarsi nell'allora Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) inseguiti dalle truppe del nuovo governo insediatosi a Kigali che coglierà la palla al balzo per occupare le principali zone diamantifere congolesi e iniziare quel processo di furto delle risorse che continua tutt'ora e che è parte importante dell'economia ruandese.

In questa storia l'implicazione della Francia ha un sapore coloniale: Parigi sostenne il regime razzista di Habyiarimana in ragione di una lettura dell' avanzata dei ribelli dell' FPR come un'espansione del fronte di influenza anglo-americano nella zona. Addestrati e formati in Uganda (con il supporto USA e britannico), i membri dell' FPR erano ritenuti da François Miterrand una minaccia per la tutela degli interessi francesi nella regione.

Quando nel luglio del 1994 l'FPR prende il controllo del paese, i rapporti tra Francia e Ruanda diventano tesi. Poco tempo prima il governo francese, avendo capito che la capitolazione del regime era inevitabile, cercò attraverso le vie ufficiali delle Nazioni Unite di organizzare una “missione umanitaria” per portare in salvo gli ideatori principali del genocidio; nel 2000 Jean-Christophe Mitterrand, figlio di François Mitterrand, sarà arrestato dalle autorità francesi per traffico di armi verso il Ruanda.

Nel novembre 1994 è stato istituito il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir, con sede ad Arusha, in Tanzania), incaricato di processare i responsabili di atti di genocidio e di altre gravi violazioni dei diritti umani in Ruanda o da cittadini ruandesi in paesi vicini tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994. Le inchieste del Tpir si sono concluse nel 2010 e le decisioni in appello dovranno essere comunicate entro la fine del 2015. Uno dei processi storici è stato quello a carico di Jean Kambanda, primo ministro del cosiddetto governo ad interim costituito il 9 aprile 1994, condannato all’ergastolo nel settembre 1998. E’ durato sette anni il processo ai “media dell’odio”, tra il 2000 e il 2007. Ferdinand Nahimana, uno dei fondatori della Radio Television Libre des Mille Collines (Rtlm), è stato condannato a 30 anni di carcere. In tutto il Tpir ha emesso 47 condanne e ha prosciolto 12 persone.

Nel 2009, Protasi Zigiranyairazo, noto come ‘Mister Z’, l’ex prefetto di Ruhengeri e cognato del presidente Habyarimana nonché uno dei principali responsabili del genocidio del 1994, venne prosciolto da ogni accusa. I suoi legali hanno basato la loro difesa sul fatto che non c’era alcuna prova del suo coinvolgimento nella pianificazione del genocidio. D’altra parte nove pianificatori del genocidio sono tutt’ora latitanti, tra cui uno dei principali finanziatori dei massacri, l’uomo d’affari Felicien Kabuga, visto per l’ultima volta in Kenya 20 anni fa.

Se da un lato numerosi esecutori e responsabili dei massacri avvenuti in Ruanda vent'anni addietro sono stati giudicati e condannati, sia in Tanzania attraverso il Tpir sia in Ruanda attraverso le “gacaca” (corti comunitarie), restano a piede libero i banchieri e i trafficanti di armi che finanziarono e armarono il governo razzista di Habyarimana.





CLAUDE
Dragor Alphan
7 aprile 2021

https://www.facebook.com/dragor.alphan. ... 4715369140

Se volete sapere cosa è successo in migliaia di case ruandesi a partire da questo maledetto 6 aprile 1994, ecco la testimonianza del mio amico Claude. Attenzione, testo gore, anime sensibili astenersi.

Verso mezzogiorno il nostro vicino Pastore Havugimana è entrato nella nostra casa accompagnato da due miliziani e si è avvicinato a mia madre. Ero seduto in un angolo con i miei nipoti Jean-Marie di 3 anni e Dénis di 2 anni. Ha alzato il machete e mia madre ha urlato: ′′ Non il machete! Ti prego, non il machete!" Pastore si è pulito il sudore della fronte con la manica della giacca. ′′ Senti Rose, per favore non farmi storie Ho lavorato tutta la mattina e non ho ancora pranzato Nel pomeriggio devo continuare il lavoro. Sono molto stanco, quindi finiamola al più presto." Mia madre si è alzata in ginocchio, ha unito le mani e ha iniziato a pregare. ′′ Padre nostro che sei nei cieli..." Il taglio del machete gli ha spaccato la testa in due. È crollata nel suo sangue e la pozza è arrivata fino ai miei piedi. Pastore gli ha dato un calcio e poi è venuto verso di noi. I miei fratellini mi si sono abbracciati. Ha colpito in faccia Jean-Marie che è caduto a terra urlando, con la mano sulla guancia insanguinata. Pastore gli ha tagliato la testa, poi ha infilato il machete nella gola di Dénis. Mi ha colpito più volte sulle gambe e ha detto: ′′ Così non potrai andartene, ti prenderò cura più tardi." Ha lasciato la casa con i miliziani.
Ho aspettato tanto, poi ho strisciato fuori casa e ho perso conoscenza. Mi sono svegliato in casa di altri vicini che mi hanno curato e nascosto.
Oggi Claude è inchiodato a una sedia a rotelle. Ha la nazionalità svizzera e lavora nel municipio di Sion nell'ufficio contabilità. Ogni tanto torna in Ruanda per vedere i suoi cari e gli amici sopravvissuti.
In 26 anni ho ascoltato centinaia di testimonianze come la sua. E mi chiedo: quanti Pastori ci sono tra le persone che incrocio ogni giorno? Pacifici vicini che non hanno mai fatto del male a nessuno e che improvvisamente si trasformano in assassini senza stato d'animo?
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab mag 29, 2021 5:49 am

Ruanda. Macron si scusa per le responsabilità della Francia nel genocidio
28 maggio 2021

https://www.notiziegeopolitiche.net/rua ... genocidio/

Il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in Ruanda in visita ufficiale, dove ha incontrato il collega Paul Kagame per discutere di relazioni bilaterali. Si tratta di un evento importante in quanto giunge dopo 25 anni di tensioni tra i due paesi: nel 1994 Parigi sostenne concretamente il governo a guida hutu di Juvenal Habyarimana contro il Fronte Patriottico Ruandese (RPF) dominato dai tutsi, che dal 1990 era impegnato in un conflitto volto a ripristinare i diritti dei tutsi in seguito a più di quarant’anni di violenze contro di loro.
La Francia fornì armi ed addestramento militare alle milizie giovanili di Habyarimana, gli Interahamwe e Impuzamugambi, che erano tra i principali mezzi governativi per perpetrare il genocidio che seguì all’attentato all’aereo presidenziale ruandese del 6 aprile 1994. Le vittime furono in pochi mesi 800mila, quasi tutte civili barbaramente trucidati a colpi di machete.
Macron ha visitato oggi il Memoriale del Genocidio a Kigali, ed ha affermato che “Vengo qui a riconoscere le nostre responsabilità”, e che la Francia “non si è resa complice del silenzio”, ma “per troppo tempo non ha fatto un esame della verità”. Ha poi insistito che “Questo percorso di riconoscimento, attraverso i nostri debiti, i nostri doni, ci offre la speranza di uscire da questa notte e di camminare nuovamente insieme. Su questo solo coloro che hanno attraversato la notte possono forse perdonare, farci il dono di perdonarci”.
Al Memoriale di Kigali, sono seppelliti i resti di oltre 250mila delle circa 800mila vittime del genocidio.
Il presidente ruandese Paul Kagame ha definito il discorso di Macron come “un atto di coraggio”, che “vale più delle scuse”.




Ruanda, Macron: ‘Francia in silenzio sul genocidio, ma non complice’. Associazione vittime: ‘Non ha chiesto scusa’
27 maggio 2021

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/0 ... a/6212025/

“Al vostro fianco con umiltà e rispetto, sono venuto per riconoscere le nostre responsabilità” sul genocidio del 1994 in Ruanda, sul quale la Francia ha fatto “prevalere per troppo tempo il silenzio sull’esame della verità”. Ma, allo stesso tempo, “non si è resa complice” della strage. Esordisce così Emmanuel Macron al memoriale per il genocidio di Kigali, dove si è recato dopo aver incontrato il presidente Paul Kagame. Annunciando il ritorno nella capitale ruandese di un ambasciatore di Parigi, posto rimasto vacante dal 2015 a causa delle tensioni tra i due Paesi dovute al ruolo della Francia nel genocidio, Macron ha dichiarato che la Francia ha deluso le 800mila vittime, senza però arrivare a scusarsi e ricevendo comunque il plauso di Kagame, che ha definito le sue parole un atto di “immenso coraggio”. “Un genocidio non può essere scusato, si convive con esso”, ha affermato Macron in quello che è sembrato un modo per spiegare la mancanza di scuse.
E sottolineando che non c’è stata complicità, ricalcando il risultato delle ricerche storiche commissionate dall’Eliseo e da Kigali, ha quindi detto di auspicare che coloro “hanno attraversato la notte” del genocidio dei tutsi, possano perdonarci”. Parole elogiate da Kagame, ma che al contrario hanno attirato critiche e risvegliato la delusione tra i ruandesi.

“Ci aspettavamo che chiedesse perdono. Non l’ha fatto” – Il partito di opposizione Rwandese Platform for Democracy aveva fatto sapere su Twitter di sperare che Macron si scusasse “in modo onesto” e che promettesse “di risarcire” le vittime del genocidio e anche Egide Nkuranga, il presidente di Ibuka, una delle più importanti associazioni a sostegno delle vittime del genocidio dei Tutsi in Ruanda, si è rammaricato per l’assenza di “scuse chiare” nel discorso sul ruolo della Francia. “Ci aspettavamo che si scusasse chiaramente a nome dello Stato francese. Non l’ha fatto. Anche per chiedere perdono, non l’ha fatto”, ha detto Nkuranga. Tuttavia, ha aggiunto, Macron “ha davvero cercato di spiegare il genocidio, come è successo, cosa non hanno fatto, le loro responsabilità. Questo è molto importante, dimostra che ci capisce. Anche se non si è scusato chiaramente – ha concluso -, vediamo comunque che ciò è qualcosa che può avvenire in futuro”.

Il senso del viaggio di Macron in Ruanda – Punta ad essere la “tappa finale della normalizzazione delle relazioni” con la Francia, dopo oltre 25 anni di tensioni legate al ruolo svolto da Parigi in questa immane tragedia. “Questo percorso di riconoscimento, attraverso i nostri debiti, i nostri doni, ci offre la speranza di uscire da questa notte e di camminare nuovamente insieme. Su questo cammino – ha proseguito Macron – solo coloro che hanno attraversato la notte possono, forse, perdonare, farci il dono di perdonarci“. Un viaggio, nelle intenzioni dell’Eliseo, per ricomporre quella profonda frattura sorta nel ’94, quando i militari francesi della missione Turqoise, operativa fra giugno e agosto del 1994, si erano sbilanciati in favore del governo hutu responsabile del genocidio in cui sono state massacrate 800mila persone, la maggioranza dei quali tutsi e hutu moderati.

Macron vuole “scrivere una nuova pagina” nelle relazioni fra Parigi e Kigali. Il rapporto di 1.200 pagine della commissione indipendente guidata dallo storico Vincent Duclert istituita su iniziativa di Macron e pubblicato lo scorso marzo conclude che la Francia ha avuto “una responsabilità grave e travolgente” nel genocidio. Responsabilità per non aver agito per fermare le uccisioni, ma non complicità. Una seconda ricerca di 600 pagine commissionata dal Ruanda e pubblicata il mese scorso dallo studio legale americano Levy Firestone Muse ha invece parlato della Francia come di “collaboratore indispensabile” del regime degli hutu, ma esclude complicità. Il Ruanda aveva rotto le relazioni diplomatiche con la Francia nel 2006, dopo che un giudice aveva spiccato un mandato d’arresto contro nove consiglieri di Kagame accusati di essere coinvolti nell’abbattimento dell’aereo su cui, il 6 aprile del 1994, viaggiava il Presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, l’evento che diede inizio al genocidio. Le relazioni diplomatiche erano state ripristinate tre anni dopo. Ma dal 2015 Parigi non aveva un ambasciatore. Ora l’ambasciatore francese tornerà a Kigali.


Rwanda: la Francia e le responsabilità nel genocidio ruandese
27 maggio 2021

https://lindro.it/rwanda-la-francia-e-l ... -ruandese/

Il presidente francese Emmanuel Macronha dichiarato di essersi recato in Rwanda per riconoscere le “responsabilità” della Francia nel genocidio del 1994. Macron ha definito la sua visita come la “tappa finale della normalizzazione delle relazioni” tra Francia e Ruanda. “Riconoscere questo passato significa anche proseguire l’opera di giustizia, nessuna persona sospettata di crimini del genocidio possa sfuggire al lavoro dei giudici”.

Anche se enza scuse ufficiali nei confronti del governo e del popolo ruandese, la tappa più attesa della visita era quella al Memoriale del genocidio, dove Macron si è recato insieme all’omologo ruandese Paul Kagame e ha pronunciato l’atteso discorso, il primo in assoluto di un presidente francese. La Francia “non è stata complice” del genocidio avvenuto in Ruwanda ma “ha un ruolo, una storia e una responsabilità politica. Gli assassini che hanno infestato le paludi, le colline, le chiese non avevano il volto della Francia, Il sangue colato non ha disonorato le sue armi, né le mani dei suoi soldati“, ha aggiunto Macron.

Macron ha quindi voluto sottolineare l’importanza del rapporto commissionato da Parigi allo storico Vincent Duclerc, definendolo un lavoro “trasparente” e “notevole”. Un lavoro simile è stato fatto anche da Kigali e questo ci permette oggi di avanzare oggi su una storia condivisa”, ha detto Macron, che ha quindi confermato che presto verrà nominato un nuovo ambasciatore francese a Kigali, ruolo vacante ormai dal 2015.

La Francia ha il “dovere” di “guardare la storia in faccia” e di “riconoscere la parte di sofferenza che ha inflitto al popolo ruandese facendo prevalere per troppo tempo il silenzio rispetto alla ricerca della verità” ha detto ancora. La Francia non ha ascoltato “la voce di coloro che l’avevano messa in guardia“ e “non ha capito che volendo ostacolare un conflitto regionale o una guerra civile rimaneva al fianco di un regime che stava attuando un genocidio”, ha ricordato il presidente francese richiamando ad una “responsabilità opprimente” di Parigi “in un ingranaggio” che ha portato “al peggio”.

“La Francia ha un ruolo, una storia e una responsabilità politica in Ruanda”, ha ammesso Macron nel suo discorso, nel quale ha riconosciuto che all’epoca Parigi è rimasta “di fatto al fianco di un regime genocidario” pur precisando che “non è stata complice”. Per il Presidente francese, “gli assassini che hanno infestato le paludi, le colline, le chiese non avevano il volto della Francia” ed “il sangue colato non ha disonorato le sue armi, né le mani dei suoi soldati”.

La Francia ha il “dovere” di “guardare la storia in faccia” e di “riconoscere la parte di sofferenza che ha inflitto al popolo ruandese facendo prevalere per troppo tempo il silenzio rispetto alla ricerca della verità”, ha ammesso Macron, per il quale nel dossier riguardante il genocidio in Ruanda è importante ricercare la “verità” invece di provare a sbarazzarsi “di un passato che non passa”. “Un genocidio non si scusa e un perdono non si si esige”, ha proseguito Macron, ammettendo che Parigi si è impegnata all’epoca in un “conflitto nel quale non aveva alcuna” necessità interna e che non ha ascoltato “la voce di coloro che l’avevano messa in guardia”.

Anche il Presidente ruandese Kagame ha chiarito la volontà di Francia e Ruanda di lavorare insieme per costruire “un rapporto forte e solido” fra i loro Paesi, guardando al futuro ed investendo insieme a beneficio dei rispettivi popoli. “Questa visita (di Macron) è per il futuro, non per il passato: abbiamo scelto di lavorare per il meglio e lo faremo per il beneficio di entrambi i popoli dal punto di vista economico, politico, culturale”, ha detto Kagame dopo aver incontrato Macron.

In questa visita franco-ruandese “nessun granello di verità è stato sacrificato, ma il peso della verità è stato ricollocato al suo posto. Ci sono atteggiamenti nei confronti dell’Africa che sono ereditati dal passato e dovrebbero cambiare”, ha aggiunto Kagame che afferma che “Il Presidente Macron è tra coloro che hanno capito che le cose devono cambiare”, ha aggiunto Kagame, per il quale il Ruanda “è obiettivamente un Paese che è cambiato in meglio” e “in questo senso lavoreremo”.

A testimonianza della volontà comune di ricostruire un rapporto forte fra i due Paesi, nel periodo compreso tra il 2019 e il 2023 la Francia finanzierà il governo di Kigali con 150 milioni di euro di aiuti allo sviluppo destinati a promuovere le “grandi priorità” del dialogo tra i due Paesi, in particolare nei settori della sanità, della francofonia e del digitale. “Questi sforzi si estendono così naturalmente alla relazione economica tra Francia e Ruanda,” ha dichiarato Macron, ricordando che la presenza economica francese in Rwanda è “in costante aumento”.

La visita di Macron ha avuto anche una rilevante componente economica e di sviluppo, dal momento che della delegazione fanno parte anche i rappresentanti di una decina di aziende francesi, oltre al direttore generale dell’Agenzia francese per lo sviluppo (Adf), Remy Rioux. In tale quadro, l’annuncio di nuovi progetti in Ruanda è una riconferma del ritorno dell’Afd nel Paese dopo la chiusura di tutti i suoi uffici ruandesi nel 1996 e la progressiva ripresa delle sue attività a partire dal 2019.


La visita. Genocidio in Ruanda. Macron a Kigali ammette: «Responsabilità francesi»
Delusi i parenti delle vittime: non si è scusato. Il presidente Kagane: «Atto di grande coraggio»
Daniele Zappalà
giovedì 27 maggio 2021

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/genocidioruanda1

È giunto ieri a Kigali, presso il più importante memoriale del genocidio ruandese del 1994, per dire questo: «Tenendomi, con umiltà e rispetto, al vostro fianco, in questo giorno, vengo per riconoscere l’entità delle nostre responsabilità». Oltre un quarto di secolo dopo l’immane tragedia, il presidente francese Emmanuel Macron ha impiegato ieri parole che nessun altro suo predecessore aveva osato proferire. Nel quadro della spirale genocidaria, dunque, Parigi non si è limitata a commettere i «gravi errori» già ammessi nel 2010 da Nicolas Sarkozy, l’altro capo dell’Eliseo partito per un viaggio di riparazione in Ruanda rivelatosi poi infruttuoso. E questa volta, il presidente ruandese Paul Kagame ha mostrato d’apprezzare il «discorso potente» di Macron, perché «le sue parole hanno più valore delle scuse, sono la verità». Nel complesso, ha subito commentato Kagame, si è trattato d’un «atto d’enorme coraggio».

Giungendo a Kigali anche con 100mila dosi di vaccino anti-Covid, consegnate nel quadro del piano Covax lungo l’asse Nord-Sud del mondo, Macron ha dunque deciso alla fine di non imitare i vertici del Belgio che fin dal 2000 avevano presentato scuse esplicite. Ma il capo dell’Eliseo non si è rifugiato dietro circonlocuzioni fumose, poiché ormai «la Francia riconosce la parte di sofferenze che ha inflitto ai ruandesi». Il che non significa, ha precisato Macron, che ci sia stato sangue innocente ruandese direttamente versato da effettivi francesi complici dei massacri.

Le ammissioni di Macron sono state affiancate da una promessa politicamente decisiva, sullo sfondo del doloroso e aspro contenzioso che aveva fin qui avvelenato le relazioni bilaterali: «Riconoscere questo passato è pure e soprattutto proseguire l’opera di giustizia. Impegnandoci affinché nessuna persona sospettata di crimini di genocidio possa sfuggire alla giustizia». Parole, queste, che alludono chiaramente al destino di quegli “esuli” ruandesi in Francia additati da tempo da Kigali per il loro ruolo nei massacri. Rispetto alla clemenza dimostrata fin qui da Parigi nei loro confronti, potrebbe dunque ben presto scattare un giro di vite politico-giudiziario all’insegna dei conti ancora da saldare con la storia.
Per suggellare la prospettiva d’una normalizzazione delle relazioni bilaterali, ormai apparentemente a portata di mano, Macron ha pure annunciato ieri l’imminente nomina d’un nuovo ambasciatore in Ruanda, un posto rimasto vacante dal 2015 sullo sfondo della fase più tempestosa nelle relazioni fra i due Paesi. La svolta è giunta dopo un lungo e delicato lavoro diplomatico di riavvicinamento che ha fatto ampio uso pure del lavoro degli storici. Uno di loro, il francese Vincent Duclert, ha presieduto un gruppo di lavoro voluto dall’Eliseo per esplicitare il perimetro delle responsabilità francesi. A fine marzo, ne era scaturito un rapporto dettagliato (di 1.200 pagine) pronto a considerarle «pesanti e schiaccianti». E il lavoro di ricerca della verità proseguirà, ha promesso Macron, riferendosi alle residue zone d’ombra circa la politica filo-hutu della Francia del presidente François Mitterrand.

Fra le associazioni di sopravvissuti del genocidio, come ad esempio “Ibuka” rappresentata da Egide Nkuranga, si sono tuttavia levate proteste per l’assenza di scuse da parte francese. Ma al contempo, le parole di profondo rispetto di Macron anche verso "il silenzio di più d’un milione" di vittime non sono cadute nel vuoto. La posizione del capo dell’Eliseo avrà prevedibilmente ricadute pure nel più ampio dibattito mai chiuso sulla geopolitica post-coloniale francese nel continente africano, ancor oggi additata anche da associazioni e studiosi transalpini. Un fronte su cui molti continuano a invocare verità.
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Re: Straje de łi Hutu e dei Tutsi

Messaggioda Berto » sab mag 29, 2021 6:20 am

Quando Francesco ha chiesto perdono per il genocidio del Rwanda (e noi chiediamo scusa al Papa)
FarodiRoma
28 maggio 2021

https://www.farodiroma.it/quando-france ... a-al-papa/

Il viaggio di Macron in Rwanda e la sua (parziale) richiesta di perdono per le responsabilità francesi nel genocidio, ha riacceso i riflettori su questo dolorosissimo evento e in particolare su chi abbia chiesto perdono. Per una nostra svista non abbiamo citato in proposito l’incontro, che rimane nella storia delle relazioni tra il Rwanda e la Santa Sede, avvenuto il 20 marzo 2017 in Vaticano tra Papa Francesco e il Presidente rwandese, Paul Kagame, che per i contenuti delle discussioni che hanno animato un colloquio durato circa 20 minuti, può essere definito storico. Ce ne scusiamo con i lettori ma soprattutto con Papa Francesco, con il cardinale Parolin e i loro collaboratori. E in merito pubblichiamo un commento su quell’incontro scritto da Joshua Massarenti per Vita.it

Secondo un comunicato stampa diffuso nell’occasione dal Vaticano, “il Papa ha manifestato il profondo dolore suo, della Santa Sede e della Chiesa per il genocidio contro i Tutsi, ha espresso solidarietà alle vittime e a quanti continuano a soffrire le conseguenze di quei tragici avvenimenti e, in linea con il gesto compiuto da San Giovanni Paolo II durante il Grande Giubileo del 2000, ha rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica”.

Il Papa ha rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica.

Mai dal 1994 un Papa si era espresso in modo così chiaro sul ruolo della Chiesa cattolica rwandese durante l’eccidio in questo paese situato in Africa centrale. All’epoca, un regime guidato da estremisti Hutu aveva pianificato lo sterminio della minoranza Tutsi (e di Hutu contrari al genocidio), spingendo tutta la maggioranza Hutu a mobilitarsi per mettere in pratica il loro piano. Tra aprile e giugno 1994, oltre un milione di persone furono massacrate a colpi di macete, bastoni chiodati e fucilate. Nel corso dell’eccidio, preti e suore risultarono complici dei genocidiari, alcuni di loro parteciparono attivamente ai massacri. Da allora, le relazioni tra il Vaticano e il Rwanda di Kagame hanno alternato periodi di grande freddo e tentativi di riavvicinamento.

Nel novembre 2016, la Chiesa cattolica locale aveva chiesto perdono in nome dei cristiani implicati nel genocidio, ma non a nome della Santa Sede. “La Chiesa non ha partecipato al genocidio”, aveva dichiarato Philippe Rukamba, Presidente della Conferenza episcopale rwandese. Una dichiarazione che aveva provocato non poca irritazione presso le autorità del Rwanda, deluse da scuse giudicate “inadeguate”. Da cui l’invito rivolto al Vaticano di intervenire con un perdono ufficiale a nome della Santa Sede. Oggi è cosa fatta.

Partendo dal perdono, “Il Papa ha altresì auspicato che tale umile riconoscimento delle mancanze commesse in quella circostanza, le quali, purtroppo, hanno deturpato il volto della Chiesa, contribuisca, anche alla luce del recente Anno Santo della Misericordia e del Comunicato pubblicato dall’Episcopato rwandese in occasione della sua chiusura, a “purificare la memoria” e a promuovere con speranza e rinnovata fiducia un futuro di pace, testimoniando che è concretamente possibile vivere e lavorare insieme quando si pone al centro la dignità della persona umana e il bene comune”.

L’incontro tra Papa Francesco e Paul Kagame è stata anche un’occasione per sottolineare “la collaborazione tra lo Stato e la Chiesa locale nell’opera di riconciliazione nazionale e di consolidamento della pace a beneficio dell’intera Nazione”.
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