Esperienza mistica dell'autoctonia - Heimat

Esperienza mistica dell'autoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » sab feb 13, 2016 2:05 pm

Wieviel Heimat?
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 103&t=2214


Ein Fremder hat immer
Seine Heimat im Arm
Wie eine Waise
Für die er vielleicht nichts
Als ein Grab sucht


Nelly Sachs

https://www.fabula.org/colloques/document1987.php

https://www.inventati.org/apm/abolizionismo/amery/xamery.pdf



Di quanta patria ha bisogno un uomo?
Si chiede Améry in uno dei capitoli più dolorosi del suo libro Intellettuale ad Auschwitz:
" Perché l'uomo ha bisogno di Heimat. Di quanta? E' una domanda fasulla, s'intende, utile solo a intitolare un capitolo e forse nemmeno la più indovinata. Il bisogno di Heimat dell'uomo non è quantificabile. (...) Pensiamo a Nietzsche, alle sue cornacchie che gridano e tra un frullo d'ali a stormo volano alla città, e alla neve invernale che minaccia il solitario. Weh dem, der keine Heimat hat!, dice la poesia. Non si vuole apparire troppo esaltati, e si rimuovono le reminiscenze liriche. Resta la più banale delle constatazioni : non è bene non avere una Heimat." J.Améry,cit.p.109

Parole : Heimweh è la nostalgia, Heimat è la patria ma è diversa dal concetto di Vaterland. Sprache è la lingua.
Améry ha cercato di ricostruire e comprendere che cosa abbia significato per loro, esuli dal Terzo Reich, la perdita della Heimat e della Sprache, la lingua madre.

Cosa intende l'autore per Heimat?
" La Heimat è sicurezza. Nella Heimat dominiamo perfettamente la dialettica fra il conoscere e il riconoscere, fra attesa fiduciosa e attesa assoluta: poiché la conosciamo, la riconosciamo e ci fidiamo a parlare e ad agire, perché possiamo avere ragionevolmente fiducia nella nostra capacità di conoscenza-riconoscimento. Il campo semantico dei termini affini ( fedele,fidarsi,fiducia, affidare, confidenziale,fiducioso) si riallaccia alla sfera psicologica del 'sentirsi sicuri'. (...) Vivere nella Heimat significa che quanto è a noi noto torna a riproporsi con varianti minime. E' una condizione che , se si conosce solo il proprio luogo d'origine, può condurre all'imbarbarimento, all'avvizzimento nel provincialismo, Ma se non si ha una Heimat si è vittime della mancanza di ordine, di turbamenti, della dispersione.".
E' pur vero, dice l'autore, che ci si può ricreare una Heimat anche in esilio, trovare una nuova patria, ma per chi vi giunge in età adulta la decifrazione dei segni nel paese straniero risulterà sempre un 'atto intellettuale' e non spontaneo come avviene per i " segnali che abbiamo recepito molto presto, che abbiamo imparato a interpretare mentre prendevamo possesso del mondo esterno ( che ) divengono elementi costitutivi e costanti della nostra personalità : come si apprende la lingua madre senza conoscerne la grammatica così si sperimenta l'ambiente patrio. Lingua madre e ambiente patrio crescono insieme a noi, crescono in noi e si trasformano così in quella confidenza che ci garantisce la sicurezza."
Amery, cit.pp.90-2

Améry ritorna spesso nelle citazioni di autori che hanno affrontato lo sterminato settore di quella che viene chiamata ( con un brutto termine) la 'letteratura concentrazionaria', cioè di tutti coloro che si sono occupati della Shoah. Améry come Bettelheim, Levi e i molti altri sconosciuti ,è un testimone di prima mano dell'esperienza del lager e tutti e tre sono morti suicidi. Della morte di Primo Levi non ho mai accettato la versione fornita dai giornali- io credo che si sia semplicemente sporto troppo dalla scalinata che conduceva all'appartamento dell'anziana madre, malata. Era anche lui stanco e malato e ormai anziano e forse è stato preso da vertigini. Quando, per motivi di lavoro ( è stato direttore di una fabbrica di vernici) si incontrava con dei clienti tedeschi, si scusava per il suo tedesco rozzo, poco educato - d'altra parte diceva di averlo imparato ad Auschwitz, dove fressen indicava l'atto del mangiare dei detenuti ( e degli animali). Conoscere un po' di tedesco per averlo incontrato nei testi universitari, diceva gli aveva salvato la vita nel lager, dove capire il proprio numero tatuato sul braccio era di vitale importanza nel campo, dal momento che non si aveva più un nome ma si era diventati un numero. Capire un ordine poteva decidere della vita o della morte di una persona.


Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... a-1870.jpg
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » sab feb 13, 2016 7:27 pm

Sono stata concepita in provetta, combatto per dire quanto è dura nascere così»
4 febbraio 2016

http://www.ritasberna.it/web/sono-stata ... scere-cosi

«Audrey-KermalvezenAudrey Kermalvezen, avvocato francese, ha scoperto la verità su di sé dopo essersi sposata con un altro “figlio della fecondazione eterologa”. A tempi.it racconta la loro paura comune: «Non possiamo sapere se abbiamo lo stesso genitore»

Accorgersi quasi inconsciamente che c’è qualcosa che non va fin da quando si è piccoli e scoprire che non è vero che nascere in laboratorio da una persona diversa da quella che ti ha cresciuto è indolore. Arrabbiarsi e poi realizzare che la responsabilità non è solo dei propri genitori, ma di tutto il sistema. Soffrire e poi reagire e cercare di combatterlo. È questa la storia che ha portato Audrey Kermalvezen (nelle foto), avvocato francese di 33 anni, a diventare una delle paladine della lotta contro la fecondazione eterologa e l’anonimato dei cosiddetti “donatori” di gameti.

NATA IN PROVETTA. Infatti, spiega a tempi.it Kermalvezen, membro dell’associazione Procréation médicalement anonyme (Procreazione medicalmente anonima), «siamo qui a testimoniare quanto sia difficile essere stati generati così e non tanto a combattere per scoprire le nostre origini». L’avvocato usa il plurale perché la sua vicenda è cominciata quando era già sposata con un uomo concepito in provetta come lei, che però sapeva fin da bambino di essere nato tramite la fecondazione eterologa. Un caso? «Beh – continua l’avvocato – quando ero piccola non sapevo nulla, eppure sognavo sempre un uomo che arrivava e mi portava via. Poi chiedevo continuamente ai miei genitori se mi avevano adottata. All’età di 23 anni scelsi di specializzarmi in diritto bioetico, pur non sapendo ancora nulla della mia storia». Insomma, tutto attirava Kermalvezen verso il mondo della provetta.

LA RIVELAZIONE. Poi nel 2009, compiuti 29 anni, i genitori della ragazza decisero di rivelare a lei e al fratello, allora 32enne, che entrambi erano stati concepiti in laboratorio con lo sperma di uno sconosciuto. «Mio fratello si sentì sollevato», perché era sempre stato certo che nella sua esistenza e in quella della sua famiglia «ci fosse qualcosa che non andava». La reazione di Kermalvezen invece fu «la rabbia contro i miei genitori per il fatto di averci mentito», anche se «poi compresi che non erano solo loro i responsabili del segreto, ma anche i dottori che avevano creato tutte le condizioni per mantenerlo, scegliendo un donatore che assomigliava a mio padre e dicendo a lui e a mia madre di non rivelarci nulla».

«LA NOSTRA PAURA». Ma il dolore per l’avvocato è stato doppio dato che «con mio marito condivido una paura: quella di essere nati dallo stesso genitore». Ragione per cui «mio marito è molto implicato nella battaglia per l’accesso alle sue origini. Lui e le sue due sorelle sapevano da sempre di essere stati concepiti da un donatore di sperma ma erano pure sicuri che i loro genitori avrebbero dato loro le informazioni sull’identità paterna una volta compiuti i 18 anni. Ma così non è stato: non erano in possesso di alcuna notizia a riguardo».

«SI RIFIUTANO DI RISPONDERMI». Il problema non è tanto l’abolizione della norma francese che dal 1994 stabilisce l’obbligo dell’anonimato per il donatore, «perché io sono stata concepita nel 1979. Pertanto è mio diritto che contattino il “donatore” e gli chiedano se vuole rimanere anonimo o no. Se dirà che non vuole rivelarmi la sua identità, rispetterò la decisione». Su una cosa, però, Kermalvezen non transige: «La legge protegge solo l’identità, ma la giustizia francese stabilisce che non si possa nascondere se mio fratello o mio marito e io siamo stati concepiti o meno tramite lo sperma dello stesso uomo. Invece, si rifiutano di rispondermi».

«NON C’È RIMEDIO». Kermalvezen ha raccontato la sua storia nel libro Mes origines, une affaire d’Etat (Max Milo), uscito nel 2014. Purtroppo è difficile per un figlio della provetta rivendicare un diritto quando la legge, permettendo la fecondazione assistita, mette comunque il diritto del concepito in secondo piano rispetto a quello dell’adulto. «Questo è il problema per cui non ci rispondono», conclude. «Ecco perché noi non siamo qui innanzitutto per conoscere le nostre origini, ma per testimoniare quanto sia dura nascere così». Perché a tutta questa sofferenza «non c’è alcun rimedio».



Nascere in provetta da gentitori sconosciuti significa esasere privati dell'Heimat umano
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » ven feb 19, 2016 7:35 am

L'intraducibile «Heimat»

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=ABD5RcAB

Il paese è sempre Schabbach, nell'Hunsrück, la regione dove Edgar Reitz nacque nel 1932.
La famiglia è ancora la protagonista della trilogia di Heimat, i Simon, attraverso cui il portavoce del "Nuovo cinema tedesco" ha raccontato la storia del suo Paese, dalle macerie della prima guerra mondiale agli anni 2000.

Ma Die andere Heimat - di cui domani il regista parlerà ad Ascona nell'ambito della manifestazione L'immagine e la parola - è un fatto a sé. I Simon sono retrocessi nel tempo, alle soglie del 1840, nel villaggio che pare una casa di bambole, sporcata dal freddo e dalla miseria, sotto la cappa quasi medievale dell'impero prussiano. Un borgo che si sogna di lasciare per fame, o per bramosia di chimere, come avviene al giovane Jakob (Jan Dieter Schneider), funambolo di lingue esotiche, imparate sui libri di viaggio.

Die andere Heimat in italiano è stato reso con L'altra Patria, ma il vocabolo Heimat non ha un corrispondente nelle lingue neolatine e in inglese; solo nello slavo dòmovina.

«La parola tedesca "Heimat" è certamente connessa a diversi significati secondari carichi di emotività -, spiega il regista -. Ecco perché è così difficile da tradurre. Non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza.
Suppongo che nelle parole e nei concetti, ed è così in ogni lingua, si rispecchi l'esperienza vissuta da diverse generazioni. Quella delle popolazioni germaniche, scandinave o slave deve dunque celare un vissuto che ben rappresenta il concetto di "Heimat" e che magari risale a migliaia di anni fa. Non possiamo saperlo».
Forse è un vocabolo strettamente legato agli esodi, alla necessità di spostarsi, di cui si parla sia in Heimat, che in Die andere Heimat. «Il concetto di "emigrazione" contempla la somma di una moltitudine di motivazioni che spingono a lasciare la propria patria per trovare felicità e fortuna in un Paese straniero.

A me interessano le storie individuali, non il movimento migratorio in senso lato.
Le ragioni che nel 1923 portano Paul ad andare via non si spiegano facilmente; lui stesso non riesce a definirle. È un impulso intrinseco che lo fa partire. Vi è un'altra parola tedesca pressoché intraducibile che ho scelto come titolo della prima parte di Heimat 1: "Fernweh". I presentimenti che tormentano il giovane Jakob per Die andere Heimat sono ancora più complicati, poiché egli viaggia nei lontani Paesi del Sudamerica soltanto con la fantasia. Anche qui ho scelto un sottotitolo per descrivere la vita interiore di Jakob - Chronik einer Sehnsucht - Cronaca di un Desiderio -. Un senso di nostalgia e struggente malinconia che il tedesco descrive con la parola "Sehnsucht", un leitmotiv del romanticismo. Si tratta di un anelito rivolto sia al futuro sia al passato. Una vera e propria contraddizione che attanaglia l'animo del giovane. Per questo motivo Jakob non riesce a decidere, ma si fossilizza nei propri sogni».
Una nostalgia che si percepisce nelle immagini potentissime di una campagna dalla bellezza assorta ma avara di frutti, e negli interni oscuri, saturi del fascino e delle paure degli antri magici.
Ogni tanto il bianco e nero è illuminato da colori, come il cappottino rosso e le fiammelle in Schindler's List (1993) di Steven Spielberg: il rosso del sangue e di un ferro di cavallo incandescente, l'azzurro dei fiordalisi in un campo mosso dal vento, l'arancione di una pietra in controluce. «Nell'era digitale il film in bianco e nero non esiste più, è una decisione puramente artistica che concerne la fase di "post produzione". Quando si converte la policromia in monocromia si può anche decidere di riprodurre alcuni oggetti nella loro cromaticità originaria. Sono oltre trent'anni che cerco questo tipo di effetto e solo ora ci sono riuscito. In questo modo i colori tornano a far parlare di sé».

Reitz nella lezione di domani promette di raccontare la nascita della sua ultima opera, che ha richiesto tre anni di preparazione e uno di produzione. Ma anche gli esordi, di quando, giunto a Monaco nel 1952, sperimenta il teatro, la letteratura e la poesia, fino a dedicarsi completamente al cinema, produzione, fotografia montaggio, prima ancora della regia. «Sin dagli anni Sessanta mi sono fatto portavoce del cinema tedesco d'autore. Nella mia generazione la storia cinematografica tedesca ha svolto un ruolo solo marginale. Naturalmente abbiamo anche noi i nostri classici, risalenti all'epoca del cinema muto, con Murnau o Lang, che sono stati un po' "i nostri avi". Io ho preso esempio dai grandi registi del cinema europeo, ispirandomi soprattutto al cinema italiano del dopoguerra, ai film di De Sica, Rossellini, Visconti e Fellini».
Die andere Heimat ricorda, tra l'altro, le atmosfere di L'albero degli zoccoli (1978) di Olmi e Novecento (1976) di Bertolucci. «Mi fa molto piacere che vengano citati questi fantastici registi del cinema italiano. Apprezzo moltissimo i film di Ermanno Olmi, lo sento vicino, come un fratello, anche se non ci siamo mai incontrati. Bertolucci è uno dei grandi nomi del cinema europeo, conosco tutti i suoi film, dal primo all'ultimo. Mi è piaciuto soprattutto Il Conformista».
Nel 1962 Reitz è tra i firmatari del "Manifesto di Oberhausen" che rivendica il diritto di creare un nuovo corso cinematografico, Junger Deutscher film. «Nei primi anni, ovvero sino alla fine degli anni Settanta, con molti cineasti tedeschi, per esempio Kluge, Herzog e Fassbinder, era nata una profonda amicizia.
Poi le nostre strade si sono divise», continua il regista.


Voxi col senso de heimat de domovina (domus e i demo greghi) ła podaria esar: paexe, tera, ma mi adoto vołentiera anca ła voxe heimat.


Heimat
http://webcache.googleusercontent.com/s ... clnk&gl=it

Negli incontri con il popolo tirolese, sia che si tratti di personaggi politici che di semplici cittadini, è abbastanza facile udire questa parola: Heimat.
È un termine che racchiude in sé un profondo significato, che ha la sua ragione di esistere e che non deve essere svilito da un uso improprio.
Heimat è un vocabolo tedesco che non trova un corrispettivo nella lingua italiana. Esiste, al contrario, un migliore corrispettivo in alcune lingue slave: “domovina” in sloveno, croato e serbo e nel “domov” della lingua ceca.
In italiano esso viene spesso tradotto liberamente con i termini: “Casa”, “Piccola Patria”, “Paese natale” o anche “Luogo o terra natia” cercando di indicare, in questo modo, il territorio nel quale ci si sente a casa propria perché vi si è nati, oppure vi si è trascorsa l’infanzia o ancora perché vi si parla la lingua degli affetti. Tuttavia la Heimat non è solo il posto dove si è nati e che si ha abitato da piccolo, ma anche i ricordi, le persone care e quant’altro circonda i posti dove si è nato, da quando si è nati fino ad oggi.
Si consideri inoltre che della Heimat fanno parte anche i cambiamenti avvenuti nei propri luoghi natii; cambiamenti a volte tali e tanti che un singolo individuo può tranquillamente affermare di non avere più una Heimat.
Il limite di tutte queste traduzioni non risiede nell’intraducibilità di questa parola a cui esse si sforzano di conformarsi, quanto piuttosto nella presupposizione di autoreferenzialità che in questo caso sembra sottrarre l’aspetto fisico della parola da tradurre (cioè il suono e la grafia di una parola della lingua tedesca), al comune spazio di significato dischiuso dalle parole pronunciate o scritte in italiano. È insomma come se, proferendo la parola Heimat, l’effetto di senso prodotto dalla combinazione di queste sei lettere, rifluisse nel perimetro di quell’unico suono, per sottintendere, a guisa di un dialetto scontroso, una comunicazione per pochi. Portando
all’eccesso la definizione: solo chi può dire “Heimat” può alla fine avere una Heimat!
Il concetto di Heimat si sviluppò inizialmente in Germania nell’800 quando l’industrializzazione comportò, in questo paese, l’esodo massiccio di popolazione dalle aree rurali nelle grandi città. Nello stesso periodo, inoltre, si costituiva lo stato tedesco. L’Heimat venne interpretata come una reazione alla perdita dell’individualità e della comunità di origine: un aspetto questo, dell’identità tedesca che inizialmente era patriottico ma non nazionalistico. Secondo alcuni sociologi, l’amore per la piccola patria ed il rifiuto di ciò che le era estraneo, conteneva nella sua essenza, i germi del concetto nazista Blut und Boden (Sangue e Terra).

Quale Heimat per il popolo trentino?
L’anima del popolo trentino risente, in modo preponderante, di tutte le vicissitudini storiche nella quale è incorsa. Senza scendere troppo in là nella Storia è opportuno ricordare quante volte, frange del popolo trentino si sono alleate con realtà politiche straniere. Il basso Trentino, il roveretano, con i Castelbarco, fece la scelta di Venezia per contrastare gli interessi del Principato Vescovile di Trento. Anche il Primiero, nella storia,
ha trovato comuni interessi con la Contea di Feltre. Gli interessi dei Conti d’Arco con la provincia bresciana sono cosa nota. Le Valli Giudicarie nelle sue estreme propaggini hanno avuto e desiderato infiltrazioni straniere. Se le difficoltà ambientali del Passo del Tonale hanno impedito alle popolazioni della Val di Sole e anche di Non di instaurare rapporti estesi con le realtà opposte, non per questo hanno evitato quelle continue ostilità nei confronti del Principato di Trento.
Il lungo periodo del governo asburgico non ha tuttavia nascosto le continue rivendicazioni irredentiste verso una Italia non ancora esistente. Pur con tutte queste contraddizioni, la scelta dei Cacciatori del Kaiser, fatta da Francesco Giuseppe nei territori trentini era comunque dovuta alla consapevolezza di una loro sicura fedeltà.
Tutta questa storia si ripercuote continuamente nella odierna storia del popolo trentino. Anche al giorno d’oggi si osservano e si ascoltano uomini e donne trentini, inneggiare a realtà politiche nazionali che tutto hanno nel loro DNA salvo quello di desiderare la felicità del popolo trentino. Questi trentini che portano avanti le istanze della Lega Lombarda e Veneta, altro non sono che i figli nascosti di quel Guglielmo da Castelbarco che vendette per il suo tornaconto le nostre terre.
Forse, in questo caso, vale quello che scrisse una volta il grande filosofo americano Eric Hoffer: “Quando si è liberi di fare come si vuole, in genere si imitano gli altri”.
Tuttavia, la comprensione della parziale perdita dell’Heimat non è così semplice.
Se si volge lo sguardo alla vicina provincia di Bolzano, si può osservare che nel corso dei secoli gli interessi delle popolazioni della Val Venosta hanno sempre avuto una perfetta comunanza con quelli delle popolazioni della Val Pusteria e quasi nessuna diversità con le regioni inferiori di Laives o Salorno. Al contrario, gli interessi del basso trentino o della Valle dell’Adige con la Valsugana oppure le Valli di Non o di Sole e financo alle enclavi ladine di Cembra, Fiemme, Fassa hanno sempre presentato scadenti punti di contatto.
Nella realtà, il popolo trentino non esiste. Siamo un insieme di popolazioni legate assieme da un mix di interessi contingenti, ricordi passati e, al momento opportuno, dalla paura di perdere alcuni piccoli privilegi che abbiamo conquistato con fatica e dignità.
Un po’ poco per trarne un’Heimat.
Tuttavia, c’è una cosa che ci accomuna. Una cosa unica e grandiosa sotto gli occhi di tutti. Basta alzare gli occhi al cielo e chiunque può osservarla.
Da Est a Ovest ogni spazio trentino è sovrastato dalle montagne, dalle Dolomiti. Montagne uniche al mondo.
Noi siamo un popolo duro come la terra e la roccia che ci sostiene e le nostre montagne sono le pareti della nostra casa e solo tra di loro possiamo ritrovare la nostra Heimat.
Trent’anni fa stavo terminando il mio corso di studi all’Università di Verona. Un Professore mi chiese se intendevo continuare gli studi con la sua scuola di specializzazione. Sarebbero stati altri cinque anni. La mia risposta, pur con qualche rimpianto, fu semplice. Senza montagne non è vita. Tre mesi dopo assumevo l’incarico della condotta medica a Capriana in Val di Cembra.
Nel 2010 cadono i miei venticinque anni di volontario nel Soccorso Alpino. Un aspetto tipico della vita di molti trentini. Quello di restituire qualcosa, in modo gratuito, a questa terra che ci ha accolto.
Quel giorno di trent’anni fa, dopo che il treno aveva superato le Chiuse di Verona e si delineavano le possenti mura del castello d’Avio e poi la valle di Ronchi ed Ala ed infine la ridente Valle Lagarina, una sola parola tedesca risuonava nella mente: beheimaten…… cominciare a sentirsi a casa.
Giuseppe Gottardi
Rovereto
26 febbraio 2010
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » ven feb 19, 2016 7:41 am

L'heimat lè al fondamento de ła vera democrasia come coeła direta de ła Xvisara o come coeła ebraego ixraełiana, e nol ga gnente a ke far col paretixmo statual come coeło tałian.

El pareotixmo de łi stati nasionałi, ke no łi xe fedrałi come coeło tałian, no lè fondà so l'heimat vero ma so ono falbo e endoto co ła maja de ła retorega çelebrativa e del terorixmo.



Xvisara, democrasia vera (no ła pol esar ke direta) e referendo
viewforum.php?f=118

Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà
viewtopic.php?f=197&t=2157
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » ven feb 19, 2016 7:49 am

"Die religiöse Heimat". Il divieto di edificazione di minareti in Svizzera ed Austria
Vincenzo Pacillo
https://www.rivisteweb.it/doi/10.1440/31753

Heimat Schweiz/Suisse/Svizzera/Svizra
https://www.youtube.com/watch?v=KcaR5zWYUc4
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » ven feb 19, 2016 7:53 am

Perché l’identità ebraica si completa solo in Israele
Sia le spinte religiose sia quelle post-sioniste perdono di vista l’unicità dell’amalgama di cultura e prassi rappresentato dallo Stato degli ebrei

http://www.lastampa.it/2015/03/17/cultu ... agina.html

Chi è inglese, thailandese, francese o polacco?

Qualunque risposta a questa domanda implicherebbe una distinzione fra cittadinanza e identità, due definizioni che non necessariamente si sovrappongono. Mio nipote, per esempio, è nato negli Stati Uniti d’America dove i suoi genitori risiedevano temporaneamente per lavoro e ha automaticamente ottenuto la cittadinanza americana verso la quale ha ben pochi obblighi, mentre la sua identità è ovviamente israeliana. Se io lo definissi americano lui protesterebbe e si offenderebbe.

Un pachistano appena arrivato all’aeroporto londinese di Heathrow che ha ereditato la cittadinanza britannica dal padre o dal nonno è riconosciuto come inglese pur non sapendo una parola della lingua locale e non avendo mai sentito nominare Shakespeare o Lord Byron. La sua cittadinanza britannica gli dà gli stessi diritti e doveri che ha il Primo Ministro, sebbene l’identità dei due sia completamente diversa.

Cittadinanza e identità al giorno d’oggi non sono la stessa cosa. È vero che per la stragrande maggioranza degli esseri umani identità e cittadinanza coincidono. Ma milioni di persone al mondo (tra cui molti ebrei) pur essendo in possesso di una particolare cittadinanza si ritengono di identità diversa.

Comprendere la differenza tra identità e cittadinanza è fondamentale per rispondere alla domanda chi è israeliano. Per quanto riguarda la cittadinanza tutti coloro che sono in possesso di una carta di identità israeliana sono cittadini dello Stato con pari diritti e doveri. Ma non tutti quelli in possesso di una carta di identità israeliana si ritengono israeliani. Un milione e mezzo di arabi residenti in Israele si definiscono palestinesi. Sono una minoranza etnica nella loro terra – una situazione piuttosto comune nel mondo di oggi – e dunque non diversi da altre etnie come quella basca, curda o francese del Quebec. Occorre però ricordare che la minoranza israelo-palestinese non è stanziata in un particolare territorio. Per quanto la riguarda l’intera Palestina – e tutto il territorio di Israele – è la sua patria. La sua autonomia è quindi unicamente culturale.

Naturalmente ci sono molti elementi di scambio fra l’identità di una maggioranza e la nazionalità di una minoranza. L’identità degli ebrei francesi, per esempio, è fortemente influenzata dalla loro cittadinanza ed è probabile che la loro nazionalità francese sia in qualche modo influenzata dalla loro identità ebraica. Lo stesso vale per Israele. L’identità degli arabi israeliani (anche grazie alla lingua ebraica) comprende elementi dell’identità israeliana e contribuisce a plasmarla. Quando un arabo israeliano presiede il processo al presidente dello Stato in qualità di giudice o amministra un ospedale e stabilisce nuove procedure di ricovero, contribuisce a forgiare i canoni dell’identità israeliana così come un giudice ebreo-americano presso la Corte Suprema degli Stati Uniti è parte integrante e determinante del sistema legislativo americano. Eppure c’è ancora una differenza tra identità e cittadinanza. E chi, come gli ebrei, lo ha dimostrato nel corso della storia e lo dimostra tuttora in molte parti del mondo.

Il termine «israeliano» non si riferisce solamente a una cittadinanza comune a ebrei e ad arabi, ma indica un’identità. Se in Israele non ci fossero palestinesi lo Stato si chiamerebbe comunque «Israele» e i suoi cittadini «israeliani» e non «ebrei». «Ebrei», peraltro, è una denominazione tardiva apparsa per la prima volta nella diaspora in riferimento a Mardocheo che combinò a Susa un matrimonio tra sua cugina Ester e il re Assuero. Se Mosè, re Davide e i profeti Isaia, Geremia e Samuele arrivassero in visita alla Knesset e il presidente di quest’ultima chiedesse loro di presentarsi non c’è dubbio che la loro risposta sarebbe: «Noi siamo israeliani» oppure «Noi apparteniamo al popolo di Israele». E se il presidente, sorpreso, domandasse loro: «Siete ebrei?» la risposta sarebbe: «Non sappiamo a cosa lei si riferisca con questo termine».

Il termine «giudeo» o «ebreo» non compare nel Siddur, il libro di preghiere della liturgia quotidiana, nemmeno una volta mentre nella Mishnah si insiste sull’uso del termine «israeliano» anziché «ebreo».

Secondo la tradizione fu Dio stesso a scegliere il nome «Israele». Pertanto anche il nome della regione in cui il popolo si stanziò è «terra di Israele» e nelle università si studia il pensiero filosofico di Israele, la storia del popolo di Israele e la letteratura di Israele. E naturalmente il nome dello Stato sorto nel 1948 è Israele. Quindi ci si domanda cosa sia mai successo negli ultimi venti o trent’anni per cui i termini «ebreo», «ebraismo», «Stato ebraico» stanno a indicare un’identità israeliana e hanno relegato il termine «israeliano» a designare la mera cittadinanza.

È possibile che un abitante di Madrid consideri la sua cittadinanza spagnola un semplice denominatore comune a lui, a un basco o a un catalano anziché vedere in essa un’identità profonda e dalle molteplici radici?

A mio parere almeno quattro diversi fattori, talvolta contrapposti, hanno contribuito a far sì che il termine «israeliano» indichi la sola cittadinanza.

1) Innanzi tutti le varie correnti religiose. Sebbene il termine «ebreo», come ho detto sopra, non racchiuda necessariamente alcun elemento religioso, per gli ortodossi è chiaro che se il sostantivo «israeliano» si limiterà a designare la cittadinanza, la parola «ebreo», svuotata di obblighi civili, richiamerà contenuti religiosi. Immaginiamo un rabbino militare che domanda a un soldato: «Chi sei?» E quello risponde con innocenza «Io sono israeliano, presto servizio nell’esercito e parlo ebraico». Al che il rabbino risponde: «Tutto qua? Anche un druso è israeliano come te, presta servizio nell’esercito e parla ebraico, qual è allora la differenza tra voi?». E mentre il soldato, imbarazzato, comincerà a balbettare il rabbino militare gli proporrà di riempire il vuoto di identità con «la tradizione ebraica», vale a dire con la religione. A questa tattica collaborano non solo i rappresentanti del partito politico «Habait Hayehudì» e varie correnti ortodosse ma anche riformisti e persone in cerca di «radici», che tentano di riversare nell’identità israeliana contenuti religiosi attinti principalmente dagli scritti sacri e dalla letteratura rabbinica esegetica.

2) Un secondo fattore che contribuisce a limitare il termine «israeliano» alla sola cittadinanza è rappresentato dagli ebrei della diaspora e da chi è impegnato a mantenere un legame con loro. Ora che il termine «israeliano» esprime anche la specifica appartenenza a uno stato gli ebrei della diaspora hanno bisogno di differenziarsi da esso per evitare di essere formalmente identificati come suoi cittadini. Viceversa, tutti coloro che operano per mantenere vivo il rapporto tra gli ebrei della diaspora e Israele e promuovere l’immigrazione utilizzano il termine «popolo ebraico» come unico elemento in grado di creare aggregazione e un senso di solidarietà. Ma anziché proporre agli ebrei della diaspora di migliorare e approfondire il loro ebraismo adottando l’identità israeliana il messaggio è il seguente: «Venite a rafforzare la parte ebraica di Israele contro i suoi cittadini arabi».

3) Un terzo fattore – completamente diverso e con interessi opposti a quelli precedenti – è rappresentato dagli stessi arabi. Costoro dicono agli israeliani: «Voi, di fatto, siete ebrei, proprio come i vostri confratelli d’America, d’Inghilterra o d’Argentina. Per più di duemila anni avete vissuto sparsi per il mondo e mantenuto le vostre tradizioni e la vostra identità. Perché siete venuti ad ammassarvi nella nostra terra, portandocela via e mettendo in pericolo voi stessi? Dopo tutto siete parte del popolo ebraico. L’identità ebraica, sia da un punto di vista religioso che nazionale, non ha bisogno di un territorio e di una sovranità per essere plasmata. Per secoli gli ebrei hanno vissuto qui, in terra di Israele e in tutto il Medio Oriente, e il loro stile di vita e le loro aspirazioni non erano diversi da quelle degli ebrei della diaspora. Perché mai avete bisogno di una sovranità e di una identità israeliane?».

4) Il quarto fattore che opera per relegare in un angolo l’identità israeliana – completamente diverso dai primi tre – è rappresentato dai post sionisti che vorrebbero una nazione nuova, separata e slegata dall’identità ebraica della diaspora, sia da un punto di vista storico che religioso (in uno spirito «cananeo»). Per loro un Israele «Stato di tutti i suoi cittadini» non è solo una giusta richiesta di uguaglianza ma anche, in una certa misura, una pretesa sempre più forte di sovrapposizione tra cittadinanza e identità. In altre parole vorrebbero un appannamento dell’identità storica israeliana e la sua sostituzione con una cittadinanza generica, analoga a quella americana o australiana.

Questi quattro fattori (sommati ad altri, in diverse varianti) minano la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa che intendo promuovere.

«Nessuna comunità e nessun ebreo, neppure uno come te, può vivere il giudaismo e nel giudaismo e condurre un’esistenza pienamente ebraica nella diaspora. Solo in Israele ci può essere un’esistenza simile. Solo qui fiorirà una cultura ebraica degna di questo nome, ebraica al cento per cento e umana al cento per cento. Gli scritti sacri non sono che una parte, un settore della cultura. La cultura di un popolo è fatta di campi, di strade, di case, di aeroplani, di laboratori, di musei, di un esercito, di scuole, di un governo autonomo, di panorami del suolo natio, di teatri, di musica, della lingua, di memorie, di speranze e di tanto altro ancora. Un ebreo completo, un essere umano completo, senza lacerazioni e senza frapposizioni tra il suo essere ebreo e il suo essere umano, tra il cittadino e il pubblico – non può esistere in terra straniera».

Queste incisive parole, portate di recente alla mia attenzione, furono scritte dal Primo Ministro israeliano David Ben Gurion negli Anni Cinquanta a un ebreo della diaspora di nome Ravidovic. Parole analoghe, da me pronunciate qualche anno fa durante un discorso ai membri del Comitato ebraico americano di Washington, hanno provocato reazioni burrascose. Nessuno, infatti, è felice di sentirsi dire che l’identità che gli sta a cuore è incompleta. Ma quando mi sono reso conto che anche in Israele molti disapprovano questa mia opinione ho capito che qualcosa di fondamentale si è deteriorato nella comprensione del cambiamento sostanziale avvenuto nell’identità ebraica con la creazione di Israele. E questo è sorprendente dal momento che in passato, agli albori del sionismo e subito dopo la fondazione dello Stato di Israele, la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa era naturale per molti. Di recente, infatti, si è verificato un preoccupante regresso dovuto, come si è detto, a fattori diversi e contrastanti, in primis alle varie correnti religiose.

È vero che per duemila anni è esistito un unico modello di identità ebraica. Gli ebrei vivevano in mezzo ad altri popoli, in nazioni che consideravano straniere, dominate da religioni e da etnie diverse e in cui si parlavano lingue straniere. Gli ebrei, come minoranza etnica in perenne movimento, partecipavano in diversa misura alla vita che ferveva intorno a loro mentre la loro identità ebraica toccava solo determinati aspetti della loro esistenza. Inoltre (ed è questo a mio parere il cambiamento fondamentale avvenuto con l’istituzione di una sovranità ebraica in Israele) nella diaspora nessun ebreo esercitava, o tuttora esercita, alcuna autorità sui propri connazionali. Gli ebrei sono liberi gli uni nei confronti degli altri e non hanno alcun obbligo verso i loro confratelli che non sia dettato dalla loro volontà. La loro vita è governata dai gentili alla cui autorità devono sottoporsi. Di più. La responsabilità collettiva degli ebrei è puramente volontaria. Una sciagura degli ebrei russi non impone alcun aiuto da parte degli ebrei italiani che non scaturisca da una loro scelta. Non ha perciò senso parlare di un destino comune ebraico. Quando Londra fu bombardata durante il blitz tedesco anche cittadini di Liverpool o di Leeds parteciparono alla sua difesa e abitanti di Manchester furono inviati a combattere contro i tedeschi nel deserto occidentale. Il piano di austerità deciso dal governo britannico fu imposto a tutti i cittadini, ovunque si trovassero.

Questo è un destino comune e secondo questa definizione si può dire che esista un destino comune israeliano o palestinese. Ma quando gli ebrei furono mandati nei campi di sterminio in Polonia i loro connazionali a New York, in Brasile o in Iran continuarono a condurre la solita vita. E quando gli ebrei furono espulsi dalla Spagna i loro confratelli iracheni o tedeschi continuarono a svolgere pacificamente il loro lavoro. Il destino degli ebrei nella storia è determinato, nel bene e nel male, dai popoli in mezzo ai quali vivono.

L’identità israeliana restituisce agli ebrei il controllo su altri ebrei, come durante il periodo del primo e del secondo Tempio, e una inevitabile responsabilità reciproca. In Israele gli ebrei pagano le tasse in base a una legge creata da ebrei, vanno in guerra per volontà di altri ebrei, proteggono insediamenti che forse disapprovano o ne evacuano altri ritenuti sacri dai loro residenti. Questa interazione crea una struttura identitaria ricca e infinitamente più significativa da un punto di vista esistenziale e morale di quella esistente nella diaspora dove il dibattito è puramente concettuale, senza capacità impositiva.

Di colpo tutte le componenti della vita si aprono all’identità ebraica che in questo modo si trasforma in israeliana e nuove questioni etiche, delle quali gli ebrei non si sono mai occupati e non si occupano nella diaspora, si presentano come sfide agli israeliani che si trovano a dover prendere delle decisioni, nel bene o nel male, e non solo a disquisire di dubbi teorici.

Come deve essere un carcere israeliano? Quali devono essere le dimensioni delle sue celle? Quali procedure occorre seguire durante un arresto? Fino a che punto è possibile e moralmente consentito torturare un pericoloso terrorista per estorcergli informazioni importanti? È permesso vendere armi a un regime dittatoriale in Africa al fine di evitare la disoccupazione nell’industria bellica israeliana?

I valori nazionali sono determinati non solo dal dibattito ma dall’azione. È facile per un rabbino di una sinagoga di Chicago sventolare di sabato «l’etica ebraica», spanderne il profumo fra i suoi ascoltatori e poi riporla nel suo scrigno. In Israele l’etica ebraica è talvolta determinata dall’inclinazione del fucile di un soldato davanti a una manifestazione di palestinesi. L’etica ebraica viene messa alla prova ogni giorno e ogni ora, in mille occasioni. Perciò al giorno d’oggi è più facile essere ebreo nella diaspora e affrontare le grandi questioni esistenziali come cittadino (spesso un po’ in disparte) di un’altra nazione.

Anche gli ebrei religiosi israeliani ampliano notevolmente la loro identità e sono chiamati a prendere decisioni che nessuno pretende dai loro confratelli nella diaspora. Un israeliano credente è chiamato, esattamente come un laico, a decidere con il suo voto se investire nel settore militare piuttosto che in quello sanitario. Può giustificare la sua posizione basandosi sugli scritti sacri, ed è persino auspicabile che lo faccia, ma tali giustificazioni dovranno confrontarsi con argomentazioni provenienti da fonti diverse. E ciò che verrà deciso diventerà legge.

Una lezione di Talmud in un’Accademia rabbinica non rappresenterà perciò una maggiore espressione di identità ebraica di quanto non lo sia un dibattito della commissione parlamentare israeliana per la prevenzione degli incidenti stradali. È la realtà israeliana a creare un’integrazione tra lo spirituale e il materiale, come indicato da Bialik.

Per gli ebrei, che per la maggior parte della loro storia hanno indossato e smesso abiti nazionali di altri, il processo di trasformazione dell’identità israeliana da indumento in una nuova pelle, è qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. Siamo solo all’inizio della lotta per un posto dell’identità israeliana nella nostra vita. L’ondata di ebraismo religioso di cui siamo testimoni non fa che ostacolarne e minarne la stabilizzazione e l’approfondimento.

Io credo che ex israeliani ed ebrei odierni popoleranno anche le colonie spaziali che sorgeranno fra pochi decenni. E forse anche lassù gli inviati di Chabad (movimento religioso ebraico N.d.T.) li aiuteranno a mantenere un minimo di identità ebraica come fanno ora in tutto il mondo. Da lassù, dalle colonie spaziali, diranno probabilmente «L’anno prossimo a Gerusalemme». E la domanda angosciante sarà: Gerusalemme sarà allora un concetto astratto, come lo è stata per centinaia di anni di storia ebraica, o una realtà viva? Questo non dipenderà dall’identità ebraica, ma unicamente da quella israeliana.

[Trad. Alessandra Shomroni]
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » ven feb 19, 2016 7:56 am

El terorixmo pareotego (patriottico) de łi stadi (stati) cofà coeło tałian no lè vero Heimat, ma na so falbasion; lè na so endousion artefata. El vero heimat lè amoroxo e no viołento, nol ga cogno de retorega viołenta. L'heimat fondà so l'oror del teror e de ła goera no lè vero heimat, no lè amor.
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - Heimat

Messaggioda Berto » ven mar 25, 2016 9:54 am

Che i popoli europei prendano nelle loro mani il proprio destino.
22 Mar 2016
Ariel Shimona Edith Besozzi

http://arielshimonaedith.wix.com/ariel# ... 4fab198ad3

Quanti altri attentati dovrà subire l'Europa prima di reagire all'attacco del terrorismo islamico? Sarà capace finalmente di difendersi e di reagire o di nuovo dovremo assistere al teatrino terzomondista e pacivendolo che ha caratterizzato i commenti seguiti agli attentati di Parigi?

È necessario che l'Europa impari la propria fragilità e che faccia di questo una nuova consapevolezza, sulla quale costruire un'identità forte che sappia reagire e contrapporsi a ciò che sta accadendo. Come può farlo? Può farlo a partire da sé, a partire dal riconoscimento delle proprie identità e dal rafforzamento di queste.

Sono appena tornata da un breve viaggio in Veneto e Friuli per la presentazione del mio libro “Sono Sionista” ed ho di nuovo assaporato la forza e l'intensità di una relazione reale con un'identità complessa e concreta, sia in Veneto che in Friuli. La ricchezza e la generosità dei popoli che mi hanno ospitato per le presentazioni, con i quali condivido un legame profondo per la terra e per la storia, mi ha restituito una comprensione ed una compartecipazione profonda per il messaggio del mio libro: il diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico. Penso che, per comprendere ed amare Israele, ma forse più esplicitamente per comprendere cose significa dire “Sono Sionista” con gioia e con orgoglio, sia necessario avere elaborato un'identità chiara ed una relazione reale con questa. L'identità è qualcosa che si compone di elementi individuali e collettivi e che può darsi e determinarsi quando, dall'incontro di queste due dimensioni, nasce la comprensione di sé e la scelta etica di fare di questo un elemento di incontro.

Ciò che invece impedisce la comprensione e crea reazioni violente è il fatto di pretendere di avere l'identità “giusta”, quella unica, che prescinde dalla famiglia in cui si nasce, dalla terra in cui si vive, dalla relazione di rispetto con questa, quella che prescinde dall'idea di dover rispettare alcune norme etiche condivise, quella che pretende la conversione o l'assoggettamento o addirittura la morte.

Nel corso della prima presentazione del mio libro sono stata attaccata da una donna ed un uomo islamici perché ho mostrato d'essere “troppo identitaria”, il fatto di rivendicare il diritto del mio popolo a vivere in pace, nella propria terra, entro confini stabili e difendibili mi rende “troppo”. Ma non solo questo, anche il fatto di avere ricordato che l'ebraismo non è soltanto una religione e che la storia ci dice che cristianesimo ed islam hanno fatto “guerre sante” ha portato la donna islamica presente all'incontro a sentirsi offesa ed a pretendere le mie scuse e questo è ciò che determina la sudditanza del mondo occidentale all'islam, l'idea assurda di doverci scusare per avere il coraggio di affermare d'essere altro rispetto all'islam.

Invece quello di cui dobbiamo preoccuparci è che, nel mondo, non solo nel mondo occidentale ma ovunque, l'islam sta muovendo una guerra di conquista attraverso il terrorismo, l'espropriazione della storia attraverso la distorsione degli avvenimenti (un esempio su tutti il bds), ed attraverso l'acquisto delle università ed il conseguente controllo di alcuni docenti ed alcune didattiche. La cosa alla quale occorre fare attenzione è l'interpretazione della vittima da parte degli islamici, attraverso l'utilizzo di menzogne che, se assecondato, legittima il terrorismo. Questo avviene sul piano collettivo ma anche individuale, come ha fatto l'islamica intervenuta alla presentazione del mio libro.

Ciò che noi dobbiamo fare, a mio avviso, è riappropriarci delle nostre identità, rivendicare la nostra storia ed avere il coraggio di sviluppare una relazione forte che esiga la necessità del rispetto dei popoli presenti in europa. Il sostegno ed il riconoscimento delle peculiarità può accrescere una relazione di reciprocità che può determinare una reale accoglienza, quella che non può prescindere dal rispetto reciproco.

Il popolo ebraico ha sviluppato nei secoli della propria storia diasporica la capacità di vivere ovunque senza perdere sé stesso, la propria tradizione, la propria cultura, la propria lingua, sempre nel rispetto della peculiarità dei luoghi e dei popoli.

Il tentativo di uniformare e di prescindere da lingue, culture e tradizioni, definite “locali”, così come è avvenuto in molti paesi europei come l'italia, la germania, il belgio, la francia, la spagna, ha reso le persone deboli, incapaci di riconoscersi e quindi di riconoscere l'altro da sé. Questo ha dato vita a due dinamiche, entrambe devastanti, quella del terzomondismo acritico ed incapace di reagire agli attacchi feroci dell'islam e quella del nazionalismo peggiore che contrappone all'imperialismo islamico basato sulla presunzione di essere migliori ed in quanto tali autorizzati ad eliminare gli altri, la stessa presunzione di appartenere ad una “razza superiore” ad una “nazione migliore”.

Entrambe queste reazioni sono devastanti nella misura in cui perdono di vista il senso di sé, in quanto essere umano, legato ad una famiglia, ad una terra, ad una storia, ad una tradizione, ma umano come umano è l'altro; in questo modo legittimando l'uccisione delle persone, perché nemiche a prescindere o perché non diventano quello che questi neo-nazismi credono esse debbano essere. Ciò che mostra chiaramente il livello di devastazione dell'essere umano, non più capace di sentirsi parte di una società in cui credere e per la quale essere disposto ad impegnarsi, è la quasi totale mancanza di reazioni solidali agli attentati di Bruxelles. Guardando le foto dell'attentato di oggi, e confrontandolo con quelle degli attentati in Israele o con quelle del 11 settembre, ciò che risulta evidente è l'indifferenza, la freddezza, l'individualismo...l'incapacità di reagire, non determinata dalla paura ma dal senso di non essere parte di una comunità, di un popolo dalla mancanza di solidarietà umana.

Il fatto di non essere più in grado di provare empatia per un essere umano che sta morendo dissanguato accanto a te, ma di essere magari impegnato nel provare pietà per chi muore a migliaia di miglia da te, perché ti hanno detto che ciò che accade là è colpa tua, perché sei un occidentale imperialista e quindi ti senti in colpa, rappresenta uno degli elementi della grave malattia di cui l'europa è affetta.

Nella tradizione ebraica esistono gli anticorpi per reagire all'aggressione, per vivere, per rispettare l'altro senza lasciarsi assimilare, senza disperdersi ma lasciandosi arricchire ed arricchendo, come individui e come popoli. Questi anticorpi sono ebraici ma non solo, sono un dono che è dell'umanità e che dall'umanità può essere agito e scelto, senza bisogno di conversione, senza bisogno di rinunciare a sé stessa. Non è possibile prescindere dall'idea di dotarsi di regole condivise per poter convivere, non è possibile prescindere dal fatto che l'islam sta cercando di imporre le proprie regole al mondo e che queste, tra le altre, prevedono la possibilità ed il diritto di uccidere persone inermi, per scegliere di reagire, di combattere. Stiamo assistendo alla distruzione del senso della convivenza e della condivisione e sta accadendo perché la maggior parte della classe dirigente politica europea (e ultimamente anche statunitense) ha deciso e sta decidendo di legittimare il terrorismo islamico, lo sta rafforzando attraverso la diffusione di falsità, come ha fatto ieri la Pini all'incontro dei giovani del pd, senza che a fronte di queste menzogne ci sia una presa di posizione decisa. L'europa e l'occidente devono ripartire dai precetti di Noè!

Non difendere il Sionismo, il diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico, non difendere la possibilità di amare la propria terra e di rispettare la vita, anche quando questo significa imbracciare la armi per proteggerla, significa consegnarci nella mani dell'impero islamico, significa scegliere la morte o nella migliore delle ipotesi la schiavitù.

L'islam sta mostrando al mondo questa faccia, poche sono le voci che si levano in opposizione a questo modello terrificante all'interno dello stesso mondo islamico e, quelle poche, vengono perseguitate e criticate, non solo dagli stessi islamici, anche dagli europei e dagli statunitensi che non hanno il coraggio di essere sé stessi, non sanno chi sono e quindi sono in grado soltanto di compiacere il potente di turno.

Se esiste un islam diverso che si mostri, ma che nel mostrarsi non mi chieda di rinunciare a me stessa, alla mia identità perché altrimenti non si tratta di un islam diverso, solo di un islam più furbo!

Io non voglio vivere pensando che la donna velata che incontro al supermercato potrebbe essere una terrorista, ma, perché questo sia, è lei che mi deve dimostrare di non volermi sopraffare, di non volermi assoggettare, di non pretendere che io diventi uguale a lei. E' lei, sono loro, che devono ribellarsi e che devono determinare un diverso corso.

Sono stufa di sentirmi dire che Israele è imperialista perché cerca di sopravvivere in uno stato piccolissimo mentre miliardi di islamici stanno invadendo il mondo e stanno cercando di assoggettarlo attraverso il terrorismo e la ricostruzione menzognera della storia.

“Che i popoli europei assumano nelle loro mani il proprio destino.”

Come disse Sebastiano Venier in occasione della Battaglia di Lepanto “Che si combatta è necessità et non si può far di manco!”.
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - G. Parixe

Messaggioda Sixara » gio ott 13, 2016 9:44 am

Cuàla jèrela la Heimat de Goffredo Parise?
Il Veneto è la mia Patria, el dixe, on Veneto barbaro di muschi e nebbie.
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Re: Espariensa mestega de l’aotoctonia - G. Parixe

Messaggioda Berto » gio ott 13, 2016 7:07 pm

Sixara ha scritto:Cuàla jèrela la Heimat de Goffredo Parise?
Il Veneto è la mia Patria, el dixe, on Veneto barbaro di muschi e nebbie.


Parixe (da Parixi/Parigi, come Parisotto) ? el se rifarise al Veneto e no a Venesia, la so Heimat lè el Veneto.
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