Nell’effervescente panorama politico indipendentista veneto esiste anche una corrente fondamentalista cristiana. Non siamo in grado di valutarne la consistenza, tuttavia la qualità intellettuale è indubitabile. Non poteva che essere così. Sostanzialmente costoro sembrano aver fatto propria la lezione del giornalista statunitense Walter Lippmann esposta nel suo libro “La fabbrica del consenso“. Fabbricando il consenso, scrisse Lippmann, si può aggirare il fatto che, formalmente, una gran quantità di persone ha il diritto di voto. Si può svuotarlo di importanza, perché è possibile fabbricare il consenso e assicurarsi che le scelte e gli orientamenti siano strutturati in modo tale che le persone facciano sempre quello che viene detto loro, anche se formalmente hanno la possibilità di partecipare. Ma questo significa applicare alla lettera le lezioni dell’agenzia per la propaganda. E la particolare “agenzia” veneta di cui trattiamo trae ispirazione dall’esperienza cristiana esaltandone solamente gli aspetti fideistici.
Walter Lippmann, uno degli esponenti più autorevoli del moderno giornalismo americano, assai rispettato come teorico democratico progressista, articolò le idee di fondo con la massima chiarezza. «Il grande pubblico deve essere messo al suo posto,» scriveva, così che noi possiamo «vivere liberi dal folle galoppo e dai muggiti di una mandria impazzita». Se non si può sottomettere con la forza, allora bisogna efficacemente controllare i suoi pensieri; in mancanza di una forza coercitiva, l’autorità, al fine di raggiungere i suoi scopi essenziali, può ricorrere solo all’indottrinamento. Nel caso veneto: un fondamentalismo cristiano, condito con l’esaltazione del mito di San Marco.
I cosiddetti “conservatori” si spingono solo un po’ più in là nel loro impegno per domare la disprezzata canaglia. In un’ulteriore elaborazione, Lippmann distinse due ruoli politici in una democrazia moderna. In primo luogo, c’è il ruolo assegnato alle «classi specializzate», gli «addetti ai lavori», «gli uomini responsabili» che hanno accesso alle informazioni e alla comprensione razionale. Nel caso veneto: gli esaltatori della morale cristiana. Questi «uomini pubblici» sono responsabili per la «formazione di una solida pubblica opinione». Costoro «iniziano, amministrano, stabiliscono» e dovrebbero essere protetti da «estranei ignoranti e impiccioni», ovvero il vasto pubblico, privo della competenza necessaria ad affrontare «la sostanza del problema». La classe specializzata, protetta da estranei impiccioni, servirà quello che nelle ragnatele mistificanti tessute dalle scienze sociali accademiche e dai commenti politici viene definito come «l’interesse nazionale».
I neo-fondamentalisti veneti, non a caso, sostengono che le questioni vanno via via complicandosi enormemente. Non solo occorre perizia tecnica, i tempi di gestione e specializzazione ormai sono incompatibili con il metodo assembleare con cui – per esempio – la civiltà comunale è nata, si è espansa in Europa, ed è tuttora vivissima in Svizzera; ma addirittura si rivela indispensabile coprire, in alcuni casi, le deliberazioni con il segreto. Orbene scrive Robert Dahl in “la democrazia e i suoi critici“, edito da Editori Riuniti nel 1997: «Tra le varie argomentazioni con cui abitualmente si tenta di ridicolizzare l’esercizio di un corretto bilanciamento tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, la più ricorrente è che il cittadino “medio” sarebbe impreparato ad affrontare le difficili e delicate questioni politiche nonché, per sopra-mercato, che esso sarebbe privo delle competenze “tecniche” necessarie a produrre decisioni razionali ed efficienti. Occorre uscire da un equivoco: la legittimità delle decisioni politiche assunte in un sistema democratico non si basa sul loro contenuto tecnico, bensì sul consenso. Per sua natura la democrazia deve tendere al perseguimento del bene comune, e l’unico metodo compatibile con tale fine consiste nel dare a tutti la stessa possibilità di incidere sulle scelte. È l’idea di eguaglianza a permeare di sé il fenomeno democratico, intesa come “eguale considerazione che deve essere data al bene e agli interessi di ciascuna persona”».
Non bastasse gli fa eco Gustavo Zagrebelsky con il suo «Imparare democrazia», Giulio Einaudi editore – Torino, 2007: «L’autorità del popolo, in democrazia, non dipende affatto da sue presunte qualità sovrumane come l’onnipotenza e l’infallibilità. Dipende invece dalla ragione esattamente contraria, dall’assunzione cioè di tutti gli uomini, e del popolo tutto intero, come necessariamente limitati e fallibili.
Questo punto a prima vista sembra contenere una contraddizione che deve essere chiarita.Come ci si può affidare alla decisione di qualcuno, come gli si può attribuire autorità, quando gli si riconoscono non meriti e virtù, ma vizi e manchevolezze? La risposta sta nella generalità, per l’appunto, dei vizi e delle manchevolezze. La democrazia in generale, e in particolare, si fonda su un assunto essenziale: che i pregi e i difetti di uno siano anche di tutti. Se si negasse questa uguaglianza nel valore politico, non avremmo più democrazia, cioè il governo di tutti su tutti; avremmo invece qualche forma di autocrazia cioè il governo di una parte (i migliori) sull’altra (i peggiori). Se dunque tutti sono uguali nei vizi e nelle virtù politiche o ciò che è lo stesso, se non esiste alcun criterio generalmente accettato attraverso il quale si possano stabilire gerarchie di merito e di demerito, noi non abbiamo alcuna possibilità di attribuire l’autorità ad altri che a tutti insieme. Per la democrazia, l’autorità del popolo non dipende quindi dalle sue virtù ma deriva – e necessario concordare su questo – da un’insuperabile mancanza di meglio.»
I teorici veneto-fondamentalisti cristiani sono impegnati in una lotta aspra e incerta. Sembrano fermi a «Notre charge apostolique», la Lettera apostolica di San Pio X all’episcopato francese, che nel 1907, scagliandosi contro la democrazia, promulgò un decreto che condannava 65 proposizioni moderniste e mise molte opere moderniste nell’Indice dei libri proibiti. Non bastasse, fu nuovamente “rivisitata” da Papa Benedictus XVI, 16 gennaio 2008. I neo-fondamentalisti veneti pur sentendo l’aspirazione alla democrazia, che è sempre tanto più profonda, intima e importante di qualsiasi teoria del governo. Sono impegnati, contro il pregiudizio di secoli, nell’affermazione della dignità umana. La loro molla non è l’idea che il signor Mario Rossi abbia opinioni sensate sulle questioni pubbliche, bensì quella che Mario Rossi, discendente da un ceppo che è stato sempre considerato inferiore, d’ora in avanti non avrebbe piegato il ginocchio davanti a nessun altro uomo. È questo spettacolo che rende la beatitudine «l’esser vivi in quest’alba». Ma tutti i critici sembrano sminuire questa dignità, negando che tutti gli uomini siano sempre ragionevoli, o istruiti o informati, notando che le persone vengono ingannate, che non sempre conoscono i propri interessi, e che non tutti gli uomini sono egualmente adatti a governare. Gli adatti a governare sono invece loro: i sapienti. Coloro che hanno studiato. Che si sono convinti della “moralità” di un cristianesimo che – secondo loro – nemmeno la chiesa ufficiale è degna di rappresentare.
Sul concetto di moralità c’è un bellissimo film dell’afroamericano Denzel Washington, qui nella doppia veste di attore e regista: THE GREAT DEBATERS (i grandi oratori). La parte finale di quest’opera è dedicata alla moralità della legge. Si tratta di tre minuti e mezzo godibilissimi. [VEDI QUI ]
Quello che sembra sfuggire, o quello che comunque non sembrano trattare con la dovizia di argomentazioni necessarie, i “nostri” neo-fondamentalisti veneto-cristiani, è che a partire dalla fine della II G.M. e per circa cinquant’anni, l’Italia ha goduto di governi che s’ispiravano alla morale cristiana. Un partito che sin dalla sua denominazione: Democrazia Cristiana, è stato egemone nelle scelte politiche. In ciò persino spalleggiato dagli USA mercé la cosiddetta guerra fredda. Come non ricordare che, per esempio, Mariano Rumor intorno agli anni 1950 andava regolarmente a farsi approvare le liste per le elezioni comunali – e non solo quelle, bensì sinanco quelle – dall’allora Vescovo di Vicenza Mons. Carlo Zinato. Né a Treviso, a Belluno, a Verona o in quasi tutto il Veneto (allora definito sacrestia d’Italia) succedeva il contrario con gli omologhi dei sunnominati.
Come ignorare che sino al 4 febbraio del 1966 sulle porte di tutte le chiese era affissa una bacheca con «l’indice» dei libri, dei film e degli spettacoli proibiti o consentiti? Eppure la “moralità cristiana” non ha impedito la corruzione politica e tante altre malefatte connesse. Tant’è che l’espressione “Mani pulite” designa una stagione degli anni novanta caratterizzata da una serie di indagini giudiziarie condotte a livello nazionale nei confronti di esponenti della politica, dell’economia e delle istituzioni italiane. Le indagini portarono alla luce un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti ai livelli più alti del mondo politico e finanziario italiano detto Tangentopoli. Furono coinvolti ministri, deputati, senatori, imprenditori, perfino ex presidenti del Consiglio.
Nessuno più ricorda Arnaldo Forlani? L’allora segretario nazione DC, che durante il Processo Enimont, nel periodo dell’inchiesta Mani pulite, fu chiamato a testimoniare riguardo ai finanziamenti illeciti ricevuti dall’affare Enimont. Palesemente in difficoltà, rispondendo a una domanda, disse soltanto «non ricordo». L’immagine del noto politico, con la bava alla bocca, divenne uno dei simboli di Tangentopoli, e della corruzione divenuta sistema in Italia, per la quale è stato poi condannato. Un “poareto”. Una figura tanto penosa quanto era stata arrogantemente dominante sino a poco tempo prima. Forlani fu condannato in via definitiva a due anni e quattro mesi di reclusione per finanziamento illecito nell’affare Enimont. La pena della reclusione fu sostituita con l’affidamento in prova al servizio sociale ed espiata mediante la collaborazione con la Caritas di Roma. Egli ha sempre ribadito di ritenere ingiusta la condanna inflittagli e di averla accetta in spirito socratico come la sua cicuta da bere.
Come valutare Emilio Colombo, morto 93enne, senatore a vita e storico esponente dellaDemocrazia Cristiana, è stata ricordata come la la scomparsa dell’ultimo dei padri costituenti che ancora erano in vita. Eppure i media hanno ricordato come sulla carriera di uno dei politici più rilevanti del nostro Paese resti la macchia dell’uso di cocaina (pare la mandasse a comperare da una Guardia di Finanza che apparteneva alla sua scorta), ammessa dallo stesso Colombo nel 2003 per “motivi terapeutici”. C’è poi una curiosità: secondo alcune indiscrezioni, Colombo fu indicato come il premier omosessuale della nostra storia repubblicana. È questa la moralità cristiana di cui era portatore insieme al suo partito: la Democrazia Cristiana?
Potremmo continuare con le malefatte “amorali” di coloro che in privato si autodefinivano ironicamente “Demoni Cristiani”, così come con le citazioni a favore dell’esercizio della vera democrazia. Ma la questione sostanziale è che noi non sopportiamo il fondamentalismo islamico. Dovremmo allora sopportare un neofonfamentalismo cristiano-veneto? Noi non crediamo sia possibile cambiare il mondo. Non è nelle nostre capacità. Si pone allora una domanda conclusiva: gli abitanti dei territori veneti che lottano e lotteranno per l’indipendenza, lo faranno per ritrovarsi con una qualche forma di autocrazia cioè il governo di una parte (i migliori)? E magari sulla base di un principio morale che l’opera cinematografica su indicata ha ampiamente documentato essere molto discutibile?