Entel Veneto dapò el desfamento e le straj de la I goera mondial:http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ousion.jpghttp://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... sion-1.jpg1. Lo scandalo dei magazzini di CastelfrancoQuando, con decreto 19 gennaio 1919, venne istituito il Ministero delle Terre Liberate, si convenne di creare a Castelfranco Veneto un complesso di magazzini ai quali far affluire il materiale destinato ai profughi ed ai bisognosi del Triveneto.
Merce da porre in distribuzione nella cittadina stessa della Marca ed in sedi distaccate, pure provviste di magazzino.
Ebbe così origine l'Ispettorato generale di Castelfranco, la cui direzione venne affidata al commendatore siciliano Arcangelo C., un pezzo grosso del Ministero dell'Interno, con specifiche esperienze nel campo dell' assistenza, avendo operato ai vertici dell'Alto commissariato per i profughi in quel di San Remo.
Qui lo aveva incontrato don Ferdinando Pasin, impegnato in un'opera di apostolato per i profughi, riportando l'impressione di essersi imbattuto in un ras.
Furono contemporaneamente aperti gli Ispettorati di zona, dipendenti da Castelfranco per le forniture, mentre l'Ispettorato generale continuò a mantenere una gestione autonoma anche quando vide la luce il ‘Ministerino’
di Villa Margherita.
A Castelfranco arrivava di tutto e da ogni parte, su iniziativa della beneficenza privata e per intervento statale, su dismissione di materiali dell'esercito e per decisione della Croce Rossa, in particolare di quella americana.
Conferire ordine e regolamentare non era facile, ma l'Ispettorato godeva di ampia discrezionalità di gestione, sempre però nel rispetto – da detto subito – delle finalità istituzionali e della legge.
"Il Ministero provvide al rifornimento di vasti magazzini. Tutte le province d'Italia con slancio generoso, inviarono ogni ben di dio che con altro materiale acquistato dal Ministero delle Terre Liberate, in maggioranza proveniente dalla armate, dagli ospedali di campo, dalla Croce Rossa Italiana, americana, inglese, francese, veniva immagazzinato a Castelfranco Veneto e desti-nato ai vari Comuni, secondo le richieste".
La solidarietà pubblica non è usa a certi riguardi.
Moltissima roba, nonostante alcuni inevitabili inconvenienti, anche parecchio spiacevoli, era in buono stato, mentre l'afflusso della lana appariva ininterrotto ed assai rilevante. L'ispettore generale si impegnò a dare un volto all'organizzazione. Poteva contare su una ventina di operai e su un centinaio di prigionieri austriaci, oltre che su alcune ragazze del luogo, addette alle scritturazioni.
Gli occorreva un vice, e lo trovò in Matteo P., un salernitano già archivista al Ministero degli Esteri; gli serviva un magazziniere capo, e la scelta cadde su Luigi A., un intraprendente giovanotto di Castelfranco, appena congedato, che diventò l'uomo di fatica del gruppo; necessitava di un ragioniere di fiducia per la contabilità dell'ufficio, ed ecco giungergli dal Ministero delle finanze un altro salernitano, Giuseppe S., mentre un secondo elemento di fiducia, da affiancare al giovanissimo capo magazziniere, risultò il napoletano Alfonso T.
L'arrivo più gradito al commendatore fu però quello della maestra friulana Anna G., già sua stretta collaboratrice a Sanremo, dove era giunta profuga. La scelta degli ispettori (o delegati) di zona venne stabilita in base a criteri che non fu possibile ricostruire.
Fino al luglio 1919 suppellettili e capi di vestiario erano distribuiti gratuitamente, poi si decise di farli pagare (come la lana, che a pagamento era stata fin dall'inizio) o di metterli in conto risarcimento per danni di guerra.
Decisione quest'ultima presa di concerto tra Ministero ed Ispettorato generale, che tra la gente aveva creato vivo malcontento.
Già la lana veniva spesso rifiutata proprio perché a pagamento; quando ad avere un prezzo fu anche il resto, i profughi disertarono i magazzini, convinti di ricevere un trattamento niente affatto di favore. La girata di spalle convinse il Ministero ad abbassare i prezzi, fino a renderli più accessibili, ma certo non ancora a portata di tutte le tasche. Nell'ottobre 1919 fu spedito a Castelfranco anche il cospicuo quantitativo di merce in deposito ai Filippini di Roma: si trattava degli oggetti di maggior valore, che in numerosi casi giunsero a destinazione prima che il Ministero avesse provveduto a stabilire il loro prezzo di vendita.
2. L'inchiesta ed il processoErano passati pochi mesi dall'insediamento degli Ispettorati, generale e zonali, allorché cominciarono a circolare voci sempre più insistenti di gestione allegra dell'assistenza, avvalorate dal tenore di vita mantenuto da alcuni dei responsabili, in modo particolare dal delegato di Conegliano, un monfalconese dal passato oscuro, che si rivelerà alla fine piuttosto torbido.
Raccolte e amplificate ne `La Riscossa', quelle voci provocarono l'apertura di un'inchiesta ministeriale, che, a cominciare dalla fine dell'aprile 1920 si tradusse in una serie di indagini avviate a Castelfranco ed estese alle delegazioni zonali in sospetto di illeciti.
I compiti assegnati ai tre ispettori incaricati dell'indagine furono facilitati inizialmente dal fatto che l'Arma dei carabinieri si era già mossa per proprio conto con lo stesso intendimento, ma prestissimo diventarono improbi, per la brevità del tempo concesso (cento giorni) e perché, più il lavoro procedeva più si moltiplicava e complicava.
Si trattava infatti di ricostruire una contabilità confusa, lacunosa, disordinata, rettificata in più punti all'ultim'ora; di sentire decine e decine di persone; di compiere puntate a Cornuda, a Conegliano, a S. Donà, alla stazione ferroviaria di Mestre, addirittura a Roma, perché erano emersi coinvolgimenti di funzionari capitolini, in servizio al Ministero delle Terre Liberate.
Per tutti prendeva corpo l'imputazione di peculato, ma gli indiziati apparivano suddivisi in tre gruppi: responsabili della gestione dei magazzini (a cominciare dall'ispettore generale), funzionari romani, commercianti e negozianti - generalmente lombardi o veneziani - incettatori soprattutto di lana da materassi e di coperte destinate ai profughi. L'istruttoria si concluse il 10 agosto, quasi a tempo di record, con il rinvio a giudizio di 43 persone, di cui dieci in stato di detenzione, ventotto a piede libero e cinque latitanti.
I principali indiziati degli ispettorati di zona (Trento, Conegliano e Cornuda) erano riusciti infatti a dileguarsi, unitamente a due factotum del delegato di Conegliano; parecchi avevano evitato l'arresto risarcendo il danno procurato all'Erario prima della denuncia al giudice istruttore; qualcuno, infine, era stato rimesso in libertà a conclusione dell'istruttoria.
Il processo prese l'avvio a Treviso il 5 novembre 1920 per subire subito un rinvio.
Nel lasso di tempo intercorso tra la chiusura dell'istruttoria e l'apertura del dibattimento erano accaduti molti fatti importanti e per effetto di alcuni di essi il processo aveva addirittura corso il pericolo di venire celebrato altrove, essendo stata invocata la ‘legitima suspicio’.
Tra le toghe, si temeva che la popolazione, indignatissima per quanto era venuto allo scoperto, avrebbe esercitato una pressione intimidatoria nei confronti del Tribunale, condizionando la sentenza.
Più tardi si capì che il timore espresso altro non era che la maschera esteriore di una manovra volta a dirottare il processo a Roma, dove gli imputati di riguardo avrebbero potuto contare su una magistratura tradizionalmente amica del potere politico.
Troppi erano infatti coloro che paventavano le conseguenze della coloritura assunta dall'azione giudiziaria in conseguenza della robusta presenza (ben tredici imputati) sul banco degli accusati di funzionari romani di spicco.‘La Riscossa’ andava apertamente parlando come di un processo alla burocrazia statale ‘tout court’, corrotta sì, ma come fatale conseguenza della corruzione diffusa in tutte le istituzioni dello Stato italiano.
In spasmodica attesa di ciò che sarebbe uscito dal dibattimento non era soltanto il ‘Veneto depredato’, ma l'intero Paese, come dimostrava la presenza a Treviso degli inviati dei giornali a diffusione maggiore.
Troppo scoperta sarebbe però risultata la mossa intesa ad allocare altrove il processo, per cui la difesa preferì alla fine puntare tutto sulla certificazione di manifeste dimostrazioni di squilibrio mentale da parte del maggiore degli imputati, come il comm. Arcangelo C., rilevate subito dopo l'arresto.
Questa clamorosa rivelazione andava ad aggiungersi ad un altro fatto sconvolgente, il suicidio in carcere per impiccagione del vicedirettore dei magazzini castellani, avvenuto il 22 ottobre. Giocando sull'effetto congiunto di questi due fatti sensazionali che, aggiungendosi alla latitanza di tre imputati di rilievo aveva prodotto un forte disorientamento nel foro trevigiano, gli avvocati della difesa chiesero a gran voce l'annullamento dell'istruttoria per tutta una serie di vizi di forma, reclamarono la cancellazione per inattendibilità della deposizione resa dal commendatore siciliano, invocarono – quanto meno – un congruo rinvio del processo, per non esser stati posti nella condizione di esaminare e vagliare l'intera documentazione raccolta dall'accusa.
Il Tribunale raccolse l'ultima delle istanze, rinviando il dibattimento al 29 maggio 1921.
Fu un successo vistoso della difesa, che ebbe così a disposizione oltre sei mesi per concertare l'intero ventaglio dell'azione ed impedire il sorgere di contraddizioni.
Ad approfittarne più di tutti furono i funzionari di Roma. Quando, sul finire del maggio 1921, si riaprirono le porte del Tribunale di Treviso, erano in sette gli imputati in stato di detenzione e due soltanto i latitanti (i delegati di Cornuda e di Conegliano). La strategia adottata dalla difesa si rivelò subito nuovamente vincente e per giunta accompagnata da buona dose di fortuna.
Un collegio medico aveva confermato che l'ispettore generale di Castelfranco era fuori di senno, diagnosticando la malattia come ‘psicosi affettiva’. Sorta di squilibrio mentale alquanto strana perché seguita da guarigione nel novanta per cento dei casi, ma da curare con attenzione scrupolosa. In altre parole, il commendatore non si trovava al momento nella condizione di subire interrogazioni né di essere sottoposto a confronti.
Al Tribunale non rimase che prendere atto del referto medico ed ordinare lo stralcio dal dibattimento della posizione del principale imputato. E siccome egli appariva il filo conduttore dell’intera vicenda, questa venne a spezzettarsi in episodi singoli, ciascuno dei quali finì col fare capo a sé stesso.
Era veramente ammalato Arcangelo C. o si era riusciti a farlo passare per tale?
L'opinione di chi seguiva il processo era discorde, ma il più propendevano sul fatto che, con lo stralcio, il processo aveva subito una specie di svuotamento. "Così il dibattimento che si chiamava ‘Processo C.’ perde di quel prestigio che si era andato creando dinanzi alla folla e si riduce ad un dibattimento di minore importanza".('-' Assente il commendatore siciliano, la difesa fu incentrata sul presupposto che l'allegra gestione dell'assistenza era conseguenza delle bizzarrie di chi stava al timone, le quali erano peraltro i sintomi premonitori della malattia diagnosticata più tardi.
Irregolarità e colpe vennero sistematicamente ricondotte allo psicolabile ed al suo vice, morto suicida, con cinismo palpabile perché le irregolarità venivano fatte risalire al malato di mente e le colpe attribuite tutte al defunto.
3. Le imputazioni dei funzionari romaniColoro che avevano seguito la faccenda fin dalla fase istruttoria non nutrivano dubbi sulla colpevolezza dei funzionari romani. I fatti sembravano parlare da soli. Coperti dalla ‘circolare Orlando’ finché la merce destinata ai profughi era rimasta in via Flavia, ai Filippini a Roma, essi avevano cominciato a calpestare la norma dal momento in cui si erano arrogati il diritto di fare man bassa del materiale in partenza dalla capitale per Castelfranco, e peggio si erano comportati in seguito, con gli acquisti grotteschi effettuati per il tramite dell'ineffabile commendatore siciliano.
Già avevano fatto mostra della loro natura vorace ritardando a bella posta ed oltre ogni limite di decenza la consegna della merce destinata a Castelfranco, pur di continuare nell'azione di depredamento (legale) della roba altrui.
Chissà per quanto tempo ancora avrebbero continuato a trattenerla a Roma, se non fosse venuto dal Governo l'ordine perentorio di sgomberare i magazzini per far posto agli alloggiamenti della Guardia Regia!
Non convinceva proprio nessuno l'assicurazione di avvenuti ripetuti solleciti per la definizione di un conto che non voleva arrivare mai.
A Castelfranco ci si nascondeva dietro la scusa che gli articoli scelti via via continuavano a rimanere senza prezzo. Ma questa scusa non poteva valere per Roma, perché i prezzi si stabilivano proprio lì, al Ministero delle Terre Liberate!
C'era poi la famosa lettera in data 2 aprile 1920 del vicedirettore dei magazzini di Castelfranco a dirla lunga sull'intesa truffaldina che legava i funzionari del centro a quelli della periferia.
Quanti erano ancora a non capire che si trattava di uno scandaloso scambio di favori tra impiegati di Roma ed impiegati di Castelfranco? Il comm. C. si sarebbe forse recato nella capitale e una, e due volte, con tanto di campionario dietro, come un qualsiasi commesso viaggiatore, solo per onorare l'ossequio che la periferia deve al centro? No di certo! Favore per favore, il commendatore siciliano vi andava per ottenere il ‘via libera' agli affari personalmente avviati nel Veneto devastato e razziato.
A provarlo, c'erano le spudorate ispezioni compiute dal sommo burocrate Aurelio S., direttore generale dei servizi amministrativi e contabili al Ministero delle Terre Liberate, concluse con spreco di complimenti e di lodi per l'impeccabile andamento della gestione, quando anche un bambino si sarebbe accorto del marasma che regnava sovrano a Castelfranco e dintorni.
Quanti avevano assistito alle udienze preliminari erano persuasi più che mai della colpevolezza dei funzionari romani per il non trascurabile particolare che, ad incriminarli, erano stati inquirenti i quali, per matrice professionale ed accento regionale, mostravano di appartenere alla stessa categoria: se mai fosse stato possibile, essi sarebbero stati i primi a cercar di portare a salvamento i colleghi!
Così ragionava la gente, e gli amici de `La Riscossa' gongolavano.
Quando prese la parola l'imputato di maggior rilievo, Aurelio S. armato fino ai denti di circolari ed appunti, la sicurezza degli astanti prese via via a vacillare e gli stessi membri del Tribunale rimasero sbalorditi.
Man mano che il suo discorso si andava dipanando, prendeva corpo una spiegazione dei fatti completamente inattesa, che l'intervenuto ebbe occasione di approfondire e rinvigorire nei giorni seguenti e che ebbe la conferma dell'ex ministro Cesare Nava, allorché venne a deporre.
Urgenti erano i bisogni, urgenti dovevano risultare anche i provvedimenti. Giudicare l'operato degli addetti all'assistenza usando lo stesso metro che si adopera per un qualsiasi altro ente pubblico, significa essere già completamente fuori strada. Più che la precisione, qui valeva la celerità, più che l'uniformità dei criteri, la tempestività degli interventi. Questi ultimi, come noto, avevano preso il via partendo dalla distribuzione ai profughi delle merci sottratte al nemico dalla nostra marina. C'era di tutto, c'erano anche articoli di lusso e di alta qualità, di certo non adatti ai bisogni dei profughi. Di qui le 'istruzioni Orlando', che consentirono la vendita a terzi del materiale più costoso, e in quanto tale ritenuto superfluo.
È diventata prassi normale nei Ministeri la cessione ai dipendenti, a prezzo di largo favore, di quantitativi di merce che, per una ragione o per l'altra, si trovavano a transitare nella sfera di competenza dei Ministeri stessi.
Il Ministero dei trasporti, per esempio, cede ai propri impiegati legna e carbone a prezzi stracciati.
Perché non si sarebbe dovuto introdurre agli Interni quella consuetudine che altrove andava benissimo? Lo si fece, e dagli Interni la consuetudine passò ali' Alto Commissariato prima e quindi al Ministero delle Terre Liberate. Quanto ai prezzi da fissare, la questione non investiva neppure Castelfranco, trattandosi di materia di competenza politica: se, ciò nonostante, il comm. C. aveva deciso di vendere con pagamento differito sine die, vuol dire che era autorizzato a farlo, in conseguenza dell'ampia discrezionalità che gli veniva riconosciuta.
Quando i funzionari di Roma ricevettero l'ordine di pagare, pagarono, e non ha rilevanza se – a presentare il conto – fu la Commissione d'inchiesta anziché l'ispettore generale di Castelfranco.
Questo disse nel suo intervento il comm. Aurelio S., e continuò a spiegare ed a motivare le sue argomentazioni, su domanda, anche nei giorni successivi.
La logica serrata che attraversava tutta la deposizione dell'alto funzionario discendeva da principi che non erano familiari al pubblico trevigiano di allora, e ciò contribuiva ad accrescere la sorpresa e lo sconcerto.
Lasciando però perdere e logiche e principi ed affidandosi al comune buon senso, l'uditorio alla fin fine non capiva come mai la commissione d'inchiesta, pur trovandosi nella condizione di poter ottenere queste stesse precisazioni dai diretti interessati, non si fosse ad essi rivolta, considerando invece come atti penalmente perseguibili dei comportamenti che, al massimo, potevano incontrare biasimo e deplorazione, per l'avidità di accaparramento dimostrata da alcuni impiegati. ‘Complotto’, si affrettarono allora a spiegare gli avvocati difensori, complotto politico ordito dal neo sottosegretario alle Terre Liberate per gettare il discredito sui suoi predecessori, con la complicità della commissione d'inchiesta che si era mossa in ossequio alle sue direttive.
Non colpevoli, insomma, ma soltanto vittime i funzionari romani alla sbarra.
4. Viaggio nel pianeta burocraziaa) Il primato dell'accessorio. – Se già il processo era risultato fortemente ridimensionato dallo stralcio subito, si poteva ora ben dire che il grande interesse suscitato all'inizio si era spento del tutto.
Presentato come "il processo al sistema ed alla burocrazia, non a qualche cavaliere e commendatore preso con le mani nel sacco della consuetudine",(si era ridotto al 'redde rationem' giudiziario di qualche commerciante disonesto e di alcune mezzecalzette. Ai redattori de `La Riscossa' non rimase che dar sfogo alla propria amarezza e confidare in una sentenza che comunque, a loro avviso, avrebbe dovuto "tener conto della deplorazione unanime che l'opinione pubblica ha già espresso contro sistemi usati ed abusati dalla burocrazia italiana del centro di Roma, disposta a tutte le concessioni più illecite, a tutti favoritismi politici, a tutte le illegalità rese legali da abitudini vergognose e da concessioni ministeriali degne del Messico".
È una considerazione che merita di essere approfondita, anche a costo di una lunga digressione, perché il ‘Processo delle Terre Liberate’ ha molto da dire a color che non si accontentano di inveire in continuazione contro la burocrazia italiana, ma si propongono altresì di conoscere di che pasta è fatta.
Aveva destato viva curiosità, non disgiunta da simpatia per l'inconsueta schiettezza, la deposizione resa dal cav. Erneste V., capo sezione al tesoro, comandato al momento alle Terre Liberate.
Se al suo collega Aurelio S. si deve dar atto di un'impeccabile esposizione tecnico-giuridica sulla cointeressenza degli impiegati amministrativi ai beni dei profughi, a lui si deve una versione pratico-dimostrativa della medesima e di numerose altre, versione che è specchio di una mentalità non estesa allora all'intero Paese, ma già tipica del suo apparato burocratico.
"Lo Stato – dice Ernesto V. - offre tre sorta di beneficio ai suoi funzionari: l'immediato, che è lo stipendio, quello differito, che è la pensione, e finalmente le concessioni speciali, che sono da considerarsi accessori interessanti, specie in ... tempi difficili".Siccome "nei Ministeri si lavora poco", è possibile organizzarsi a meraviglia in vista dell"accessorio' , incaricando alcuni colleghi di mettere in piedi una sorta di cooperativa di consumo ad uso interno, completamente esente da spese di gestione, essendo gli addetti sollevati dai compiti professionali. Si giungeva così a vendere "stoffe, paletot ed altro agli impiegati. Ciò si faceva anche mediante avvisi. Vi erano impiegati che si occupavano specialmente della vendita di stoffe, sardine, burro, seta, copriletti, camicie, mutande con distribuzione di elenchi appositi".
Ma "chi forniva detta merce?", chiede ad un certo punto un avvocato.
E il cavaliere, imperturbato e conciso: "Lo Stato".
Conscio della generale meraviglia suscitata, anch'egli come il collega che lo aveva preceduto sostanzia le sue rivelazioni producendo e citando circolari.
Lo Stato consente – in sintesi – che vengano iscritte nei bilanci dei singoli Ministeri entrate ed uscite che corrispondono a privilegi riconosciuti agli impiegati capitolini.Chi aveva imparato a conoscere costoro a dovere era Luigi Einaudi, che in un articolo apparso un paio d'anni prima sulla ‘riforma della burocrazia' li aveva dipinti a puntino.
Tutto il pubblico impiego era allora in agitazione per reclamare un aumento di stipendio e l'adozione dell'orario unico. Alla prima richiesta l'illustre economista risponde con un invito che suona ingenuo (o, piuttosto, provocatorio): lavorino di più e meglio, l'efficienza si tradurrà in maggiori entrate per lo Stato, e queste consentiranno il miglioramento retributivo, senza maggiori oneri per il contribuente.
La seconda richiesta gli dà chiaramente ai nervi.
"È una vecchia pretesa – egli dice – degli impiegati romani, i quali in genere sono la sezione meno produttiva del ceto.
Da come si sono abituati, orario unico e sei ore vorrebbe dire di fatto riduzione del lavoro, sì e no, a due tre ore mattutine".»
Einaudi tocca questi due punti allo scopo di introdurre sullo stesso articolo, scritto il 20 maggio 1919, l'argomento che più gli sta a cuore in fatto di burocrazia statale.
"L'impiegato è portato a considerare lo stipendio fisso come un diritto acquisito, una pensione di grazia, in cambio di cui non si ha il dovere di dar nulla. Il dovere di lavorare nasce solo quando cominciano le ore straordinarie, incerte e pagate in ragione del lavoro prestato". Significa che, siccome durante il cosiddetto orario di lavoro normale qualcosa comunque si fa, questo qualcosa va poi ricalcolato in termini orari e valutato in analogia allo straordinario; e poiché l'impiegato non rimane in ufficio oltre l'orario consueto, lo si farà passare per ‘intensificazione del servizio’'. Un altro ‘accessorio’', per usare il linguaggio di Ernesto V.
b) Una rivoluzione copernicana.Erano trascorsi cinquant' anni appena dall'occupazione di Roma e conseguente sua proclamazione a capitale del regno e già la gente, qui da noi, cominciava a chiedersi dove fosse finito l'integerrimo corpo statale veneto e lombardo, oppure quello piemontese, meno irreprensibile, ma pur sempre efficiente e produttivo.
Nel breve volgere di mezzo secolo la capitale del regno, traslocata da Torino a Firenze e di qui a Roma, aveva visto svanire nel nulla la compagine burocratica settentrionale, rimpiazzata rapidamente dalla falange di impiegati accorsi dal Sud. Passati in rassegna uno per uno, gli stessi imputati romani al processo delle Terre Liberate confermavano l'avvenuto esito del fenomeno. Il più settentrionale di loro era originario di Perugia, tutti gli altri erano nativi del Meridione o delle Isole. Vediamo dunque di capire, per quanto possibile, come erano andate le cose.
"Alla costituzione d'Italia era onore per i settentrionali concorrere ai pubblici impieghi, che godevano così alto prestigio in Piemonte. Ai concorsi la gioventù studiosa accorreva e l'amministrazione aveva anche pletora di tale personale, che doveva disseminare nel meridione e nelle isole. Sentimento di disciplina, spirito del dovere, esempio dei capi, scarsi e non sfacciati favoritismi del centro, anche per migliorare educazione politica dei rappresentanti del Paese, facevano sopportare ai neofiti i disagi di residenza impervia per posizione e scomoda per costume".
Impostazione corretta, che tuttavia già mostra di risentire di una prima ossidazione della memoria.
Gli impiegati in esubero al Nord, dove gli organici erano sempre mantenuti all'osso, venivano trasferiti nelle zone basse dello Stivale per favorire la politica di unificazione (o piemontesizzazione) del Paese intrapresa dai conquistatori.
Secondo i calcoli di costoro, l'enorme divario esistente tra le ‘due Italie’ sarebbe stato presto colmato costruendo strade e ferrovie, e conformando il comportamento della gente ai metodi amministrativi collaudati in Piemonte.
Il Sud però di impiegati statali ne aveva già a bizzeffe per suo conto, e il divampare del cosiddetto ‘brigantaggio’ rese prima patetica e poi impossibile la permanenza nel Mezzogiorno di funzionari settentrionali, segnando il clamoroso fallimento del primo tentativo di unificare i cittadini, dopo aver unificato il territorio.
Inoltre "col miglioramento delle industrie e commerci nel settentrione, e col decrescere del prestigio dei pubblici impiegati, i giovani settentrionali hanno cominciato a disertare i concorsi, mal tollerando i traslochi in paesi difformi per usi e costumi.
Al contrario, nel meridione coll'aumentare delle scuole e per naturale disposizione agli studi e desiderando posti tranquilli e sicuri è avvenuta una corsa all'impiego di Stato che vede raggiungere, negli ultimi concorsi, una percentuale quasi assoluta di meridionali ed insulari".
L'amnesia provoca la cancellazione di un intero passaggio della rivoluzione subita dalla compagine amministrativa italiana, e precisamente di quello connesso con il trasferimento della capitale, da Torino a Firenze prima, e da Firenze a Roma in via definitiva.
Fino al 1870, i ministeriali erano rimasti gente del Centro-Nord, e se era fallita l'omologazione amministrativa (salvo l'aspetto meramente formale) del Mezzogiorno, la meta direttiva continuava ad ispirarsi alla tradizione piemontese. Quando si trattò di trasferirsi a Roma, i guai spuntarono come funghi. A parte la sensibile differenza del costo della vita (a Roma tutto era più caro rispetto a Firenze), a parte la maggiore lontananza di molti dalle famiglie, che con la velocità dei mezzi di trasporto di allora era diventata proibitiva, la nuova capitale riservò ai funzionari venuti dal Nord un'accoglienza glaciale e sprezzante, emarginandoli socialmente.
Non appena l'occasione lo permetteva, i ‘buzzurri’ se ne andavano e nessuno – dal Nord – se la sentì di dar loro il cambio.
A rimpiazzarli ci pensò la classe impiegatizia meridionale, più adattabile e disponibile, conciliante e compiacente, più in sintonia insomma con l'ambiente romano. Emile Zola, in visita alla città sul finire del secolo scorso, colse a volo questo passaggio, lo descrisse lucidamente nei suoi appunti di diario e presagì l'inesorabile meridionalizzazione della capitale italiana.
Inoltre, mentre la vecchia dirigenza non era riuscita a disporre del Mezzogiorno, la nuova dirigenza trovò più tardi assai permeabile il Centro-Nord, verso il quale ebbe inizio il deflusso dei quadri inferiori.
La spedita industrializzazione di alcune regioni settentrionali completò il processo e compensò il progressivo venir meno delle possibilità di impiego statale. È a questo punto che il nostro articolista riacquista il filo della memoria e descrive in termini di attualità le conseguenze dell' avvenuto cambiamento.
"Ne consegue per ragioni di salute, per carattere naturale insofferente, per sentimento nostalgico il bisogno di frequenti viaggi e di lunghi congedi che per metodo ottengono poi delle lunghe proroghe. Ad essi si aggiungono i tentativi continui di trasloco, di aspettativa per malattia e il malcontento della residenza.
L'amministrazione, a sostituire gli assenti deve provvedere con missioni.
Questo spiega la pletora di personale. L'andazzo politico di alcune regioni dove il partito politico è costituto dalle clientele favorite aggrava il male: spesso l'amministrazione, per coprire alcune sedi, deve largheggiare in missioni, che fanno dimenticare il freddo e il disagio e che spesso non sono elargite ai migliori, ma ai più inframettenti. (...) Il danno per lo Stato, provocato più che della spesa, dal disordine, è immenso".
Male, anzi malissimo ha fatto il Parlamento, quando ha concesso al Governo la delega per la riforma della pubblica aiiiministrazione. Ciò ha significato porla graziosamente nelle mani dei vertici della burocrazia, proprio quelli che favoriscono l'afflusso al Nord del ceto impiegatizio meridionale, chiudendo entrambi gli occhi sul guasto che ne deriva. "È lo stesso che aver dato a Bertoldo l'incarico di scegliere l'albero su cui doveva essere impiccato".
Il Parlamento avrebbe invece dovuto stabilire dei punti fermi, gli stessi sostenuti dagli esperti, nell'interesse dell'intero Paese: decentramento amministrativo e reclutamento regionale degli impiegati pubblici.
"Il decentramento amministrativo è tesi che trova fautori nei vari partiti politici, e presso i competenti; indirettamente ne ha affermato la necessità anche il Senato, quando è insorto contro la tirannide, talora dissennata, cieca, presuntuosa dalla burocrazia centrale, che ha emanato una congerie di decreti legge, che talora sembrano il parto di menti rammollite."
c) La conferma viene dal mondo della scuola.
– All'imponente ingresso della borghesia meridionale nei quadri dell'amministrazione pubblica (ma anche della magistratura e dell'esercito), si andava accompagnando, fin dall'inizio degli anni venti, una vistosa immissione nelle scuole elementari del Settentrione di maestri venuti dal Sud.
La nostra analisi parte dalla denuncia apparsa su una delle riviste scolastiche più prestigiose – ‘I Diritti della Scuola’ – che svela e spiega il modo con cui in Sicilia si approda all'abilitazione magistrale. "Sembra che laggiù le licenze (magistrali), specie quelle (rilasciate a) militari, vengano vendute ad una tariffa oscillante tra le 600 e le 1.000 lire a seconda della votazione, per modo che barbieri, calzolai e giovanotti che in altri tempi avrebbero emigrato per fare i contadini, gli spazzini e i lustrascarpe, si trovarono improvvisamente maestri elementari, senza aver avuto mai niente in comune con la pedagogia, anzi in uno stato di compassionevole semialfabetismo.
(...) Si calcola che il numero delle licenze concesse ad ex militari, che prima della guerra non avevano mai avuto a che veder con magistero, s'aggiri intorno alle diecimila".
Ma a chi rifilarli poi questi neodiplomati senza arte né parte? Naturalmente al Nord, che con l'occasionale spostamento di masse dovuto alla guerra aveva avuto modo di esser conosciuto come abitato dagli individui più creduloni di questo mondo. "Se prima nei pubblici uffici un impiegato meridionale era una mosca bianca, un maestro elementare era addirittura inconcepibile.
Dopo la guerra invece non solo nei pubblici ma pure nei privati uffici i meridionali sono entrati ovunque tronfi di titoli dal primo all'ultimo e con una voglia di lavorare assai discutibile.
E nelle scuole elementari? Non solo nelle città, e nelle classi superiori, ma in campagna e nelle prime classi, maestri e maestre della Sicilia (...) si trovavano in ogni Comune. (...) Intanto migliaia e migliaia di insegnanti del Veneto che, attraverso mille sacrifici conseguirono un modesto ma realmente meritato diploma, sono da parecchi anni in attesa del loro turno per avere un posto qualsiasi, perché prima di loro sono stati classificati molte centinaia di colleghi del mezzogiorno".
Sembra cronaca di oggi; risale invece ad oltre settanta anni fa!
"Un'altra cosa è da osservare: detti impiegati, sempre rispettando le onorevoli e numerose eccezioni, piovono qui anche con l'aria di portarci quasi il progresso, la civiltà, la provvidenza, sebbene nove volte su dieci giungano con qualche mese di ritardo per ragioni di salute".
E qui si ripete la denuncia dei certificati medici compiacenti, destinati a proliferare soprattutto prima o dopo tutte le vacanze comprese nel calendario scolastico e che costituiscono "una speculazione caratteristica di prim'ordine importataci dai nuovi elementi". Solita, patetica invocazione finale, destinata a rimanere inascoltata. "Sarebbe tempo di tener presente che, se va bene essere tutti italiani, nelle scuole elementari specialmente nel Veneto, occorrono anzitutto insegnanti veneti, nel Piemonte insegnanti piemontesi, e così di seguito". Quel tempo non è ancora venuto.
d) Due culture a confronto.Non siamo venuti meno al proposito di spiegare perché mai destò tanta meraviglia al processo di Treviso l'accenno all’‘accessorio’ dello stipendio fatto dal cav. Ernesto V. Né intendiamo lasciarci andare ad un antimeridionalismo di maniera, che immancabilmente si risolve in un esercizio verbale sterile e vano.
Solo che, per giungere a spiegare la portata dell’ “accessorio” nel pubblico impiego dovevamo per forza scendere alle radici, e queste affondano in un certo tipo di società. Si tratta della società in cui labile è il senso dello Stato e forte quello dell'individualità personale, in cui l'educazione alla scaltrezza ha la meglio sull'educazione alla legalità, in cui chi esercita il potere pubblico senza trarne un utile è considerato uno sciocco inguaribile, dove il favore personale prevale sull'imparzialità, l'amicizia sulla giustizia, il successo sulla rettitudine.
Qualcuno definisce ‘mediterraneo’ questo tipo di società, e ‘continentale’ la versione opposta.
Rispondono, ciascuno, a due mentalità antitetiche, a due diverse filosofie del vivere e dell'agire. Ritenere superiore la società continentale ed inferiore l'altra significa semplicemente porsi dal punto di vista della prima per pronunciare la condanna della seconda. É utile piuttosto prendere atto che ognuna si regge su equilibri interni propri, che conseguono a due mentalità non componibili fra loro, all'interno delle quali tutto acquista un colore ed un significato differente.
Diversa è la scala dei valori (a cominciare dallo stesso valore della vita), diversa l'etica del lavoro, diverso il modo di intendere l'istanza religiosa pur nell'apparenza al medesimo credo, diversa la concezione della giustizia, diverso il rapporto interpersonale, quello intrafamiliare, quello parentale, quello societario.
Poiché nel comportamento la comunità mediterranea mostra di conformarsi ad un codice condiviso, ancorché non scritto, preferiamo parlare di 'cultura mediterranea' in opposizione ad una ‘cultura continentale’.
Inserita in una fetta di territorio del cosiddetto mondo occidentale, la cultura mediterranea è costretta a fare i conti con le istituzioni dello stato moderno, estranee al suo modo di vedere e di sentire. Trovandosi obbligata ad accettarne la presenza, affina le sue doti di scaltrezza, enfatizzando nei loro confronti l'ossequio formale e perfezionandone nel contempo il boicottaggio.
Di qui l'inevitabile paradosso della sua burocrazia, 'continentale' nei riferimenti normativi, ‘mediterranea’ nelle traduzioni pratiche. Di qui tutto un sottile lavorio, inteso a far passare come legale ciò che invece dovrebbe essere considerato illecito, e come penalmente non perseguibile ciò che dall'opposto punto di vista appare ripugnante.
È pensando a tutto questo che ci siamo permessi di definire ingenua l'esortazione di Einaudi ed è questo, più o meno, ciò che l'on. Bergamo si sforza di far capire ai giudici durante la sua seconda deposizione al Tribunale di Treviso.
"Se il ministro (Nava) disse che i suoi funzionari erano autorizzati a prelevare, allora l'accusa contro di essi deve per forza cadere. (...) Per me la gestione Nava è incriminabile tutta o è incriminabile solamente il ministro".
O i funzionari romani hanno contravvenuto a regole riconosciute (ed allora o sono colpevoli loro o è colpevole il ministro) oppure quelle regole sono state furbescamente aggirate (ed allora è corrotto il regime).
Di cultura mediterranea è impregnata da tempo, come già abbiamo avuto modo di vedere, tutta la burocrazia centrale, e ai nostri giorni anche quella periferica ha finito con l'assorbirla in preponderante misura. È avvenuto così che la filosofia di vita condensata nella formula ‘e chi te lo fa fare?’ (con quel che ne segue) ha creato proseliti dappertutto; fu sull'onda di questo interrogativo esistenziale che “l'accessorio” fece il suo ingresso in periferia, e naturalmente anche al Nord, sotto l'aspetto dei cosiddetti “diritti casuali” di ormai lontana o defunta memoria. Nella voce `diritti casuali' rientrano tutti i balzelli impropri richiesti `apertis verbis' ai cittadini da impiegati pubblici per il rilascio dovuto di un qualsiasi documento amministrativo.
Da Presidente della Repubblica dovete occuparsene Luigi Einaudi, indirizzando un messaggio al Parlamento.
La materia era dunque diventata scottante assai oltre i termini temporali di questo lavoro, ma sviluppava premesse che erano già state poste negli anni di cui ci stiamo occupando, per cui non sarà male rifletterci un pochino sopra. Se il significato profondo della Storia consiste nel tentativo di comprendere il presente attraverso la conoscenza del passato (altrimenti la Storia si ridurrebbe a mera curiosità), ciò che vediamo accadere oggi in Italia sa moltissimo di reiterazione di quell"illecito legalizzato' che venne episodicamente a galla al processo di Treviso e naviga ora invece in superficie.