Mises sul nazionalismo, il diritto all'auto-determinazione ed il problema dell'immigrazioneLudwig von Mises
2017/04/28
http://vonmises.it/2017/04/28/mises-sul ... migrazione Nella discussione in corso sull’immigrazione, Ludwig von Mises è spesso invocato dai libertari come un sostenitore convinto del libero scambio nel senso più ampio per quello che riguarda la libera circolazione delle merci, dei capitali e del lavoro. Mises è stato anche proclamato da alcuni libertari come un fautore delle frontiere aperte. Tuttavia, le idee di Mises sulla migrazione libera del lavoro, attraverso i confini politici esistenti, erano accuratamente sfumate e improntate da considerazioni politiche basate sulla sua conoscenza diretta dei conflitti profondi e duraturi tra le nazionalità, negli Stati poliglotti dell’Europa centrale e orientale, che portarono alla Prima Guerra Mondiale e durante il successivo periodo tra le due guerre. Così Mises non ha valutato l’immigrazione in termini di posizione puramente economica, come massimizzare la produttività del lavoro umano, a prescindere dal contesto politico. Piuttosto, ha valutato gli effetti dell’immigrazione dal punto di vista del regime liberale classico della proprietà privata. Il mio scopo in questo breve saggio è di esporre le idee di Mises in materia di immigrazione come lui li ha sviluppati ed elaborati come parte integrante del programma liberale classico. Non tenterò di criticare o valutare le sue opinioni.
Il nazionalismo liberale
Per Mises, il liberalismo prima emerse e si è espresse nel XIX secolo come movimento politico, sotto forma di “nazionalismo pacifico”. I suoi due principi fondamentali erano la libertà o, più concretamente, “il diritto di autodeterminazione dei popoli” e l’unità nazionale o il “principio di nazionalità”. I due principi sono stati indissolubilmente legati. L’obiettivo primario dei movimenti nazionalisti liberali (italiani, polacchi, greci, tedeschi, serbi, etc.) è stato la liberazione dei loro popoli dal governo dispotico del re e dei principi. La rivoluzione liberale contro il dispotismo, necessariamente, assunse un carattere nazionalista per due motivi. In primo luogo, molti dei despoti reali erano stranieri, ad esempio, gli Asburgo d’Austria ed i Borboni francesi, che hanno governato gli italiani (??? anche i Savoia erano stranieri), il re di Prussia e lo zar russo che soggiogarono i polacchi. In secondo luogo, e più importante, il realismo politico dettato “dalla necessità di fissare l’alleanza degli oppressi contro l’alleanza degli oppressori, al fine di raggiungere la libertà per tutti, ma anche la necessità di tenere insieme, al fine di trovare, nell’unità, la forza di conservare la libertà”. Questa alleanza degli oppressi è stata fondata dall’unità nazionale sulla base di un linguaggio comune, la cultura ed i modi di pensare e di agire (il caso Italia è un esempio discordante, mal riuscito e male impostato).
Anche se forgiato nelle guerre di liberazione, il nazionalismo liberale era per Mises sia pacifico, sia cosmopolita. Non solo i movimenti di liberazione nazionali separati vedono l’altro come fratelli, nella loro lotta comune, contro il dispotismo reale, ma hanno abbracciato i principi del liberalismo economico “che proclama la solidarietà di interessi tra tutti i popoli”. “Mises sottolinea la compatibilità del nazionalismo, il cosmopolitismo e la pace”:
Il principio di nazionalità include solo il rifiuto di ogni sovranità; richiede l’autodeterminazione e l’ autonomia. Poi, però, il suo contenuto si espande; non solo la libertà, ma anche l’unità è la parola d’ordine. Ma anche, il desiderio di unità nazionale è soprattutto a sfondo pacifico … Il nazionalismo non si scontra con il cosmopolitismo per la nazione unificata e non vuole discordia con i popoli vicini, ma la pace e l’amicizia. (1)
Come liberale classico, Mises ha cura di specificare che il diritto di autodeterminazione non è un diritto collettivo, ma un diritto individuale: “Non è il diritto all’autodeterminazione di un’unità nazionale delimitato, ma piuttosto il diritto degli abitanti di tutti i territori di decidere lo stato a cui desiderano appartenere”. Mises rende chiaro che l’autodeterminazione è un diritto individuale che avrebbe dovuto essere concesso ad “ogni singola persona … se fosse in ogni modo possibile”. E si deve anche notare, a questo proposito, che Mises raramente parla del “diritto di secessione”, forse a causa della sua connotazione storica del diritto di un governo di unità politica subordinato a recedere da quella superiore.
Mentre difendere l’autodeterminazione come diritto individuale, Mises sostiene che la nazione ha una esistenza, fondamentale e relativamente permanente, indipendente dallo stato transitorio (o stati), che può governare in un dato momento. Così si riferisce alla nazione come “un’entità organica (che) non può essere né aumentata né diminuita dai cambiamenti negli stati”.” Di conseguenza, Mises caratterizza i “compatrioti” di un uomo come “quelli dei suoi simili con i quali condivide una terra comune, una lingua e con i quali ha spesso una forma di comunità etnica e spirituale”. Allo stesso modo, Mises cita l’autore tedesco J. Grimm (1785-1863 filosofo), che si riferisce alla “legge naturale … che né i fiumi e né le montagne formano le linee di confine dei popoli e che per un popolo che si è spostato, sulle montagne e sulle rive dei fiumi, solo la lingua può imporre un limite”. Il principio di nazionalità implica quindi che gli stati-nazione liberali possono comprendere un popolo monoglotta che abita regioni, province e perfino villaggi geograficamente non contigui. Mises sostiene che il nazionalismo è quindi una conseguenza naturale di e in completa armonia con i diritti individuali: “La formazione degli stati (liberaldemocratici) comprende tutti i membri di un gruppo nazionale ed è il risultato dell’esercizio del diritto di autodeterminazione, non il suo scopo”. (2)
Si deve qui notare che, a differenza di molti libertari moderni che vedono gli individui come esseri atomistici (concezione filosofica greca secondo cui la materia non è divisibile all’infinito … ndt) che non hanno affinità emotive e legami spirituali con altri esseri umani selezionati, Mises afferma la realtà della nazione come “un’entità organica”. Per Mises la nazione comprende gli esseri umani che capiscono e agiscono uno verso l’altro in un modo che li separa dagli altri gruppi di persone in base al senso ed al significato che i compatrioti attribuiscono a fattori oggettivi come il linguaggio condiviso, le tradizioni, la discendenza e così via. L’appartenenza a una nazione, non meno che ad una famiglia, comporta atti concreti di volontà sulla base di percezioni soggettive e preferenze rispetto ad un complesso di circostanze storiche oggettive. Concorda Murray Rothbard, che condivide la visione di Mises della realtà della nazione separata dall’apparato statale:
I libertari contemporanei spesso presumono, erroneamente, che gli individui siano legati gli uni agli altri solo dal nesso dello scambio di mercato. Ci si dimentica che tutti sono necessariamente nati in una famiglia, con una lingua ed una cultura. Ogni persona nasce in una delle diverse comunità che si sovrappongono, di solito tra un gruppo etnico, con valori specifici, culture, credenze religiose e tradizioni … La “nazione” non può essere definita con precisione; si tratta di una complessa e varia costellazione di diverse forme di comunità, lingue, etnie o religioni … La questione della nazionalità è resa più complessa dal gioco della realtà oggettivamente esistente e dalle percezioni soggettive.
Il colonialismo come la negazione del diritto di autodeterminazione
A differenza di molti liberali cinquecenteschi, tra fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, Mises è stato un appassionato anticolonialista. Come liberale radicale, ha riconosciuto l’universalità del diritto di autodeterminazione ed il principio di cittadinanza per tutti i popoli e le razze. Ha scritto accuse potenti e sferzanti contro la sottomissione europea ed il maltrattamento dei popoli africani ed asiatici e ha chiesto lo smantellamento rapido e completo dei regimi coloniali. Vale la pena citare Mises, a lungo, su questo argomento:
L’idea di base della politica coloniale è stata quella di sfruttare la superiorità militare della razza bianca sui membri di altre razze. Gli europei figurano, dotati di tutte le armi ed i dispositivi che la loro civiltà ha messo loro a disposizione, per soggiogare i popoli più deboli, per derubarli delle loro proprietà e per assoggettarli. I tentativi sono stati fatti per attenuare e sorvolare sul vero motivo della politica coloniale con la scusa che il suo unico scopo era quello di rendere possibile, per i popoli primitivi, di condividere le benedizioni della civiltà europea … Ci potrebbe essere una prova più dolente della sterilità della civiltà europea rispetto a quella che può essere diffusa da nessun altro mezzo (strumento) che non sia da fuoco e di spada?
Nessun capitolo della storia è ulteriormente ricco di sangue rispetto alla storia del colonialismo. Il sangue è stato versato inutilmente e senza senso. Terre fiorenti devastate; interi popoli distrutti e sterminati. Tutto questo non può in alcun modo essere attenuato o giustificato. Il dominio degli europei, in Africa ed in importanti parti dell’Asia, è assoluto. Si trova in maggior contrasto con tutti i principi del liberalismo e della democrazia e non ci può essere alcun dubbio che dobbiamo lottare per la sua abolizione … conquistatori europei … avere armi e portare nelle colonie macchine di distruzione di ogni tipo; rispettivamente hanno inviato i peggiori e più brutali individui, quali funzionari ed ufficiali, e puntando la spada alla loro gola hanno istituito un regime coloniale che nella sua crudeltà sanguinaria rivaleggia con il sistema dispotico dei bolscevichi. Gli europei non devono essere sorpresi se il cattivo esempio, che essi stessi hanno creato nelle loro colonie, ora porta frutti cattivi. In ogni caso, non hanno alcun diritto di lamentarsi faresaicamente (lavandosene le mani) per il basso stato di morale pubblica tra gli indigeni. Né dovrebbero essere giustificati nel sostenere che gli indigeni non sono ancora sufficientemente maturi per la libertà e hanno ancora bisogno di almeno diversi anni di ulteriore istruzione sotto la sferza di dominatori stranieri prima che siano in grado di essere lasciati a loro stessi.
Nelle zone in cui i popoli indigeni erano abbastanza forti da montare una resistenza armata al dispotismo coloniale, Mises ha sostenuto con entusiasmo ed acclamato questi movimenti di liberazione nazionale: “in Abissinia, in Messico, nel Caucaso, in Persia, in Cina, ovunque si vedeva gli aggressori imperialisti in ritirata, o almeno già in grande difficoltà”.
Per far scomparire completamente il colonialismo, Mises ha proposto l’istituzione di un protettorato temporaneo sotto l’egida della Società delle Nazioni. Ma ha messo in chiaro che un tale accordo era quello di “essere visto solo come una fase transitoria” e l’obiettivo finale doveva essere “la completa liberazione delle colonie dalla regola dispotica in cui vivevano”. Mises ha basato la sua richiesta sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e nel rispetto del principio di nazionalità tra i popoli colonizzati sulla base di diritti individuali:
Nessuno ha il diritto di intromettersi negli affari degli altri al fine di favorire il proprio interesse e nessuno dovrebbe, quando ha i propri interessi in vista, far finta di agire altruisticamente solo nell’interesse degli altri.
La ripartizione del nazionalismo liberale: la regola della maggioranza ed i conflitti della nazionalità
Questo ci porta alla intuizione fondamentale di Mises nell’inconciliabile “conflitto di nazionalità” originato da regole, anche di maggioranza, in costituzioni democratiche liberali. Come un acuto osservatore della pre e post Grande Guerra degli Stati dell’Europa centrale e orientale poliglotti, Mises ha osservato che “le lotte nazionali possono sorgere solo sul terreno della libertà”. Così come prima della guerra l’Austria si avvicinava alla libertà, “la violenza della lotta tra le nazionalità è cresciuta”. Con il crollo del vecchio stato monarchico, queste lotte sono state solo più amaramente, “trasportate nei nuovi stati, in cui la maggioranza di governo si confronta con le minoranze nazionali senza la mediazione dello stato autoritario, che mitiga con molto durezza”. Gli attributi di Mises per un esito così contro-intuitivo, lo si devono al fatto che il principio di nazionalità non è stato rispettato nella creazione di nuovi stati. Il punto di Mises è illustrato nei moderni conflitti etnici scoppiati a seguito del crollo del comunismo e la disgregazione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. (3)
Mises sostiene che due o più “nazioni” non possono coesistere pacificamente sotto un governo democratico unitario. Le minoranze nazionali, in una democrazia, sono “del tutto politicamente impotenti” perché non hanno alcuna possibilità di influenzare pacificamente il gruppo linguistico di maggioranza. Quest’ultimo rappresenta “un circolo culturale che è chiuso” a minoranze nazionali e le cui idee politiche sono “il pensiero, il parlato e lo scritto in una lingua che non capiscono”. Anche quando rappresentanza il proporzionale prevale, la minoranza nazionale “rimane ancora esclusa dalla collaborazione nella vita politica”. Secondo Mises, perché la minoranza non ha alcuna prospettiva di conseguire un giorno potere, l’attività dei suoi rappresentanti “rimane limitata dal principio alla critica inutile … quella … non può portare ad alcun obiettivo politico”. Così, conclude Mises, anche se il membro della nazione di minoranza, “secondo i dettami della legge, è un cittadino con pieni diritti … in realtà egli è politicamente senza diritti, un cittadino di seconda classe, un paria”.
Mises caratterizza la regola della maggioranza come una forma di colonialismo, dal punto di vista delle minoranze della nazione in un territorio poliglotta: “(Il) che significa qualcosa di molto diverso in un uniforme livello nazionale territoriale; qui, per una parte del popolo, non si tratta di una regola popolare, ma di una regola straniera”. Il nazionalismo liberale tranquillo, quindi è inevitabilmente soffocato nei territori poliglotti, governati da uno stato unitario, perché, sostiene Mises, “la democrazia sembra come un’oppressione alla minoranza. Dove solo la scelta è aperta a se stessi per sopprimere o essere soppresso, si decide facilmente per il precedente”.
Così, per Mises, democrazia significa la stessa cosa per la minoranza come “sottomissione al dominio degli altri”, e questo “vale ovunque e, finora, per tutte le volte”. Mises respinge “spesso il citato contro-esempio della Svizzera come irrilevante, perché l’autogoverno locale non è stato disturbato da “migrazioni interne” tra le diverse nazionalità. La migrazione significativa era fondata dalla presenza sostanziale di minoranze nazionali in alcuni dei Cantoni: “la pace nazionale della Svizzera sarebbe già scomparsa molto tempo fa”.
Pertanto, per quanto riguarda le regioni abitate da diverse nazionalità Mises conclude che “il diritto di autodeterminazione va a vantaggio solo di coloro che compongono la maggioranza”. Questo è particolarmente vero, ad esempio, negli stati interventisti dove l’istruzione è obbligatoria ed “i popoli che parlano lingue diverse convivono insieme, a fianco a fianco, e mescolati in confusione poliglotta”. In queste condizioni, l’istruzione formale è una fonte di “costrizione spirituale” ed “uno dei mezzi di nazionalità che opprimono”. La stessa scelta della lingua di insegnamento è in grado di “alienare i bambini dalla nazionalità a cui i loro genitori appartengono” e “nel corso degli anni, determinare la nazionalità di un’intera area”. La scuola diventa così fonte di conflitti nazionali inconciliabili ed “un premio politico della massima importanza”. Per quanto riguarda il dibattito, oltre l’istruzione obbligatoria, Mises sottolinea che l’unica soluzione efficace è quella di depoliticizzare la scolarizzazione
abolendo entrambe le leggi sull’istruzione obbligatoria ed il coinvolgimento politico con le scuole, lasciando l’educazione dei bambini “per tutto ai genitori, alle associazioni ed alle istituzioni private”.
L’istruzione obbligatoria è solo un esempio estremo di come l’interventismo aggravi l’inevitabile conflitto tra le diverse nazionalità che vivono insieme sotto la giurisdizione di un singolo stato. In una tale situazione, Mises argomenta: “Ogni interferenza da parte del governo nella vita economica può diventare un mezzo per perseguitare i membri della cittadinanza a parlare una lingua diversa da quella del gruppo dirigente”. Forse l’intuizione più importante di Mises è che anche nell’ambito di un sistema di laissez-faire, in cui il governo è rigorosamente limitato a “proteggere ed a preservare la vita, la libertà, la proprietà e la salute del singolo cittadino”, l’arena politica farà ancora più degenerare in un campo di battaglia le cittadinanze più disparate che risiedono nell’ambito della sua giurisdizione territoriale. Anche le attività di routine della polizia ed il sistema giudiziario in questo regime liberale ideale “possono diventare pericolose in aree in cui alla base tutto può essere trovato per discriminare tra un gruppo o l’altro nella conduzione degli affari ufficiali”. (4) Ciò è particolarmente vero in cui “le differenze di religione, di nazionalità o simili hanno diviso la popolazione in gruppi separati da un abisso così profondo da escludere ogni impulso di equità o umanità e di lasciare spazio a nient’altro che all’odio”. Mises fa l’esempio di un giudice “che agisce consapevolmente, o ancora più spesso inconsciamente, in modo parziale” perché crede che: “Egli sta compiendo un dovere più alto quando si fa uso dei poteri e delle prerogative del suo ufficio, al servizio del suo gruppo.”
Non solo è il membro di una minoranza nazionale sottoposta a pregiudizi radicati e di routine nella sfera politica, egli non è in grado di cogliere il pensiero e l’ideologia che forma gli affari politici. La sua visione del mondo sociale e politico, così come i suoi atteggiamenti culturali e religiosi, riflettono le idee formulate e discusse nella letteratura nazionale di una lingua straniera e queste idee divergono, forse radicalmente, da quelle del gruppo linguistico di maggioranza. Secondo Mises, anche se le idee politiche e culturali vengono trasmesse e condivise tra tutte le nazioni, “ogni nazione sviluppa correnti di idee a suo proprio modo e le assimila in una modalità diversa. Questo in ogni popolo che incontrano con un altro carattere nazionale e con un altro insieme di condizioni”. Mises dà l’esempio di come l’ideale politico del socialismo differiva tra la Germania e la Francia e tra questi ultimi due e la Russia.
Il risultato di questa “nazionalizzazione” naturale, per differenziare anche da idee simili, da tendenze intellettuali è che il membro della nazione di minoranza si confronta con una barriera linguistica e intellettuale che gli impedisce di capire il significato e di partecipare alla discussione politica che plasma le leggi in cui vive. Mises spiega:
Generato nella forma di legge statuto, l’esito delle discussioni politiche (della maggioranza) acquista un significato diretto per il cittadino che parla una lingua straniera, dal momento che deve rispettare la legge; tuttavia ha la sensazione che è escluso dalla partecipazione effettiva nel plasmare la volontà del legislatore o almeno che non gli è permesso di collaborare per dare forma nella stessa misura di quelli la cui lingua madre è quella della maggioranza di governo. E, quando compare, davanti ad un magistrato o ad un funzionario amministrativo come parte in causa o per un ricorso, egli si trova davanti agli uomini il cui pensiero politico è a lui estraneo perché si è sviluppato in diverse influenze ideologiche … In ogni momento il membro di una minoranza nazionale si fa sentire che vive tra stranieri e che egli lo è, anche se la parola della legge lo nega, è un cittadino di seconda classe.
Il risultato della impotenza politica della minoranza cittadina, in una democrazia maggioritaria, è che si percepisce essere un popolo conquistato o colonizzato. Infatti, come fa notare Mises: “La situazione di dover appartenere ad uno stato in cui non si vuole appartenere non è meno oneroso se è il risultato di un’elezione che uno deve sopportare come la conseguenza di una conquista militare …” Nel 1920 Mises aveva già identificato il fenomeno di quella che oggi viene erroneamente chiamato “razzismo istituzionale” – perché il problema non è con tutte le istituzioni, dei soli politici – ma è meglio descritta come “sottomissione democratica” Nel 1960, Malcolm X (1925-1965 attivista diritti degli afroamericani e dei diritti in generale ndt), (1963) ha dato un’espressione pregnante al desiderio di autodeterminazione da parte della minoranza di nazionalità africana negli Stati Uniti, gravato da uno stato interventista controllato da popolazioni di estrazione Europea:
Questo nuovo tipo di uomo nero non vuole l’integrazione; vuole la separazione. Né la segregazione, né la separazione. Per lui, la segregazione … significa che viene imposto agli inferiori dai superiori … Nella comunità bianca, l’uomo bianco controlla l’economia, la sua economia, le sue politiche, il suo tutto. Ecco la sua comunità. Ma allo stesso tempo, mentre il negro ancora vive in una comunità a parte, si tratta di una comunità segregata. Significa che è tutto regolato dall’esterno da parte di estranei. L’uomo bianco ha tutte le imprese della comunità negra. Gestisce la politica della comunità negra. Egli controlla tutte le organizzazioni civiche nella comunità negra. Questa è una comunità segregata … Non ci piace la segregazione. Noi siamo per la separazione. La separazione è ciò che vogliamo. È possibile controllare la propria economia, è possibile controllare le proprie politiche, è possibile controllare la propria società, è possibile controllare il proprio tutto. Voi avete la vostra e controllate la vostra, noi abbiamo la nostra e controlliamo la nostra.
Nell’analizzare le cause e le soluzioni dei conflitti di cittadinanza, Mises ha coniato il termine “militante” o il nazionalismo “aggressivo”, in contrasto con “liberale” o “pacifico” nazionalismo. Così per Mises, la scelta non è mai stata tra nazionalismo e un blando atomistico (frammentario, disorganico) “globalismo”; la vera scelta era o il nazionalismo, che era cosmopolita e ha abbracciato i diritti individuali universali ed il libero scambio o l’intento nazionalismo militante soggiogando e opprimendo altre nazioni. Ha attribuito l’ascesa del nazionalismo anti-liberale alla mancata applicazione del diritto di autodeterminazione e del principio di nazionalità coerente e al massimo grado possibile la formazione di nuove entità politiche sulla scia del rovesciamento del dispotismo reale di guerra o di rivoluzione. La conseguenza fu che i popoli si differenziarono per lingua, tradizione, religione, ecc. artificialmente e legati, involontariamente, da dispotici legami politici. L’inevitabile risultato di questi poliglotti, misti stati nazionali fu la soppressione delle minoranze da parte della cittadinanza maggioritaria, una lotta amara per il controllo dell’apparato statale e per la creazione di una reciproca e profonda diffidenza e di odio. (5) Questo stato di cose è spesso culminato nella violenza fisica omologato dallo stato, tra cui l’espropriazione e l’espulsione ed anche l’assassinio di popolazioni minoritarie.
Libertà di movimento contro il diritto di auto-determinazione dei popoli
Mises sostiene che tutto questo si sarebbe potuto evitare solo se il completo programma liberale che comprende, oltre a una politica economica di prodotti interni, il laissez-faire e del libero scambio internazionale di beni, il diritto fondamentale di autodeterminazione ed il principio di nazionalità a cui essa dà luogo. Mises non usa mezzi termini nel descrivere la situazione delle minoranze in un sistema illiberale, interventista:
Se il governo di questi territori (abitati da membri di diverse nazionalità) non è condotto lungo linee completamente liberali, non c’è alcun dubbio anche di un approccio alla parità di diritti nel trattamento dei membri dei vari gruppi nazionali. Ci possono essere, quindi solo i governanti e quelli governati. L’unica opzione è chi sarà il martello e chi l’incudine.
Mises, tuttavia, va oltre e sostiene che anche la fine dell’interventismo non risolve il conflitto di cittadinanza. Quasi da solo, tra i liberali classici della sua epoca ed i moderni libertari, Mises riconosce chiaramente che il capitalismo del laissez-faire e del libero scambio sono necessari ma non sufficienti a garantire la pace tra i diversi gruppi di individui costretti a vivere sotto un sistema politico unitario che volontariamente e naturalmente per auto-riconoscere i popoli o le nazioni diversi, in base alla lingua, ai costumi ed alle tradizioni condivise, quali la religione, il patrimonio o di qualsiasi altro fattore oggettivo è soggettivamente significativo per loro. Secondo Mises sugli stati:
Tutti questi svantaggi (vissuti dalle minoranze) si fanno sentire in modo molto opprimente, anche in uno stato con una costituzione liberale in cui l’attività del governo è limitata alla tutela della vita e del bene dei cittadini. Ma diventano intollerabili in uno stato interventista o socialista.
Per Mises il meglio che si può dire di un governo, le cui funzioni sono strettamente limitate alla tutela della persona e della proprietà e all’adempimento degli impegni è di non “aggravare artificialmente l’attrito che deriva da questa convivenza di gruppi diversi.”
Mises difende il completo programma liberale – il laissez-faire dei principi di nazionalità – contro coloro che banalmente attribuiscono gli “antagonismi violenti” tra le nazioni che abitano una singola giurisdizione politica ad una “innata antipatia” tra popoli di differenti nazionalità. Al contrario, sostiene Mises, nonostante gli odi che possono esistere in natura tra i vari gruppi di persone della stessa nazionalità, sono in grado di andare d’accordo pacificamente quando si vive sotto la giurisdizione dello stesso stato, mentre le diverse nazionalità che vengono forzatamente legate insieme, sotto accordi politici comuni, sono in costante conflitto:
Il Bavarese odia il Prussiano; Prussiano, il Bavarese. Non meno feroce è l’odio che esistente tra i gruppi individuali all’interno sia in Francia e sia in Polonia. Tuttavia, i tedeschi, i polacchi ed i francesi riescono a vivere in pace all’interno dei propri paesi. Ciò che dà l’antipatia del polacco per il tedesco e del tedesco per il polacco è uno speciale significato politico, l’aspirazione di ciascuno dei due popoli di prendere per sé il controllo politico delle aree di confine in cui i tedeschi ed i polacchi vivono fianco a fianco e usarlo per opprimere i membri dell’altra nazionalità. Ciò che ha acceso l’odio tra le nazioni, il fuoco che consuma, è il fatto che la gente vuole usare le scuole per allontanare i bambini dalla lingua dei loro padri e fare uso dei tribunali, degli uffici amministrativi, delle misure “politiche ed economiche ed espropriarli a titolo definitivo per perseguitare coloro che parlano una lingua straniera.
Quindi non sono le antipatie naturali fra i popoli – che possono o non possono esistere – ma la causa dei conflitti nazionali è la negazione politica del diritto di autodeterminazione. In tale ottica, Mises emette un terribile e, a ben vedere, avvertimento profetico: “Finché il programma liberale non è completamente realizzato nei territori di nazionalità mista, l’odio tra i membri di diverse nazioni diventa sempre più agguerrito e continua ad accendere nuove guerre e ribellioni”. Questo è certamente vero del mondo di oggi, soprattutto in Asia e Africa, dove gli imperialisti europei ed i colonialisti perseguitano le diverse “Nazioni” (tribù, capitanati, gruppi linguistici, etnie, religioni) politicamente unite, ma profondamente disfunzionali. La maggior parte delle quaranta guerre attualmente in corso, condotte su questi continenti, sono “intra-statali” o guerre civili e, di queste, la maggior parte sono “alimentate tanto dalla animosità razziale, etnica o religiosa, quanto dal fervore”. Alla loro radice si trovano i tentativi dei gruppi di minoranza di resistere o di far terminare l’oppressione della maggioranza prendendo l’apparato statale esistente, separandosi con uno stato a parte, o con la creazione di uno stato completamente nuovo, per esempio, l’ISIL (Stato Islamico).
Questo ci porta alla annosa questione dell’immigrazione. Mises respinge sommariamente le argomentazioni puramente economiche contro l’immigrazione gratuita e fallace. Egli sottolinea che, dal punto di vista globale, la migrazione aumenta la produttività del lavoro umano, la fornitura di beni e gli standard di vita, perché facilita la ridistribuzione del lavoro (e del capitale) da regioni con condizioni naturali meno vantaggiose nella produzione a quelle con condizioni naturali più vantaggiose. Le barriere alla migrazione di manodopera, pertanto causano una cattiva allocazione del lavoro e la sua geografica mal-distribuita, con un eccesso di offerta relativa in alcune aree ed una penuria in altri settori. Gli effetti alle barriere di migrazione sono, quindi, esattamente come gli effetti delle tariffe ed altre barriere al commercio internazionale di merci: perché la riduzione di efficienza produttiva e di reddito e le opportunità relativamente sfavorevoli per la produzione, sono sfruttate in alcune regioni, mentre le opportunità, relativamente favorevoli, rimangono inutilizzate in altre.
Anche se Mises sostiene che la libera circolazione delle merci, dei capitali e del lavoro tende a massimizzare la produttività del lavoro e della produzione totale dei beni e dei servizi, non prevede questo come obiettivo finale del liberalismo. Come Mises argomenta, in un altro contesto, è stato un errore credere “che l’essenza di programmi liberali non sia proprietà privata, ma “libera concorrenza (cioè, libera dal “potere economico” delle grandi imprese)”. Lo stesso vale anche al momento di valutare la desiderabilità sociale della migrazione di manodopera: lo standard di benessere per Mises ed i liberali classici non è l’“economicistico”, gli obiettivi della scuola di Chicago dell’efficienza produttiva e la massima produttività del lavoro misurato in termini pecuniari, ma la garanzia di un completo regime di proprietà privata. Perché è il funzionamento del mercato, senza ostacoli, basato sulla proprietà privata che meglio questo è il fine ultimo di ogni attività economica. Nella sua analisi brillante ma trascurata del mercato del lavoro nel suo trattato economico, Human Action, Mises fa notare che anche la migrazione, completamente senza ostacoli del lavoro attraverso i confini politici, non porta alla massima produttività del lavoro ed alla distribuzione del lavoro che rende uguali il valore dei salariali dello stesso tipo e qualità di lavoro dei servizi in tutta l’economia globale. La ragione?
Il lavoratore ed il consumatore sono la stessa persona … Gli uomini non possono scindere le loro decisioni riguardanti l’utilizzazione del loro potere di lavorare da quelle relative al godimento dei loro guadagni. La discendenza, la lingua, l’istruzione, la religione, la mentalità, i legami familiari e l’ambiente sociale legano il lavoratore in modo tale che egli non sceglie il luogo ed il ramo del suo lavoro solo per quanto riguarda l’entità dei salariali. …
Mises, nel discutere la migrazione della manodopera sposta, quindi l’attenzione dalla astrazione analitica del “lavoratore” nel cercare i salari più alti, in accordo con le sue preferenze di piacere del vero attore umano, dimostrando preferenze attraverso una vasta gamma di obiettivi che includono beni non scambiabili, come vicinanza e l’associazione con i membri della stessa famiglia, l’appartenenza religiosa, l’etnia o gruppo linguistico. Di conseguenza, Mises, riconosce esplicitamente che una volta che le ipotesi obsolete alla base della dottrina di libero scambio, avanzate da Ricardo ( David 1772-1823 economista) e dagli economisti classici, vengono eliminate e sono considerate la mobilità internazionale dei capitali e del lavoro, nonché le merci, la tesi del libero scambio, mentre resta valido “dal punto di vista puramente economico … presenta un punto di partenza molto cambiato per testare le ragioni extra-economiche a favore o contro il sistema di protezione”. Mises riassume così l’analisi delle migrazioni, oltre la materia delle considerazioni strettamente economiche e lo porta in contatto con la realtà politica concreta della democratica mescolanza Stato-nazione e della sua caratteristica repressione e violazione dei diritti di proprietà sulle minoranze nazionali da parte dei cittadini di maggioranza.
Questa analisi porta Mises a visualizzare l’“immigrazione” di massa, che è migrazione di lavoro attraverso i confini di stato, anche quando si verifica per ragioni puramente economiche, come comportanti l’inerente problema. Mises sostiene che la creazione della mescolanza Stato-nazione, derivante dalla immigrazione di lavoratori di nazionalità straniera, “fa sorgere ancora una volta tutti quei conflitti che in genere si sviluppano nei territori poliglotti” ed “in particolare i conflitti caratteristici tra i popoli”. Mises fa riconoscere che la pacifica assimilazione culturale e la politica può avvenire “se gli immigrati non arrivano tutti in una volta, ma a poco a poco, in modo che il processo di assimilazione tra i primi immigrati sia già stata completata o almeno già in corso, quando i nuovi arrivati giungono”. Egli cita l’esempio dell’immigrazione cinese negli Stati Uniti nel XIX secolo, che si è verificata in un modo suscettibile di assimilazione. Osserva Mises: che “forse” i cinesi hanno “ottenuto il riconoscimento nella loro nuova casa. … negli stati occidentali dell’Unione se la legislazione non avesse limitato la loro immigrazione nel tempo”. Ma questa è strettamente una dichiarazione positiva e Mises non opera alcuna delle implicazioni politiche da esso.
In effetti, Mises espone argomenti economici per limitare l’immigrazione protezionistica proposta dai sindacati relativamente ai paesi ad alto costo del lavoro, come gli Stati Uniti e l’Australia, in modo autoreferenziale trasparente e dannoso per gli interessi economici dei loro connazionali, nonché in contrasto con gli insegnamenti profondi della teoria economica. Mises prende un tono più misurato quando considera l’argomento extra-economico in favore della restrizione dell’immigrazione che è maliziosamente ricorsa a dai protezionisti come una posizione di ripiego. Secondo quest’ultimo argomento, in assenza di barriere all’immigrazione, “orde di immigrati” non-anglofoni europei e di nazionalità asiatiche potrebbero “inondare l’Australia e l’America”. Perché questi immigrati sarebbero arrivati rapidamente ed in gran numero, l’argomento asserisce, che non potevano essere assimilati e che gli anglosassoni, nei paesi di accoglienza, si troverebbero in minoranza ed il loro “dominio esclusivo … sarebbe stato distrutto”.
Nel valutare questo argomento, Mises sottolinea i problemi politici che sorgerebbero in una nazione-stato mista, creata durante la notte per l’immigrazione di massa:
Forse, questi timori possono essere esagerati per quanto riguarda gli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Australia, certamente non lo sono … Se l’Australia è spalancata all’immigrazione, si può desumere, con grande probabilità. che la sua popolazione sarebbe in pochi anni composta da giapponesi, cinesi e malesi … Tuttavia l’intera nazione (non solo i lavoratori) è unanime nel timore di invasione da stranieri. Gli attuali abitanti di quelle terre privilegiate (Stati Uniti e Australia) temono che un giorno potrebbero essere ridotti ad una minoranza nel loro stesso paese e che dovrebbero poi subire tutti gli orrori della persecuzione nazionale come, per esempio, i tedeschi di oggi (1927) sono esposti con la Cecoslovacchia, l’Italia e la Polonia.
Mentre Mises non prende una posizione esplicita circa l’opportunità di una politica di controllo dei flussi dell’immigrazione di massa, che è indotta da opportunità economiche, riconosce che “queste paure” della cittadinanze, che abitano il paese ricevente, “siano giustificate”, soprattutto in un mondo di stati interventisti. Mises, che per molti anni ha osservato in prima persona i maltrattamenti eclatanti delle minoranze nazionali in Europa centrale ed orientale, esprime vividamente la base della paura per la maggior parte della nazione di essere trasformata in una minoranza nazionale.
Fino a quando allo Stato sono attribuiti i vasti poteri che esso ha oggi e che l’opinione pubblica considera un suo diritto, il pensiero di dover vivere in uno stato il cui governo è nelle mani di membri di una nazionalità straniera è effettivamente terrificante. E’ spaventoso vivere in uno stato in cui ad ogni passo si è esposti a persecuzioni, mascherate dall’apparenza di giustizia da una maggioranza di governo. E’ terribile essere portatori di handicap, come un bambino a scuola, a causa della propria nazionalità e di essere dalla parte del torto ancor prima davanti all’autorità giudiziaria ed amministrativa, perché si appartiene ad una minoranza nazionale.
Così, Mises vede l’immigrazione, come sempre e ovunque, un “problema” a cui “non c’è soluzione”, a patto che i regimi politici interventisti siano nella consuetudine. Solo quando il passaggio dei confini di uno Stato, da parte dei membri di una nazione diversa presagisce i pericoli politici per la nazionalità indigena e vedrà il “problema dell’immigrazione” scomparire ed essere sostituita da migrazione benigna del lavoro che crea vantaggi economici purissimi e reciproci per tutti gli individui ed i popoli. Dal punto di vista di Mises, quindi, la soluzione al problema dell’immigrazione è di non legiferare qualcosa di vago, ma proprio ad hoc per la “libertà di movimento” tra i confini esistenti. Meglio è quello di completare la rivoluzione liberale del laissez-faire e garantire i diritti di proprietà privata, prevedendo la ridefinizione continua dei confini di stato in conformità con il diritto di autodeterminazione ed il principio di nazionalità. Poi – e solo allora – la riallocazione può continuare creando la ricchezza del lavoro in tutto il mondo, richiesto da un’economia capitalista dinamica ed essere tranquillamente sistemati senza precipitare in un conflitto politico.
Conclusione
Mises era un nazionalista, liberale radicale e cosmopolita, il cui obiettivo generale era quello di promuovere le politiche che hanno facilitato l’estensione pacifica della divisione sociale del lavoro, fondata sulla proprietà privata, a tutti gli individui e alle nazioni. Ha riconosciuto la realtà di nazioni separate e la sua significatività per l’analisi politica ed economica. Egli ha riconosciuto che i confini politici non si sono formati in base al principio di nazionalità ed erano un impedimento insormontabile alla realizzazione più completa del concetto di libero scambio ed una importante fonte di conflitti nazionali come il protezionismo che ha distrutto ricchezza. In particolare, Mises, si rese conto che “l’immigrazione” non era la soluzione al problema della distribuzione spaziale antieconomica del lavoro, ma la causa del problema. Il problema dell’immigrazione sarebbe stato risolto solo con la consumazione della rivoluzione liberale classica nel riconoscimento universale del diritto di autodeterminazione. Allora il problema ed – il vero fenomeno – di im-migrazione presto scomparirebbe, come i confini degli Stati sposterebbe la migrazione dei popoli e delle nazioni.
Ulteriori letture
Mises, Ludwig von. 1983. Nation, State, and Economy: Contributions to the Politics and History of Our Time. Trans. Leland B. Yeager. New York: New York University Press.
1985. Liberalism in the Classical Tradition. Trans. Ralph Raico. 3rd ed. Irvington-on-Hudson, NY and San Fancisco: The Foundation for Economic Education, Inc. and Cobden Press (co-publishers)
1996. Critique of Interventionism. Trans. Hans F. Sennholz. 2nd ed. Irvington-on-Hudson, NY: The Foundation for Economic Education, Inc.
1998. Human Action: A Treatise on Economics. Scholar’s Edition. Auburn, AL: The Ludwig von Mises Institute.
Rothbard, Murray N. 1993. “Hands Off the Serbs.” RRR: Rothbard-Rockwell Report. Pp. 1-5.
1994. “Nations by Consent: Decomposing the Nation-State.” Journal of Libertarian Studies 11:1 (Fall): 1-10.
Mises (. 1983, pag 34) dà l’esempio affascinante dei nazionalisti italiani che gridarono ai soldati imperiali austriaci: “Tornate indietro, attraversate le Alpi e diventeremo ancora fratelli”.
2. Tuttavia, Mises (1983, p. 37), ammette che in rari casi, “dove la libertà e l’auto- governo già prevalgono e sembrano fiduciosi senza di essa”, come la Svizzera, il diritto all’autodeterminazione non può comportare uno stato nazionale a livello unitario.
3. Sui conflitti etnico-religiosi nella ex Jugoslavia vedi Rothbard (1993; 1994).
4.Rothbard (1994, pp. 5-6) lo rende un punto simile sugli inevitabili conflitti politici che sorgono in una situazione dove diverse nazionalità sono legate insieme sotto la giurisdizione di un unico governo liberale del laissez-faire: “ma anche sotto un piccolissimo stato, i confini nazionali potrebbero ancora fare la differenza, spesso grande, per gli abitanti della zona. Per la cui lingua… ci saranno nella zona: cartelli stradali, elenchi telefonici, procedimenti giudiziari o classi scolastiche?
5.Un termine più eufonico di “mescolanza di stati-nazione”, per queste entità politiche, sarebbe “stati multinazionali”, ma data la sua attuale connotazione, quest’ultimo termine è probabile che sia fuorviante.