Seconda parte
La terza linea rossa di Israele era il fuoco nemico verso il territorio nazionale: Israele, se minacciato, avrebbe risposto, indipendentemente dal responsabile o dall’intenzione. Fino al settembre del 2016, la politica di Israele era quella di reagire contro il regime nel caso che vi fossero stati degli attacchi diretti contro la sua sovranità nazionale. Ma quando i ribelli, sotto pressione, hanno iniziato a sparare contro Israele per provocare una risposta, Israele ha iniziato a rispondere con le armi.
La quarta line rossa non fu mai annunciata come tale. A metà del 2015, quando una coalizione di ribelli siriani si mosse verso Sweida e Jabal Druze sul confine sud-occidentale con la Giordania, e Jabhat al-Nusra, poi affiliata siriana di al-Qaeda, si spostò verso nord da Quneitra, Israele ha messo in guardia i ribelli siriani dall’attaccare la popolazione drusa della zona, in particolare nel villaggio di Hader, vicino alla linea di armistizio. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu annunciò di aver incaricato l’esercito di prendere tutte le misure necessarie per proteggere i residenti del villaggio. Questa linea rossa di fatto non ha mai raggiunto lo stesso grado di prominenza delle altre perché il rischio di ritorsioni sulla popolazione drusa del villaggio svanì rapidamente, emergendo nuovamente soltanto nel novembre del 2017. La leadership politica di Israele si è sentita costretta ad impegnarsi in questa azione data la forte pressione della propria popolazione drusa, che presta servizio nell’esercito israeliano ed è legata alla popolazione ebraica di Israele da quello che chiamano un “patto di sangue”; per questo, molti drusi israeliani ne rivendicano l’estensione anche alla difesa dei loro parenti in Siria.
Israele ha usato anche il soft power per proteggere il suo confine. Dal 2013 ha fornito aiuti- cibo, vestiti, coperte, assistenza medica per adulti e bambini- per i residenti della stretta fascia di territorio all’interno della Siria, a est del Golan occupato da Israele. Il territorio siriano che confina con la linea di armistizio è controllata da diversi gruppi e alleanze:Jaysh Khalid bin al-Walid (formerly Katibat Shuhada al-Yarmouk, the Yarmouk Jaysh Khalid bin al-Walid (precedentemente Katibat Shuhada al-Yarmouk,Martyrs’ Brigade), an ISIS affiliate, in the southern part of Quneitra governorate; Brigata dei martiri), un’affiliata dell’ISIS, nella parte meridionale del governatorato di Quneitra;Jabhat al-Nusra (now part of Hei’at Tahrir al-Sham and formerly al-Qaeda’s Syrian Jabhat al-Nusra (ora parte di Hei’at Tahrir al-Sham e precedentemente affiliato siriano di al-Qaeda)affiliate) and other opposition forces, along the central stretch of the armistice line e altre forze di opposizione, lungo il tratto centrale della linea di armistizio(including the town of Quneitra); (compresa la città di Quneitra); il regime e gli Hezbollah.
Israele ha focalizzato la fornitura di aiuti nelle vicinanze di Quneitra per minimizzare i benefici per Jaysh Khalid e Hezbollah. Alcuni nativi rimangono in questa zona centrale, oltre a centinaia di migliaia di sfollati interni, in particolare da Daraa e Damasco, arrivati in numero particolarmente elevato nel 2014 (e più recentemente a fine giugno del 2017) quando i combattimenti si intensificarono a Daraa. Migliaia di sfollati si sono trasferiti nei campi adiacenti alla linea del cessate il fuoco siro-israeliana, per lo più all’interno della zona cuscinetto, ritenendo che l’ONU e la vicinanza di Israele avrebbero garantito un minimo di protezione.
Israele ha inviato aiuti umanitari, compreso un ospedale da campo, ai profughi. Alcuni aiuti (ad esempio farina per i panifici e materiale scolastico) hanno sostenuto delle comunità, dissuadendo i combattenti dallo sparare contro lo Stato ebraico e migliorando l’opinione pubblica locale nei confronti di Israele. Gli ufficiali israeliano hanno sempre negato con veemenza che lo Stato ebraico avesse fornito aiuto a gruppi jihadisti come l’ISIS e al-Qaeda.
Israele ha adottato una posizione più assertiva alla fine del 2012, quando gli Hezbollah si sono schierati in Siria, e in particolare dal maggio del 2013, dopo che il gruppo sciita aveva vinto una battaglia chiave a al-Qusayr, un villaggio vicino al confine libanese che è strategicamente posizionato accanto all’autostrada che unisce Damasco a Homs e alla costa siriana. L’entrata di Hezbollah nel conflitto ha esteso la decennale battaglia di Israele contro il gruppo nel territorio siriano ed ha comportato l’interconnessione di tre conflitti finora separati: tra Israele e Siria, tra Israele e Hezbollah, e tra le varie parti coinvolte nella guerra civile siriana.
In Siria, combattendo per l’esistenza del regime, Hezbollah ha avuto un accesso più facile alle armi, compresi missili di maggior portata, potenza e precisione. Di conseguenza, è migliorato il suo arsenale al punto che il concetto di Israele su ciò che costituisce “un cambio di gioco”, le armi- del tipo che Israele ha tentato di bloccare- è cambiato. Israele ha rinunciato, in gran parte, a interdire i missili a lungo raggio, detenuti in gran numero da Hezbollah, e si è impegnato a impedire l’acquisizione di armi di precisione da parte del gruppo, che consentirebbero a Hezbollah di attaccare i siti più sensibili di Israele, come il centro di Tel Aviv, l’aeroporto Ben Gurion e gli impianti di estrazione e produzione del gas. Gli ufficiali israeliani sono convinti che la prossima guerra con Hezbollah esigerà un pesante tributo sul fronte interno, per questa ragione Israele difende con vigore la sua nuova “linea rossa”. Dall’incursione del 30 gennaio del 2013, la prima volta in cinque anni che l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco in Siria, lo Stato ebraico ha lanciato quasi 100 attacchi aerei.
Lo spiegamento di Hezbollah in Siria ha anche creato la possibilità che ad un certo punto le sue forze si spostassero a sud. Quando queste forze hanno fatto proprio questo in coordinamento con il regime nel febbraio-marzo del 2015, sei mesi prima dell’intervento militare della Russia, Israele ha deciso di impedire ad Hezbollah e alle altre milizie filo-siriane di conquistare del territorio nelle vicinanze della linea di armistizio Israele-Siria, per il timore che scavassero dei bunker o erigessero delle batterie missilistiche. Il piano dello Stato ebraico, nel caso che la campagna del regime siriano avesse avuto successo, era quello di creare una no-fly zone o una zona cuscinetto di 20 km all’interno della Siria. Un ufficiale israeliano ha spiegato che il non attuare una simile operazione avrebbe danneggiato gravemente la posizione strategica di Israele, conducendolo in una guerra non voluta. Ma quando i ribelli hanno contrattaccato e spinto verso nord nell’aprile del 2015, i piani che Israele aveva progettato non erano più necessari.
I ribelli siriani hanno conquistato quasi tutto il governatorato di Idlib nella prima metà del 2015 e minacciavano di avanzare verso Lattakia e verso sud attraverso la pianura di Ghab per collegarsi con le aree dei ribelli della campagna di Hama e Homs. Giudicata la situazione critica, il regime siriano e il suo alleato iraniano hanno cercato e ricevuto aiuti militari da Mosca a luglio. Per facilitare il suo dispiegamento, la Russia ha costruito una base aerea a Hmeimin, a sud-est di Lattakia, sul Mediterraneo. Le forze russe includevano carri armati T-90, artiglieria, navi da guerra, consiglieri militari e forze speciali. Il mese successivo, Mosca ha iniziato a spostare le forze verso Lattakia ed ha istituito una sala operativa congiunta con Iran, Iraq e Siria, a cui si sarebbe presto unito Hezbollah, con l’obiettivo apparente di combattere l’ISIS. Il 30 settembre, la Camera Alta della Duma, il parlamento russo, ha autorizzato le operazioni militari in Siria; i primi attacchi aerei si sono verificati poche ore dopo il voto.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è volato a Mosca il 21 settembre, alcuni giorni prima dell’intervento russo, per stabilire un coordinamento israelo-russo e, successivamente, un meccanismo di accordo per prevenire gli incidenti. Questo meccanismo comprendeva una hot line tra il quartiere generale delle Forze di Difesa di Israele a Tel Aviv e la base aerea russa di Hmeimim, una diretta comunicazione tra i vice capi dello staff russo e israeliano e consultazioni regolari ai più alti livelli dei rispettivi apparati di difesa. La hot line ha dimostrato la sua importanza quasi immediatamente, infatti, a fine novembre del 2015, Israele ha evitato di sparare ad un aereo russo che sorvolava il Golan.
L’intervento della Russia ha spostato presto la guerra a favore di Assad, fermando il movimento dei ribelli. Alla fine del 2016, divenne sempre più chiaro che il regime siriano non sarebbe stato sconfitto e che, al contrario, avrebbe continuato a cercare di riprendersi il controllo di tutta la Siria. Il successo dell’intervento russo ha deluso le aspettative degli ufficiali israeliani (aspettative già deboli durante il mandato dell’amministrazione Obama) che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato maggiormente i ribelli per controbilanciare il sostegno russo al regime.
Oltre che cambiare il corso della guerra, l’intervento russo ha introdotto quattro dilemmi strategici per Israele e ne ha limitato le opzioni per affrontarli: 1). Ha permesso ad Hezbollah e all’Iran, i nemici più potenti di Israele, di espandere le loro aree di operazione e avanzare fino alla linea di armistizio. Era stata la Russia a permettere la riconquista del sud della Siria da parte del regime di Assad, ma il risultato era il medesimo: Hezbollah e le forze iraniane avrebbero raggiunto le Alture del Golan e vi avrebbero costruito delle infrastrutture offensive. 2). Ha limitato la libertà di manovra militare di Israele. Dopo che la Turchia, nel novembre del 2015, aveva abbattuto un aereo militare russo accusato di aver violato il suo spazio aereo, la Russia ha schierato i sistemi di difesa aerea S-300 e S-400 in Siria. Israele può contrastare il primo; il secondo, gestito solo da personale russo, rappresenta una sfida maggiore. La Russia ha aumentato le sue capacità di operare nel Paese, suggerendo l’esistenza di piani per una presenza più estesa che la farebbe divenire parte dello scenario militare regionale anche nel futuro, non adempiendo alle occasionali professioni di ritiro immediato. 3). Ha sollevato la possibilità che anche la campagna del regime per riconquistare la parte est del Paese sostenuta dalla Russia aprirebbe un ponte terrestre dall’Iran al Mediterraneo. Sebbene non tutti gli analisti siano concordi, Israele ne vede l’importanza strategica; un simile corridoio potrebbe facilitare il trasferimento delle armi e delle milizie sciite e permetterebbe all’Iran di stabilire una presenza attraverso una vasta area, con le potenzialità per minacciare direttamente Israele. Tale corridoio fornirebbe a Teheran un’alternativa economica alla costosa spedizione via aerea, inoltre, renderebbe difficile per Israele rilevare e intercettare i convogli di armi. La Russia non è sembrata particolarmente preoccupata per questo aspetto e non ha offerto ad Israele alcun aiuto per prevenirlo.
Con forti probabilità che il regime e i suoi alleati riprendessero il controllo del territorio a sud, Israele ha cercato di rafforzare le milizie anti-regime e di estendere la sua influenza sulla popolazione oltre la linea di armistizio. Come affermava un importante analista israeliano, lo Stato ebraico desiderava avere un certo sostegno tra i residenti della Siria meridionale per evitare un’aggressione da parte dei ribelli e legittimava, allo stesso tempo, il ruolo dei ribelli siriani come garanti del confine con Israele. Nel maggio del 2016, Israele ha ufficialmente aggiornato i suoi piani e l’esercito ha stabilito un’unità di collegamento con la Siria per migliorare l’erogazione di aiuti umanitari nel quadro più generale della sua politica di “buon vicinato”. Nel 2017, l’esercito ha costruito una nuova clinica, ad ovest della zona cuscinetto delle Nazioni Unite, che ha consentito a migliaia di persone di ricevere cure mediche ogni settimana senza attraversare la barriera israeliana all’estremità occidentale della zona demilitarizzata.
Nonostante questi investimenti, il soft power non è stato in grado di compensare l’indebolimento della posizione strategica di Israele. I più grandi nemici di Israele erano meglio armati e addestrati rispetto a prima, e in teoria godevano della protezione degli aerei russi. L’Iran stava operando in prossimità di Israele. Un ufficiale del Ministero degli Esteri israeliano aveva affermato preoccupato che la Siria stava per diventare un protettorato russo-iraniano.
Questi sviluppi hanno costretto Israele ad aggiornare la sua politica delle “linee rosse”. Ha continuato a bloccare il trasferimento di armi tecnologicamente avanzate ad Hezbollah, finora con la tacita approvazione della Russia. Gli ufficiali israeliani credono che nel complesso Israele sia riuscito a frustrare i tentativi di Hezbollah di contrabbandare armi di precisione in Libano, il che potrebbe spiegare perché il movimento ha cercato di creare una propria produzione di armi nel suo Paese d’origine. Secondo i militari israeliani, gli Hezbollah hanno fermato momentaneamente questi tentativi alla luce delle minacce di Israele. Israele non è più disposto a tollerare l’avanzata di Hezbollah e l’installazione di razzi avanzati a lungo raggio sulle montagne di Qalamoun, a circa 50 km da Damasco. Le installazioni su queste montagne consentirebbero a Hezbollah di minacciare Israele, avendo meno preoccupazioni per le rappresaglie dirette dello Stato ebraico.
Gerusalemme ha espresso il suo disappunto per la posizione della Russia nei confronti della presenza dell’Iran in Siria. La vittoria del regime nella zona est di Aleppo ha reso chiaro che Assad sarebbe rimasto al potere, inoltre, i negoziati di Astana nel maggio del 2017 hanno prodotto un memorandum iraniano-russo-turco sulle zone di de-escalation, incluso il sud-ovest. Dal punto di vista di Netanyahu, l’accordo presentava gravi carenze, in particolare per il fatto che legittimava il coinvolgimento militare dell’Iran e della Turchia in Siria (formalmente rendendoli garanti della de-escalation e, potenzialmente, dandogli un ruolo nel conflitto contro i gruppi jihadisti), e restava in silenzio su Hezbollah e le forze collegate all’Iran, consentendogli effettivamente di mantenere una certa presenza nel sud-ovest.
Israele ha quindi aggiornato le sue “linee rosse”, segnalando che avrebbe agito tempestivamente per impedire all’Iran di stabilire una presenza militare permanente in Siria. Queste “linee rosse” riguardanti l’Iran, che non sono mai cambiate ma sono divenute più dettagliate nel corso del tempo, includono:1). Nessun porto marittimo iraniano – termine usato in Israele per riferirsi alla necessità che non vi siano basi iraniane per le attività marittime nel Mediterraneo, il che consentirebbe ai sottomarini iraniani di minacciare la costa israeliana e gli impianti di perforazione del gas, considerati di importanza strategica. 2). Nessuna base militare iraniana permanente e nessuna presenza permanente di milizie sciite addestrate e comandate dall’Iran. Guardando oltre la fase attuale del conflitto, Israele non vuole che la Siria diventi una sorta di esercito iraniano stanziale, un “nodo” della strategia di “difesa avanzata” dell’Iran. Le migliaia di miliziani sciiti siriani stanziati stabilmente in Siria sotto il comando dei Guardiani della Rivoluzione iraniani potrebbero emergere come una potente forza combattente simile a Hezbollah. L’establishment militare israeliano riconosce che i combattenti rimasti sotto il controllo e la protezione iraniani potrebbero complicare le operazioni di Israele in caso di conflitto. Israele ha effettuato almeno due attacchi aerei in Siria su una base militare iraniana in costruzione per dimostrare la sua risolutezza. 3). Nessun aeroporto iraniano, per garantire il monitoraggio delle forniture aeree di armi, milizie e truppe in Siria. L’Iran già sbarca aeroplani commerciali nella base aerea di Mezzeh vicino a Damasco; l’intelligence israeliana ha già evidenziato la facilità con cui sarebbe possibile colpire il territorio dello Stato ebraico da quella base. Israele vuole evitare la costruzione di un aeroporto iraniano, o l’accesso dell’Iran a qualsiasi aeroporto da cui avrebbe mano libera, particolarmente nelle zone più lontane della Siria, dove sarebbe più difficile per l’intelligence capire i movimenti del nemico e da cui sarebbero possibili bombardamenti più lunghi. 4). Nessuna fabbrica di missili ad alta precisione. Questa restrizione vale sia per il Libano sia per la Siria. Israele crede che dopo che Hezbollah ha congelato il suo tentativo di costruire tali armamenti in Libano, abbia continuato a perseguire la costruzione di tali armi in Siria.
Mosca ritiene che queste “linee rosse” si estendano oltre le legittime esigenze di sicurezza di Israele, e ha respinto le istanze che coinvolgono l’Iran. La Russia tende a considerare gli Hezbollah in una luce positiva, generalmente ritiene gli interessi politici ed economici iraniani in Siria legittimi, così come rispetta i processi decisionali della Siria in quanto Stato sovrano.
Anche se Mosca fosse maggiormente ben disposta verso le posizioni di Israele, potrebbe non avere la capacità di costringere il partner iraniano ad accondiscendere a tutte le richieste dello Stato ebraico. Anche quando i suoi interessi divergono da quelli di Damasco e Teheran, sembra difficile per Mosca ottenere da loro delle concessioni. In particolare, la Russia potrebbe beneficiare della presenza di alcune milizie supportate dall’Iran; un loro precipitoso ritiro, dato l’indebolimento delle forze siriane, potrebbe rendere il regime ancora più precario, aggiungendo nuovi oneri alla Russia.
Il sud-ovest della Siria presenta una sfida unica, data la vicinanza del territorio al Golan occupato da Israele. Nel luglio del 2017, gli Stati Uniti, la Russia e la Giordania, dopo lunghi colloqui, hanno negoziato il cessate il fuoco nel sud-ovest della Siria tra l’esercito iraniano e le forze di opposizione, che prevede anche la gestione congiunta di un centro di monitoraggio ad Amman. Nel novembre del 2017, gli stessi Paesi hanno deciso di delineare con precisione i territori in questione, stabilendo una zona di de-escalation controllata dall’opposizione e circondata da una striscia di terra di 5 km controllata dall’esercito e con il libero accesso della polizia militare russa, in cui l’ingresso di “forze straniere o combattenti stranieri” fosse proibito. L’accordo tripartitico ha consentito di continuare i combattimenti contro l’ISIS.
Mentre il Primo Ministro Netanyahu ha stroncato in pubblico l’accordo, principalmente perché era stabilita una zona di cuscinetto troppo limitata a sud-ovest ed erano ignorati gli sforzi dell’Iran per stabilire una presenza militare permanente in Siria, gli Stati Uniti e la Russia avevano una posizione diversa: la posizione di Israele era stata considerata nell’accordo, nonché la sua sicurezza, e l’opposizione del Primo Ministro era solo a favore dell’opinione pubblica, probabilmente per richiedere un trattamento ancora migliore e mantenere la libertà d’azione contro una presenza iraniana nel sud-ovest oltre la zona di cessate il fuoco.
Non è sempre chiaro a cosa si riferisce il testo dell’accordo, perché si menzionano genericamente le forze “straniere” invece che specificare l’Iran, Hezbollah o le milizie sciite. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che l’accordo si riferiva a tutte le milizie straniere, quindi includendo anche Hezbollah, ma non l’Iran, Stato che opera legalmente in Siria su richiesta del Governo legittimo siriano secondo la Russia. Lavrov ha anche accusato gli Stati Uniti di sostenere le forze straniere più pericolose- un’allusione ai jihadisti che combattono dalla parte dei ribelli siriani appoggiati dagli Stati uniti- e ha suggerito che la partenza delle forze non siriane dovrebbe avvenire in contemporanea.
Non è chiaro cosa accadrà nella valle di Yarmouk e nell’enclave di Beit Jinn. All’inizio di gennaio del 2018, dopo mesi di intensi combattimenti, l’opposizione nell’enclave di Beit Jinn si è arresa al regime, che adesso controlla una zona triangolare all’intersezione dei confini siriani, libanesi e israeliani. Questa evoluzione significa che combattenti stranieri (incluso l’Iran), secondo i termini dell’accordo di luglio, possono ora essere stanziati a 5 km dalla recinzione di Israele. Lo Stato ebraico teme che Hezbollah capitalizzerà questo passaggio per installare un’infrastruttura offensiva sulle Alture del Golan. Più a sud, secondo alcuni resoconti, gli Stati Uniti e la Giordania hanno concordato di spingere i ribelli ad attaccare i jihadisti nella regione di Yarmouk in cambio dell’accordo con la Russia per escludere Hezbollah dalla zona; non è chiaro se gli Stati Uniti intendano farlo anche nella prospettiva di interrompere il loro supporto ai ribelli. Come per le altre “linee rosse” di Israele, la questione pratica riguarda meno ciò che Israele pensa dell’accordo e più la capacità e la volontà della Russia di attuarlo. L’ambiguità dell’accordo e la fine delle ostilità in altre parti del Paese lasciano libero il regime siriano e i suoi alleati di focalizzarsi nuovamente, prima o poi, sull’area sud-ovest.
I vertici politici di Israele si sono dimostrati soddisfatti da ciò che hanno sentito sull’Iran da parte dell’amministrazione del Presidente Donald Trump. L’aspra retorica dell’amministrazione suggeriva che gli Stati Uniti pianificavano di frenare quella che consideravano l’aggressiva espansione regionale dell’Iran. Israele, che da tempo chiedeva una linea più dura da parte di Washington verso Teheran e i suoi alleati in Medio Oriente, ha applaudito questi toni più duri. Lo Stato ebraico ha incoraggiato già nell’aprile del 2017 un bombardamento aereo americano in Siria dopo l’attacco chimico del regime a Khan Sheikhoun; l’offensiva degli Stati Uniti contro le forze del regime vicino a al-Tanf il 18 maggio del 2017; il rifiuto di avallare l’accordo sul nucleare iraniano; nuove sanzioni contro Hezbollah; la denuncia dei ribelli Huthi nello Yemen; la determinazione, in coordinamento con l’Arabia Saudita, a ripristinare una deterrenza nei confronti dell’Iran. Dalla visita di Trump nel maggio del 2017 a Riyadh, la prospettiva di un’alleanza israeliana, sostenuta dagli Stati Uniti, con gli Stati arabi nemici dell’Iran è apparsa più realistica.
Israele, tuttavia, ha rapidamente temperato le sue grandi aspettative nei confronti dell’intervento della Casa Bianca in Siria. Quando Trump proclamò, nel suo annuncio al popolo iraniano, che la sua amministrazione avrebbe lavorato con gli alleati per contrastare l’azione destabilizzante del regime iraniano e il supporto ai gruppi terroristici nella regione, Israele sperava che la Siria fosse tra i primi posti in cui la nuova amministrazione americana avrebbe agito con forza. Non era così. Durante il primo anno dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno ponderato attentamente i propri interessi prima di affrontare l’Iran in Siria. Washinton ha mostrato una scarsa inclinazione a sfidare le forze allineate all’Iran ad ovest dell’Eufrate, deludendo profondamente Israele. Anche i recenti attacchi aerei, dopo i presunti attacchi chimici del regime a Douma, non stravolgono la linea politica statunitense che non presuppone un impegno diretto contro l’Iran, e meno ancora contro la Russia, avvertita in anticipo delle operazioni militari occidentali; è importante notare che Mosca non ha risposto agli attacchi anglo-franco-statunitensi, infatti, la Russia non prevede l’uscita di scena di Bashar al-Assad ma nemmeno la sua centralità, per questo i rapporti tra il Presidente siriano e Vladimir Putin sono meno idilliaci di quanto la propaganda siriana faccia credere.
Israele si trova in una situazione difficile dato che la Russia sembra destinata a rimanere in Siria per un tempo abbastanza lungo, un partner abbastanza fedele, anche se provvisorio, del regime, di Hezbollah e dell’Iran. Mosca ha cercato di bilanciare le sue preoccupazioni con quelle dello Stato ebraico e trovare un modus vivendi tra le due parti. La Russia ha chiuso un occhio praticamente su tutti i 100 attacchi aerei israeliani degli ultimi cinque anni. Ma Israele nutre poche speranze che la Russia possa essere spinta ad andare oltre nei confronti dell’Iran.
Il calcolo politico di Israele si basa sulla corretta calibrazione dei bersagli, sulla deterrenza dei suoi nemici e sull’accurata lettura delle azioni di Hezbollah e dei suoi sostenitori, anche se questo potrebbe rivelarsi rischioso: il conflitto siriano è divenuto così complesso che qualsiasi scontro potrebbe intensificarsi rapidamente, negando ad Israele la possibilità di una guerra limitata.
Ulteriori complicazioni di questi calcoli strategici sono rappresentate dai rapidi sviluppi regionali e globali, che hanno ribaltato le regole convenzionali del gioco che avevano mantenuto più o meno la pace fino al 2006.
Recentemente, lo Stato ebraico ha ammesso il bombardamento della base T-4 nella Siria centrale, ad est di Homs, aprendo così una nuova fase nel complesso conflitto siriano.
Un alto funzionario militare israeliano ha confermato il raid aereo al quotidiano statunitense “The New York Times”. Secondo quanto riferito da questa fonte al giornalista del “New York Times”, Thomas Friedman, “era la prima volta che attaccavamo obiettivi iraniani, comprese strutture militari e soldati”. Ha anche evidenziato come il raid sulla base aerea T-4 vicino a Palmira, nel centro della Siria, fosse avvenuto dopo che l’Iran aveva lanciato a febbraio un drone carico di esplosivi nello spazio aereo israeliano. L’attacco ha preso di mira l’intero programma di droni iraniano presente nella base. I media di Teheran avevano riferito di almeno 7 vittime tra i soldati iraniani, su un totale di 14 morti provocati dal raid. L’incidente del drone è stato “la prima volta che abbiamo visto l’Iran fare qualcosa contro Israele e non per delega”, ha detto il funzionario, secondo cui quell’attacco ha aperto una nuova fase nell’opposizione tra Israele e Iran.
In via ufficiale il Governo israeliano non ha commentato la rivelazione del quotidiano americano ma fuori dall’ufficialità, e con la garanzia dell’anonimato, fonti di Gerusalemme vicine al primo ministro Benjamin Netanyahu hanno ribadito che “Israele ha fatto più volte presente, sia in vertici istituzionali che nelle relazioni fra servizi di intelligence – che i Guardiani della Rivoluzione iraniani erano stati incorporati nella catena di comando militare siriana ai livelli più alti, e che l’Iran stava rafforzando la propria presenza militare in Siria. Questa è per Israele una minaccia diretta alla propria sicurezza, e quando questa è la posta in gioco, nessuno può impedire di esercitare il nostro diritto di difesa”. Amos Yadlin, in precedenza capo dell’intelligence militare e attualmente direttore dell’Institute for National Security Studies all’Università di Tel Aviv, ha sollecitato un intervento “ufficiale”, soprattutto dopo l’attacco chimico a Douma. Yadlin non usa solo argomentazioni militari, ma tocca argomenti molto sensibili per l’opinione pubblica ebraica: “è importante che Israele espliciti la sua posizione morale, a pochi giorni dal momento in cui commemoriamo la Shoah, e colpisca un assassino che non esita a usare armi di distruzione di massa contro la sua gente. In questo caso gli interessi strategici coincidono con un obbligo etico”.
La rapida evoluzione degli eventi, che ha provocato una risposta immediata da parte israeliana, potrebbe condurre Israele verso un maggiore coinvolgimento nella crisi siriana e allo stesso tempo ampliare lo scenario di crisi, con conseguenze ad oggi imprevedibili per i futuri assetti geopolitici del Medio Oriente.
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