Reddito di cittadinanza, mito e realtàLuca Ricolfi
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti ... fresh_ce=1 Di che cosa si parlerà nella prossima campagna elettorale? La mia sensazione è che, dal momento che le idee (e le parole) veramente nuove stanno a zero, finiremo per parlare molto di una cosa che nuova non è, ma nuova finirà per apparire: il reddito di cittadinanza. Fino a ieri presa sul serio solo dal M5S (che ha presentato un disegno di legge più di 3 anni fa), ora l’idea di un reddito di cittadinanza pare interessare anche a destra (è di pochi giorni fa l’apertura di Berlusconi), e crea qualche imbarazzo a sinistra, visto che Renzi non ha perso occasione per prenderne le distanze.
La ragione per cui il reddito di cittadinanza potrebbe diventare una parola-chiave del dibattito pubblico nel 2017 è la facilità con cui i politici e i media possono manipolarne il significato.
Facendo credere all’opinione pubblica di proporre una cosa mentre ne stanno proponendo un’altra. Questa è una differenza cruciale fra l’uso delle parole da parte degli studiosi, che è relativamente preciso e stabile, e il loro uso nel dibattito pubblico, che è spesso arbitrario, elastico ed ingannevole.
Le due facce dei 1000 giorni
Il caso del reddito di cittadinanza è perfetto per mostrare che cosa può succedere quando si gioca con le parole. Per la comunità scientifica reddito di cittadinanza (talora denominato reddito di base) indica un trasferimento universale e permanente a ogni individuo che rispetti certi requisiti minimi di appartenenza a una comunità (o “cittadinanza”), senza alcuna limitazione connessa alla condizione economica, e senza alcun obbligo da assolvere per non perdere il beneficio. Il reddito di cittadinanza, in altre parole, è dovuto anche ai “surfisti della baia di Malibù”, per usare il classico esempio di John Rawls, per parte sua convinto che la “società giusta” non debba farsi carico di essi. Giusto per avere un’idea degli ordini di grandezza, un trasferimento di questo tipo, anche se limitato alla popolazione in età lavorativa, e anche se fissato ad un valore pari alla soglia di povertà assoluta, in un paese come l’Italia costerebbe oltre 350 miliardi l’anno, una cifra che vale circa il doppio dei costi totali della sanità, della scuola e dell’università messe insieme. E non è un caso che, inteso in senso proprio, il reddito di cittadinanza esista solo in Alaska, dove poggia sui proventi del petrolio e negli ultimi anni ha oscillato fra i 100 e i 200 dollari al mese per individuo. In Europa un esperimento di reddito di cittadinanza del tutto incondizionato è previsto in Finlandia nel biennio 2017-2018, ma limitatamente a un campione di 2.000 persone.
“Si fa confusione fra reddito di cittadinanza, che è universale e incondizionato, e reddito minimo, che è selettivo e condizionato”
La musica cambia completamente quando, dal mondo della ricerca, si passa a quello della politica, e spesso anche dei media. Quando si dice e si scrive che, nell’Unione Europea, solo l’Italia e la Grecia non hanno un reddito di cittadinanza si fa confusione fra reddito di cittadinanza, che è universale e incondizionato, e reddito minimo, che è selettivo e condizionato. Quello che hanno quasi tutti i paesi europei (ma non l’Italia) è un reddito minimo, o reddito minimo garantito, che assicuri a chiunque è in età lavorativa, e indipendentemente dal fatto che lavori oppure no, un’integrazione di reddito che lo porti a un livello minimo accettabile. L’idea del reddito minimo, in altre parole, è di non permettere a nessuno di scendere al di sotto di una determinata soglia di reddito, o linea della povertà. Qui le legislazioni nazionali differiscono moltissimo, a seconda delle condizioni di accesso, a seconda che la misura sia individuale o familiare, a seconda degli obblighi che può comportare (formazione, ricerca del lavoro). Una misura di questo genere è contenuta nel disegno di legge dei Cinque Stelle (n. 1148, ottobre 2013), assai impropriamente intitolato “istituzione del reddito di cittadinanza”, che garantisce a qualsiasi famiglia in condizione di povertà assoluta di uscire da tale condizione, purché rispetti una serie abbastanza impegnativa di obblighi e adempimenti. Il costo del reddito minimo in versione Cinque Stelle è di circa 16 miliardi di euro, ovvero il 4,4% di quel che costerebbe un vero “reddito di cittadinanza”, universale, incondizionato, e agganciato a una soglia di povertà di circa 800 euro al mese.
C’è poi un terzo tipo di sostegno del reddito, che è in sostanza quello in vigore in paesi come l’Italia e la Grecia. Non c’è un nome per designarle, e mi permetterò quindi trovarglielo io: è il reddito-Arlecchino. Il reddito Arlecchino è una sorta di reddito minimo per pochi, perché del reddito minimo ha tutti gli obblighi tipici, ma non viene concesso a tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà. È il governo nazionale che decide quali famiglie sono degne dell’aiuto e quali no, mentre ai governi locali (regioni e comuni) si lascia libertà di intervenire con ulteriori sussidi, a loro volta soggetti a ulteriori regole, vincoli, adempimenti che ogni Amministrazione regionale o comunale è libera di introdurre per proprio conto.
Austerità, la lezione della crisi
Il reddito-Arlecchino è abbastanza facile da quantificare solo nella sua componente nazionale, dove varia di nome e di importo ad ogni cambio di governo, mentre è difficilissimo da quantificare nella componente locale, che varia enormemente da luogo a luogo, contribuendo non poco a generare diseguaglianze ingiustificate (un vero capolavoro per una misura di perequazione dei redditi). A livello nazionale rientrano nel reddito-Arlecchino le misure più o meno automatiche per chi perde un lavoro (come la NASPI e la cassa integrazione) nonché il cosiddetto Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA), una misura di contrasto alla povertà per beneficiare della quale non basta la povertà stessa ma occorre che essa sia accompagnata da qualche aggravante (un disabile, un figlio minorenne, una donna in stato di “gravidanza accertata”). Ebbene l’ordine di grandezza del costo di queste misure statali non universalistiche, o reddito-Arlecchino, è di qualche miliardo all’anno, ovvero sensibilmente inferiore al costo del finto reddito di cittadinanza proposto dai Cinque Stelle (16 miliardi), e smisuratamente più basso del costo di un vero reddito di cittadinanza (350 miliardi).
Il difetto del reddito di cittadinanza è che è ingiusto (surfista di Malibù), e diventa insostenibile appena la cifra erogata sale fino alla soglia di povertà o oltre. Il difetto del reddito minimo è che, per gestirlo, comporta un apparato efficiente, complesso e costoso e, nella versione Cinque Stelle, autorizza comportamenti opportunistici (lavorare diventa conveniente solo se si guadagna di più della soglia di povertà, al di sotto tanto vale incassare il sussidio e fare altro). Il reddito-Arlecchino, quale quello previsto attualmente in Italia, ha gli stessi difetti del reddito minimo in versione Cinque Stelle, senza condividerne il pregio maggiore, ossia la sua capacità di eliminare la povertà assoluta senza discriminare fra poveri aiutabili e poveri non degni di aiuto.
“L’imposta negativa ha due vantaggi: non distrugge l’incentivo a lavorare quando il reddito è sotto la soglia di povertà, e può funzionare abbastanza bene anche senza un apparato burocratico di gestione del mercato del lavor”
Ci sarebbe poi un quarto tipo di sostegno al reddito, di cui poco si parla ma che, forse, funzionerebbe meno peggio degli altri tre: l’imposta negativa. Pensata già alla fine dell’Ottocento e riproposta ciclicamente nel corso del secolo scorso, caldeggiata da economisti liberali come Milton Friedman e Friedrich von Hayek, l’imposta negativa ha due vantaggi: non distrugge l’incentivo a lavorare quando il reddito è sotto la soglia di povertà, e può funzionare abbastanza bene anche senza un apparato burocratico di gestione del mercato del lavoro.
In breve l’idea è questa. Per quanti guadagnano abbastanza da essere soggetti a tassazione (in Italia più di 8000 euro annui, per il lavoro dipendente) nulla cambia. Per coloro che non guadagnano nulla o guadagnano di meno della soglia che individua la no-tax area, e dunque sono “incapienti” (non hanno capacità fiscale), il fisco applica una aliquota negativa (ad esempio il 70%), ovvero colma in parte il gap fra quel che il soggetto guadagna effettivamente e la soglia della no-tax area.
Esempio: io guadagno solo 3.000 euro l’anno; per arrivare a 8.000 mi mancano 5.000 euro; a questi 5.000 euro il fisco applica un’aliquota negativa del 70%, il che fa 3.500 euro (5.000 x 0,70), ovvero mi trasferisce 3.500 euro. Alla fine avrò in tasca 3.000 + 3.500 = 6.500 euro, ossia di più di quel che ho guadagnato per conto mio, ma di meno di quel che servirebbe a raggiungere la no-tax area. E se guadagno zero? Stesso meccanismo: lo scarto fra 8.000 e zero è 8.000, il fisco mi trasferisce il solito 70% dello scarto, che in questo caso fa 5.600 euro. Il grande pregio di questo meccanismo è che, se ben calibrato, garantisce che al benficiario del sussidio non convenga mai lavorare di meno (perché in quel caso i suoi introiti complessivi scenderebbero verso il limite inferiore dei 5.600 euro), e convenga sempre lavorare di più (perché l’imposta negativa non colma mai completamente il divario fra reddito effettivo e soglia della no-tax area). Il difetto, condiviso con il reddito minimo ma non con il reddito di cittadinanza, è che resta la convenienza a lavorare in nero, il che richiederebbe un fisco vigile.
Marco Travaglio spiega come il reddito di cittadinanza non sia praticabile06.03.2018
https://www.giornalettismo.com/archives ... anza-video Marco Travaglio ha spiegato come il reddito di cittadinanza non sia praticabile. Durante il suo intervento a Otto e Mezzo il direttore del Fatto Quotidiano ha ribadito come «è chiaro che la proposta del M5s sul reddito di cittadinanza e quella della Lega sull’abolizione totale della legge Fornero sono impraticabili, perché costerebbero troppo. Ma qualcosa per queste categorie, che sono le uniche sulle quali si è scaricato tutto il peso della crisi da parte dei governi che l’hanno gestita così male, Lega e M5s dicono di volerlo fare».
Marco Travaglio spiega come il reddito di cittadinanza non sia praticabile
Le parole di Marco Travaglio sono particolarmente nette e condivisibili, e hanno un particolare rilievo visto che il direttore del Fatto Quotidiano è una delle figure più importanti del dibattito pubblico italiano che ha espresso posizioni di vicinanza verso i Cinque Stelle. Travaglio, correttamente, individua nell’inquietudine provocata da un diffuso disagio sociale il motivo principale dell’esplosione elettorale di M5S e anche Lega Nord.
Secondo Travaglio, e qui diventa un po’ più difficile condividere la sua opinione, per il successo di Matteo Salvini ha contato più la proposta di abolizione della legge Fornero rispetto al contrasto all’immigrazione. Secondo il direttore del Fatto Quotidiano la riduzione degli sbarchi impressa dal ministro degli Interni Minniti ha reso meno centrale il tema dell’arrivo degli stranieri in Italia.
Il sito del Fatto Quotidiano ha poi modificato leggermente il titolo dell’articolo a supporto del video, se i lettori noteranno una differenza tra la nostra foto, presa dal profilo Facebook del giornalista Davide Piacenza, e il collegamento al pezzo pubblicato sul sito diretto da Peter Gomez.
La follia del reddito di cittadinanza M5s: al lavoro solo se piace ed è vicino a casaPaolo Bracalini - Sab, 10/03/2018
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 03314.html La DiMaionomics, l'economia pubblica secondo Luigi Di Maio. È ormai evidente, anche dalle pressanti richieste ai Caf nel Sud e dal picco di ricerche su Google subito dopo la vittoria del M5s, che il reddito d cittadinanza è stato uno dei motori principali, se non il primo, del consenso elettorale dei grillini.
Peccato che la misura partorita dai parlamentari Cinque stelle non sia solo insostenibile economicamente, ma sia a tratti demenziale. Nel magico mondo del sussidio pubblico grillino, infatti, ad ogni disoccupato verranno offerti ben tre posti di lavoro, pena la decadenza del reddito di cittadinanza se il percettore di sussidio li rifiutasse tutti. I disoccupati in Italia però sono 2,8 milioni (dato Istat 2017), significa che Di Maio promette 2,8 milioni di posti di lavoro, e garantisce quasi 9 milioni di offerte di lavoro, in un paese in cui il lavoro è diventato un miraggio. E da quale cilindro magico uscirebbero queste miriadi di offerte di lavoro? Dai «centri per l'impiego», carrozzoni pubblici eredi dei vecchi uffici di collocamento gestiti dalle amministrazioni provinciali che però dovrebbero - nelle fantasie dei grillini - sfornare posti di lavoro a ritmi cinesi. La realtà invece dice che meno di quattro occupati su 100 (il 3,4%), secondo la ricerca Isfol del 2015, ha trovato un lavoro grazie ai Centri per l'impiego. L'unico lavoro è quello dei dipendenti degli stessi centri per l'impiego, il 48% concentrati al Sud, bacino elettorale del M5s. Tant'è vero che Di Maio promette, per poter poi far funzionare il reddito di cittadinanza, di riformare i centri per l'impiego, nientemeno che con una «spesa di 2,1 miliardi di euro a questo scopo». Soldi, soldi, soldi pubblici ovunque, non si capisce presi da dove.
Ma fossero solo questi i problemi. Il reddito di cittadinanza è contenuto nel disegno di legge 1148 del 2013, prima firmataria la grillina Nunzia Catalfo, nessuna competenza economica, nella vita fa l'impiegata di un centro per l'impiego a Catania. Alla critica che il reddito sia un incentivo alla nullafacenza, i Cinque stelle rispondono che non è così perché, per ottenerlo e mantenerlo, si possono rifiutare solo due lavori, se rifiuti anche il terzo perdi il diritto all'assegno pubblico. Però le offerte di lavoro, si specifica nel ddl, devono essere «congrue». E cosa si intende con congrue? L'articolo 12 spiega che «si considera congrua un'offerta di lavoro quando essa è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze segnalate dal beneficiario in fase di registrazione presso il centro per l'impiego, la retribuzione oraria è uguale o superiore all'80 per cento rispetto alle mansioni di provenienza, il luogo di lavoro è situato nel raggio di 50 chilometri dal luogo di residenza ed è raggiungibile entro ottanta minuti con i mezzi pubblici». Chiaro? In poche parole se prendi il reddito di cittadinanza e ti offrono tre (tre!) posti di lavoro che però non sono sotto casa, non ritieni attinenti ai tuoi interessi, e non ti offrono abbastanza soldi, puoi considerarle non congrue e quindi continuare a percepire serenamente il sussidio pubblico. Unico limite previsto: dopo un anno non si può più fare gli schizzinosi, sempre che siano arrivate tre offerte di lavoro in dodici mesi, una miraggio in Italia.
Se poi il disoccupato è una donna e ha un figlio, scatta pure «l'esenzione alla ricerca del lavoro» fino al terzo anno di età del figlio. Lavoro che, sempre per la stessa legge, avrà un salario minimo di legge di 9 euro l'ora, quindi 1.440 euro al mese. Più lavoro e più soldi per tutti. Una specie di boom tipo l'Italia degli anni '50, garantiscono Di Maio e Casaleggio. Molti osservatori sono perplessi. «Dare il reddito di cittadinanza nel Sud sarebbe una catastrofe - spiega Edward Luttwak su Italia Oggi -. Ancora più gente rimane a casa con la mamma. È come per le pensioni in Grecia». Mentre il sociologo Luca Ricolfi è convinto che sarebbe un «disincentivo a lavorare», e che «l'enorme massa di funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari» non riuscirebbe minimamente nel compito. Come arma elettorale, però, ha funzionato eccome.