Né diritto, né scelta di civiltà. Un'alternativa possibile allo ius soli
Marco Taradash
11 Dicembre 2017
http://www.stradeonline.it/diritto-e-li ... o-ius-soli
Ricordiamo i fondamentali della legge in discussione. Non basta essere nato sul suolo italiano per essere riconosciuto cittadino italiano, come avviene invece negli Usa e in in altri stati coloniali delle Americhe che hanno trovato nell’immigrazione una necessaria risposta alla scarsità demografica. Resteranno delusi, nello scoprire questa attenuazione dello ius soli, sia coloro che rivendicano come un “valore non negoziabile” il diritto alla cittadinanza per i nati in territorio italiano, sia i loro avversari che diffondono la paura che dall’Africa arrivino sui barconi orde di donne incinte per partorire nel nostro paese e dare ai figli la cittadinanza italiana.
Nei paesi europei lo ius soli puro non esiste e l’accesso alla cittadinanza trova soluzioni diverse da paese a paese. C’è un dossier del Senato molto utile sia per capire bene la proposta di legge che per le comparazioni con altri stati.
L’accesso alla cittadinanza nel luogo di nascita non può essere quindi definito un diritto, e infatti non è previsto in alcuna carta di valori, dichiarazione universale, manifesto sui diritti umani. È una scelta politica per cui la presunta ‘civiltà’ della legge deve essere valutata in relazione ai suoi effetti concreti e al contesto nel quale viviamo. Se siamo d’accordo su questo continuate a leggere; se no, è inutile.
Ci sono due effetti indesiderabili e molto perniciosi, secondo me, nelle modalità di acquisizione della cittadinanza con lo ius soli.
Primo - Occorre che un genitore ne faccia richiesta. Se ci sono le condizioni relative ai cinque anni di permanenza in Italia, al reddito minimo eccetera la cittadinanza verrà automaticamente concessa. Bene. Ma se questo genitore ha più figli, e per gli altri non presenta la richiesta? Se magari fa richiesta di cittadinanza per il figlio maschio e non per la femmina? Lo Stato non può imporgli nulla, e quindi si creerà, in tal caso, una discriminazione all’interno del nucleo familiare. Non è impossibile e a me questo sembra inaccettabile.
Secondo - La legge non pone e non può porre vincoli al bambino che abbia acquisito la cittadinanza italiana. Se la famiglia per una ragione qualsiasi lascerà il nostro paese prima che il figlio abbia imparato una sola parola d’italiano o abbia frequentato un solo giorno di scuola, il bambino avrà comunque il passaporto italiano (ed europeo) vita natural durante. Anche questo mi pare inaccettabile.
Passiamo al contesto. L’Italia ha bisogno di verità in ogni campo (politico, economico, sociale ecc.) o vivrà una eterna stagione gattopardesca, fino alla sua dissoluzione. Anche sul tema dell’integrazione degli immigrati deve guardare in faccia la realtà e cominciare a dirsi delle verità difficili: sarà duro, ma molto meno del permanere nella menzogna.
L’Italia è un paese più degli altri esposto oggi all’immigrazione irregolare, e all’immigrazione, anche regolare, di uomini e donne che provengono da paesi islamici. Gli immigrati irregolari non rientrano nei criteri della legge sulla cittadinanza ma è realistico pensare che nel giro di qualche anno venga concessa una sanatoria (come in passato e sotto un governo di centrodestra) per chi è costretto, pur lavorando e vivendo da anni in Italia, alla clandestinità giuridica. Personalmente ritengo che sia giusto e anche necessario sottrarre nel corso del tempo queste persone alla notte dei diritti civili e allo sfruttamento economico cui sono soggetti. Il perdurare di questa situazione non genera che disordine e malaffare, oltre ad essere la negazione di ogni diritto umano.
Il fatto che la provenienza dai paesi islamici possa rappresentare un problema in sé è generalmente assente nella discussione politica e pubblica. È un tabù solo citarlo. Per la sinistra e il mondo cattolico in nome dell’uguaglianza ideologica o ecumenica, per la destra nel timore di perdere l’appoggio della Chiesa o di essere tacciati di razzismo. Ma il problema culturale e politico esiste.
Certi principi (come la libertà di espressione, il dialogo fra diverse credenze religiose, l’accettazione degli apostati, dei non credenti o ‘credenti in altro’, l’uguaglianza fra uomo e donna, la distinzione fra peccato e reato, la separazione fra laicità dello Stato e legge religiosa) si sono formati nel corso dei secoli attraverso sentieri - spesso sanguinosi - di civilizzazione culturale. Nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana, per lo più. Poi si sono via via ramificati ed estesi fino a confluire nella dichiarazione universale dei diritti umani.
È un percorso che va ri-percorso ogni giorno da tutti noi se vogliamo salvaguardare libertà individuali, democrazia liberale e civiltà dei costumi sociali. Non statemi a spiegare quanto questo sia necessario anche per gli italiani da 77 generazioni, perché lo so. Ma per altri popoli è un percorso da iniziare per la prima volta, spesso. Anche per questo non mi pare sufficiente un criterio meccanico di attribuzione della cittadinanza. La formazione dei cittadini non avviene nel nulla dello ius soli ma neppure nel qualcosa dei cinque anni scolastici dello ius culturae: avviene essenzialmente nell’interazione fra famiglia e società.
Ed eccomi finalmente al punto d’arrivo. Io sono convinto che la soluzione migliore per diventare buoni cittadini italiani sia essere figli di cittadini italiani, cittadini italiani di qualunque origine, intendo, di qualunque religione, di qualunque formazione culturale. Persone che abbiano deciso di vivere e lavorare in Italia da italiani, e che a un certo momento della loro vita decidono consapevolmente di chiedere la cittadinanza. Oggi gli stranieri che vogliono diventare cittadini italiani devono aspettare dieci anni, che spesso, per le lungaggini burocratiche, arrivano a dodici e più. Si cambi la legge, se necessario, di modo che i dieci anni siano effettivi, o si riducano a otto, sei, quanto volete. Ma che si diventi cittadini italiani con consapevolezza, desiderandolo, in modo tale da trasmettere certi valori di, diciamo sinteticamente, laicità ai propri figli. Che di conseguenza nasceranno o diventeranno italiani senza sottomettersi a nessuna trafila, a nessuna condizione. Questa a me pare la strada maestra.
E se i genitori non vogliono prendere la cittadinanza? Oggi occorre attendere il compimento della maggiore età. 18 anni sono troppi? Non so. Si riduca pure questo termine, su richiesta dei genitori come è inevitabile, a 16, a 14 anni (quando finisce secondo il codice penale le presunzione di incapacità di volere e intendere) ma si chieda, compiuta la maggiore età, la conferma consapevole di ciò che non è né una concessione né un diritto ma l’espressione di un sentimento e di una volontà.
Claudio Tio Claudio Carpentieri
Oltre le contrapposte retoriche del catastrofismo 'buonista' e di quello 'cattivista', esiste ancora una sorta di laica e ragionevole terza via sulla riforma della legislazione italiana vigente in materia di cittadinanza, una terza via che a mio avviso Marco Taradash ben sintetizza in questo articolo.
p.s. Lo confesso, in tutta sincerità: tanto chi già prevede l'avvento di un nuovo Ventennio fascista qualora il progetto di legge sul c.d. jus soli non fosse mai approvato, quanto chi invece già intravede fanatiche orde di barbari 'naturalizzandi' alle porte qualora fosse approvato, insomma ambedue queste categorie di prefiche mi hanno sfondato i maroni.
Alberto Di Virgilio
Interessante contributo. Sarà l'orario, che attenua le mie capacità cognitive, ma non mi è chiaro come uno straniero diventerebbe, nella visione di Taradash, un buon cittadino italiano, a sua volta genitore di buoni cittadini italiani. Mi pare che il giornalista salti un passaggio fondamentale rispetto alle interessanti premesse sul percorso formativo, dopo averne riconosciuta la lacunosità in quegli stranieri che appartengono a culture molto diverse dalla nostra: come si garantisce cioè che il futuro cittadino-padre-di-cittadini aderisca ad un sistema di valori, il nostro, che costituisce la componente fondamentale della cittadinanza? Taradash giustamente parla di interazione tra famiglia e società, ma non è sufficiente e soprattutto non mi sembra sia quantificabile nei suoi risultati oggettivi; cosa significa interagire tra famiglia e società? se la mia famiglia (faccio un esempio) islamica interagisce lo stretto indispensabile con il resto della società, ma condivide un sistema di valori comune ad altre famiglie islamiche e soprattutto esclusivo, quasi settario (passami il termine), quanto posso definirmi cittadino italiano? Vediamo bene le situazioni delle banlieue francesi, o di Molenbeek o Rinkeby; oppure l'Inghilterra, dove esistono addirittura corti shariatiche che esercitano un potere giudiziario parallelo e spesso unico in situazioni familiari: è questo il modello di interazione tra famiglia e società che vorremmo vedere affermarsi qui in Italia? Certamente no, e allora, atteso che è speranza di tutti che il futuro-cittadino-padre di domani trasmetta ai propri figli quel sistema di valori riassunto in laicità da Taradash, come possiamo essere certi non solo che questa trasmissione avverrà, ma che i valori siano stati assorbiti e accettati dal genitore? E siamo sicuri che quelli che sono già diventati nel frattempo cittadini italiani condividano questi valori? perché in giro si leggono e sentono cose che lasciano perplessi...
Gino Quarelo
Non vi è assolutamente nessuna certezza; vi sarebbe solo se il nazismo maomettano fosse bandito, messo fuorilegge come è stato messo fuorilegge quello hitleriano.
Inoltre bisognerebbe arrestare il flusso dei clandestini o irregolari e di quelli che si vanno a prendere con i cosidetti "corridoi umanitari".