El dialeto no lè na lengoa ma n'edioma sotan

El dialeto no lè na lengoa ma n'edioma sotan

Messaggioda Berto » sab gen 11, 2014 8:56 am

Usate la vostra lingua, lasciate perdere il dialetto

http://www.lindipendenza.com/usate-la-v ... l-dialetto

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di MARCO TAMBURELLI*

Il centro studi per la diversità culturale del Messico (noto comeBiblioteca de Investigación Juan de Córdova) ha dato il via alla campagna “Todas se llaman lenguas” (si chiamano tutte lingue, consultabile da questo sito: http://www.todas-lenguas.mx ),unacampagna contro l’uso denigratorio della parola ‘dialetto’, e per la “sensibilizzazione alla diversità linguistica del paese”.
Un richiamo ad usare la parola ‘lingua’ e ad abbandonare contemporaneamente il termine ‘dialetto’, termine che nelle Americhe come in Europa è stato integrato nel sistema sociale e scolastico con la precisa intenzione di eliminare l’uso delle lingue ancestrali (nel caso americano) e di quelle locali/regionali (nel caso europeo).
Quella messicana è quindi una campagna di riappropriazione delle lingue storiche, campagna di cui hanno bisogno anche molte lingue regionali d’Europa, e specialmente quelle storicamente radicate sul territorio italiano.

E quindi ce n’è tanto bisogno anche in Italia, perché come nel resto d’Europa e nelle Americhe, il termine ‘dialetto’ (insieme a ‘patois’) è diventato simbolo di arretratezza, povertà, passato.
Un termine che è spesso usato in opposizione a quello di ‘lingua’, simbolo di progresso, potenzialità, futuro.
Premetto subito che una campagna di questo tipo non sarebbe un ennesimo caso di ‘politically correct’, anzi.
Si tratterebbe di un atto di sensibilizzazione e conseguente riappropriazione delle lingue storiche d’Italia, lingue che fanno parte della storia, della cultura e del tessuto socio-antropologico di ogni cittadino italiano, europeo, mondiale.
Riappropriarsi di quelle lingue che sono state sminuite e soffocate, spesso attraverso menzogne e acrobazie intellettuali tanto vergognose quanto efficaci. Menzogne del tipo: “sono vernacoli, idiomi usati solo nel parlato”, quando piemontese, lombardo e siciliano (per fare solo qualche esempio) hanno una tradizione letteraria ben più ricca di quella basca, e vantano una storia letteraria scritta più antica di quella dell’albanese (tanto per fare un esempio).

Oppure il mito secondo il quale sarebbe “impossibile usare le lingue locali nelle scuole”, quando le lingue regionali d’Italia, in tutte le loro varianti, sono state sistematicamente utilizzate come mezzo d’istruzione (soprattutto, ma non solo, per l’insegnamento della lingua italiana) fino agli anni ‘20, e grandi pedagogisti come Giuseppe Lombardo-Radice conoscevano bene il valore delle lingue locali come lingue d’istruzione che potessero fare da ponte tra “il noto e l’ignoto”.

Oppure la scandalosa idea, sostenuta anche dall’altrimenti colto Umberto Eco, che alcune lingue siano intrinsecamente “ridicole” mentre altre sono “serie”.
Qualunque linguista degno di tale qualifica sa benissimo che qualsiasi lingua ha il potenziale di essere “seria”, e che nessuna lingua nasce “ridicola”.
Anzi, per creare la percezione che alcune lingue “fanno ridere” bisogna investire tempo e risorse in un’ingegneria linguistica atta ad escluderle da particolari strati sociali (tipicamente la scuola, l’amministrazione, i media), insistendo con il chiamarle ‘dialetti’, ‘patois’ e quant’altro di denigratorio ed opposto a ‘lingua’.
Le lingue regionali d’Italia iniziarono ad esser viste come inadatte all’uso ‘serio’ (o meglio ‘colto’) solo dopo sistematiche campagne denigratorie con la precisa intenzione di estirpare quella che un miopissimo Manzoni, ahi noi, chiamava “la malerba dialettale”.
Campagne che avevano alla base la parola ‘dialetto’ in chiara opposizione a quella di ‘lingua’.

In un mondo dove sono stati fatti sittanti sforzi politici ed economici per convincerci che i vocaboli, le pronunce e le grammatiche dei nostri avi fossero “malerba”, credo di non esagerare se dico che chiamare questi sistemi di comunicazione “lingue” è un atto di rivoluzione intellettuale.
E se pensate che la scelta di un termine sia cosa da poco, che l’importante è rispettare il proprio ‘dialetto’ indipendentemente dal nome che gli viene dato, allora chiedetevi perché non troviamo tra i prodotti della Knorr una zuppa con il nome di “Brodaglia”, o perché negli alberghi non trovate la targhetta “cesso” sulla porta dei bagni.
Basta che siano puliti e funzionali, cosa importa come li chiamiamo? Importa. Importa eccome.
La ricerca psicolinguistica moderna dimostra che l’idea che ci facciamo di un oggetto dipende in parte dal nome che gli viene dato, è quello che noi linguisti chiamiamo “l’effetto connotativo” della parola.
I nomi evocano pregiudizi e atteggiamenti importanti che influenzano la nostra percezione di una cosa o di un concetto.
Anche se tale cosa si rivela poi positiva (per esempio, se i “cessi” sono moderni e pulitissimi o la “Brodaglia” è gustosa), la scelta del nome può influire fortemente su come la percepiamo, tanto da farci credere che Brodaglia non sia tanto buona quanto quell’altro prodotto, gastronomicamente identico, ma dal nome più positivo.
Se non fosse così, le aziende di marketing non spenderebbero milioni di euro in ricerche prima di scegliere il nome dei loro prodotti.

Allo stesso modo, se pensate ancora che la parola ‘dialetto’ non sia denigratoria, vi chiederei di ricordare le innumerevoli volte che l’emancipazione delle lingue locali o regionali è stata ostacolata con giochi di parole del tipo “ma quello è solo un dialetto”, “ma il catalano/galiziano/gallese [inserire lingua straniera riconosciuta a piacimento] è una lingua, non un dialetto”, “ma come si può insegnare un dialetto come se fosse ‘una vera e propria lingua’” (cit. del ‘dialettologo’ Michele Burgio a proposito del siciliano), e chi più luoghi comuni denigratori ha, più ce ne metta.

La campagna “si chiamano tutte lingue” non ha quindi nulla a che fare con il ‘politically correct’. Al contrario, rappresenta un ‘no’ secco alle menzogne della pseudo-storia, un ‘no’ deciso a coloro che hanno tentato di rendere invisibile più di un millennio di storia linguistica, un ‘no’ definitivo alla distinzione fasulla fra lingue e culture “alte” (leggi “potenti”) e “basse” (leggi “usurpate”).
Emiliano, Friulano, Italiano, Lombardo, Napoletano, Piemontese, Romagnolo, Sardo, Siciliano e Veneto sono tutte lingue.
Sono le nostre lingue, nostre non solo come cittadini italiani ma come europei e come esseri umani abitanti del Pianeta Terra.
Il Lombardo è la mia lingua perché è stata la lingua dei miei padri per decine di generazioni, ma anche il siciliano, il frisone o il basco sono le “mie” lingue in funzione della loro importanza come sistemi di comunicazione della storia e della cultura europea, occidentale, umana.
Tutti diventeremmo antropologicamente e culturalmente più poveri se dovessero estinguersi il lombardo, il siciliano o il basco, così come diventeremmo più poveri se dovessero scomparire la torre di Pisa o Machu Picchu.
Certo non posso negare che, da Lombardo, sarei più emotivamente colpito se sparisse il Domm de Milan piuttosto che la torre di Pisa.
Ma ciò non mi impedisce di comprendere ed apprezzare il peso culturale e storico della torre di Pisa o della muraglia cinese, massime espressioni architettoniche ed ingegneristiche della storia dell’Umanità. Lo stesso vale per le lingue, tutte le lingue, massime espressioni cognitive della storia dell’Homo Sapiens, e parte integrante di quella capacità linguistica che è e rimane l’unico tratto cognitivo che ci distacca nettamente dagli altri primati. Non per nulla l’Unesco annovera Piazza dei Miracoli tra i Patrimoni dell’Umanità, così come annovera anche Emiliano, Lombardo, Napoletano, Piemontese, Romagnolo, Siciliano e Veneto tra le lingue in pericolo d’estinzione.
Ed è proprio l’Unesco a ricordarci che il pericolo d’estinzione non è né inevitabile né irreversibile, cominciando proprio con il chiamare queste lingue con il loro nome.
Todas se llaman lenguas, i se ciamen tute lengove, si chiamano tutte lingue.

Si chiamano tutte lingue, e sono tutte manifestazioni della storia, cultura e conquista cognitiva dell’essere umano.
Chi dice il contrario è perché vuole convincerci che i suoi avi erano più homo sapiens dei nostri…


*Marco Tamburelli è docente di bilinguismo al Dipartimento di Linguistica dell’Università di Bangor, in Galles. Interessato a tutto quello che riguarda le lingue, e alla difesa dei diritti linguistici di tutti i popoli del mondo, ma soprattutto di quello lombardo.

TRATTO DA: http://www.labissa.com
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Re: El dialeto no lè na lengoa ma n'edioma sotan

Messaggioda Berto » mer mar 05, 2014 11:22 pm

Intorno al fogolaro
Ne 'e longhe e frede sere de inverno, al caldo del fogolaro se faséa filò


http://www.quatrociacoe.it/200405/fogo.php

de Bepin Daecarbonare - Da Thiene (VI)

Lè on toco scrito co ła ortografia tałiana

El fogolaro inpissà dove la sera se catava intorno tuta la fameja. (foto Bruno Dalle Carbonare) Questa xe na storia contà da Albino Dall'Alba de Vacaria (Brasile) nel 1993... "Tornemo indrìo verso el 1917. Mi ghea alora 6 ani e da chel tenpo me ricordo de tante robe. Noantri se gera na fameja granda, oltra i genitori gèrimo in 13: 8 sorele e 5 fradèi.
Come se magnéa a chel tenpo? Bon, no se ghea mia un fogon come 'desso, ma un fogolaro. Prima de nare in nana, l'ùltima racomandassion la gera senpre la médesima: "Ricordeve de cuèrder el fogo co la cendre"; par far sto laoro se uséa na paleta. Cossì el primo che se levéa sù la matina te na s-cianta el inpisséa el fogo co le bronse del dì vanti.

El cafè de la matina

Te la nostra cosina se ghea el canton de 'e legne, longo do-tre metri. Sul fogolaro che gera na napa fata de strope "rebocà" de tera bianca, che tiréa sù el fumo. De le volte la nostra casa coerta de scàndole la ciapéa fogo insima tel camin e 'lora la mama la trea sù tel fogo un poco de sal par smorsarlo.
Par picar su i brondi sul fogolar se uséa na caena. La matina par far el cafè se tachéa la cafetiera tel gancio de la caena; co un bel fogo in poco tenpo l'aqua bojéa. El mànago de la cafetiera el restéa caldo; 'lora se ciapéa na pèssa de la polenta e se podéa tirar dó la cafetiera o altri brondi sensa scotarse le man.
Dopo se metéa do guciari de cafè; parché 'ndesse do i fundi che restéa tel bèco de la cafetiera se metéa un poca de aqua. Dopo do-tre minuti el cafè el gera bel che pronto. E quando se gujéa el cafè no vegnéa mia fora i fundi, che i se butava via solo dopo na stimana; parché no i deventasse agri no se metéa mai sucro ne la cafetiera. De règola se indolséa el cafè col miel e col sucro rosso che 'l vignéa da Santa Catarina. Ma senpre se ghea in casa sucro Usina, bianco, par quando vegnéa calche vìsita inportante.
El late el gera bujo te la ghisa sensa mànego, metesta in sima el trepìe. Se ghea late de vaca e late de cavra. El popà el magnéa el cafè te la scudela, ma senpre col late de cavra, che 'l gera considarà un grande rimedio. Col cafè e late se magnéa sol pan.


El magnar del medodì

A chel tenpo no ghe gera relogi; alora quando se gera in canpagna par saver se gera medodì se vardèa el sol e l'onbrìa de 'e piante; ghe gera un pin che quando la onbrìa la rivéa su la divisa de la colonia gera ora de 'ndar casa a magnar. Ma el relojo pi giusto gera propio la fame. Se magnéa casa quando se gera darente le nostre case. Se magnéa polenta, tajada col fil de la polenta, formajo, salado, ovi coti te l'aqua o fortaja, carne de vaca, calche galeto o capon. Calche volta ghe gera carne de cavreti co quaranta dì slevài solo a late. Prima de coparli se ghe déa raquanto late, e 'pena copài se ghe tiréa fora el stómego ancora pien de late, se ghe metéa na bona presa de sal e dopo se pichéa sto stómago de late su le travi de la cusina e sto late indurìo el gera el conajo (caglio) par fare 'l formajo. I cavreti se li cosinéa a rosto. Tante volte se magnéa osèi co polenta e vin che no ghin manchéa mai; radici e altre verdure ghin gera senpre a volontà.
Quando se laoréa distante da casa se portéa el magnar te la sestela de la polenta; se gera caldo se 'ndéa soto calche onbrìa, senò se magnéa te la ròssa (roggia) tuti torno la sestela.
La sera el magnar el gera na minestra ben tenperada. La mama la savéa far un desfrito te la parsora che la resta bona che mai.
Come vedì, sti ani se magnéa quasi sol quel che se cultivéa a casa e da le bestie che se slevava, come le vache e le cavre, ne i potrèri o te i staloti, come i porchi. Cada do-tre mesi se copéa un porco par far i saladi, le cope, le sopresse, i codessini, le mortandele, brasole e altro... La carne de vaca la se cronpéa in becarìa. Altri gèneri che se cronpéa el gera el sale, el sucro, el cafè e la farina de manioca par méter te la feisoada co i ossi de mas-cio. In soma, el magnar in chei tenpi el gera guadagnà col nostro sudor e par questo el diventéa pi bon; el gera san, sensa veleni, nò come sucede al giorno de ancó."
de Bepin Daecarbonare

Da "Vita, storie e fròtole" a cura de R. Costa e A. Battistel.

Sti kì de "Coatro Ciacołe" łi trata ła łengoa veneta come diałeto, na łengoa sotana al tałian; łi me fa criar el cor.
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Re: El dialeto no lè na lengoa ma n'edioma sotan

Messaggioda Berto » ven mag 09, 2014 10:27 pm

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Le orixeni pristorego-storeghe de łe łengoe dite diałeti e caouxa de ła vargogna
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... JPY00/edit
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