I rapporti con la CinaI rapporti con la Cina sono condizionati per forza di cose dal fatto che la Cina non è democratica, che viola parte dei diritti umani (libertà religiosa, di pensiero, di parola e altre libertà civili e politiche) e le regole delle libertà economiche con il suo sistema economico ancora influenzato e determinato dal comunismo, tutto incentrato sul capitalismo di stato.Commercio e diritti umani. I nodi irrisolti della CinaL'Europa cerca il dialogo sulle regole, ma il boia non si fermerà neanche durante i Giochi.
anno 2008
http://www.criticasociale.net/index.php ... Iigy7h7mhM Il commissario europeo per il Commercio, Peter Mandelson, si aggiunge a coloro secondo i quali imbarazzare pubblicamente la Cina in questa delicata fase di preparazione ai Giochi Olimpici potrebbe rivelarsi non solo inutile per la tutela dei diritti umani nel mondo ma anche dannoso per gli interessi commerciali del Vecchio Continente. "Dire ai cinesi che ci auguriamo che le loro Olimpiadi falliscano miseramente equivale a precludersi ogni forma di dialogo costruttivo con Pechino", ha ribadito Mandelson in una conferenza stampa tenutasi a Londra.
"Quale dovrebbe essere il nostro obbiettivo?" si è domandato in modo retorico Mandelson, "boicottare un Paese che ha un ruolo centrale negli affari globali? Contrarre i commerci con Pechino quando ormai le nostre economie sono legate a filo doppio con la Cina?...L'Europa deve convincere con il dialogo le autorità cinesi che rispettare i diritti dei tibetani è in primo luogo nel loro interesse." La libertà religiosa è una conquista di civiltà, che non può essere imposta unilateralmente dall'esterno. Alla lunga, quegli Stati che si ostineranno a negare la libertà d'espressione ai propri cittadini si condanneranno irrimediabilmente all'isolamento. Questo il ragionamento del commissario.
Forse Mandelson vuole calmare le acque in previsione del viaggio in Cina che il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, intraprenderà la prossima settimana. La visita in Cina di Barroso inaugurerà un nuovo organismo euro-cinese inteso a facilitare le reciproche relazioni commerciali, l'EU-China High Level Mechanism. Precondizione del buon esito dell'iniziativa sarà la più o meno ampia disponibilità delle autorità cinesi ad abbassare la proprie barriere doganali interne, ad intervenire con misure appropriate sul valore dello Yuan, a migliorare il sistema di tutela della proprietà intellettuale e a sviluppare concrete politche ambientali.
Mentre l'e istituzioni di Bruxelles cercano di trovare un linguaggio comune con Pechino almeno sul terreno commerciale, un altro fronte rovente rischia di aprirsi nella controversia pre-olimpica tra Pechino e quei governi e quei settori dell'opinione pubblica mondiale più attenti alle tematiche concernenti il rispetto dei diritti umani. Secondo i dati di Amnesty International, ripresi dal Guardian, mentre gli atleti di tutto il mondo si sfideranno per la gloria imperitura, i record e le medaglie, in Cina verranno eseguite 374 condanne a morte. Tutto questo solo nelle due settimane centrali del mese di agosto.
Tuttavia, secondo alcuni membri della notissima organizzazione non governativa, le condanne capitali in Cina, leader mondiale nel settore, ammonterebbero addirittura ad ottomila all'anno contro le poche centinaia rese note ufficialmente. Il dato è agghiacciante, così come l'idea che il governo di Pechino non prenda in considerazione l'ipotesi di sospendere le esecuzioni nemmeno durante una manifestazione unica ed ecumenica come le Olimpiadi dovrebbero essere.
Diritti umani: Liú, ombre cinesi sulle libertà fondamentali22 Lug 2018 - Michele Valente
https://www.china-files.com/diritti-uma ... ia-la-cinaTra le motivazioni sostenute dal Nobelkomité norvegese nell’assegnare il riconoscimento per la pace all’attivista cinese Liú Xiǎobō (2010), c’è l’impegno come “forte portavoce della battaglia per la diffusione dei diritti umani“, questione insoluta e drammatica in Cina. A un anno dalla scomparsa, lo scrittore Yedu ha ricordato su amnesty.org che ”con il suo intelletto e il suo fascino era un ponte tra intellettuali e attivisti di base”. Attivo nelle proteste di Piazza Tienanmen (1989), la vita di Liú è stata segnata dalla repressione delle autorità cinesi che, nel 1996, lo condannarono a una pena di tre anni da scontare in laogai, il sistema dei campi di lavoro forzato denunciati dal Congresso statunitense (mozione 294/2005) ed in seguito dal Parlamento europeo e dal Bundestag tedesco, fino all’avvenuta abolizione nel 2013.
Liú fu l’iniziatore di Charta 08 (2008), manifesto sottoscritto da 303 attivisti e intellettuali cinesi in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per promuovere il rispetto dei diritti umani e la democratizzazione nel Paese. Dopo il silenzio della comunità internazionale, negli scorsi giorni, a latere dall’incontro tra il premier cinese Lǐ Kèqiáng e la cancelliera tedesca Angela Merkel, è stata accolta in Germania la poetessa Liú Xia, moglie di Liú Xiǎobō, che da otto anni si trovava agli arresti domiciliari in Cina. La partnership sino-tedesca produrrà progressi sul fronte della salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali della persona? Finora nelle strategie economico-commerciali del governo cinese, in cerca di alleati in Europa per contrastare i dazi statunitensi e sostenere la One Belt One Road Initiative (Obor), l’osservanza di condizioni fondanti la stessa cooperazione internazionale, in primis il rispetto dei diritti, è stata largamente elusa.
La ragnatela della repressione cinese
La stessa inviolabilità delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione cinese – di stampa e parola (art.35), credo religioso (36), dignità personale (38) e critica alle autorità (41) – è stata sovente oggetto di deroghe, come dimostra l’arresto nel 2015 dell’attivista Quin Yongmin, riformista e promotore della democrazia liberale, alla guida di Human Rights Watch China, incarcerato per “sovversione dell’ordine statale” e di recente condannato a 13 anni di reclusione.
L’impianto legislativo cinese, sotto la presidenza di Xi Jinping, ha potenziato il controllo nell’apparato istituzionale e nella società civile: colpendo “mosche e tigri”, ossia funzionari e vertici burocratici, secondo lo slogan di una campagna anti-corruzione (2014), il governo mira a riformare la governance della giustizia cinese, adottando il principio dello yifa zhiguo (“amministrare attraverso la legge”), orientato ad una maggiore trasparenza. Tuttavia, la dipendenza del sistema giudiziario dal potere esecutivo e l’inasprimento delle leggi sulla sicurezza nazionale, mirano “ad evitare che sorga qualsiasi problema suscettibile di minacciare il regime”, spiega a Le Figaro Samantha Hoffman, ricercatrice del Mercator Institute for China Studies, aggiungendo che “oggi le tecnologie forniscono mezzi più efficaci”.
Le attività di watchdog da parte di cittadini e Ong sono sotto il pervasivo ‘occhio’ delle autorità: oltre alla frequente censura di blog e social network, gli oltre 900 milioni di utenti WeChat, principale applicazione di messaggistica cinese, dovranno sottostare a nuove condizioni sul trattamento dei dati personali (settembre 2017), mentre le indagini condotte dall’intelligence stanno portando all’arresto di intellettuali e attivisti impegnati sul web nella difesa dei diritti umani e civili, come Huang Qi (64tianwang.com), Liu Feiyue (Minsheng Guancha) e Zhen Jianghua (Network of Chinese Human Rights Defenders).
Lo scorso maggio, in occasione della sua visita a Pechino, Angela Merkel ha incontrato le consorti di Wang Quanzhang, avvocato ed esponente del Chinese New Citizens’ Movement, spesosi a tutela dei perseguitati seguaci del Falun Gong (disciplina spirituale considerata, nel regolamento approvato quest’anno dal Consiglio di Stato, “un culto malvagio per indebolire il rispetto della legge”) e del suo difensore Yu Wensheng, detenuto anch’egli in attesa di giudizio. “L’escalation della repressione nella Cina di oggi suscita serie preoccupazioni per il suo benessere“, ha denunciato al Guardian l’attivista Michael Caster. Una realtà ignota a larga parte dell’opinione pubblica occidentale.
Diritti negati, un puzzle geopolitico
In chiusura della 38° sessione del Consiglio Onu per i Diritti umani, l’Alto Commissario Zeid Ra’ad al-Hussein ha criticato la Cina per aver negato l’acceso ai rappresentanti del suo Ufficio nelle regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang, “territori nei quali la situazione dei diritti umani è in costante e rapido peggioramento”. Secondo le Nazione Unite, molti episodi di autoimmolazione (sei lo scorso anno, 152 nell’ultimo decennio), sono conseguenza dei reiterati soprusi subiti dall’etnia tibetana “anche a causa di tassi significativamente più alti di povertà, discriminazione etnica e ricollocazioni forzate”.
Nei “campi di rieducazione politica” dello Xinjiang, la minoranza turcofona e islamica degli Uiguri, accusata di radicalismo religioso, è minacciata da rimpatri forzati e rigidi “regolamenti anti-estremismo”, lesivi delle libertà fondamentali.
L’atteggiamento cinese si perpetua anche nelle sedi istituzionali internazionali. Nelle scorse settimane, il New York Times ha stigmatizzato la posizione assunta dai diplomatici cinesi e russi, che propongono di ridurre il numero di operatori impegnati nella salvaguardia dei diritti umani, nella prevenzione degli abusi sessuali e degli gender affairs nelle missioni Onu di peacekeeping.
Le preoccupazione intorno ad un possibile asse Mosca-Pechino, autoritario e liberticida, è suffragata da posizioni comuni assunte in Consiglio di Sicurezza, come il veto sulle sanzioni da comminare alla Siria per l’uso di armi chimiche e la condanna dei crimini contro l’umanità commessi dal governo birmano ai danni della minoranza islamica dei Rohingya . ”Mentre alti funzionari delle Nazioni Unite descrivevano la campagna militare come “pulizia etnica”, i media di Stato cinesi – denuncia Human Rights Watch -, la sostenevano come una ferma risposta ai “terroristi islamici””.
Alberto PentoRiconosco però che nei riguardi dell'Islam la Cina ha delle buonissime ragioni perché l'Islam ha a suo fondamento il nazismo maomettano assolutista, violento, totalitario, disumano che da sempre crea problemi al Mondo e all'Umanità intera.Cina: tra comunismo e capitalismoEmanuele Cuda
5 Aprile 2017
https://www.lindro.it/cina-comunismo-capitalismo Nei primi anni 2000, con l’ ingresso nel WTO (World Trade Organization), la Cina è diventata un player economico mondiale. È uscita dall’ isolazionismo che l’ aveva contraddistinta fino a quel momento, è divenuta una delle BRICS (economie emergenti), attuando una rivoluzione straordinaria: infatti la Cina, che pur si configura, ancora oggi, come una nazione comunista, in cui a giocare un ruolo fondamentale è il partito centrale, si muove in modo del tutto simile alla prima potenza capitalistica occidentale, gli Stati Uniti.
Con l’ elezione di Donald Trump, sembra di esser giunti ad un paradosso: gli Stati Uniti, primi fautori della globalizzazione, annunciano un ripiegamento protezionistico e politiche economiche atte a garantire la produzione americana rispetto ai suoi competitor mentre la Cina, mediante le parole del suo Presidente Xi Jinping, proclama, al forum di Davos, che «dobbiamo dire no al protezionismo. Perseguire il protezionismo è come chiudersi in una stanza buia. Vento e pioggia possono restare fuori, ma restano fuori anche luce ed aria».
Guardando ai numeri, occorre mettere in fila alcuni dati economici, fondamentali per capire la situazione: il 2016 si è concluso, secondo le stime dell’ Economist Intelligence Unit, facendo registrare: agli USA una crescita del PIL reale del 2.0%, con un rallentamento rispetto al 2015; mentre al Dragone una crescita del PIL reale del 6,5 %, con una leggera flessione negli ultimi quattro anni, ma con un contemporaneo abbassamento del debito pubblico.
Secondo le ultime statistiche di Euromonitor International, tra il 2005 e il 2016 i salari orari per i lavoratori della manifattura cinese si sono triplicati toccando i 3,60 dollari all’ora in media. Nel medesimo periodo preso in analisi, la paga oraria dei brasiliani è scesa da 2,90 dollari a 2,70; da 2,20 a 2,10 in Messico. La paga oraria media offerta dalle catene di montaggio in Cina equivale, dunque, ormai al 70 per cento di quella in Portogallo e in Grecia, portandosi molto vicina agli standard occidentali. La popolazione urbana è cresciuta dal 31% del 1980 al 52% del 2013. L’ intenzione di Donald Trump, che come primo atto ha abbandonato il TPP (Trans-Pacific Partnership), dovrà dunque scontrarsi con la realtà, considerando, come ha detto il Presidente cinese, che «è vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla. (…)Piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente».
Questa è una chiara presa di posizione che è in diretto collegamento con l’attività di investimento che una delle più grandi nazioni asiatiche sta effettuando in tutto il mondo, puntando su alcuni settori strategici come ad esempio sulle infrastrutture, nelle cosiddette ‘nuove via della seta’ oppure negli attracchi marittimi come quello del Pireo o sulla tecnologia, dato il forte scarto che divide la Cina dall’ Occidente in questo ambito.
Il colmo, però, è stato raggiunto quando è stata annunciata, qualche giorno fa, l’ intenzione di Chen Feng, proprietario di Hna, holding da 100 miliardi di assets, che detiene il controllo di Hainan Airlines, ma anche di un quarto della catena alberghiera Hilton, di acquisire la rivista americana del capitalismo mondiale, Forbes, nota al pubblico mondiale per le sue classifiche dei miliardari.
L’espansione cinese è stata sostenuta e si è svolta in tutto il mercato occidentale. Secondo il rapporto del gennaio 2017 del MERICS (Mercator Institute for China Studies), l’ investimento cinese in Europa sta vivendo una stagione di crescita, ma questa tendenza non è uguale a tutte le latitudini del Vecchio Continente.
In quest’ occasione, analizzeremo l’attuale ‘contraddizione’ in cui versa la Cina, considerata nei suoi rapporti con l’ Occidente (Europa e Stati Uniti) avvalendoci dell’ esperienza di Michele De Gasperis, Presidente dell’Ufficio per l’Italia dell’ OIUC (Overseas Investment Union of The Investment Association of China), «un network» – come tende a sottolineare il Presidente – «che raccoglie opportunità di collaborazione in tutto il pianeta e le presenta proprio dove vengono discusse le strategie di investimento con un approccio esclusivamente business, in linea con la politica ma non per questo politico» e di quella di due avvocati, Alessandro Bravin e Marco Vinciguerra, i quali lavorano rispettivamente per DeHeng Law Offices di Beijing e per DeHeng Shanghai Law Office di Shangai, studi legali locali che si relazionano quotidianamente con la realtà imprenditoriale cinese.
Iniziamo questa riflessione facendo una considerazione su quanto è cambiata in questi ultimi anni la Cina. Questa trasformazione, come ci dice Bravin, è anche socio-culturale: “Sembra di essere in America. C’è quella visione occidentale, però, senza limiti etici. Forse l’ Occidente ha più etica”. Di fondo, tuttavia, il rovesciamento della chiusura protezionistica messo in atto in questi anni, rimanda ad un altro elemento e cioè che «investire all’ estero» – dice Vinciguerra – “è diventata per i cinesi una necessità perché devono colmare un gap tecnologico con i paesi più avanzati e l’ unico modo per farlo è investire all’ estero. Visto che hanno molte risorse valutarie da utilizzare per questo e provano a fare affari in paesi come l’ Italia dove vi sono aziende che non riescono ad espandersi o che hanno bisogno di un’ iniezione di liquidità e che sono tecnologicamente appetibili per loro. Questo è un fenomeno che è andato rafforzandosi in questi ultimi anni, ma che era già in atto prima, quando non si manifestava in Italia, ma in altri paesi. Questo cambio credo che fosse prevedibile ed anche, se vogliamo, abbastanza previsto”.
Della prevedibilità del fenomeno è convinto anche Michele De Gasperis che ci ricorda che “ in realtà i preludi all’attuale nuovo corso ‘globalizzato’ della storia economica cinese erano già presenti nel 1978, quando l’allora leader Deng Xiaoping iniziò a promuovere politiche basate sull’apertura agli investimenti stranieri, sul commercio con l’estero e sulla valorizzazione dell’iniziativa privata. Il riformismo di Xiaoping nella storia cinese è stato pertanto cruciale e grazie a esso, e con l’adozione di strumenti economici neutrali in precedenza ritenuti esclusivi delle economie capitalistiche, il paese è riuscito a superare la contraddizione apparente tra socialismo e libero mercato. In quest’ottica, quello che stiamo vivendo oggi è senz’altro uno dei maggiori cambiamenti – se non il maggiore – mai registrato sulla scena economica internazionale dal dopoguerra, ma è anche il risultato ormai consolidato di politiche avviate e portate avanti tenacemente per quasi quarant’anni. Tra queste politiche rientra senz’altro la creazione della IAC – Investment Association of China e del suo organismo dedicato agli investimenti all’estero, l’ OIUC – Overseas Investment Union of The Investment Association of China, entrambi appartenenti alla National Development and Reform Commission cinese (NDRC), di cui noi siamo rappresentanti della sede italiana dall’agosto 2016 e – elemento di novità nell’organizzazione – primi, e per ora unici, non cinesi a far parte del team. A testimoniare l’importanza che rivestono oggi gli investimenti esteri per la Cina, la presenza della nostra organizzazione in 120 paesi”.
“Nel momento in cui la Cina ha fatto questi passi da gigante non poteva poi rimanere un paese ininfluente e inascoltato come era in passato. Adesso, invece, se batte il pugno sul tavolo sono costretti ad ascoltarla” dice Vinciguerra. Il tavolo dell’ economia globale è stato scosso anche dalle dichiarazioni di Donald Trump, il quale non nasconde la sua insofferenza per una Cina sempre più protagonista, che si configura come “un’ economia globale” – dice De Gasperis – “con le maggiori riserve finanziarie del pianeta, diventata una delle più importanti basi manifatturiere e tra le prime potenze commerciali al mondo, il paese che attira il maggior numero di investimenti esteri dopo gli Stati Uniti. Gli investimenti e il decentramento dei siti produttivi americani in Cina hanno raggiunto oggi un tale livello che mi sembra inverosimile immaginare che non venga trovato un compromesso tra il corso globalizzato dell’economia cinese e il protezionismo di Trump. Quando ci occupiamo dei rapporti economici tra USA e Cina parliamo di due mercati con un interscambio che supera i cinquecento miliardi di dollari all’anno e cresciuto di oltre duecento volte in meno di quaranta anni. Inoltre, secondo i dati della Us-China Chambers of Commerce, nel 2015 il commercio e gli investimenti bilaterali hanno prodotto 2,6 milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti permettendo alle famiglie statunitensi, in media, di risparmiare circa 850 dollari all’anno. L’auspicio mio e delle business community cinesi, pertanto, è che i rapporti tra i due paesi tornino a essere cordiali, e siamo anzi sicuri che ormai, terminati gli strascichi della campagna elettorale americana, le relazioni stiano andando rasserenandosi”. Secondo lo studio del US-China Council, la Cina è diventata il terzo più grande acquirente di prodotti e di servizi made in Usa per una spesa di 165 miliardi di dollari nel solo 2015. E’ previsto che in soli 10 anni la cifra aumenti fino a toccare i 370 miliardi di dollari, prevedendo che nel 2025 l’ espandersi della classe media cinese, ossia delle famiglie con un reddito sopra i $35,000 abbia toccato quota 160 milioni.
Fonte: Oxford economics US-China
Perciò ricordiamo che proprio domani, 6 aprile, e dopodomani, in Florida, avverrà l’ incontro tra Donald Trump e Xi Jinping, atteso per l’ importanza dei temi che sono sul tavolo: oltre la questione della crisi diplomatico-militare in cui l’ Asia è coinvolta a causa della Corea del Nord e soprattutto dopo l’ annuncio da parte del Presidente americano di un possibile intervento unilaterale a stelle e strisce qualora la Cina non faccia la sua parte, anche il tema economico sarà centrale.
“Un ambiente amichevole sull’asse sino-americano” – prosegue De Gasperis – “ le due economie più forti del pianeta, è senza dubbio un requisito imprescindibile per qualsiasi uomo d’affari che abbia a che fare con uno dei due paesi. E’ anche vero, però, che l’Europa, e in particolare l’Italia, sono da anni amici della Repubblica Popolare Cinese, e un raffreddamento delle relazioni tra Cina e USA potrebbe senz’altro avvantaggiare i rapporti già in essere e valorizzare quei programmi – primo fra tutti One Belt, One Road – da cui dipendono la crescita degli scambi commerciali tra il continente europeo e quello asiatico”.
Nuova via della seta, One Belt One Road
Fonte: MERICS
Alla nostra sollecitazione sulle ‘Nuove Vie della Seta’, De Gasperis tende a chiarire che “il piano strategico One Belt One Road (o Nuova Via della Seta) è centrale nello sviluppo dell’interscambio futuro tra Cina e Europa, e contempla investimenti e cifre tra le più importanti mai programmate per un’opera infrastrutturale di questa portata. In quest’ottica, l’Italia deve assolutamente impegnarsi per essere inclusa il più possibile in questo progetto. E ha tutte le carte in regola per farlo: grazie alla sua posizione geografica l’Italia può rappresentare l’ideale termine portuale per le merci giunte dall’Asia, o la piattaforma di partenza delle merci dall’Europa centrale e dal Mediterraneo. Lo stesso sottosegretario allo Sviluppo Economico con delega al commercio internazionale Ivan Scalfarotto ha ricordato in un’intervista, a seguito dell’acquisizione cinese del porto del Pireo, come «i porti di Genova, Venezia e Trieste arrivino al centro dell’Europa più del Pireo». Diversi nostri associati stanno già facendo forti investimenti in OBOR (One Belt One Road), specialmente nella sua tratta passante per l’Iran. I nostri porti sono molto diversificati per caratteristiche, merci, dimensione e posizione geografica, e pertanto le imprese italiane hanno grande interesse affinché le infrastrutture portuali nazionali siano incluse nel piano strategico e diventino la porta di approdo marittimo di merci da e verso la Cina. Noi come Ufficio Italiano di OIUC stiamo lavorando anche in questa direzione”. Commentando la richiesta di chiarimenti tecnici da parte della Commissione Europea all’ Ungheria circa il grande progetto ferroviario, De Gasperis ribadisce che “occorre reinterpretare correttamente l’asse Cina-Europa, e pertanto auspico che la situazione possa sbloccarsi nel più breve tempo possibile e che con il benestare dell’UE il piano One Belt One Road possa vedere la luce anche in questa sua imprescindibile tratta”.
Aree Europee di investimento cinese Fonte: MERICS
Bravi precisa, confermando, peraltro, quanto registrato dall’ istogramma nel rapporto MERICS, che “se un’ impresa guarda all’ Unione Europea, diciamo che l’ Italia è un obiettivo di secondo o terzo livello perché prima viene l’ Inghilterra oppure la Francia o la Germania. Quando decide di investire in Italia, è perché, probabilmente, in quel settore, l’ Italia è più competitiva e più all’ avanguardia”.
Gran parte dell’ investimento cinese in Europa è destinata al settore dell’ innovazione. Questo ci viene confermato da Vinciguerra il quale precisa che «c’è una grande fame di tecnologia. I cinesi vanno alla ricerca in Italia, ma anche in Europa di aziende che possono saltare quel fosso che altrimenti per loro , gli costerebbe un ritardo di 10-15 anni. Per far questo decidono di investire in aziende che ad esempio hanno dei macchinari il cui know-how è decisivo». «Ma se devono acquistare fabbriche – specifica ancor di più Bravi – si tratta di aziende che si trovano al centro-nord. Diciamo di aziende medio-grandi, con dei fatturati che vanno dai 50 ai 100 milioni di euro».
Circa la preoccupazione cresciuta ultimamente, soprattutto in Germania e Francia, di acquisizioni ‘corsare’ da parte di investitori cinesi, Vinciguerra sostiene che « c’è sicuramente questo elemento di timore che può far alzare delle voci protezionistiche, ma, secondo me, le voci protezionistiche hanno più una valenza politica interna che non globale, commerciale ed industriale perché da sempre questi fenomeni di acquisizione transfrontaliera ci sono e ci saranno sempre. Quindi ora che c’è questo nuovo player che è la Cina, bisognerà abituarsi a fare i conti con questo nuovo elemento, che usa le sue risorse per fare i propri interessi». In questo senso, Bravi concorda e aggiunge che « i cinesi comprano per avere accesso a quei brevetti, a quei marchi, a quelle licenze, proprio per aggirare anni di ricerca o la normativa europea. Mentre in Germania ci sono delle norme precise su quali sono i limiti inderogabili per l’acquisizione da parte di investitori stranieri, tenendo conto anche della strategicità di alcune aziende, in Italia, è vero che ci sia questa paura che stranieri comprino aziende di interesse nazionale, ma che poi siano abbastanza fumosi i contorni delle aziende di interesse strategico. Basterebbe porre delle regole precise. Tenga presente che gli americani individuano la strategicità solo in quelle imprese, in quei brevetti di carattere militare. I tedeschi, da questo punto di vista, sono più rigorosi, per esempio, per quanto riguarda le aziende di telecomunicazioni. Anche se non vedo la corsa all’ Italia, bisogna darci queste regole».
L’ apparente contraddizione che vive in questi anni la Cina è un chiaro riflesso, come ci hanno confermato i nostri interlocutori, della trasformazione in corso. «La Cina» – ha dichiarato Xi Jinping – «ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare». L’ Occidente deve ancora imparare?