Da: Le origini delle lingue europee, del glottologo Mario Alinei Volume IIhttp://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 290004.jpg5.1.2. Nomi del maggeseIn senso molto lato, il «maggese» è la messa a riposo di un campo esausto. In senso più tecnico, è il riposo di un terreno che può essere accompagnato o meno da lavorazioni atte a rivitalizzarlo, che però possono variare molto, sia nella sostanza che nelle modalità.
I raccoglitori dell'AIS per la carta 1417 «
maggese» avevano posto la domanda in termini imprecisi, e quindi avevano ricevuto termini per quattro nozioni diverse:
1) un campo che si lascia incolto per uno o più anni (fr.
friche).
2) Un campo che si lavora (ara o zappa o erpica), ma che poi si lascia riposare (fr.
jachère); questo è, per esempio, il significato tecnico di maggese ancora vivo in Italia centrale e meridionale.
3) Un campo che si lascia «appratare», perché diventi pascolo, o produca fieno.
4) Un terreno che è sempre stato incolto, anche nel passato.
A parte quest'ultimo senso, che non ha nulla a che fare col «maggese», si deve aggiungere che già all'epoca delle inchieste dell'AIS vi erano coltivatori in alta Italia che non erano più in grado di rispondere alla domanda, in quanto il campo «lasciato a riposo» non esisteva più nella loro cultura agricola, essendo sostituito da quello di «rotazione» di diversi prodotti.
Scheuermeier, nel suo magistrale lavoro sulla cultura agropastorale italiana [1943-1956], strettamente legato alle sue inchieste per l'AIS, ci informa che il
maggese all'antica, cioè basato sulla nozione di riposo accompagnato da alcune lavorazioni, era ancora praticato «
nur noch wenig in Mittelitalien, etwas haüfiger in Süditalien» [ibidem, vol. I, 71-73], mentre la rotazione – nella quale egli comprendeva anche l'appratamento – era invece «
fast überall in Italien üblich» [ibidem].
E chiaro quindi che i materiali dell'AIS devono essere trattati con cautela. Prima di affrontarli, dobbiamo poi domandarci:
a quando risale la tecnica del maggese? Se si prende in considerazione il maggese come riposo di un campo accompagnato da lavorazioni come l'aratura del terreno e l'eventuale fienagione, è chiaro che dobbiamo presupporre l'esistenza dell'aratro e della falce fienaia, che sono strumenti, rispettivamente, del Rame e del Ferro. Secondo Forni [1990, 167, 190-191, 224, 282], il maggese rappresenta un notevole progresso nella cultura estensiva,
in quanto non richiede più l'uso del debbio (con la bruciatura, il successivo rimboschimento, e un avvicendamento circa ventennale), e quindi diminuisce di molto il tempo di riposo improduttivo, che è prima di alcuni anni, e diventa poi biennale [ibidem, 224].
Forni inoltre mette in luce un altro aspetto importante del maggese: proprio perché esso implica la «rotazione» di campi lasciati a riposo e campi coltivati, sarebbe molto difficile attuarlo senza proprietà e gestione individuale degli appezzamenti.
Anche questo implica una datazione tarda, in quanto la proprietà privata della terra si generalizza solo nel Bronzo e nel Ferro.
Non è dunque impensabile, conclude Forni, che il maggese come «pacchetto» tecnico sia stato introdotto dai Micenei, sulla scorta di un'interessante ipotesi di Peruzzi che riguarda il termine latino vervactum «maggese» [ibidem, 190-191] (v. oltre).
Inutile dire che, anche se il maggese è molto più recente del debbio, esso ha tuttavia in comune con esso la finalità di rinnovare una terra esausta.
Per questo, vi sono termini del debbio che si sono tramandati come termini per il maggese.Comincio dunque dal nome italiano del maggese, maggese stesso, che è anche uno dei nomi dialettali più diffusi, essendo attestato dalla Toscana settentrionale fino alla Sicilia.
Tecnicamente, designa il campo arato (o lavorato) ma non ancora destinato alla semina.
E una derivazione in
-ensis di
maius «maggio», dovuta, probabilmente, al fatto che in maggio aveva luogo la fienagione (del fieno detto appunto maggese).
Accettando questa spiegazione, avremmo una datazione del termine all'età del Ferro, in quanto la fienagione si lega all'esistenza della
falce fienaia, con lama in ferro [Forni 1990].
Che comunque la nozione del maggese così intesa si leghi alla primavera è confermato dal loguderese (Mores, Padria)
beranile,
vranili (Sorso), gallurese
branili [DES s.v.
veranu; ALEIC 845].
Veranu è infatti il nome della «
primavera» sia in Sardo che in Corsica (e nella penisola iberica); in area venetiana è
Verta.
(Pensiamo alla santa cristana alemanna
Verena che ha sostituito Diana: vedasi “Il linguaggio della Dea di Maria Jimbutas p 110).
Abbiamo poi molti nomi del maggese di origine italide, che dimostrano la grande diversificazione linguistica dell'Italia del II e I millennio a.C., e che raggruppo in base alla analogia della motivazione:
1) il tipo calabrese
domitina, da voce corrispondente al latino
domitus «acculturato, non selvaggio», che riflette la coscienza della scoperta del controllo sulla produttività della terra acquisito mediante la nuova tecnica;
2) il tipo meridionale annicchiaro e derivati, da connettere a
annicularius, chiaramente recente perché legato alla nozione di un riposo annuale, e quindi a un avvicendamento biennale.
È attestato anche in Sardegna settentrionale (
annighina);
3) il tipo sardo
vetustu «terra lavorata l'anno precedente» (l'Errata corrige dell'AIS corregge
vetristu), e lombardo-veneto-nord-emiliano
eder, veger, vegro, vegra ecc., tutte voci derivanti da voci corrispondenti al latino
veterem, che si lega alla stessa equazione arcaica «un anno =
vecchio», che appare in molti nomi di animali, come
vitulus.
Non è chiaro se il campo «vecchio» così inteso sia lavorato;
4) l'hapax nord-pugliese
lavorìa (P. 705), la cui base
labor- in origine significava «pena», e quello lucano
fatica (P. 733). Sono i più espliciti riferimenti al riposo «lavorato» e, allo stesso tempo, al lavoro servile (che implica una datazione all'età del Ferro).
5) il tipo italiano letterario
soda,
campo sodo (e
sodaglia, che però non è attestato nella carta dell'AIS), da voce corrispondente al latino
solidus. Il suo areale va dal-l'Emilia all'Abruzzo e alla Campania.
E certo uno sviluppo autoctono in gran parte della regione, perché mostra ovunque gli stadi di sviluppo dal suo etimo corrispondente a
solidus (voce da cui probabilmente deriva lo stesso latino
solidus).
Al Sud infatti appare spesso nel tipo
savid-, saud-, addirittura
saur- e segur-; in Emilia appare anche nelle varianti
saldo (cfr. it.
saldo e saldare), e
saudo, da cui poi si sviluppa poi il
sodo toscano e centrale.
La variante campana
sallone (P. 725) preserva invece il tipo
sall-, che appare per esempio nel nome latino
Sallustius.
Varietà di esiti che rinvia ad una grande differenziazione di fondo.
Il campo «sodo» è, per definizione, non lavorato, in quanto «non dissodato»; 6) il tipo calabrese
margiu, che il
Rohlfs – non si capisce perché – considera arabo, mentre sarà un semplice derivato da voce corrispondente al latino
margo-inis «
terra di confine» (come spesso era il terreno lasciato a riposo);
7) il tipo siciliano nord-occidentale
kuntsarru (assente nel DS), interessante sia per la sua nozione di base, da voce corrispondente al latino *
comptiare «adornare, ordinare» (cfr. it.
conciare, acconciare, concime ecc.), che ben riflette la natura dell'intervento sul terreno lasciato a riposo, sia per la presenza del suffisso -
arru, tradizionalmente considerato pre-IE (Rohlfs), mentre si tratta di un'antica tendenza ad assimilare la -j- di
-ariu [Alinei 1965 e v. oltre]; vedasi toponimi come
Arre nel padovano (?);
8) il tipo meridionale (pugliese e calabrese) (fare)
abbendare «riposare», da voce corrispondente ad
adventare;
9) il tipo
prato (lasciare a prato e simili), da voce corrispondente a lat.
pratum, frequente nell'area alpina;
10) il tipo ladino
novale, da voci corrispondente al latino
novalis (vedasi toponimi come
Noale nel veneziano,
Novoledo nel vicentino,
Novaledo nel trentino; ecc.);
11) il tipo ladino occidentale
gir (
giraun giranc ecc.), di etimologia controversa, collegato a
*gerwo- o a
vervactum [DRG s.v.
gir(1), art. di Felix Giger]. A mio avviso, i due suffissi -
anus e -an(i)cus farebbero pensare a
ver-anus, ver-anicus; (vedere toponimi Verona, Verena e altri ??)
12) per
vervactus v. oltre. Fra i prestiti troviamo:
A) tipi greci come
yertsu o
chersu, da
chérsos «secco, sterile, solido» (cfr.
Chersoneso, e
cherseía (Esichio) «terra incolta»,
chersóō «rendere incolto»;
greco moderno
chérsos «maggese»), che appare solo nell'estremo Sud, e a poca distanza dalla costa. È probabilmente legato alle antiche colonie greche, quindi, per la TC, contemporaneo dei tipi latino-italici.
Inoltre
sterno, da
sternios «sterile», anch'esso attestato nell'estremo sud.
B) Il tipo sloveno pustota, letteralmente «abbandonato, incolto», che è largamente attestato in Venezia Giulia, e penetra fino alla Val Pusteria (slovn. pust «prato alpino che non viene più mietuto» (cfr. cap. XVIII, e v. oltre).Nel contesto della TC, è difficile spiegare la presenza di questo tecnicismo agricolo in Venezia Giulia e oltre, senza postulare stretti contatti fra Italia nord-orientale e Slavia meridionale nell'epoca in cui nasce la nozione. C) Il tipo celtico (gallico)
*gerwo- [FEW], attestato in Francoprovenzale e in Occitano, in tutto il Piemonte, in Liguria e in Toscana settentrionale, oltre che in Sicilia, dove è assai diffuso.
Hubschmied l'ha connesso, tramite una variante
*garwo-, ad antico irlandese
garb «crudo», cornico
garw «crudo», bretone
garô, e all'altoitalico
garbo «acerbo» e simili.
D) Il tipo germanico rappresentato dal francese
friche, attestato nel Nord-Est della Francia. Nell'ambito della TC si lascia interpretare come il riflesso della prima neolítizzazione del bacino di Parigi da parte dei gruppi portatori della LBK, mentre la presenza di
vervactum nel resto della Francia conferma il carattere «italide» della maggior parte della Francia, primario in Francia meridionale, o secondario nel Nord, per effetto della
cultura di Chassey.
7.4.3.2. Fr guéretCome nome del
maggese, il latino
vervactum si continua in Francia, col tipo
guéret «
terre labourée, mais non encore ensemencée».
«
Das Wort lebt im Süden, bis zur Loire, sowie im Westen bis in díe Normandie. Im übrigen Nordfrankreich ist es dem aus dem aus dem Germ. stammenden friche gewichen» (FEW s.v.
vervactum).
Spagnolo
barbecho, portoghese
barbeito, loguderese
barβattu «maggese», campidanese
braβattu, risalgono invece a una geovariante betacizzata
berbactum (attestata nella
Mulomedicina Chironis), da cui *
berbactum per assimilazione vocalica. Solamente in Francia, dunque, avremmo avuto l'esito celtico della
w- iniziale.
Mentre questa etimologia rappresenta una soluzione ottimale per la spiegazione del termine francese, le difficoltà di quella tradizionale sono ben espresse dal FEW: «
Dock muss sich hier das lt. Wort mit einem germ. getroffen haben, von dem es den Anlaut übernommen hat». Anche secondo Wartburg il termine germanico che avrebbe contaminato quello latino non si lascia identificare!