Umanizzazione e incarnazione di Dio

Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:01 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:02 pm

Dio è in tutte le cose, in tutte le creature e in ogni luogo da sempre, a prescindere dalle religioni e dai loro idoli e non si può vedere ma solo vagamente intuire.
E non occorre affatto vederlo nelle cose e nelle creature affinché queste abbiano un valore o un disvalore, poiché le cose e le persone hanno valore di per sé se portano del bene e disvalore se portano del male


Ciò che si può vedere sono soltanto le interpretazioni idolatre di Dio o idoli.

Quando vedo gli uomini non vedo Dio ma solo l'umanità, non vedo figli di Dio ma delle creature di Dio tra le tante del Creato o Universo e non sempre da considerare buoni fratelli e amici

quando vedo Cristo non vedo il figlio di Dio ma solo un uomo, un ebreo con le sue fisime religiose fanatiche e idolatre

quando vedo dei bambini non vedo Dio ma solo i figli degli uomini

quando vedo dei malati e dei sofferenti non vedo Dio ma uomini che soffrono affetti da qualche male curabile o mortale

quando vedo dei poveri non vedo Dio ma solo umanità misera e non per questo necessariamente sempre buona e vittima
anche quando vedo dei ricchi non vedo Dio, tanto meno il Diavolo, ma solo umanità ricca e non per questo sempre malvagia e carnefice

quando vedo il Papa cattolico romano non vedo il vicario di Dio ma un presuntuoso idolatra seguace del fanatico idolatra ebreo chiamato Gesù Cristo; qualcuno che nella sua presunzione e arroganza non mi rispetta e viola i miei diritti umani, naturali-civili e politici

quando vedo un maomettano non vedo un un uomo di grande umanità e di profonda spiritualità ma solo il fanatico seguace dell'idolatra Maometto e del suo idolo dell'orrore e del terrore, portatore di morte più che difensore della vita e dell'umanità universale; qualcuno che può farmi del male e uccidermi

quando vedo un ebreo il più delle volte vedo un buon uomo, un uomo di buona volontà, sempre impegnato e che cerca di migliorarsi, dal cuore grande, dalla acuta sensibilità, di grande e ragionevole spiritualità; che lotta da uomo universale per la sua dignità, la sua libertà, la sua terra e la sua vita; un uomo che non viola i miei diritti umani e che non mi può fare del male tanto meno uccidermi

quando vedo Dio non vedo un distributore automatico o un bagarino di cittadinanze.
Bergoglio ti ricordo che l'ebreo Gesù aveva la sua naturale cittadinanza ebraica ed era suddito di Roma che aveva invaso la sua terra; l'ebreo Gesù non distribuiva cittadinanze, né quella ebraica, né quella romana.
Nemmeno Dio il creatore, distribuisce le cittadinanze a suo capriccio ma lo fa in modo naturale, nel rispetto della preistoria, della storia, delle etnie, delle culture, delle lingue, ogni popolo la sua terra e ogni comunità la sua città ed il suo paese, così è da sempre; ti ricordo anche che non esiste la cittadinanza mondiale e che gli uomini quando nascono hanno tutti la loro cittadinanza naturale quella originaria del popolo a cui appartengono e che caso mai possono cambiare cittadinanaza o acquisirne un'altra in modo naturale attraverso l'adozione, il matrimonio, meriti speciali o dopo qualche anno di permanenza nei paesi altrui dimostrando amore e rispetto per quel paese e le sue genti.


Io non amo il mio prossimo perché ci vedo Dio o un idolo ma perché è il mio prossimo e ci vedo l'umanità e me stesso;
però amo solo quelli che mi fanno del bene e non quelli che mi fanno del male e che possono e vogliono derubarmi, opprimermi e magari uccidermi;

io non aiuto il mio prossimo perché ci vedo Dio o un idolo ma perché è il mio prossimo e ci trovo l'umanità e me stesso;
però li aiuto solo se posso e se l'aiutarli non arreca danno e pregiudizio alla mia gente e a me stesso;
e sopratutto non trascuro la mia famiglia, la mia gente e me stesso per aiutare altri; il mio dovere umano e civile va innanzi tutto verso la mia gente, la mia famiglia e me stesso.
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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:08 pm

La religione con un Dio umanizzato

Le religioni come umanizzazione di Dio, quella grande entità sconosciuta universale e naturale che però si sente e che ci anima da sempre e che non può in alcun modo identificarsi con gli idoli della varie religioni, tanto meno con l'ebreo Cristo divinizzato dai cristiani.
La cosa più vicina a Dio è la vita che pulsa e che anima l'universo, che ogni creatura sente in sé, nel proprio cuore, essere, esistere

Non si confondano Dio e lo spirito santo naturale e universale, dotazione di tutte le creature del Creato o Universo, con le loro interpretazione fatte dalle religioni idolizzate.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:11 pm

Trattato di Antropologia del Sacro
Vol V – a cura di Julien Ries
Milano 1993, pp. 362
Giuseppe Lampis

https://www.atopon.it/trattato-di-antro ... -del-sacro

Dopo i primi tre volumi del Trattato di Antropologia del Sacro, nel settembre del 1993 è uscito il quinto (quello previsto sulle religioni e culture asiatiche australiane e amerindie non era ancora pronto).

Julien Ries, che dirige l’intera opera, è autore dell’introduzione e del breve saggio conclusivo, la prima sulla parabola evolutiva dall’homo symbolicus all’homo religiosus del Vicino Oriente fino alla specifica esperienza abramica, il secondo sulla trasformazione dell’idea di sacro in quella di santo nelle tre fedi monoteiste di cui al titolo.

Il Trattato ha finalità didattica e vuole offrire un quadro di massima di una nuova disciplina, l’antropologia religiosa. Si può individuare l’antropologia specifica delle singole religioni, dalle Upanishad al pensiero biblico, ma sotto di esse si può cogliere una disposizione permanente dell’uomo alla religione. I documenti che, dal Paleolitico ad oggi, esprimono il rapporto dell’uomo con il trascendente sono alla base della nuova disciplina. L’uomo, come soggetto dell’esperienza del sacro, è il tema dell’antropologia del sacro: Julien Ries, dell’Università di Lovanio, ha coordinato un ampio lavoro interdisciplinare per rendere l’universo di simboli, miti e riti, in breve il vissuto, dell’homo religiosus, lungo la linea che ha preso avvio da Rudolf Otto, Gerardus van der Leeuw, Mircea Eliade, Friedrich Heiler.

Ogni volume del Trattato esegue, pertanto, il compito di lumeggiare, secondo diversi approcci ma in un quadro di sostanziale comparatismo, l’dea propulsiva che sta alla base di grandi complessi religiosi accomunati da storie e tradizioni specifiche.

Nel presente, tra l’introduzione e le conclusioni di Julien Ries, troviamo saggi sul mondo prebiblico sumero e babilonese, sull’Antico Testamento, sulle pratiche del giudaismo, sul Nuovo Testamento, sull’antropologia cristiana, sulla fede musulmana.

Il filo che tutto lega è evidenziato nelle conclusioni. Siamo qui al cospetto di tre grandi tradizioni religiose che rappresentano un culmine dell’esperienza umana, ma anche un incontro difficile e spesso ricco di contrasti: i tre grandi monoteismi abramici hanno riferimenti comuni della massima importanza e molti fatti, a partire dalla stessa sede geografica e storica, li stringono.» è perciò necessario andare a vedere quale esperienza costitutiva sia alla base di tale intreccio.

Il ceppo fondamentale delle tre religioni è nella rivoluzione ebraica, con la quale si esce dalle ierofanie cosmiche e si trova il sacro nella storia degli uomini. Il monoteismo avvicina l’uomo alla sfera divina e lo impegna ad una nuova responsabilità : se Dio si esprime nella storia, l’uomo è chiamato ad eseguire il compito che gli viene assegnato e le sue azioni dovranno manifestare il piano divino. La nuova ierofania, per l’Ebraismo, è dunque l’uomo stesso, immagine di Dio.

L’approccio di Ries concerne proprio l’idea di sacro e la sua evoluzione nell’idea di santo.

Il sacro biblico non è comprensibile senza il quadro di riferimento sumerico e accadico, e il lessico dei redattori dell’AT contiene i termini derivati dall’antica radice semita QDSH la quale ha già avuto una lunga storia nel momento in cui si forma l’ebraico. Il significato che viene ricevuto così, con la nozione di consacrazione, è quello positivo di appartenenza e di avvicinamento piuttosto che quello di separatezza. Del resto, Sumeri e Semiti attribuiscono alle divinità un potere di irraggiamento e splendore di fronte al quale il credente è sempre preoccupato di conoscerne e osservarne il senso.

Il Dio di Abramo accompagna l’uomo nel suo cammino, gli parla e lo ascolta; il Dio di Mosè si impegna con il suo popolo: nello strato pù antico dell’AT, i termini derivati da QDSH indicano già una consacrazione legata alla storia della salvezza.

Saranno i profeti, e soprattutto Isaia, a trasformare la nozione di sacro in quella di santo. La condizione di santità si interconnette con la pratica della giustizia, e non è pù qualcosa di eccezionale e momentaneo ma un’impronta costante. Per Isaia, Dio è il santo che chiama l’uomo a essere conforme con la sua volontà giusta e ad appartenere in tal modo alla sua santità. Ma, dopo l’esilio, Israele rifluisce su di un senso del sacro e del santo circoscritto al culto e riferito alla prospettiva messianica, anche se sempre in relazione con la vita dell’uomo e con la sua salvezza.

In sostanza, la parabola impressa all’esperienza del sacro da parte dei profeti approda a un risultato fortemente innovatore: il culto del sacro non concerne più la natura bensì il tempio interiore. La centralità della fede indica che sta nel cuore dell’uomo la sede propria della potenza divina.

L’affermazione del monoteismo ha comportato la demitizzazione delle forze cosmiche, la soppressione dei culti di fertilità, il superamento del numinoso legato agli idoli, l’assoggettamento del potere politico alla giustizia di Jahvé; l’intera comunità si consacra al Dio unico che è un modello e un comandamento. Dopo l’esilio e la scomparsa della re – che era l’Unto del Signore – gli uomini potranno salvarsi e santificarsi, infine, accogliendo il Messia, vivendo nell'annuncio dell’avvento dello Spirito di Dio, e cioè seguendone la giustizia.

Il cristianesimo è una reinterpretazione radicale dell’AT. Il Dio santo si avvicina agli uomini attraverso il suo eccellente inviato. Questi è il Santo di Dio, e in comunione con lui gli uomini sono rinnovati e cooptati in una nuova creazione. In effetti, Gesù è l’Uomo perfetto in cui si esplicita la originaria potenza di Dio dapprima raccolta in sé. I Padri della Chiesa hanno lavorato sulla nozione di immagine (dal libro della Genesi: Dio creò l’uomo a sua immagine) e hanno identificato nell’uomo la rivelazione, il farsi visibile, di Dio.

I cristiani sono pertanto gli uomini nuovi, misticamente associati al Cristo risorto, investiti in tal modo dallo Spirito di Dio, chiamati e consacrati non per via esterna e rituale bensì per via spirituale dalla parola: dall’esprimersi divino, si potrebbe dire.

Uno sviluppo e un’intensificazione di grande portata, dunque, dell’dea di santo già presente in Isaia. Il Cristo è l’Uomo, e l’Uomo è la santità stessa di Dio che si affaccia fra gli uomini e, accomunandosi a loro, muta il loro statuto.

La nuova antropologia cristiana nasce dalla liberazione integrale dal numinoso delle forze naturali (che saranno riutilizzate e riconsacrate in un’altra ottica, quella messianica) per far luogo al numinoso della parola: il Cristo-Parola. L’esperienza del sacro è esperienza di dialogo e comunicazione.

Dal canto suo, l’Islam configura un monoteismo intransigente in cui Allah penetra tutto l’universo e ogni uomo senza alcuna mediazione. Allah non si fa mediare neanche dalla sua stessa parola, la quale non è realtà autonoma e capace di sussistere di per sé. La onnipotenza di Dio è rigorosamente senza limiti. Nessuna persona gode di una consacrazione permanente, né possono darsi strumenti sacramentali: solo ed esclusivamente Dio è santo, al-quddus, e può dare santità.

Possono sussistere sacralizzazioni temporanee (quella che si acquisisce all’inizio di ogni pellegrinaggio alla Mecca, per es.; o nella profonda genuflessione con il viso verso la stessa); alcuni, a partire dal profeta, godono di particolare considerazione, ma la consacrazione – e l’interdizione – scaturiscono solo dal comando di Dio.

Il termine per indicare il sacro, nell’Islam, risale alla radice HRM (diversa come si vede da quella biblica): essa contiene sia il significato di mettere da parte ciò che è consacrato (luoghi, tempi), sia di interdire (cose o atti impuri).

L’unico vero ruolo dell’uomo è quello di ubbidire a colui che tutto pervade e tutto può.

L’impostazione antropologica delle ricerche non deve essere fraintesa. I tre grandi monoteismi non sono lo stadio superiore di una catena evolutiva, né poggiano il loro valore sul fatto di aver innovato o modernizzato, per così dire, rispetto alle precedenti esperienze. Se così fosse, la iconoclastia dell’uomo moderno e il compimento della secolarizzazione o della demitizzazione sarebbero conclusive e supreme.

Al contrario, l’avvicinamento e la intima presenza del sacro non abolisce l’attesa o l’ubbidienza. Piuttosto, in tale forma, si indica che anche e soprattutto nell’interiorità non c’è posto solo per l’uomo banale e mondano. Insomma, l’approccio antropologico, lungi dal chiudere l’uomo nella sua dimensione orizzontale, mostra che gli è invece costitutiva l’apertura verso una dimensione trascendente: e, al tempo stesso, mostra che il divino lo compenetra nella sua più peculiare natura.

La dialettica di avvicinamento e attesa è chiara in tutti e tre i monoteismi.

In quello ebraico, prevale il tradizionalismo: l’attributo di sacralità, che definisce la potenza di Dio, non si traduce mai definitivamente in quello di santità ; la santità è una condizione in cui Dio e uomo possono ritrovarsi insieme perché ambedue conformi a una regola unica, la giustizia. La giustizia, mentre eleva l’uomo a Dio, fa scendere Dio verso l’uomo. Tale idea è preparata da quella di alleanza e patto e riceve l’impulso decisivo dal riconoscimento che gli atti di Dio e gli atti degli uomini rientrano in un destino comune. L’idea di santità considera la possibilità di una divinizzazione dell’uomo e di una umanizzazione di Dio. Ora, il pensiero ebraico non arriva mai a tanto: la sua idea di sacro resta qualificata dalla trascendenza, nonostante l’avvicinamento e l’alleanza. Il Dio dell’alleanza resta comunque lo stesso di quello della promessa, vale a dire di quello legato a un fine da compiere perché non compiuto. Dio accompagna sì l’uomo, ma resta Dio. Non solo: ma, mentre l’idea di santità valorizza l’interiorità atemporale e aspaziale, la sacralità è legata al concreto, del rito e del tempio. Quando il tempio sarà distrutto e il popolo disperso, il tempio-città sarà comunque con l’uomo storico ma nella forma del tempo e dello spazio sovraumani della promessa.

Nel cristianesimo, la rivelazione della divinità nella parola introduce oltre un passaggio stretto, che non è già la meta. L’ascolto e il dialogo possono darsi in una lingua e in una sede ritrovate e tuttavia sono aperte alla trascendenza, tanto che la conclusione che potrà esserne data coinciderà con la stessa conclusione del cammino umano. L’uomo che rende visibile Dio è un risorto, e ogni uomo deve – da morto quale è – farsi vivo per poter essere quell’uomo e il vero se stesso.

Nell’islamismo, l’esperienza di Dio è esperienza di abbandono totale e di fede senza residui.

Dunque, lo studio antropologico, che accerta differenze e contrasti fra le tre storie e i tre credenti, riesce a mettere in luce una base comune alle tre tradizioni, le quali risalgono a un patriarca comune, ad Abramo, il pastore che ubbidisce, ascolta, parla con Dio.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:11 pm

???
L’UMANIZZAZIONE DI DIO
p. Josè M. CASTILLO
Centro Studi Biblici G. Vannucci di Montefano
17 settembre 2009

https://www.studibiblici.it/eventi/cast ... edidio.pdf

Quando si parla della cristologia, la prima domanda che ti fanno: Ma Gesù è Dio? E io rispondo: “Cosa mi sta domandando, lei? Perché mi sembra che lei sappia cos‟è Dio, come è Dio, chi è Dio.
Lei lo sa”. Ho spiegato e spiego in questo libro che per definizione Dio è il trascendente. E il trascendente vuol dire essenzialmente quello che trascende, ma cosa trascende? Tutto quello che noi possiamo comprendere.
Perché il trascendente per definizione è quello che si trova al di là del limite ultimo della nostra capacità di pensare. Perché noi non possiamo pensare se non oggettivando perché non abbiamo altra capacità di pensare; anche le definizioni più astratte della metafisica su Dio, l‟infinito, l‟assoluto, l‟eterno, l‟onnipotente, sono oggettivazioni.
Perché Dio non è nulla di tutto questo. Queste sono le rappresentazioni che noi ne facciamo, rappresentazioni mentali, si fanno anche le rappresentazioni del vecchio signore con la barba, o il triangolo con l‟occhio, altre che per i bambini, per gli intellettuali, per la metafisica, Aristotele e tutta questa roba del pensiero ... ma tutto questo non è Dio

Perché? Perché Dio non è un campo immanente della nostra capacità di pensare, se non per quel processo che Poricher ha spiegato molto bene, il processo di conversione diabolica in virtù del quale il trascendente degenera in un oggetto. E questo non è Dio, allora! Guardate che io non parlo dal punto di vista dell‟ontologia dell‟essere, ma dal punto di vista dell‟epistemologia della conoscenza. Non metto in dubbio l‟esistenza di Dio, ciò che metto in dubbio sono le rappresentazioni che noi facciamo di Dio.
Questo mi pare che sia sufficientemente spiegato. Per finire questo primo punto, prima domanda su Dio; se lei mi domanda : “Gesù è Dio?” e se teniamo conto di quello che ho spiegato si capisce subito che la domanda non ha nessun senso. E non ha nessun senso perché lei sta domandando una cosa che non sa.
...
E' una vera identificazione. E infine, ricordate anche tutti i testi che si trovano nel quarto Vangelo, in Giovanni, nel Capitolo 13 “chi ascolta voi ascolta me e chi ascolta me ascolta colui che mi ha mandato”, “chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”, “chi disprezza voi disprezza me e chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato”. Cioè è una corrente di identificazione!
Quindi, conclusioni. Quando parliamo del mistero dell‟incarnazione, non si tratta di dire che l‟uomo è divinizzato, ma di una cosa che non abbiamo avuto il coraggio di dire: il cristianesimo crede in un Dio che ha rinunciato alla sua condizione divina e si è identificato con l’umanità.
E l‟ha fatto in modo tale che solo trovando l‟umanità di ciascuno, di ognuno, e secondo il rapporto che abbiamo con l‟umanità, con ciò che è umano, possiamo trovare Dio.
Non c‟è altro cammino, né altra possibilità.
E pensate che il rapporto con l‟umano non è una realtà specificamente religiosa, ma una realtà specificamente laica. Quindi lo specifico del cristianesimo è il rapporto con Dio partendo dalla laicità, per mezzo della laicità e vivendo pienamente la nostra condizione laica. Perché?
Perché soltantola laicità è comune a tutti gli esseri umani. E' chiaro questo?
Perché se cominciamo dalla religione, allora, siccome la religione è sempre un fatto culturale, secondo la molteplicità di culture, c'è la molteplicità delle religioni e siccome le culture siidentificano normalmente anche con la politica, la religione diventa un principio di frattura, di divisione, di confronto, di lotta e di violenza! E come è possibile trovare Gesù in questa condizione?
...
Domanda:
ho letto il tuo libro “Dio e la felicità degli uomini”, e ho scoperto finalmente che Dio ti ama e ti vuole bene e ti vuole felice, non ti costruisce una croce, un sacrificio continuo, giusto per le nostre spalle. E di questo devo ringraziarti.
In questo libro “Dio è Gesù. Gesù è Dio”, e da lì ho capito che è nella sofferenza e nella debolezza estrema con gli uomini; nel momento della morte, questa è la domanda, io ho capito che è più vicino di sempre. Ho sbagliato o non ...
Risposta:
sono assolutamente d‟accordo. Soltanto sottolineando una cosa che è molto importante. In quel momento, quando siamo più vicini alla morte e nel momento della morte, che è il momento della suprema debolezza, Dio è vicino, è confuso, identificato con noi, non per le nostre credenze o per la nostra religiosità, ma per la nostra debolezza e per la nostraumanità.
Domanda:
all'inizio provocatoriamente ha parlato della passione e della morte di Gesù come un atto sembrerebbe di infantilismo di Dio per togliere i peccati del mondo. Come la vede lei il senso della passione e la morte di Gesù? Ecco se fa una precisazione.
Risposta:
Sì. Il valore e il senso della morte di Gesù ha una causalità, ma utilizzando un linguaggio tradizionale, scolastico, la causalità è una causalità efficiente o è una causalità esemplare? Cioè quello che Gesù ha fatto quando è morto è che la morte di Gesù ha cambiato Dio? Prima era arrabbiato e dopo no?
Allora la morte di Gesù sarebbe stata una resa dei conti tra Dio e Dio. Resa dei conti, se tu hai un debito con me o io con te, si fa un regolamento dei conti. La morte di Gesù non si può interpretare così, la morte di Gesù ha una effettività, ed è‟ l'effettività esemplare. Gesù è un esempio. E' l'esempio di un uomo che, per guarire gli ammalati, per umanizzare la convivialità e umanizzare i rapporti umani, è entrato in conflitto con la religione e la religione lo ha ammazzato.
Questo è l'esempio, semplice e forte.


L'UMANITA' DI DIO, di José Maria Castillo

http://monasterodelbenecomune.blogspot. ... tillo.html

Di seguito, in una traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci del lungo discorso di investitura del teologo spagnolo José Maria Castillo (la versione integrale in lingua originale può essere letta sul portale Atrio all’indirizzo www.atrio.org). [tratto da Adista Documenti n.47 del 18 giugno 2011]

PENSARE AL TRASCENDENTE DALL’IMMANENZA

(…) Per definizione, Dio è il Trascendente. Con ciò, se parliamo del “Trascendente” e del “trascendentale” nel senso proprio e preciso di ciò che si situa oltre i limiti della nostra conoscenza sperimentale e dimostrabile, ci riferiamo a una realtà che non conosciamo. (…). Ne discende che il “trascendente” è “l’assolutamente altro” in relazione all’“immanente”, che è quanto ricade sotto la nostra capacità di conoscenza. Dall’immanenza, possiamo solo pensare, dire e spiegare “l’immanente”. Perciò, quando le religioni (…) ci parlano di Dio, in realtà non parlano, né possono parlare, di “Dio in sé”, ma delle “rappresentazioni” umane di Dio. Tali rappresentazioni non sono che “oggettivazioni” o “cosificazioni” dell’Assolutamente Altro, del Trascendente, che è Dio. (…).

Se ricordo tali cose, è perché mi pare siano alla base di fenomeni culturali e sociali di enorme portata, che nel nostro tempo stiamo vivendo e soffrendo. Mi riferisco al processo attuale della crisi della fede in Dio, della crisi della religione, della crisi della Chiesa. E al fenomeno, antico e moderno, della violenza che, come spiegherò, racchiude profonde connessioni con il fatto religioso.

LA CRISI ATTUALE DELLA FEDE IN DIO

Quanto alla crisi attuale della fede in Dio, va chiarito per prima cosa che la spiegazione ultima di questa crisi non è nelle ragioni addotte spesso dai teologi, dai sacerdoti e dai vescovi (…). Se molti hanno abbandonato la loro fede (…) è perché è stata loro offerta un’immagine di Dio così deformata da farlo apparire a molti cittadini inaccettabile e persino insopportabile. (…).

Perché la gente pensa a Dio, cerca Dio, crede in Dio? Che necessità abbiamo di ciò che chiamiamo “il trascendente”? Non sarebbe meglio prescindere dalla complicata questione di Dio e delle religioni, per vivere (tranquillamente e senza altri problemi) la nostra limitata condizione umana? Il fatto è che gli esseri umani, dalla loro oscura e arcana preistoria, e nella nostra già lunga storia, non hanno potuto prescindere dalla ricerca di Dio. E ciò proprio a causa delle nostre carenze e dei nostri desideri sempre insoddisfatti. (…). Per questo – esattamente per questo – su questo “Altro”, su questo “Tu” che immaginiamo sia Dio, abbiamo proiettato tutto ciò che desideriamo e di cui manchiamo: potere, saggezza, durata, bontà, felicità… E così abbiamo elaborato l’immagine e la teologia di un Dio che può tutto, sa tutto, ha tutto, ed è la bontà infinita e la felicità senza limiti. È il Dio illimitatamente perfetto di fronte alla nostra limitata imperfezione.

(…). Ma, senza dubbio, non ci siamo resi conto che questo “Altro”, questo “Tu”, questo “oggetto” della nostra mente, è (prima di tutto) questo: un oggetto della nostra mente. Un prodotto, cioè, della nostra immanenza e, pertanto, una realtà immanente, per quanto pomposamente ci si impegni a dire che è il Trascendente. Siamo immanenti e non possiamo uscire dalla nostra immanenza. Perciò, (…) quando abbiamo cercato di superare l’orizzonte ultimo della nostra limitata immanenza, la “rappresentazione del Trascendente” da noi elaborata non ha funzionato. Semplicemente, perché ne è uscito un Dio contraddittorio. Contraddittorio perché risulta evidente che, per come è fatto, questo mondo, che (secondo i teologi) ha la sua origine nella decisione e nel potere di Dio, non può essere stato pensato e creato da un essere che è, allo stesso tempo, infinitamente potente e infinitamente buono. Perché entrambe le cose sono incompatibili con il male, l’eclatante e terribile problema dei tanti mali che soffriamo e dobbiamo sopportare in questa terra. (…).

Ma c’è di più. Perché questo Dio, (…) oltre che contraddittorio, è anche pericoloso. E con ciò passo direttamente a un altro fenomeno che in questo momento preoccupa tutti enormemente e a ragione. Mi riferisco al fenomeno della violenza. (…).

LA FEDE IN DIO COME SAPERE E COME CONVINZIONE

(…) Perché la relazione con Dio possa aver senso (soprattutto ora) ed essere accolta dalla gente del nostro tempo, deve essere non una relazione fondata su credenze centrate sulla metafisica dell’“essere”, ma una relazione basata sulla prassi stórica che si realizza nell’“accadere”. (…).

Per questo, senza dubbio, il giudaismo non ha centrato la sua relazione con Dio sulla fede, ma sulla prassi, sull’azione, sulla condotta, sul compimento della Torah. Pertanto, con ogni ragione, si è detto che, quando nella letteratura rabbinica si utilizza il concetto di “uomo di fede”, ciò che si vuole esprimere è un determinato comportamento, la condotta esemplare che bisogna seguire. In altre parole, si tratta della fedeltà che si realizza e si manifesta nella pratica della giustizia.

In definitiva, l’esattezza e la correttezza della nostra relazione con Dio consiste nell’esattezza e nella correttezza non delle nostre idee religiose, ma della nostra condotta. In altre parole: la relazione dell’essere umano con Dio si verifica non mediante la fede, ma mediante l’etica. Si gioca nell’ambito non delle credenze, ma della condotta. E con ciò arriviamo al punto centrale: di che condotta si tratta?

NÉ CONTRO LA RAGIONE, NÉ CON LA SOLA RAGIONE

Per rispondere a questa domanda, inizio con un’affermazione che mi pare assolutamente necessaria, per quanto possa sembrare ad alcuni un po’ azzardata. Decisamente, dobbiamo pensare a Dio in altro modo. Il che equivale ad affermare che è necessario modificare la nostra idea di Dio e la nostra rappresentazione di Dio. Se prendiamo sul serio la sua trascendenza, essa ci indica che Dio non è un essere supremo che è “al di là e al di sopra del mondo, che viene da fuori a parlare e ad agire nel mondo”. Non ci resta altro rimedio che accettare che Dio è, al tempo stesso, “totalmente altro” e ugualmente “non altro”. (…). Non dovremmo mai dimenticare che l’immanenza non ha accesso alla trascendenza. (…).

Ciò vuol dire che il tema di Dio è condannato inevitabilmente al fallimento? Che ci troviamo in una strada senza uscita? Se ci atteniamo alla sola ragione, per questa via arriviamo direttamente a una contraddizione irrisolvibile. (…). Ma l’essere umano – e qui tocchiamo un punto centrale del discorso – non agisce, né solo né principalmente, sulla base di ciò che può offrire il discorso razionale. “Non dobbiamo” agire mai contro la ragione. Ma è altrettanto vero che “non possiamo” agire se ci limitiamo alla sola ragione. (…).

Le scienze umane ci hanno mostrato fino alla sazietà che i saperi e i comportamenti degli esseri umani sono condizionati e determinati alla radice non solo da contenuti mentali, che esprimiamo mediante segni, ma soprattutto da esperienze (con un senso di totalità) che comunichiamo mediante simboli. Per questo, né la scienza, né le conoscenze che ci appassionano, né le relazioni umane, né (tantomeno) le convinzioni che danno senso alla nostra vita sono determinate solo da ragioni e verità, bensì soprattutto da esperienze e simboli.

Da qui il grande paradosso che consiste nel fatto che, malgrado la contraddizione razionale legata al problema di Dio, le credenze religiose attivano nell’essere umano la forza di esperienze e di simboli mediante cui tali esperienze si esprimono. Simboli che sono, secondo la felice formulazione di Paul Ricoeur, le «sentinelle dell’orizzonte» ultimo della nostra immanenza. E attraverso cui sappiamo e sperimentiamo che il Trascendente si rende presente a noi nella nostra immanenza.

IL CENTRO DEL CRISTIANESIMO NON È DIO, MA GESÙ

Ciò premesso, possiamo porci la domanda che più direttamente ci interessa qui: come ha risolto la nostra tradizione religiosa (quella cristiana) la difficoltà rappresentata dalla convinzione che il Trascendente ci si rende presente nella nostra immanenza? In altre parole: qual è il contributo della fede cristiana per risolvere il problema della nostra relazione con Dio e anche con l’essere umano?

Il centro del cristianesimo non è Dio, ma Gesù. Mi riferisco al Gesù terreno, nato, vissuto e morto nella Palestina del I secolo. Quell’uomo, quell’essere umano, è il centro del cristianesimo perché in lui Dio si è rivelato, si è fatto conoscere, ha comunicato e si è donato a noi. Di modo che, in Gesù, Dio è entrato nella nostra immanenza e si è unito alla condizione umana. Il che significa che è nell’umano, e solo nell’umano, che possiamo incontrare Dio e relazionarci con Dio. Ciò che afferma la teologia cristiana, quando parla del mistero dell’incarnazione di Dio in Gesù, rappresenta, tra l’altro e fondamentalmente, l’avvenimento dell’umanizzazione di Dio, così come si è realizzato e si è vissuto in quell’essere umano che fu Gesù di Nazareth. Sono convinto che su questo la teologia cristiana non ha riflettuto sufficientemente, né ne ha tratto le dovute conseguenze. (…).

Non è allora nella verità teorica o metafisica, né nello spazio separato e privilegiato del culto cerimoniale che si produce il più profondo e autentico incontro con il Dio di Israele e il Dio di Gesù. È nel quotidiano della vita, in ciò che vi è di più semplice e banale, nelle circostanze della nostra condizione umana, che (…) incontriamo Dio e ci relazioniamo con lui. (…).

Il Vangelo non è solo il “compimento” della Torah (Warren Carter). È la sua “pienezza”, che consiste in “una prassi nel mondo” (Ukrich Luz). Ma, a mio giudizio, questa “prassi” si interpreterebbe male se si riducesse a determinate osservanze o al compimento di certi precetti. Si tratta di qualcosa di indicibilmente più profondo e con un respito di totalità. Che voglio dire con ciò? Tre cose, chiaramente affermate in tre distinte tradizioni del Nuovo Testamento: la tradizione di Paolo di Tarso, quella del vangelo di Giovanni e quella del vangelo di Matteo. In esse si afferma che: 1) Il Dio di Gesù è un Dio che si svuota di se stesso. 2) Il Dio di Gesù è un Dio che si è umanizzato. 3) Il Dio di Gesù è un Dio che si incontra in ogni essere umano.

1) Dio si svuota di se stesso

Ho affermato che Gesù è l’incarnazione di Dio. Ho detto inoltre che per questo Gesù è l’umanizzazione di Dio. Il che vuol dire - seguendo il sorprendente insegnamento di Paolo di Tarso - che, superando ogni limite mentale e ogni misura espressiva - in Gesù Dio «si è svuotato di se stesso» (eautòn ekénosen) (Fil 2, 7).

(...) Evidentemente, questo svuotamento non si può interpretare nel senso che Dio, durante la vita terrena di Gesù, ha smesso di essere Dio. (…). Perché l’essere di Dio ci è sconosciuto. (…). Pertanto, Paolo vuole dire due cose: 1) che di Dio possiamo conoscere solo la sua manifestazione esteriore e accessibile a noi, ossia la sua manifestazione visibile e tangibile. Cioè, di Dio possiamo conoscere solo come si rende presente in questo mondo. 2) Che il Dio che si fa conoscere in Gesù si fa presente solo «in forma di schiavo». E con ciò stiamo affermando che Dio ha rinunciato definitivamente a ogni grandezza, a ogni maestà, a ogni espressione di potere. Cioè, il Dio di Gesù si incontra solo in ciò che può rappresentare uno schiavo nel presente ordine stabilito, ossia in questo mondo. È la rinuncia totale a ogni condizione sacra, a ogni privilegio e a ogni distinzione. Pertanto, nella misura in cui ci avviciniamo a questo modo di essere nel mondo e ci mettiamo dalla parte di chi vive in questo modo, ci avviciniamo a Dio. Procedono pertanto smarriti, persi e senza orientamento quanti (sacerdoti, vescovi o papi) pretendono apparire in questo mondo come “rappresentanti” di un Dio che non può più essere rappresentato se non nello svuotamento e nella nudità degli ultimi, “i nessuno” di questo mondo. (…).

2) Dio si è umanizzato

La teologia cristiana è abituata a parlare dell’incarnazione di Dio. Questa formula è, in fin dei conti, la fedele traduzione del testo greco del prologo del vangelo di Giovanni: ho Lógos sarx egéneto(Gv 1, 14). Ma la teologia si è arrestata, persino bloccata, nella formula dell’“incarnazione”. È notevole la resistenza mostrata quasi sempre dai teologi cristiani nel parlare dell’“umanizzazione” di Dio. Se “il divino” è situato a un livello infinitamente superiore all’“umano”, al pensiero cristiano ha ripugnado l’uso di un linguaggio che potesse rappresentare, o almeno, insinuare un abbassamento della divinità nell’umanità.

(…) È ciò che si avverte nella formula finale del concilio di Calcedonia (a. 451), in cui la Chiesa si vide obbligada a dire che Gesù Cristo è «perfetto nell’umanità», ma in maniera che in lui c’è «una sola persona», che è la persona divina. Il che equivale a dire che in Gesù esiste un’umanità perfetta senza persona umana. Un’affermazione strana che il popolo e la pietà popolare hanno interiorizzato in modo tale che, tra i cristiani educati alla migliore formazione teologica, esiste la convinzione che Gesù fu, naturalmente, umano. Ma realmente meno umano che divino. Che è la stessa cosa che dire che in Gesù prevalse la divinità sull’umanità, cioè il “monofisismo larvato” che molti cristiani portano avanti senza il minimo problema. Molti cristiani si inquietano se si mette in discussione in qualunque maniera la divinità di Cristo. Ma raramente si agitano se si parla di Gesù come una specie di essere celestiale mascherato da uomo.

Dai vangeli apprendiamo che Gesù ha proceduto esattamente al contrario. Se qualcosa è chiaro, nei racconti della vita del Gesù terreno, è che egli fu un uomo, un essere umano come gli altri. Ma lo fu in modo tale che, in quell’essere umano, si vedeva e si palpava Dio. Un’affermazione che, se ancora oggi ci risulta sorprendente, molto più doveva esserlo per chi ha convissuto con Gesù. Nel lungo racconto dell’ultima cena, come lo riposta il IV vangelo, si descrive un momento in cui l’apostolo Filippo interrompe Gesù dicendogli: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 8). Ciò che in realtà chiedeva Filippo è che Gesù gli “mostrasse”, più ancora, gli “facesse vedere” Dio, giacché proprio questo significa il verbo greco deiknymi, con un senso marcato di visione sensibile. Ebbene, di fronte a tale richiesta, la risposta di Gesù è tanto istruttiva quanto sorprendente: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14, 9). Ciò che in questo racconto richiama l’attenzione è che Filippo chiedeva di conoscere Dio. E che Gesù risponde, con naturalezza, appellandosi alla conoscenza che quegli uomini che lo accompagnavano avevano dello stesso Gesù. Secondo quanto afferma questo vangelo, conoscere Gesù è conoscere Dio. Il che non vuol dire che Gesù fosse “divinizzato”, ma esattamente il contrario, che, in Gesù, Dio si era “umanizzato”. (…).

3) Dio lo si incontra in ogni esssere umano

Ma i vangeli fanno un passo in più. (…). Non si tratta solo del fatto che Dio si è umanizzato nell’essere umano che fu Gesù, il Gesù terreno. In tale direzione, bisogna arrivare fino in fondo, fino alle ultime conseguenze. Nei quattro vangeli richiama l’attenzione una serie di testi, chiaramente paralleli, i cui verbi esprimono azioni umane applicabili ugualmente a esseri umani, a Gesù e a Dio stesso. Questi verbi sono “accogliere”, “ricevere”, “rifiutare”, “ascoltare” (…). È evidente allora che nelle prime comunità di cristiani, dalla comunità di Marco alla Chiesa a cui si rivolge il vangelo di Giovanni, esisteva la convinzione che i comportamenti umani, degli uni con gli altri, sono, in definitiva, i comportamenti che abbiamo con Gesù e, in ultima istanza, con Dio. Pertanto, non si tratta solo dell’“identificazione” di Gesù con i discepoli. Si tratta della cosa più radicale che si può porre nell’ambito delle credenze religiose: ciò che si fa a qualunque essere umano, anche al più piccolo, al più insignificante e al più indegno, è a Dio stesso che la facciamo.

UN ALTRO MODO DI INTENDERE E DI VIVERE LA RELIGIONE

È evidente che la posizione di fondo che si esprime presentando così la relazione con Dio rappresenta un cambiamento radicale nel nostro modo di intendere e di vivere la religione. Si tratta, in definitiva, del fatto che il punto centrale e determinante della religione non è la fede, ma l’etica. Non intendo dire che la fede si oppone all’etica. Ma che l’etica è la realizzazione fondamentale e determinante della fede. Così come il punto determinante della religione (come la presenta il Vangelo) non è il sacro, ma il profano. E il punto determinante della religione di Gesù non è il religioso, ma il laico. E sono cosciente che tali affermazioni possono stupire o scandalizzare persone pie. Ma queste cose bisogna dirle senza paura. Perché è stato Gesù il primo a parlarne. Dicendole con una forza che forse non immaginiamo. Mi riferisco, tra altri passaggi evangelici, al famoso testo del giudizio finale (Mt 25, 31-46), sottomesso a un’enorme discussione. (…). Si tratta del fatto che, al momento della verità, l’unica cosa che resterà in piedi è quanto ciascuno ha fatto per dare, diffondere e contagiare benessere, dignità, libertà, felicità a qualunque essere umano: affamato, assetato, infermo, nudo, straniero, prigioniero, indegno. Quello che importa, che interessa, di cui si terrà conto, nel giudizio ultimo e definitivo della storia e dell’umanità, non sarà la fede, né la religiosità, né la pietà, ma solo l’etica motivata dalla misericordia. Cioè l’amore integro e coerente, come lo stesso vangelo di Matteo insiste in ripetute occasioni (5, 21-48; 7, 21-23; 22, 34-40; 23, 23).

La conseguenza, in una logica sana, di quanto detto sul “Dio kenotico”, sul Dio umanizzato e sul Dio che si incontra in ogni essere umano, è che il progetto cristiano non può che essere lo stesso progetto di Dio. (…). Ne discende che, se vogliamo essere coerenti con ciò in cui crediamo, il progetto cristiano non può essere un progetto di divinizzazione, ma di umanizzazione.

In che consiste tale progetto? L’umano si contrappone al divino. Ma, come sappiamo, il divino si associa al potere, alla gloria e alla grandezza senza limiti. Al contrario, l’umano si relaziona con la debolezza, la limitazione e anche la fragilità. Ciò che è minimamente umano, che è comune a tutti gli esseri umani (…), si riduce alla carnalità e all’alterità: tutti siamo di carne e ossa (carnalità); e tutti abbiamo bisogno gli uni dehli altri (alterità). Essendo questa la condizione umana, si comprende come la tentazione satanica fondamentale sia il desiderio di “essere come Dio” (Gen 3, 5). Cioè, di essere più degli altri e al di sopra degli altri. Da cui la violenza in tutte le sue forme. Perciò, secondo i vangeli, Gesù traccia il cammino della nostra umanizzazione perché il progetto di vita che ci ha lasciato consiste nel non voler mai dominare o sottomettere gli altri, ma nell’essere sempre con loro, specialmente con gli ultimi, con quanti stanno più in basso e sono per questo le vittime della storia. (…).

L’UMANIZZAZIONE DI DIO: MISTICA E TEOLOGIA

(…) Ciò che ho detto non è un’invenzione della teologia progressista e irresponsabile dei decenni scorsi. La cosa viene da lontano. Ha il suo punto di partenza nello “svuotamento” o kenosis di Dio, già formulato da san Paolo molto prima dei vangeli. Un’idea e un’esperienza ripetute, di tempo in tiempo, nel corso della storia. Testimoni di ciò sono stati i mistici. (…).

E avvicinandoci di più al nostro tempo, negli anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, è stato motivo di profonda commozione, negli ambienti teologici cristiani, la lettura delle lettere scritte da Dietrich Bonhoeffer a un amico dalla prigione di Tegel, poco prima di essere impiccato nel campo di sterminio die Flossenbürg, nell’aprile 1945 (…): «La nostra relazione con Dio non è una relazione “religiosa” con l’essere più alto, potente e migliore che possiamo immaginare – questa non è autentica trascendenza -, ma è una nuova vita nell’“essere per gli altri”, nella partecipazione all’essere di Gesù. I compiti infiniti e inaccessibili non sono il trascendente, ma il prossimo che è sempre alla nostra portata». Per questo, senza dubbio, lo stesso Bonhoeffer dichiara con fermezza: «Essere cristiani non significa essere religiosi in un certo modo…, ma significa essere uomini». Uomini nel senso più profondo. Nel senso della nostra piena umanità, senza aggiunte, senza cariche e senza ornamenti, intendendo la nostra umanità come sinonimo della più viscerale fraternità. (…).

Come è noto, a partire dalla seconda guerra mondiale, il pensiero di Bonhoeffer non è stato l’unico a orientarsi in questa “direzione umanista” all’interno della teologia cristiana, tanto protestante quanto cattolica. Nell’ambito del protestantismo, si distingue la teologia di Paul Tillich. La convinzione di Tillich è che l’incondizionato, il divino, è presente in ogni attività umana. E le conseguenze sono di enorme portata. Perché, per Tillich, ciò vuol dire che, prima di tutto, il divino non deve cercarsi “separato” dall’umano o “al margine” della vita. Per questo il teologo ha rifiutato con forza ciò che chiamava il «soprannaturalismo», che stabilisce un secondo mondo, un mondo di realtà divine al margine e sopra il mondo qui in basso. (…). Pertanto, secondo Tillich, bisogna curare l’essere umano. La salvezza non è l’evasione dall’umano, ma l’unità con se stessi come con il fondamento divino del proprio essere. (…).

Ebbene, rispetto a questo punto centrale, è decisivo aver chiaro che la morte di un uomo che, al tempo di Gesù e nella cultura dell’Impero, era assassinato su una croce, non solo non aveva nulla a che vedere con il sacro o con il religioso, ma rappresentava esattamente il contrario: la degradazione, l’esclusione, persino la maledizione suprema che poteva pesare su un essere umano. (…).

IL CRISTIANESIMO COME MOVIMENTO “NON-RELIGIOSO”

Per tutto ciò si deve dire che la corretta comprensione del cristianesimo è quella che lo interpreta come un movimento non-religioso. (…). Sono profondamente convinto che Gesù è patrimonio di tutta l’umanità. Voglio dire: Gesù non è proprietà del cristianesimo. Né è di appartenenza esclusiva dei cristiani o della Chiesa. È stata la Chiesa che si è appropriata di Gesù e lo ha presentato come il centro e il contenuto fondamentale di una religione determinata, quella cristiana. In realtà, la Chiesa avrebbe dovuto avere la libertà, il coraggio e l’onestà di presentare Gesù come la realizzazione piena di ciò che è più profondamente umano, pienamente umano, minimamente umano, di ciò che, al di sopra di culture, tradizioni, costumi e credenze religiose, costituisce la realizzazione degli aneliti di umanità e di ultimità che tutti portiamo iscritti nella profondità del nostro essere. (…).

Pertanto, se Dio lo incontriamo in ciò che è veramente umano, ciò vuol dire che lo incontriamo nella libertà umana, nell’amore umano, nel rispetto per gli altri, nella vicinanza a tutto ciò che c’è di autenticamente umano nella vita. Ma non solo. Se facciamo un passo oltre, arriveremo alla conclusione che le istituzioni religiose, che invocano l’autorità di Gesù Cristo, non possono invocare un presunto potere, emanato da Gesù, in virtù del quale si sentono in diritto di tagliare, ridurre o annullare i diritti fondamentali delle persone, le libertà dei cittadini, condizionando la laicità dei poteri pubblici, sempre che tali poteri si conformino ai diritti umani approvati dalla comunità internazionale. (…).

IL FUTURO DELLA CHIESA E DELLA TEOLOGIA

Per finire, mi sembra decisivo insistere sul fatto che la Chiesa avrà un futuro e la teologia potrà sopravvivere nella misura in cui entrambe abbiano il coraggio e la libertà di seguire una direzione diversa da quella a cui finora sono state fedeli. (…). Sappiamo tutti che le teologie resistono al cambiamento e, spesso, restano bloccate nella fedeltà alle tradizioni di un passato che non sarà mai più determinante nelal vita degli individui e dei popoli. Da qui lo sfasamento sempre più forte che si coglie tra teologia e scienza, tra teologia e società.

Spesso questo sfasamento si spiega con la prepotenza e l’ansia di comando dei dirigenti religiosi, protetti da presunti poteri divini che, provenendo dal cielo, saranno sempre al di sopra dei poteri della terra. (…). Ma non credo che il fondo del problema sia questo. (…). Si tratta, secondo me, di un problema strettamente teologico. Non mi stancherò mai di ripetere che «in problemi di reale importanza, la cosa più pratica è avere una buona teoria». Ed è questo che fa troppo spesso difetto a non pochi ambienti religiosi e teológici. È la teoria su Dio che fa difetto. (…). Se ho ragione, Dio non lo incontriamo in un “Tu” trascendente, impostoci a partire da un potere inappellabile. Già ho detto che questa rappresentazione di Dio è alla base ed è la spiegazione dell’attuale crisi della fede in Dio. Perché ogni giorno (per fortuna) è più scarso il numero di persone che continuano a credere in questo Dio contraddittorio e pericoloso. Per questo ho insistito sul fatto che Dio lo incontramo nella nostra immanenza, nella laicità, nel secolare, nel civile, nell’umano. E lo incontriamo anche – e mi pare determinante – nell’esperienza simbolica che viviamo nella nostra intimità, che può essere l’esperienza estetica, l’esperienza del silenzio o l’esperienza della preghiera come espressione dei nostri aneliti più profondi. (…).

Se tale è il concetto e l’esperienza di Dio, la teologia, in quanto sapere che si occupa del tema di questo Dio che incontriamo nell’umano, dovrà essere, se vuole continuare ad esistere nel futuro, prima che un sapere superiore che insegna agli altri saperi, un soggetto umile e modesto che dovrà sempre presentarsi, con umiltà e modestia, come un sapere umano che apprende dagli altri saperi ciò che ha bisogno di assimilare per conoscere meglio l’umano, per interpretare a partire dai saperi umani il significato e la portata della presenza del Dio umanizzato tra gli esseri umani. Perché – non dimentichiamolo mai – è nell’umano, e principalmente nell’umano, che possiamo incontrare Dio. (…). E oggi (…) i cambiamenti accelerati degli ultimi decenni ci spingono ad affermare, con libertà e audacia, che d’ora in avanti, avrà senso e futuro solo la teologia che sarà capace di offrire un qualche significato alla vita. E così di potenziare la migliore risposta che possiamo dare ai nostri aneliti di umanità. Gli aneliti che cercano un modo di vita che, in quanto più pienamente umano, è anche più pienamente felice.
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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:12 pm

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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 6:12 pm

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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 9:03 pm

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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » lun gen 01, 2018 9:42 pm

Incarnazione cristiana
https://it.wikipedia.org/wiki/Incarnazi ... stianesimo)
L‘Incarnazione, nel cristianesimo, è la convinzione, e quindi la fede, che Gesù Cristo, seconda persona della Trinità, chiamato anche Dio Figlio o Logos (Verbo), "divenne carne" quando fu concepito nel grembo di una Donna, Maria Vergine, chiamata Theotókos (in greco Θεοτόκος; in latino Deipara[1] o Dei genetrix) – letteralmente colei che genera Dio e spesso reso in italiano con Madre di Dio.
L'Incarnazione è un fondamentale insegnamento teologico del cristianesimo ortodosso (Niceno), basato sulla sua interpretazione del Nuovo Testamento. L'Incarnazione rappresenta la convinzione che Gesù, che è la seconda increata ipostasi del Dio Trino, assunse un corpo e una natura umani e divenne sia uomo che Dio: vero uomo e vero Dio. Nella Bibbia l'affermazione più chiara si trova in Giovanni 1:14: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi."[2]


http://it.cathopedia.org/wiki/Incarnazione

Il mistero dell'Incarnazione secondo Benedetto XVI

http://lanuovabq.it/it/il-mistero-delli ... edetto-xvi

Nell'udienza del 9 gennaio 2013 Benedetto XVI ha proseguito le sue catechesi sull'Anno della fede meditando sul significato della parola «Incarnazione», «parola centrale per la fede cristiana» la cui comprensione, in un clima d'ignoranza religiosa, non può più essere data per scontata, e il cui significato autentico oggi sfugge anche a molti che pure si dicono cristiani.
«Incarnazione», ci ricorda il Papa, «deriva dal latino “incarnatio”. Sant'Ignazio di Antiochia - fine del primo secolo [ca. 35-107] - e, soprattutto, sant’Ireneo .[130-202] hanno usato questo termine riflettendo sul Prologo del Vangelo di san Giovanni, in particolare sull’espressione: “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14)».

La domanda che questi Padri della Chiesa si ponevano era che cosa significa esattamente «carne». Arrivarono a rispondere che, nel linguaggio del Vangelo, «la parola “carne”, secondo l'uso ebraico, indica l’uomo nella sua integralità, tutto l'uomo, ma proprio sotto l’aspetto della sua caducità e temporalità, della sua povertà e contingenza. Questo per dirci che la salvezza portata dal Dio fattosi carne in Gesù di Nazaret tocca l’uomo nella sua realtà concreta e in qualunque situazione si trovi». E, come scrive sant'Ireneo, trasforma l'uomo definitivamente: «Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio».

L'Incarnazione, commenta il Pontefice, «è una di quelle verità a cui ci siamo così abituati che quasi non ci colpisce più la grandezza dell’evento che essa esprime». Certo, la ricordiamo a Natale: ma «a volte si è più attenti agli aspetti esteriori, ai “colori” della festa, che al cuore della grande novità cristiana», la sconvolgente buona novella di un Dio diventato pienamente uomo. Il Papa cita la costituzione «Gaudium et spes» del Concilio Ecumenico Vaticano II: «Il Figlio di Dio … ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’ uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo».

Un secondo spunto di meditazione proposto da Benedetto XVI riguarda i regali che ci siamo scambiati a Natale. Esagerazioni a parte, si tratta di un gesto originariamente cristiano, che ha a che fare con la memoria dell'Incarnazione. L'idea del dono è costantemente presente nella Messa, al momento dell'Offertorio, e «richiama alla nostra coscienza l’originario dono del Natale: in quella notte santa Dio, facendosi carne, ha voluto farsi dono per gli uomini».
Dunque nei nostri regali di Natale «non è importante che un regalo sia costoso o meno; chi non riesce a donare un po’ di se stesso, dona sempre troppo poco; anzi, a volte si cerca proprio di sostituire il cuore e l’impegno di donazione di sé con il denaro, con cose materiali». Se capiamo il significato della parola «Incarnazione», capiamo anche che «Dio non ha fatto così: non ha donato qualcosa, ma ha donato se stesso nel suo Figlio Unigenito. Troviamo qui il modello del nostro donare».

Terzo spunto di meditazione: il realismo di Dio. In verità, «il fatto dell’ Incarnazione, di Dio che si fa uomo come noi, ci mostra l’inaudito realismo dell’amore divino». Dio non si limita ad ammonirci, non si limita alle parole: «si immerge nella nostra storia e assume su di sé la fatica e il peso della vita umana» in tutta la sua concretezza, in tempi e luoghi determinati. Riflettendo sull'Incarnazione, anche noi dobbiamo quindi «interrogarci sul realismo della nostra fede, che non deve essere limitata alla sfera del sentimento, delle emozioni, ma deve entrare nel concreto della nostra esistenza, deve toccare cioè la nostra vita di ogni giorno e orientarla anche in modo pratico».

Come ha già fatto altre volte, il Pontefice cita il «Catechismo di san Pio X», che egli stesso ha studiato da ragazzo, il quale alla domanda: «Per vivere secondo Dio, che cosa dobbiamo fare?», dà questa risposta: «Per vivere secondo Dio dobbiamo credere le verità rivelate da Lui e osservare i suoi comandamenti con l'aiuto della sua grazia, che si ottiene mediante i sacramenti e l'orazione».

Quarta riflessione: l'Incarnazione è inseparabile dalla Creazione del mondo. Nel Vangelo di Giovanni leggiamo che il Logos era fin dal principio presso Dio, e che tutto è stato fatto per mezzo del Verbo e nulla di ciò che esiste è stato fatto senza di Lui (cfr Gv 1,1-3). Oltre a ricordare che «l'Antico e il Nuovo Testamento vanno sempre letti insieme e a partire dal Nuovo si dischiude il senso più profondo anche dell’Antico» - un principio esegetico fondamentale, ma oggi spesso dimenticato - san Giovanni qui vuole indicarci che il Verbo, il Logos, è quello stesso Dio che si è incarnato. «Il Dio eterno e infinito si è immerso nella finitezza umana, nella sua creatura, per ricondurre l’uomo e l’ intera creazione a Lui».

Così, finalmente, afferma il «Catechismo della Chiesa Cattolica», si è potuto comprendere il significato profondo della creazione: «La prima creazione trova il suo senso e il suo vertice nella nuova creazione in Cristo, il cui splendore supera quello della prima».
E il Pontefice cita ancora la «Gaudium et spes»: «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Cristo, nuovo Adamo, manifesta pienamente l’uomo all’uomo e gli svela la sua altissima vocazione». Questa è «la grande e meravigliosa ricchezza del Mistero dell'Incarnazione».
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Re: Umanizzazione e incarnazione di Dio

Messaggioda Berto » ven gen 12, 2018 7:55 am

È razionale credere in un Dio cattivo? E se Cristo si fosse sbagliato?
Gelsomino Del Guercio
2018/01/11
https://it.aleteia.org/2018/01/11/clive ... rio-dolore

Ritorna in libreria “Il problema della sofferenza” di Clive S. Lewis in cui il celebre autore anglicano affronta il problema del dolore dopo la scomparsa della moglie

Non l’aveva certo immaginato, Clive S. Lewis, allorché pubblicò nel 1940 il saggio Il problema della sofferenza, che vent’anni dopo avrebbe toccato sulla propria pelle la violenza del dolore per la perdita della moglie amatissima. L’urto della morte l’avrebbe raccontato in un libretto, Diario di un dolore, pubblicato nel 1961 (in Italia da Adelphi nel 1990), in cui il grande scrittore cristiano si mette a nudo e con durezza descrive la propria reazione dinanzi a un evento per lui lancinante come non mai, tale da scuotere la sua fede.

L’autore delle famose Lettere di Berlicche, docente di letteratura inglese e medievista, scrittore anche di fantascienza (a lui si devono le Cronache di Narnia), convertito dall’ateismo al cristianesimo anglicano e da allora fervido apologeta, si rivela davvero inconsolabile giungendo come Giobbe a sfidare Dio.
Capace di scrivere frasi come: «Persone di buon cuore mi hanno detto: “È con Dio”. Almeno in un certo senso, questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e inimmaginabile»; oppure di porsi domande ardite, quasi blasfeme, quali: «È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo?»; e ancora: «Abbiamo Cristo, ma se si fosse sbagliato?». La sua fede è insomma messa a dura prova e si rivela tutt’altra cosa che una consolazione a buon mercato.

Di Lewis, che fu molto legato a Tolkien, l’editrice Morcelliana ripropone ora il volume Il problema della sofferenza (Brescia, 2017, pagine 170, euro 14) e giustamente Andrea Aguti nella prefazione constata che «per il credente l’esperienza del dolore è ancora più temibile che per il non credente, perché significa anche l’esperienza del silenzio di Dio». È singolare fra l’altro che negli ultimi anni siano stati pubblicati diversi volumi in cui scrittori di varia estrazione, dall’americana Joyce Carol Oates (Storia di una vedova, Bompiani 2013) all’inglese Julian Barnes (Livelli di vita, Einaudi 2013, da cui è stato tratto un recente buon film, L’altra metà della storia) e all’ungherese Sandro Marai (L’ultimo dono, Adelphi 2009), si confrontano con la morte del proprio coniuge, dovuta a malattia o a morte improvvisa. E per tutti, credenti e non, il tormento pare non finire mai. Tanto che l’autore delle Braci, rimasto solo a Los Angeles, preferirà togliersi la vita piuttosto che continuare a soffrire.

La questione della teodicea, che pure in The Problem of Pain era un caso serio da dirimere (la possibilità di conciliare l’esistenza di un Dio onnipotente e buono con il male del mondo, i tanti mali fisici e morali che ci affliggono), quando la morte ci colpisce sembra solo un gioco intellettuale e non ci aiuta più di tanto.


Gino Quarelo
È il più grande degli errori confondere Dio con l'uomo ebreo Cristo; ed è altrettanto un grande errore confondere il metro di Dio con quello dell'uomo e delle altre creature.
Solo gli idoli o dei antropomorfizzati, umanizzati e incarnati possono essere buoni e cattivi, giusti o ingiusti, avere attribuzioni o qualità umane.
Dio il Creatore è ben altro dalle sue creature e dall'uomo.
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