Mafie e briganti teroneghi

Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mer nov 08, 2017 9:06 pm

Gli Spada, zingari che sono diventati mafiosi in una città nella città soffocata dalla paura.


Ostia, prorogato il commissariamento per mafia: il X municipio tornerà al voto in autunno
Giovedì 29 Dicembre 2016

http://www.ilmessaggero.it/roma/campido ... 66773.html

Prolungato il commissarimento del X municipio, quello di Ostia, sciolto dopo l'inchiesta Mafia Capitale. Il Consiglio dei ministri ha deliberato la proroga della gestione straordinaria, per ulteriori sei mesi, del X Municipio (Ostia) di Roma Capitale, anch'esso risultato condizionate da iniziative criminali. Il primo affidamento della gestione del X Municipio a una commissione straordinaria era avvenuto il 27 agosto 2015 per la durata di diciotto mesi, la proroga consentirà quindi il proseguimento delle operazioni di risanamento delle istituzioni locali. La deliberazione è stata adottata su proposta del ministro dell'Interno, Marco Minniti. Ostia tornerà al voto per consiglio municipale non prima del prossimo settembre.


Elezioni Ostia, nel X municipio sciolto per mafia non si parla di mafia: 'Ma il litorale è dei clan, come la Sicilia degli anni '80'
di Vincenzo Bisbiglia
3 novembre 2017

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/1 ... 80/3953275


Politica

Racket, usura, traffico di stupefacenti, estorsioni, gambizzazioni, affari sporchi sulle spiagge, intimidazioni e uno scioglimento per infiltrazioni mafiose nella macchina amministrativa. Ma in campagna elettorale i candidati preferiscono parlare di altro. Alfonso Sabella, magistrato antimafia e assessore alla Legalità nella giunta Marino: "La mafia qui si respira nell'aria"

“A Ostia la mafia si respira per le strade come nella Sicilia degli anni ’80, non c’e’ bisogno di sentenze passate in giudicato”. Parola di Alfonso Sabella, magistrato antimafia e (per poco) assessore capitolino alla legalità. I segnali ci sono tutti. Un maxi-sequestro da 450 milioni al porto e l’arresto dei principali esponenti di una nota famiglia di imprenditori locali, legata ai clan malavitosi i cui componenti a loro volta hanno subito condanne per racket, usura e traffico di stupefacenti. E ancora: il presidente di municipio e il direttore del municipio arrestati per corruzione e perfino il primo dirigente del commissariato di polizia in manette, quest’ultimo accusato di favorire la criminalità organizzata. Eppure, come nel classico complesso freudiano della negazione, la mafia è uscita dalla campagna elettorale di Ostia. Anzi, sembra non esservi mai entrata veramente.

Per una buona fetta delle persone che vivono nel X Municipio di Roma, da due anni commissariato per infiltrazioni mafiose nella macchina amministrativa, quella ostiense non è “mafia” ma una “criminalità presente ovunque”, che si combatte semplicemente “con la buona politica” e con “una maggiore presenza delle forze dell’ordine”. Questo approccio ha contribuito a derubricare l’argomento a un dibattito secondario, non rilevante ai fini delle delicate elezioni municipali previste il 5 novembre. Non solo. Molti residenti si sono convinti che proprio il temporaneo governo prefettizio, che dura dal settembre 2015, abbia “paralizzato le attività”, dando spazio al degrado e all’incuria, arrivando ad alimentare sentimenti quasi “secessionisti” rispetto alla Capitale, fra i punti principali del programma di alcuni aspiranti presidenti. I candidati preferiscono parlare di altro: le buche, i servizi sociali, la ferrovia per Roma, i parchi pubblici e l’abusivismo commerciale. Il traffico.

IL GIALLO DEL TEATRO IN FIAMME. POI LA FIACCOLATA: “NON SIAMO MAFIOSI” – “Da 18 mesi il X Municipio è commissariato con l’accusa vile e infamante di mafia”. E ancora: “Questa comunità ha una storia di lotta alla corruzione, di contrasto del malaffare, di denuncia delle illegalità che non vogliamo sia messa in discussione”. Così cominciava il comunicato letto dal comitato spontaneo di cittadini che ha organizzato la fiaccolata del 21 gennaio 2017, per dire “basta al commissariamento, vogliamo votare”. Oltre 1.000 i partecipanti, senza bandiere, dai militanti di Casapound a quelli della sinistra radicale, da Don Franco De Donno, il parroco amico di Tano Grasso oggi candidato con l’area di centrosinistra alternativa al Pd renziano, a esponenti “a titolo personale” del centrodestra, che pochi mesi dopo si sarebbero candidati.

Un grido di dolore seguito ad accadimenti molto particolari. Innanzitutto lo scioglimento per mafia del X Municipio, arrivato il 27 agosto 2015, poche settimane dopo l’arresto di Andrea Tassone, minisindaco Pd coinvolto nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo e condannato in primo grado a 5 anni di carcere (fino a quel momento difeso a spada tratta dai vertici del Partito Democratico), un provvedimento che l’allora governo Renzi decise di non estendere a tutta l’amministrazione capitolina nonostante il coinvolgimento di molti esponenti di Assemblea e Giunta capitolina. Quindi il giallo della “fake-news” del 22 novembre 2016, una fuga di notizie che indusse in errore molti cronisti i quali riportarono di un fantomatico incendio al Teatro Fara Nume – presidio culturale “di frontiera” che il giorno seguente avrebbe ospitato una kermesse antimafia – sebbene il rogo “non doloso” avesse devastato un magazzino lontano alcuni chilometri dalla struttura e non collegato a essa: l’errore fu subito utilizzato dai “negazionisti” a supporto della “teoria del fango”, sebbene il teatro finì davvero parzialmente incendiato pochi mesi dopo, il 15 giugno scorso. Tutto per dire che “la mafia a Ostia non c’è”, e se c’e’ “non è differente rispetto al resto di Roma e d’Italia”: un atteggiamento rassicurante utile a non dissipare i voti.

IL FRATELLO DEL BOSS E LE LITI SOCIAL CON IL SENATORE – Un personaggio molto particolare e piuttosto controverso è Roberto Spada, fratello di Carmine Spada meglio noto come “Romoletto”, fino al suo arresto nel 2016 capo dell’omonimo clan sinti, condannato a 10 anni di carcere per usura e estorsione con aggravante mafiosa. Sebbene meno di un mese fa anche altri componenti della sua famiglia abbiano subito condanne nell’ambito di un’inchiesta sul racket delle occupazioni nelle case popolari di Nuova Ostia, va detto che Roberto Spada da questo punto di vista risulta incensurato. Tuttavia, il marito della titolare della Femus Art School – associazione sportiva molto nota sul litorale – non ha esattamente rinnegato la sua famiglia e, anzi, non perde occasione su Facebook (il profilo è aperto a tutti) di mostrare, con la tipica guasconeria di appartenenza, vicinanza ai suoi consanguinei in manette. “Sui social andate a commentare negativamente il mio cognome, poi venite a cercami in cambio di favori”, scriveva qualche giorno fa, guadagnandosi l’apprezzamento di un Casamonica e gli applausi (ricambiati da un cuore) di Carlotta Chiaraluce, capolista di Casapound. Cui Roberto ha tributato il suo endorsement, definendoli “gli unici sempre presenti”. Lo scorso anno, Spada si era reso anche protagonista di un lungo battibecco social con Stefano Esposito, senatore del Pd per un breve periodo commissario territoriale del partito, che lo accusava di essere un seguace del Movimento 5 Stelle, un “siparietto” che ha infastidito non poco gli esponenti pentastellati del territorio.

LE SENTENZE COME BANDIERA DELLA “TEORIA DEL FANGO” – I “negazionisti” o i teorici di quello che – come avviene in tanti altri contesti – viene definito “complotto mediatico contro la nostra comunità” si fanno forza anche delle sentenze del Tribunale. L’ultima, quella più eclatante, riguarda il primo grado del Mondo di Mezzo, quella “Mafia capitale” che tale non e’ più da quando il Tribunale di Roma ha fatto decadere il 416bis per tutti gli imputati, compresi l’ex estremista di destra Massimo Carminati e il ras delle cooperative, Salvatore Buzzi. Prima, però, c’era stata la sentenza d’Appello nell’ambito dell’operazione Nuova Alba, che ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa il cartello criminale composto dai clan Fasciani, Triassi e, appunto, Spada: la lunga serie di estorsioni, gambizzazioni, affari sporchi sulle spiagge, intimidazioni, perfino il condizionamento sull’amministrazione pubblica sono episodi da delinquenza di piccolo cabotaggio: una semplice associazione per delinquere. Sennonché la Procura di Roma nei giorni scorsi ha chiesto e ottenuto in Cassazione di rifare il processo d’appello, accogliendo le motivazioni del procuratore generale Pietro Gaeta secondo cui il clan andava condannato per mafia.

IL PRESIDIO DI LIBERA E LE POLEMICHE – Sul lido capitolino, come avviene in altri territori “difficili”, da diversi anni c’e’ il presidio di Libera, la onlus di Don Luigi Ciotti che prima cosa cerca di combattere proprio il “negazionismo” con importanti iniziative di prossimità. Il 21 marzo, anche in risposta alla fiaccolata anti-commissariamento, Libera ha organizzato proprio a Ostia la sua Giornata nazionale contro le mafie, con incontri, manifestazioni e reading ad hoc. Ma perfino l’attività’ di Don Ciotti è stata oggetto di polemiche strumentali nel territorio. Nel 2015, mentre alla guida del Campidoglio c’era Ignazio Marino, è iniziata un’importante operazione di ripristino della legalità rispetto alle autorizzazioni degli stabilimenti balneari. La scia velenosa seguita a quest’azione, tuttavia, ha creato un vulnus che ha finito per coinvolgere perfino la stessa Libera, a cui venne assegnato un chiosco sequestrato alla criminalità organizzata ma con dei vizi procedurali che pochi mesi dopo portarono al dietrofront operato dalla stessa onlus, attaccata perfino dal M5S locale con una relazione – poi corretta – consegnata in Commissione Antimafia.

SABELLA A ILFATTO.IT: “NON HO BISOGNO DI SENTENZE, A OSTIA SI RESPIRA MAFIA” – Se la politica e gli “interessi” locali alimentano la teoria negazionista o sperano di minimizzare, resta la testimonianza di chi ci ha provato davvero a fare qualcosa. Alfonso Sabella, magistrato anti-mafia e assessore per pochi mesi della giunta Marino, ha lavorato alacremente sul territorio. “La mafia a Ostia c’è, si respira – spiega a IlFattoQuotidiano.it – gli omicidi, gli attentati, il racket verso i commercianti, i parenti dei criminali dotati di privilegi, il caporalato degli stabilimenti balneari. Non ho bisogno di sentenze passate in giudicato per dire che il territorio somigli moltissimo alla Sicilia degli anni ’80, che proprio come Ostia puntava fortemente all’autonomia per sottrarsi al controllo centrale”. Secondo Sabella, “è vero che l’argomento mafia è uscito dalla campagna elettorale, non se ne parla, e questo è un male. E’ la consapevolezza la prima cosa su cui lavorare per guarire questo territorio”. Il magistrato poi attacca: “Il commissariamento di Ostia, prorogato, non è stato un caso: Roma è una città più corrotta che mafiosa, il suo litorale invece è preda dei clan”.



7 condannati clan Spada Ostia, "è mafia" - Lazio
Più di 50 anni di carcere, dovranno risarcire Comune e Regione
2017/10/04/7

http://www.ansa.it/lazio/notizie/2017/1 ... 41ed5.html

(ANSA) - ROMA, 4 OTT - Condanne per più di 50 anni di carcere e conferma dell'aggravante del metodo mafioso. La quarta sezione del tribunale di Roma, presieduta da Laura Di Girolamo, ha condannato sette persone ritenute facenti parte del clan Spada, una delle famiglie di spicco della criminalità di Ostia, il quartiere litoraneo della capitale.- Ad essere condannati Massimiliano Spada (13 anni e 8 mesi di carcere), Ottavio Spada (5 anni), Davide Cirillo (6 anni e 4 mesi), Mirko Miserino (6 anni e 4 mesi), Maria Dora Spada (7 anni e 4 mesi), Massimo Massimiani (11 anni) e Manuel Granato (6 anni e mezzo). Sono accusati di minacce, violenze, sfratti forzosi da alloggi popolari e una gambizzazione per affermare la 'supremazia' del proprio clan sul territorio di Ostia; e tutto con l'aggravante del metodo mafioso. I pm di Roma Ilaria Calò ed Eugenio Albamonte a giugno scorso avevano chiesto condanne per quasi cento anni di reclusione.- I sette condannati dovranno risarcire i danni alle parti civili, tra cui comune e regione.



"Botte, ricatti, torture: quelli ti levano la vita". I due pentiti di Ostia fanno tremare il clan
I testimoni Michael e Tamara, marito e moglie, hanno raccontato la città ostaggio dei nuovi mafiosi, la famiglia Spada. Un "inferno in terra" a un passo dalla Capitale
di ATTILIO BOLZONI
26 aprile 2016

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/0 ... -138468037


ROMA. Su una piccola strada di Ostia che chiamano "la vietta" si spalancano le porte dell'inferno in terra. Sono due ragazzi che ce l'hanno fatto conoscere, Michael e Tamara. Marito e moglie, tutti e due pentiti. A meno di trenta chilometri dal Campidoglio, in via Antonio Forni - "la vietta" - c'è un mondo ai confini del mondo dove tiranneggiano gli Spada, miserabile tribù criminale imparentata con i Casamonica e acquartierata fra la famigerata piazza Gasparri e quell'Idroscalo dove nel marzo del '75 uccisero Pasolini. Gli Spada, zingari che sono diventati mafiosi in una città nella città soffocata dalla paura.

Comincia così, l'11 gennaio del 2016, la confessione di Michael Cardoni, ventisei anni, vedetta e spacciatore per conto di uno dei clan di Ostia: "Per me è giusto quello che sto facendo, perché quelli ti levano la vita, ti levano tutta la vita". Sua moglie Tamara Ianni, ventisette anni, aveva iniziato a parlare tre settimane prima: "Picchiavano sempre mio marito, lui lo volevano morto e io che mi prostituissi per loro, minacciavano di contagiarmi l'Aids, ci stavano portando via la casa". E non solo quella.

Michael e Tamara hanno due bimbi, il primogenito porta lo stesso nome di battesimo dello zio di Michael che era Galleoni detto "Baficchio", uno dei discendenti della Banda della Magliana ucciso a Ostia il 22 novembre del 2011. Nelle loro superstizioni zingaresche, gli Spada lo hanno sempre ritenuto la reincarnazione del boss. Per loro era un'ossessione. Prima o poi sarebbe toccata anche al piccolo. L'incubo di Michael e di Tamara inizia proprio con la morte di Galleoni, steso sempre in quella via Forni insieme al suo amico Francesco Antonini "Sorcanera". È l'agguato che in un'Ostia già chiusa dal suo lungomuro che nasconde il mare e prigioniera di un Municipio che poi sarà sciolto per mafia, segna la scalata degli Spada. I capi dei Fasciani sono in carcere, i Triassi messi fuori gioco dalla concorrenza, gli zingari si sentono padroni. E da quel momento per i "Baficchi" e le "Baficchie" - così, maschi e femmine, vengono identificati gli aderenti a quella famiglia - è la fine.

Le minacce si trasformano in pestaggi, gli avvertimenti in raid notturni punitivi, gli Spada non si sarebbero più fermati se Michael e Tamara non avessero deciso di collaborare con i carabinieri e con il sostituto procuratore della repubblica Ilaria Calò. I seviziatori sono tutti finiti in carcere una decina di giorni fa per una quarantina di attentati, incendi ai chioschi, danneggiamenti agli stabilimenti balneari con lancio di granate da guerra. Governavano anche il commercio delle case popolari occupate abusivamente nella "vietta": decidevano loro chi ci doveva abitare e chi doveva andarsene. Ottavio Spada detto "Marco", Maria Dora Spada detta "Bella", Enrico Spada detto "Pelè", Silvano Spada detto "Silvio", Nando De Silvio detto "Focanera", Massimo Massimiani detto "Lelli". Ecco cosa hanno raccontato Tamara e Michael.

Tamara: "Una notte si sono presentati sotto casa mia venti zingari, alla loro testa c'era Massimiliano Spada e suo suocero Enrico Spada conosciuto come Pelè, il primo aveva una pistola e il secondo un coltello... Ricordo che Pelè, notoriamente sieropositivo, faceva il gesto di sputarmi minacciandomi di infettarmi". Tamara è riuscita a riprendere la scena con un cellulare che ha consegnato ai carabinieri. Gli zingari erano andati là per annunciare che quella casa se la volevano prendere.

Michael: "Ottavio Spada e Massimo Massimiani, che ho incontrato al bar Music di Ostia, volevano costringerci ad andare via e mi hanno detto: "Se rifiuti esci fuori da casa tua con le gambe verso la porta", esci da morto capito?". Tamara: "Massimiani mi ha costretto a seguirlo nella spiaggia e mi ha detto che se mi fossi messa al suo servizio mi avrebbe garantito la sua protezione, che avrei dovuto avere rapporti sessuali con lui, che avrei dovuto fare la prostituta e consegnargli i soldi".

Dopo mesi di crudeltà Michael non ce la fa più e avverte suo padre Massimo. Tamara: "Mio suocero cercò "Lelli" Massimiani e gli disse che non avrebbe più dovuto prendersela con il figlio...La sera stessa "Lelli" mi diceva che si sarebbe vendicato per l'affronto subito". Il giorno dopo, il 22 ottobre del 2015, Massimo Cardoni viene gambizzato. Micheal e Tamara ormai sono soli. L'ultima "proposta" arriva da Nando De Silvio, il "Focanera". Ricorda Tamara: "Voleva il nostro appartamento in cambio di mezzo etto di coca".

Dalle confessioni dei due ragazzi riaffiora un passato da brividi. È sempre la "vietta" il centro delle loro testimonianze. Lì, in un garage insonorizzato con la gomma piuma, c'era una "stanza delle torture". E lì che lo zio di Michael, Galleoni, "interrogava" i suoi nemici. Tamara: "So che una volta portò in quella stanza "Lelli", che fino ad allora era stato un suo alleato ma che era passato con gli Spada. "Lelli" fu ferito da un proiettile
però riuscì a fuggire".

I tempi erano già cambiati. E non bastava più un solo cenno di Galleoni, evocato ancora oggi dai suoi familiari come "la leggenda", per fermare chi voleva conquistare Ostia. Gli Spada erano già arrivati.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mer nov 22, 2017 10:58 pm

Mafia: 17 arresti, decapitato un clan di Palermo - Sicilia
2017/11/10

http://www.ansa.it/sicilia/notizie/2017 ... 4564a.html

I carabinieri del Nucleo Investigativo di Palermo stanno eseguendo l'arresto di 17 persone accusate di associazione mafiosa, estorsione, tentato omicidio, rapina, illecita detenzione di armi e munizioni e fittizia intestazione di beni. L'inchiesta, coordinata dalla dda, è la prosecuzione di operazioni condotte nei confronti degli affiliati del mandamento mafioso di Porta Nuova negli ultimi sei anni e ha permesso di "decapitare" il clan di Borgo Vecchio. Grazie alle intercettazioni e alla rivelazioni di due "pentiti" sono stati individuati assetti e dinamiche della cosca.

Dall'indagine è emerso il ruolo di vertice nel clan di Elio Ganci. Nel 2015, certi di essere arrestati dopo la collaborazione con la giustizia di Francesco Chiarello, i fratelli Domenico e Giuseppe Tantillo, allora reggenti della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, avrebbero ottenuto il consenso dai vertici de mandamento di Porta Nuova per la designazione del loro successore individuato, secondo gli inquirenti, proprio in Ganci. Ganci è stato, scarcerato nel novembre di due anni fa dopo aver scontato una condanna per mafia ed estorsioni.

Il boss, secondo gli inquirenti, si sarebbe servito di Fabio Bonanno, Salvatore D'Amico, Luigi Miceli e Domenico Canfarotta, delegati a curare il sostentamento economico dei familiari dei detenuti, le attività estorsive ed il controllo della piazza di spaccio nel territorio di competenza mafiosa, attività con cui la mafia si finanzia e con cui controlla il territorio. Nel corso dell'inchiesta sono state sequestrate anche diverse attività commerciali riconducibili a cosa nostra, intestate a prestanomi attraverso le quali il clan riciclava il denaro sporco.

Il racket del pizzo continua a essere una delle principali forme di guadagno di Cosa nostra. Lo dimostra l'ultima indagine della dda di Palermo che ha portato oggi a 17 arresti. L'inchiesta, condotta dai carabinieri e coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, ha portato al ritrovamento del cosiddetto "libro mastro" del pizzo, una sorta di documento contabile con l'indicazione delle vittime e del bilancio delle estorsioni. Sono stati ricostruiti inoltre 14 taglieggiamenti a imprenditori e commercianti della zona del Borgo Vecchio, nel cuore della città, costretti al versare a cosa nostra somme di denaro per evitare ritorsioni che, in qualche circostanza, sono avvenute e sono state documentate dai carabinieri. Alcune vittime, sentite dai militari dell'Arma, hanno confermato di aver pagato il pizzo e le pressioni subite.

L'inchiesta dei carabinieri di Palermo che oggi ha portato all'arresto di 17 tra affiliati e capi del clan mafioso del Borgo Vecchio ha permesso di individuare i responsabili di una sparatoria avvenuta la sera del 4 marzo 2015, nella piazza centrale del quartiere. Coinvolti Giuseppe e Domenico Tantillo, all'epoca ai vertici della cosca, e i componenti della famiglia di Francesco Russo che, dal 2006 al 2008, aveva retto l'organizzazione e intendeva, di fatto, riprenderne le redini. Le due fazioni si affrontarono in piazza a colpi di pistola. La gravità e il clamore suscitato dalla vicenda - è emerso dall'inchiesta - avrebbe spinto Paolo Calcagno, boss alla guida del mandamento di Porta Nuova che controlla Borgo Vecchio, a intervenire immediatamente nei confronti di Russo a cui fu detto di rispettare le gerarchie, pena l'allontanamento dal quartiere. L'inchiesta ha portato anche a individuare gli autori di una rapina avvenuta, la sera del 26 giugno 2011, in un'abitazione del rione Borgo Vecchio, in cui la vittima fu ferita da colpi d'arma da fuoco: il reato non era stato "autorizzato" e, quindi, i responsabili erano stati poi aggrediti fisicamente dagli esponenti del mandamento mafioso di Porta Nuova e dagli stessi vertici della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio.


Le 'votazioni' di Cosa nostra - Blitz a Palermo, 27 arresti
Riccardo Lo Verso

http://livesicilia.it/2017/11/21/blitz- ... ata_908794

PALERMO - Pizzo - stavolta i commercianti non hanno collaborato - droga e scommesse clandestine. Così il mandamento di Santa Maria di Gesù ha provato a rialzare la testa dopo gli arresti del 2015.

Un nuovo blitz blocca la macchina di Cosa nostra (leggi i nomi degli arrestati

) nel potente mandamento mafioso palermitano (CLICCA QUI PER GUARDARE IL VIDEO

). Sono ventisette le persone arrestate dai carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Palermo su richiesta della Procura della Repubblica guidata da Francesco Lo Voi.

CLICCA QUI PER GUARDARE LA FOTOGALLERY DEGLI ARRESTATI

A cominciare da Gaetano Messina che viene indicato come il nuovo reggente voluto dai vecchi capi e probabilmente scelto già prima del blitz del 2015. Due anni fa finirono in carcere Salvatore Profeta, il consigliori anziano del mandamento che, secondo i pm, sarebbe stato retto da Giuseppe Greco. E poi, il sottocapo Natale Gambino e il capo decina. Francesco Pedalino. Perché a Santa Maria avevano deciso di fare le cose per bene rispettando la tradizione. Il successore sarebbe stato scelto nel corso di una votazione per alzata di mano. Come ai vecchi tempi, quando per acclamazione veniva nominato sempre Stefano Bontade.

Una mattina arrivarono alla spicciolata in una sala da barba della Guadagna. Si diedero appuntamento per scegliere chi candidare al vertice del mandamento Cosa nostra. “... minchia riunione di Santa Maria…”, diceva soddisfatto Profeta. Era davvero un'occasione speciale, come sottolineava Gambino: “...vedi che ha dagli anni novanta che non c’è una riunione di cinque persone qua ah... Santa Maria ogni tanto si sveglia…”. “... che piacere avere u zu Pinuzzu”, aggiungeva Pedalino all'arrivo di Greco.

Poi, si parlò dei ruoli da assegnare. “Io incarichi non ne voglio... io voglio essere solo diretto con te... e... no... sottocapo...”, diceva Gambino a Greco. Stessa cosa Profeta: “... a me che devi fare… che sono rimbambito…”, e giù risate. Era la riunione propedeutica alle successive votazioni. Profeta ricordava che “all'epoca (negli anni Settanta ndr) si facevano mi pare… ogni cinque anni... ma sempre Stefano Bontade acchianava... all'epoca cento... centoventi eravamo...”. Oggi invece “se li sommi quanto siamo? Neanche a venti arriviamo”.

La campagna elettorale entrava nel vivo: “... io a te voto… io a te voto... io aperto lo do”; “... gliela faccio la campagna a lui... a Pino... certo!... è come le votazioni”. Il voto sarebbe avvenuto per alzata di mano. “... ci ammazziamo come i cani… ma perché non la possiamo fare ad alzata … ad alzata di mano”, disse Profeta. Bisognava riorganizzare tutto il territorio: “...ma pure là sopra a Villagrazia (il mandamento di Santa Maria di Gesù è composto dalla omonima famiglia e da quelle di Villagrazia e della Guadagna ndr) c’è la necessità… ru riggienti...”.

Lo spaccato che emerge dalle indagini dei carabinieri del Reparto operativo speciale è quello di sempre. Pizzo imposto a tappeto a titolari di attività commerciali e traffico di droga, che ormai è la principale fonte di sostentamento del clan. Un clan dove si fatica a tenere a bada le nuove generazioni. I picciotti sanno essere violenti. Lo dimostra l'inferno che fecero esplodere due anni fa in un locale.

A Santa Maria di Gesù si sono verificati due tra gli episodi di sangue degli ultimi anni. L'omicidio di Mirko Sciacchitano, un giovane crivellato di colpi davanti a un'agenzia di scommesse. E un anno prima, nel 2013, l'eliminazione del capo mandamento Giuseppe Calascibetta. Un delitto pesante che ha ridisegnato gli equilibri a Santa Maria di Gesù e che resta ancora irrisolto. Nessuna reazione: l'eliminazione di Calascibetta era stata decisa dal vertice.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar nov 28, 2017 8:53 pm

Mafia. Riina junior, figlio di Totò Riina, cacciato dal Veneto
Andrea Priante
Veneto, 28 novembre 2017

LA DECISIONE

Cocaina e incontri con pregiudicati, il giudice toglie la libertà vigilata al figlio del Capo dei Capi: «Sia trasferito in una casa lavoro»

http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... d9ca.shtml

PADOVA Giuseppe Salvatore Riina dice addio alla libertà vigilata. La decisione è stata comunicata in mattinata al figlio di Totò «U’ Curtu», il capo di Cosa Nostra recentemente scomparso. Il giudice Linda Arata ha disposto l’aggravamento delle misure in seguito all’informativa della Dda di Venezia, che, pedinando il quarantenne, ha scoperto che violava sistematicamente le restrizioni che gli erano state imposte dopo aver scontato una condanna a otto anni e dieci mesi per associazione mafiosa. La Dda con la Squadra mobile di Venezia avevano controllato gli spostamenti di Riina junior per circa un anno, scoprendo che aveva frequenti contatti con pregiudicati, acquistava cocaina da due pusher tunisini e usciva di casa nelle ore notturne, tutti comportamenti vietati dai rigidi «paletti» imposti dal regime di libertà vigilata. Residente a Padova dal 2012, il rampollo di Corleone sarà trasferito nelle prossime ore in una casa lavoro fuori dal Veneto, quindi, in regime detentivo, dove dovrà rimanere per un anno. Il suo avvocato, Francesca Casarotto, aveva chiesto al giudice un semplice prolungamento dei termini della libertà vigilata ma il magistrato ha optato per la linea dura. In un’intervista concessa nel 2013 aveva detto: «Libertà è essere dimenticato».


Le indagini

La relazione firmata dal capo della squadra mobile di Venezia, Stefano Signoretti, e dal dirigente dello Sco, Vincenzo Nicoli, sosteneva che, con il suo stile di vita in Veneto, Riina jr dimostra «un elevato disvalore sociale», un «palese disinteresse nei confronti delle prescrizioni impostegli». Di più: «Non ha assolutamente mutato la propria indole e il proprio comportamento con particolare riguardo al mancato rispetto delle Leggi e delle norme di civile convivenza, nei confronti delle quali ha dimostrato particolare insofferenza». Le indagini, avevano dimostrato che il quarantenne sapeva di essere controllato dalla polizia e nonostante questo «con cadenza pressoché quotidiana ha trasgredito le prescrizioni». Quanto basta per far sostenere agli investigatori la sua «evidente pericolosità sociale», anche perché non solo non ha mai preso le distanze dai reati commessi dal padre «ma anzi, nel corso di numerose conversazioni intercettate, ha espresso commenti nei quali l’intera famiglia Riina è stata da lui definita come vittima perseguitata dallo Stato Italiano».


I tabulati

I tabulati mostrano 279 telefonate ai pusher e la polizia riesce a documentare una trentina di cessioni di cocaina, alcune avvenute a notte fonda. Fino al 13 settembre, quando Labidi viene fermato proprio mentre sta entrando nel palazzo in cui abita Riina e, alla vista degli agenti, inghiotte una dose di polvere bianca. Appena rilasciato gli manda un messaggio per rassicurarlo: «Tutto apposto». Gli inquirenti scoprono che Riina jr è in contatto anche con altri pregiudicati, alcuni palermitani ma anche un tossicodipendente padovano di 45 anni. È assieme a lui che, spesso, consuma la droga. Come il 6 maggio, quando gli invia un messaggio: «Ho dimenticato la bottiglia di vino nella tua auto, me la porti per favore che non ho da bere?». Per i poliziotti è un linguaggio in codice, e infatti l’amico raggiunge l’abitazione (lasciando in auto la figlioletta) e corre a «sballarsi» con la cocaina offerta da Salvuccio.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » ven dic 08, 2017 6:27 pm

In manette la moglie del boss Madonia. "Stava riorganizzando Cosa nostra"
Palermo, blitz dei carabinieri: colpiti i mandamenti di San Lorenzo e Resuttana, 25 arresti. Nel centro città commercianti sottomessi al pizzo. L'organizzazione progettava di uccidere un mafioso: "Colpevole di aver patteggiato la pena". Il procuratore Lo Voi: "Gli operatori economici non hanno denunciato neanche i danneggiamenti"
di SALVO PALAZZOLO
05 dicembre 2017

http://palermo.repubblica.it/cronaca/20 ... -183043416

I VECCHI padrini in carcere puntavano tutto su di lei. "Si comporta come un uomo", dicevano soddisfatti. Mariangela Di Trapani, la moglie del boss Salvino Madonia, il killer dell'imprenditore Libero Grassi, aveva ricevuto un'investitura ben precisa: riorganizzare Cosa nostra. E si era messa subito al lavoro dopo essere stata scarcerata, nel settembre di due anni fa. A Palermo, i mafiosi la chiamavano ormai in un solo modo: la padrona. "La padrona ha detto", "la padrone vuole che si faccia così".

La padrona del clan mafioso di Resuttana, l'enclave di Cosa nostra (da sempre fedele a Totò Riina) nel salotto buono della città. Questa notte, Mariangela Di Trapani è stata arrestata dai carabinieri del nucleo Investigativo, assieme ad altre 24 persone, che fanno parte anche del mandamento di San Lorenzo. L'ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal gip Fabrizio La Cascia su richiesta del procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dei sostituti Roberto Tartaglia, Annamaria Picozzi, Amelia Luise, Francesco Del Bene e Siro De Flammineis.

Le indagini della procura distrettuale antimafia diretta da Francesco Lo Voi dicono che nel centro di Palermo si continua a pagare il pizzo, nonostante le denunce e le manifestazioni degli anni scorsi. Pagano i negozianti, i titolari di noti ristoranti, pagano gli imprenditori impegnati nelle ristrutturazioni di edifici. E chi prova a ribellarsi, viene intimidito. Con l'attak nelle saracinesche o addirittura con attentati incendiari.


"UCCIDETE QUEL BOSS"

Cosa nostra torna alle maniere forti. Soprattutto, per dare un segnale di presenza. L'intimidazione, così come l'omicidio, è soprattutto un messaggio. I vertici del clan di Resuttana volevano uccidere addirittura un vecchio mafioso, Giovanni Niosi, che si era permesso di patteggiare la pena. Una scelta ritenuta gravissima. Solo la mediazione di alcuni autorevoli mafiosi di un altro clan, quello di Porta Nuova, evitò la condanna a morte per Niosi, mafioso sui generis: un tempo indossava la divisa di vigile del fuoco, all'aeroporto Falcone e Borsellino, poi gestiva una scuderia all'ippodromo, e faceva l'attore per passione. Interpretò persino uno dei mafiosi sulla collina di Capaci nella puntata di Blu notte dedicata alla strage Falcone.

"E' uno sbirro", dicevano di Niosi per quella sua scelta di patteggiare. "Già nei libri di scuola c'è scritto, mai ammettere di fare parte di Cosa nostra - sussurravano due boss della famiglia - anche i bambini lo sanno. Con la galera devi dimostrare chi sei. No fuori".
Mafia, arrestata la moglie del boss Madonia. Bolzoni: "Le donne prendono il posto dei mariti"

IL TESORO DEL CLAN

Mariangela Di Trapani, figlia di mafia, si era già fatta otto anni di carcere. Suo fratello diceva di lei: "Ha sofferto da picciridda... a scuola non c’è più andata per amore di mio padre e di me... perché se n'è voluta venire con noi". Tornata in libertà, dopo la condanna, la donna aveva l'obbligo di risiedere a Cinisi. Ma i suoi ordini arrivavano comunque a Palermo. Le intercettazioni raccontano di un clan in difficoltà dopo il maxi blitz "Apocalisse" del luglio di tre anni fa: "Ne mancano cento", dicevano i boss. I cento arrestati dalla procura di Palermo. Ma la forza del clan non era venuta meno. La forza di un tesoro di società e immobili che i mafiosi di Resuttana continuano a gestire. Anche grazie a una rete di insospettabili imprenditori. Le indagini hanno svelato un interesse dei boss nelle attività sportive dell'ippodromo.

Mariangela Di Trapani era diventata uno snodo fondamentale, soprattutto per le comunicazioni tra il 41 bis e l'esterno. Al carcere duro, non c'è soltanto il marito, ci sono anche i cognati Antonino e Giuseppe, pure loro condannati all'ergastolo, sono stati i protagonisti della lunga stagione di sangue voluta dai Corleonesi. Nel territorio dei Madonia sono avvenuti molti dei delitti eccellenti di Palermo: da dalla Chiesa a Piersanti Mattarella, da Cassarà a Libero Grassi, a Nino Agostino.

Sulla signora boss, il pentito Manuel Pasta ha detto: "Comunicava il placet dei Madonia per le nomine al vertice delle famiglie". Dopo i colloqui in carcere, Mariangela Di Trapani incontrava boss di primo piano dell'organizzazione, come il latitante Salvatore Lo Piccolo, che nei colloqui con il marito era la "zia Rosalba". La donna incontrava anche il boss Antonino Cinà, il medico di Riina. Dalle intercettazioni in carcere, è emerso che si è occupata pure di un'altra questione piuttosto delicata: aveva provato a convincere il pentito Marco Favaloro a ritrattare le pesanti accuse nei confronti del marito. Il 29 agosto del 1991, Favaloro fece da autista a Salvino Madonia, il sicario che fermò per sempre la voce coraggiosa di Libero Grassi, l'imprenditore che aveva detto no al racket. Ventisei anni dopo, in quella stessa zona di Palermo, una ventina di commercianti paga ancora il pizzo.

CHI PAGA IL PIZZO

"Una banda di parrassiti continua a ricattare gli operatori economici di un'intera zona", dice il procuratore Lo Voi nel corso della conferenza stampa, parlando dei boss del pizzo. Le intercettazioni dicono che avrebbe pagato il titolare del Bar Alba: 5.000 euro, per il nuovo bar di via De Gasperi. Poi, anche il titolare del Bar Golden di piazza Giovanni Paolo II: 750 euro a Pasqua e a Natale. La pizzeria Savoca di viale Strasburgo: 3000
euro. "Diversi altri operatori sono stati avvicinati, per questo contestiamo agli indagati dei tentativi di estorsione", spiega il procuratore Lo Voi, che cita "Gammicchia Gomme e la pasticceria Cappello di via Garzilli". "Molti commercianti hanno ricevuto intimidazioni, ma hanno ritenuto di non dover segnalare neanche questi episodi". Nei prossimi giorni, annuncia il procuratore capo, partiranno le audizioni dei commercianti.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar gen 09, 2018 7:11 am

Le infiltrazioni delle cosche mafiose dei meridionali nelle comunità padanovente sono una conseguenza del soggiorno obbligato:


Mala del Brenta
https://it.wikipedia.org/wiki/Mala_del_Brenta
L'arrivo di alcuni esponenti della mafia siciliana costretti al soggiorno obbligato nelle province di Venezia e Padova, in particolare Totuccio Contorno, Antonio Fidanzati, Antonino Duca e Rosario Lo Nardo sul finire degli anni settanta e l'inizio degli ottanta, fu la base per la nascita di un gruppo paramafioso che potesse fare da ponte tra il Nord e il Sud.
All'ombra di questi personaggi crebbero e trovarono maturazione le locali giovani leve di una criminalità dai contorni ancora rurali, che tentava generalmente di mutuarne le gesta, le caratteristiche e le imprese.


'ndrangheta in Lombardia
https://it.wikipedia.org/wiki/%27Ndrang ... _Lombardia
La 'ndrangheta in Lombardia si è insediata in tutte le province ma soprattutto in quelle di Milano, Varese, Como, Lecco, Brescia e Pavia. La sua infiltrazione è cominciata negli anni '50 con elementi di spicco provenienti dalla Locride.
Tra il 1965 e il 1975 con il provvedimento del soggiorno obbligato nella provincia di Como arrivano 44 boss.


http://milano.corriere.it/notizie/crona ... 1b92.shtml


Camorra in Veneto
http://www.ilgiornaledivicenza.it/home/ ... -1.1028176


Confino (soggiorno obbligato)
https://it.wikipedia.org/wiki/Confino

Nell'Italia repubblicana è stato sostituito da altri istituti come il soggiorno obbligato o ""soggiorno cautelare", che è un provvedimento giudiziario consistente nell'obbligo di abitare in una località ristretta, stabilita dal tribunale, per un certo periodo di tempo (anche alcuni anni) sotto la vigilanza delle forze dell’ordine. Questa misura restrittiva, o precauzionale, utilizzata soprattutto per esponenti della criminalità organizzata, è stata abolita con il referendum dell’11 luglio 1995[2].
L’attuale legislazione prevede, (decreto legislativo n.159/2011) che nei confronti di soggetti pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico, tra cui gli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, può essere proposto dal questore, dal procuratore nazionale antimafia, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona e dal direttore della Dia, l’"obbligo di soggiorno" nel comune di residenza o di dimora abituale.



Mostruosità italiane o italiche
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar gen 09, 2018 7:12 am

Benvenuti al nord (1ª parte) - La mafia in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto
di Daniela Bettera e Lara Peviani
(Paginauno n. 27, aprile - maggio 2012)
http://www.rivistapaginauno.it/mafia-al-nord.php

Fra passato e presente, dal soggiorno obbligato al controllo del territorio alla collusione con la politica locale

A Milano Luciano Liggio abitava in via Friuli 15, nello stesso palazzo dove adesso vive la mia amica Erika. Se lei fosse vissuta lì negli anni Settanta, probabilmente avrebbe incrociato sulle scale ‘la primula di Corleone’, visto che scendeva spesso per andare alla sala da barba, o alla boutique Try50 di viale Umbria o al bar Lido di piazza Stuparich: ovviamente in incognito, essendo latitante, a differenza di molti suoi colleghi che invece a Milano erano stati mandati in quel periodo proprio dallo Stato.
Qui come in tutto il nord Italia.
Si chiamava ‘soggiorno obbligato’, ed era una legge in vigore dal ’56 che stabiliva nei confronti di una persona l’obbligo di abitare in una località decisa dalla magistratura per un certo periodo di tempo (anche anni), a scopo preventivo: il fine era infatti quello di arginare la pericolosità di soggetti ritenuti predisposti a compiere reati, ma nei con fronti dei quali non sussistevano prove per una incriminazione. Tra i candidati vi erano coloro “abitualmente dediti a traffici delittuosi” o che “offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale di minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Nel ’65, con la legge n. 575, detta comunemente la prima legge antimafia, vengono introdotte nell’ordinamento le parole ‘mafia’ e ‘mafioso’, si definiscono precise “disposizioni contro la mafia” e gli indiziati di appartenere alle cosche diventano in modo naturale i principali destinatari della pratica del soggiorno obbligato. Il decennio che segue è tristemente noto come quello del ‘contagio’: nella sola Lombardia arrivano almeno 400 uomini dei clan, che, benché infreddoliti e sperduti nelle nebbie padane, non restano certo con le mani in mano e in questa regione, così come in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto, ricreano le stesse strutture criminali del sud, facendo dei luoghi di confino dei veri e propri quartieri generali della malavita organizzata.

Negli anni, la legge sul soggiorno obbligato ha subito numerose modifiche relative alla località deputata al confino: se la prima stesura non dà in dicazioni precise circa il luogo di abitazione forzata, con la legge del 1982, la famosa Rognoni-La Torre, si specifica che il soggiorno vada “scontato in un comune o frazione non superiore ai 5mila abitanti, lontano da aree metropolitane e che sia sede di un ufficio di polizia”. Una logica c’era: spedire il delinquente in un piccolo paese, dove magari tutti gli abitanti si conoscono e tutti sanno tutto di tutti, avrebbe permesso di controllare meglio le attività del confinato.
Ma nel 1988 viene introdotta una variante ambigua: l’articolo 4 della legge n. 327 prescrive che il soggiorno obbligato vada scontato nel comune di residenza o dimora abituale, qualunque sia la sua estensione. Diventa dunque a discrezione del giudice decidere se bloccare i traffici del malavitoso verso l’esterno confinandolo nell’ambiente di origine o, al contrario, allontanarlo dalla sua dimora abituale con il divieto di soggiorno, recidendo così i suoi legami criminali ma cancellando la possibilità di tenerlo sotto controllo.
Un piccolo pastrocchio, insomma, finché nel 1993 nuove norme tolgono i giudici dall’impiccio, imponendo l’obbligo di allontanamento del soggetto dalla sua residenza e ripristinando di fatto la Rognoni-La Torre.

Una legge, quest’ultima, che non è stata decisiva solo per l’introduzione dell’articolo 416 bis, quello del reato di “associazione mafiosa”, ma anche per un’altra radicale variazione alla precedente legge del ’65: la norma vara infatti misure atte ad aggredire il patrimonio del destinatario, privandolo dei mezzi che “si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” (art. 14). Finalmente si considera quindi, per la prima volta, che un’azione preventiva nel campo patrimoniale sia senz’altro un maggior deterrente rispetto al solo intervento di natura personale.

Quanto il soggiorno obbligato abbia pesato nella salita al nord della mafia è difficile dirlo; la criminalità organizzata vive, cresce, si radicalizza e si espande dove c’è ricchezza e denaro, creando collusione con la politica e l’economia legale, e pensare quindi che il nord Italia ne potesse restare immune è frutto di colpevole ignoranza. Ma di certo, spedire al nord i mafiosi, pensando così di reciderne i legami con l’organizzazione, non è stata una gran pensata. Questo ieri. E oggi, qual è la situazione dell’infiltrazione mafiosa in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto? In questa prima parte dell’inchiesta vedremo le prime due regioni, sul prossimo numero le restanti tre.

Lombardia
“La partita con la mafia poteva essere chiusa molti anni fa e invece…”. Parole amare quelle pronunciate al Corriere della Sera l’11 gennaio scorso da Carlo Macrì, ex sostituto procuratore nazionale antimafia e attuale procuratore generale di Ancona.
Invece… la Lombardia è la quarta regione italiana per immobili sequestrati alla criminalità organizzata, dopo Sicilia, Calabria e Campania, ed è seconda classificata per numero di fatti di reato riguardanti l’estorsione (336), superata solo dalla Campania (468). Dalla relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) del primo semestre 2011 risulta che il numero di reati è in netto aumento rispetto a quanto riscontrato nel secondo semestre del 2010, dove risultavano essere 286. Bisogna però tenere conto che “l’elaborazione dei dati consente di condensare soltanto uno spaccato, peraltro limitato, di una realtà molto complessa, la cui esatta dimensione non è ancora perfettamente definibile, essendo in gran parte afflitta da reati sommersi, la cui mancata denuncia è strettamente connessa con il timore e la ritrosia delle vittime di estorsione e di usura”.

L’analisi delle vittime per categoria evidenzia che, diversamente da quanto comunemente si crede, il pizzo non colpisce solamente commercianti, artigiani o imprenditori, ma è un’arma che la criminalità utilizza senza fare distinzioni (colpisce in particolare la denuncia per estorsione da parte di vagabondi!). “L’imposizione del cosiddetto pizzo rimane una pratica diffusa, anche per via di una subcultura che valuta, in modo assolutamente acquiescente, la convenienza di pagare, rispetto alla minaccia paventata”.
Per quanto riguarda invece le operazioni finanziarie sospette, le uniche fonti di collaborazione attiva risultano essere gli enti creditizi (2.478 segnalazioni), gli intermediari finanziari (621) e la pubblica amministrazione (287). “Il contributo degli operatori non finanziari e dei professionisti [commercialisti, avvocati, notai ecc. n.d.a.] risulta ancora una volta modesto se non addirittura nullo, confermando, evidentemente, una riluttanza dell’adempimento degli obblighi antiriciclaggio”. Rispetto al semestre precedente, il numero delle persone denunciate/arrestate per corruzione è passato da 39 a 88. Un analogo trend ha interessato l’andamento dei dati riguardanti la concussione, anche se con valori meno evidenti: 14 nel secondo semestre 2010, 17 nel primi sei mesi del 2011.

In Lombardia le varie organizzazioni criminali si sono spartite città e comuni e hanno siglato accordi di pace con le mafie straniere: romeni, albanesi, nigeriani e cinesi.
Dall’analisi svolta dal Servizio centrale operativo della polizia di Stato e dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale risulta che la presenza più massiccia nel capoluogo lombardo è costituita dalla ‘ndrangheta: costruzioni edili (nolo a freddo e movimentazione terra), traffico di rifiuti, appalti pubblici e subappalti al sistema sanitario, ecomafie, ma anche alberghi e ristoranti. E naturalmente il narcotraffico.
La Dia, sempre nella relazione del primo semestre 2011, non usa mezzi termini nel definire la situazione: “La Lombardia, per la sua densità demografica, la sua importanza economico-finanziaria, le sue potenzialità di sviluppo, la sua prossimità al confine elvetico si connota come regione di vitale importanza nel panorama nazionale, polo d’attrazione per gli illeciti interessi della criminalità di ogni tipo”. La relazione spiega anche in che modo la mafia siciliana e la ‘ndrangheta siano riuscite a infiltrarsi nel tessuto sociale: “La realizzazione degli scopi delle associazioni mafiose non passa necessariamente per l’occupazione del territorio e l’intimidazione ma per la pratica dell’avvicinamento/assoggettamento (spesso cosciente e consenziente) di soggetti legati negli stessi luoghi da comunanza di interessi, come ad esempio gli imprenditori edili operanti nella zona dove maggiore è l’influenza del gruppo criminale o, ancora, politici e amministratori pubblici disposti a sottoscrivere patti di connivenza per tornaconto elettorale o economico”.

La relazione riporta inoltre che l’attività della ‘ndrangheta è organizzata dalle ‘ndrine locali (accertate 16 tra Milano, Como, la Brianza e Pavia).
“Qua in Lombardia siamo cinquecento uomini, Cecè; non siamo uno”, riferisce Saverio Minasi, capo della ‘locale’ di Bresso, a Vincenzo Raccosta della ‘locale’ di Oppido Marmetina in Calabria. Nei comuni di Buccinasco (definita ‘la Platì del nord’) e Cernusco sul Naviglio si sono insediate le cosche storiche calabresi: Talia, Bruzzaniti, Barbaro e Papalia, questi ultimi poi condannati in primo grado per aver conquistato con l’intimidazione il settore del movimento terra. A Lecco è presente la potente cosca dei Coco Trovato, mentre a Monza spiccano i clan Mancuso, Iamonte, Arena e Mazzaferro. A Varese il dominio spetta alla cosca di Catanzaro dei Farao Marincola, mentre a Brescia e Bergamo (ma anche a Sondrio e Como) quella dei Bellocco di Reggio Calabria. Per quanto riguarda Brescia e Bergamo, la Dia riporta: “Passate attività di indagini nei confronti di personaggi affiliati alla ‘ndrangheta calabrese presenti nel bergamasco e nel bresciano, hanno evidenziato come tali soggetti abbiano fatto riferimento alle cosche dei luoghi di provenienza per risolvere le reciproche controversie e per ricevere direttive sulle varie attività da svolgere, non esitando ad associarsi tra loro, a seconda delle diverse esigenze operative. Alla presenza di tali gruppi è legato il fenomeno delle estorsioni ad alcune attività commerciali, in particolare locali notturni e dei recuperi crediti svolti facendo leva sulla forza di intimidazione derivante dall’appartenere alla criminalità meridionale.

Tali gruppi criminali sono inoltre particolarmente attivi nel settore dell’edilizia dove svolgono anche l’attività di intermediazione abusiva di manodopera (il caporalato, n.d.a.), attraverso cui riescono a inserirsi nelle attività imprenditoriali e ad acquisire la gestione dei cantieri edili”.
La Dia non parla più di ‘infiltrazioni’, ma utilizza il termine ‘colonizzazione’, espansione in un nuovo territorio, e la ‘ndrangheta in Lombardia è diventata col tempo un’organizzazione con un certo grado di dipendenza dalla casa madre, con la quale continua comunque a tenere rapporti molti stretti. “Linguaggi, riti, doti, tipologia di reati sono tipici della criminalità della terra d’origine e sono stati trapiantati in Lombardia dove la ‘ndrangheta si è trasferita con il proprio bagaglio di violenza […]. L’attività investigativa testimonia della presenza e della capillare diffusione della ‘ndrangheta nell’area lombarda certamente a far tempo dagli anni ’80”.
Dagli anni Ottanta? Allora forse si è semplicemente sbagliato il prefetto Gian Valerio Lombardo, che solo un paio di anni fa, durante l’audizione alla Commissione parlamentare sul crimine organizzato, sostenne che a Milano ci sono sì le singole famiglie mafiose, ma la mafia non esiste; che ci sono sì le cosche, ma sono imprenditoriali più che criminali.

La prima famiglia di ‘ndrangheta di cui si abbia notizia in Lombardia è quella di Giacomo Zagari, proveniente da San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, trasferitosi nel 1954 prima a Galliate Lombardo e poi a Buguggiate (Varese). Suo figlio diventerà poi un superpentito, testimone chiave del maxi-processo ‘Isola Felice’, alla fine del quale furono disposti sette ergastoli e oltre 600 anni di carcere a 52 imputati. Si ritiene che tra gli anni Sessanta e Settanta almeno 400 uomini delle cosche arrivarono nelle province di Milano, Varese, Como, Lecco, Brescia e Pavia. Il primo sequestro di persona di cui si abbia notizia in Lombardia è quello di Pietro Torielli junior, rapito il 18 dicembre del 1972 a Vigevano (rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di 1,5 miliardi di vecchie lire). Tra i condannati c’è anche il boss corleonese Luciano Liggio. Tra il 1974 e il 1983 sono ben 103 i sequestri organizzati da Cosa nostra e ‘ndrangheta in Lombardia. Centinaia le aziende minacciate, ricattate, vittime di estorsioni.
Intanto sulla scena si impone Francis faccia d’angelo Turatello, celebre per la forte rivalità con Renato Vallanzasca, faida che provoca numerose vittime su entrambi i fronti. Dopo l’arresto i due diventano amici, tanto che Turatello sarà il testimone di nozze di Vallanzasca nel matrimonio con Giuliana Brusa celebrato in carcere. La notte di San Valentino del 1983, la magistratura porta alla luce una rete di società milanesi di proprietà di affiliati a Cosa nostra e gestite da imprenditori insospettabili. Nel frattempo la ‘ndrangheta prende il controllo di Milano e dell’hinterland: Bruzzano, Comasina e Quarto Oggiaro e di comuni come Corsico, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio.

Dopo l’inchiesta ‘Duomo Connection’ del 1991, Cosa nostra è costretta a battere in ritirata, lasciando il posto alla ‘ndrangheta. Il condannato più famoso è l’ex assessore socialista Attilio Schemmari (1 anno e 8 mesi per abuso d’ufficio), ma condanne più gravi hanno punito gli uomini
d’onore di Cosa nostra. Per la prima volta nel mirino finiscono boss trapiantati a Milano, imprenditori che riciclano i soldi della droga e politici di Palazzo Marino. Venti imputati, venti condanne. Al centro dell’inchiesta – che ha visto la collaborazione tra Giovanni Falcone e Ilda Bocassini – troviamo i Carollo, una delle famiglie siciliane arrivate al nord grazie al soggiorno obbligato.
Gli anni Novanta rappresentano la stagione delle grandi operazioni e dei maxi-processi: ‘Wall Street’, ‘Count Down’, ‘Hoca Tuca’, ‘Belgio’, ‘Fine’ e ‘Nord-Sud’, che nel 1997 porta a 13 ergastoli e a 1.800 anni di carcere per 133 imputati.
Gli esponenti della ‘ndrangheta cercano e ottengono rapporti con il mondo imprenditoriale, politico, con esponenti della pubblica amministrazione. È questo, d’altronde, ciò che distingue la criminalità comune dalla criminalità mafiosa: la capacità di trasformarsi in una potente lobby economica.

In Lombardia la mafia è in grado di far convergere su un determinato politico almeno 500mila voti. “La mafia al nord controlla il 5% dei voti”, afferma Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria, il 29 novembre scorso nel programma condotto da Gianluigi Nuzzi, Gli intoccabili. “Con il sistema elettorale attuale – ha aggiunto Gratteri – basta spostare il 10-15% dei voti tra destra e sinistra per eleggere un sindaco […]. Nelle nostre indagini fino a vent’anni fa era la mafia che portava pacchetti di voti ai politici. Negli ultimi 3-4 anni, invece, abbiamo dimostrato che sono i politici ad andare a casa dei capimafia a chiedere pacchetti di voti in cambio di appalti”.
L’operazione del marzo 2011 denominata ‘Redux Caposaldo’, con 35 arresti e sequestri di beni per 2,5 milioni di euro, mostra come la ‘ndrangheta sia in grado di creare veri e propri serbatoi di voti in cambio di concessioni e favori all’interno delle giunte locali. Uno scenario di campagne elettorali pilotate, di controllo di locali notturni milanesi e del settore dei trasporti, con la Tnt global express (ex Traco) accusata di aver agevolato l’attività di soggetti indagati per associazione mafiosa. Il tutto facente capo ai boss Giuseppe Pepè Falchi, leader storico della malavita a Comasina, il quartiere di Renato Vallanzasca, e Paolo Martino, cugino del potente boss Paolo de Stefano. “L’operazione denominata Redux Caposaldo – scrive la Dia – costituisce sicuramente un importante tassello interpretativo della presenza e dell’operatività della criminalità calabrese in Lombardia, proprio in quanto si rendono evidenti sia i caratteri di autonomia operativa del gruppo indagato, sia i suoi profili di complementarietà rispetto a una realtà assai più complessa e articolata, con le sue fondamentali diramazioni nella regione d’origine. Persistono, quindi, i fattori di vulnerabilità per il territorio, essenzialmente rappresentati dall’interesse con cui le consorterie calabresi si avvicinano ai settori dei lavori pubblici e privati”.

A luglio 2010 l’inchiesta ‘Infinito’, nata dalle costole dell’inchiesta ‘Crimine’, iniziata nel 2006, porta alla condanna di 110 persone (su 118 richieste) accusate di appartenere alle cosche della stessa Milano e dell’hinterland, che agivano per ottenere appalti pubblici e privati e condizionare
le amministrazioni politiche. L’onorevole Angela Napoli, membro della Commissione parlamentare antimafia, ha dichiarato che “la ‘ndrangheta si appoggiava a esponenti del mondo politico i cui nomi e i cui reati non sono ancora emersi e che aiutavano le cosche a inserirsi nel tessuto sociale ed economico della Lombardia e della Brianza. Purtroppo c’è chi si è messo in mezzo e sta tentando di impedire che questi filoni di inchiesta vengano portati alla luce”.
Chi sta tentando di bloccare queste inchieste?
Nella relazione della Dia si legge che “le emergenze delle operazioni denominate Montecity-Santagiulia e Infinito, hanno fatto affiorare l’esistenza di processi decisionali fortemente penalizzanti per il tessuto sociale, economico e politico della Lombardia. Tale contesto sembra, infatti, aver subito le manipolazioni di due ‘gruppi di pressione’ autonomi, ma correlati, rappresentanti, da un lato, dalle realtà imprenditoriali colluse con la cosca Barbaro, attraverso un sofisticato sistema di subappalti, e dall’altro da un ‘comitato d’affari’, supportato da figure della P.A. [Pubblica Amministrazione, n.d.a.] locale, che avrebbe aggirato basilari regole di mercato per stravolgere e pilotare l’assegnazione di appalti a partecipazione pubblica”. Nessun affiliato ha collaborato con la giustizia e nessuna vittima ha raccontato di essere finita nel mirino del racket e dell’usura.

Una pedina dei boss era Carlo Antonio Chiriaco, direttore sanitario della Asl di Pavia, nominato dalla Regione. Ma nelle carte dell’inchiesta sono finiti anche Pietro Gino Pezzano, direttore della Asl di Monza Brianza, e Massimo Ponzoni, consigliere regionale in quota Pdl, fedelissimo di Formigoni e recordman delle preferenze (11.069 alle ultime elezioni regionali del marzo 2010). Per quanto riguarda gli amministratori locali vicini alle cosche, troviamo il nome di Davide Valia, il cui appoggio avrebbe permesso al clan Valle (presente tra le province di Pavia e Milano) di ottenere aree importanti in vista dell’Expo per aprire anche un mini casinò. I Valle si sarebbero rivolti anche all’avvocato Luciano Lampugnani di Rho, già arrestato nel 2003 per usura. Nel procedimento si sono costituiti parte civile la Regione Lombardia, i comuni di Pavia, Bollate, Paderno Dugnano, Desio, Seregno e Giussano, il ministero dell’Interno, la presidenza del Consiglio e la Federazione antiracket italiana di Tano Grasso.
“Il pericolo” secondo Formigoni, governatore della Lombardia, “viene dall’esterno. I fenomeni criminali degli ultimi tempi non hanno niente a che vedere con il dna della nostra gente che è laboriosa e non ha grilli per il capo”. Eppure erano lombardi, e da generazioni, i componenti delle giunte e dei consigli comunali di molti paesi della Brianza finiti nell’inchiesta ‘Infinito’. Il caso più conosciuto è quello di Desio, sede di una ‘locale’ della ‘ndrangheta il cui capo ha partecipato all’elezione del boss Zappia a Paderno Dugnano.
Tra gli arrestati ci sono Nicola Mazzacuva, presidente del consiglio comunale di Desio, Natale Marrone, consigliere comunale e Rosario Perri, ex assessore provinciale che per anni è stato dirigente dell’Ufficio tecnico comunale; personaggi che militano nel partito del Pdl. A fine novembre 2010, dopo mesi di inchieste e polemiche, il comune ha deciso di autosciogliersi: la maggioranza dei consiglieri ha rassegnato le dimissioni, di modo che il prefetto non ha potuto fare altro che proporre al ministero dell’Interno lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.

Da almeno vent’anni l’Ortomercato di Milano, di proprietà comunale attraverso la So.Ge.Mi (società che gestisce l’intera aerea dell’Ortomercato per conto del comune di Milano), è oggetto di numerose operazioni antimafia. L’ordinanza di custodia cautelare del 2007 nei confronti di Salvatore Morabito, Antonino Palamara, Pasquale Modaffarri e altre 21 persone ha portato alla luce che la cosca Morabito-Bruzzantini, grazie all’arruolamento dell’imprenditore Antonio Paolo, titolare del consorzio di cooperative Nuovo Co.Se.Li, utilizzava l’Ortomercato come punto logistico per il traffico internazionale di cocaina, con tanto di night club, il For the King, aperto in un locale della So.Ge.Mi. Nel 2004 Salvatore Morabito, di ritorno dal periodo di soggiorno obbligato ad Africo (Reggio Calabria), viene omaggiato di un pass rilasciato dalla So.Ge.Mi per i suoi spostamenti all’interno dell’area commerciale e per potervi entrare con la Ferrari di sua proprietà.

“Continuare a parlare di antimafia in Lombardia significa fare un enorme piacere ai mafiosi” afferma Giulio Cavalli, artista di teatro, scrittore e consigliere regionale (1), “perché in Lombardia il fenomeno mafioso, la corruzione, il riciclaggio sono la stessa cosa, molto più che in tutte le altre regioni d’Italia. Hanno infatti gli stessi ispiratori, molto spesso gli stessi protagonisti; hanno un indice di eleganza medio alto e quindi difficilmente li accomuniamo alla criminalità organizzata”.
Probabilmente è per questo che la partita con la mafia, che poteva essere chiusa molti anni fa, come ha detto Macrì, in Lombardia è ancora aperta.

Piemonte
Il Piemonte vanta un triste primato: il primo comune sciolto per mafia,nel 1995, Bardonecchia. Il maggior responsabile del non invidiabile record è un confinato doc, Rocco Lo Presti, i cui funerali si sono svolti il 29 gennaio 2009 presso la chiesa parrocchiale di questa poco ridente località di montagna. Eh sì, perché speditovi nel 1963 con la legge del soggiorno obbligato, Lo Presti a Bardonecchia ci è rimasto per oltre quarant’anni, facendone un vero e proprio feudo. Muratore di Marina Gioiosa Jonica (Reggio Calabria), legato a Francesco, detto Ciccio, Mazzaferro, anche lui confinato in Valsusa (e indagato nel 1976 per aver ottenuto appalti per il traforo del Frejus), e poi al clan degli Ursino grazie al matrimonio della sorella con uno di loro, Lo Presti assume nel tempo il mono polio di svariati settori – l’edilizia, il commercio con bar, ristoranti e sale giochi, oltre all’autotrasporto – portando dalla Calabria in Val di Susa massiccia manodopera, che lavora a un ritmo incessante.
Il risultato esteriore è il cemento ovunque, che trasforma profondamente il paese in una realtà urbana a tutti gli effetti. Risultato che nasconde i soliti meccanismi sporchi: riciclaggio di denaro, racket delle braccia con forza lavoro a basso prezzo non sindacalizzata, strozzinaggio, intimidazioni, e ovviamente le infiltrazioni in politica, secondo lo schema classico dei voti in cambio di favori.

A farne le spese chi non ci sta: Mario Ceretto, un imprenditore edile che nel 1975 si era rifiutato di assumere la manodopera di Lo Presti, viene rapito e ucciso. Ma Roccuzzo, come viene chiamato da solidali e amici, condannato in primo grado a 26 anni di galera, rinchiuso nel super carcere dell’Asinara in cella con Tommaso Buscetta, viene assolto in appello definitivamente nel 1982. Quattordici anni dopo di nuovo l’arresto per mafia, legato allo scandalo di Camp Smith, uno scempio di appalti edilizi che riempie di cemento una delle località di turismo invernale più antiche del Piemonte e che provoca appunto lo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia. In seguito all’inchiesta che ne scaturisce vengono condannati il sindaco, il segretario comunale, il consulente urbanistico e il progettista, ma Lo Presti, condannato a sei anni nel 2002 per associazione di stampo mafioso, viene di nuovo assolto in appello. Il 22 gennaio 2009 la condanna definitiva, questa volta per usura: Lo Presti muore il giorno successivo, poche ore dopo il trasferimento dall’ospedale di Orbassano al reparto detenuti delle Molinette di Torino.

Ceretto non è l’unica vittima. Bruno Caccia, procuratore della Repubblica, viene freddato a Torino il 13 giugno del 1983. Sospettati dell’omicidio prima le Brigate Rosse e poi i neofascisti del Nar, il vero colpevole è incastrato grazie al mafioso pentito Francesco Miano, catanese, businessman dell’eroina nel capoluogo piemontese. Il mandante, l’ndranghetista Domenico Belfiore, condannato all’ergastolo, dichiarò che “con Caccia non si poteva parlare”. Il rigore e l’intransigenza del giudice sembra contrastassero con i buoni rapporti che i calabresi erano riusciti a stabilire con alcuni magistrati di Torino, con cui, evidentemente, si poteva parlare. Il delitto presenta infatti ancora molte zone d’ombra, a partire dagli esecutori materiali rimasti ignoti, e dal bar Monique, posto proprio di fronte al tribunale, gestito dal pregiudicato Gianfranco
Gonella. Quest’ultimo, mente finanziaria del gruppo dei calabresi, secondo le indagini sarebbe stato in rapporti con Luigi Morchella, l’allora procuratore della Repubblica di Ivrea e con la dottoressa Franca Carpinteri, giudice del tribunale penale di Torino.
Un periodo quindi, quello tra gli anni ’70 e gli ’80, ad alta densità mafiosa con 37 sequestri di persona in tutto il Piemonte. E un periodo di grandi pentiti. Come Salvatore Parisi, detto Turinella, personaggio di spicco del clan dei Corsoti, catturato a Torino nel settembre 1984 pochi minuti dopo aver compiuto l’ultimo omicidio, quello di Domenico Carnazza.
Di omicidi ne confesserà 21, oltre a ricostruirne altri 40 e a fare nomi e cognomi anche eccellenti. La sua testimonianza porterà non solo all’arresto a Milano di Angelo Epaminonda detto ‘O Tebano, successore di Francis Turatello e importante boss della criminalità ambrosiana, ma scatenerà anche un megablitz con l’arresto di un centinaio di persone tra cui uomini delle istituzioni.

Dagli anni Novanta a oggi si sono susseguite numerose operazioni atte a scardinare l’assetto delle organizzazioni mafiose sul territorio piemontese.
Tra queste, nel 1994 la famosa operazione ‘Cartagine’, che in realtà ha coinvolto tutta Italia, conclusasi con 83 ordini di custodia cautelare, fino alla recentissima operazione ‘Minotauro’, datata 8 giugno 2011, che ha visto impegnati più di mille carabinieri.
Il bilancio: 142 arresti e beni confiscati per un valore di 70 milioni di euro tra cui società, ville, conti correnti, terreni e automezzi, oltre alla conferma di quanto sia radicata e ramificata la presenza della ’ndrangheta in Piemonte, con centinaia di affiliati e il coinvolgimento di nomi importanti della politica.
L’operazione ha rintracciato sul territorio piemontese nove ‘locali’ di cinquanta affiliati ciascuna: la locale di Natile di Careri a Torino, Courgné, Volpiano, Rivoli (che in realtà è risultata chiusa), San Giusto Canavese, Siderno a Torino, Chivasso, Moncalieri, Nichelino. Si aggiungono un gruppo utilizzato per le azioni violente denominato non a caso ‘Crimine’ e un’associazione non autorizzata a Salassa col nome di ‘Bastarda’. Ogni locale aveva un referente in Calabria e pare che Giuseppe Catalano fosse il referente di tutto l’hinterland torinese. L’indagine si è mossa grazie alle confessioni di Rocco Varacalli, collaboratore di giustizia dal 2004. La sua storia è quella di un tipico ragazzino del sud, irretito dal denaro facile. Soldi a pioggia con la detenzione e lo spaccio di stupefacenti, poi la carriera nella ’ndrangheta fino a diventare sgarrista e ad aprire un’impresa di costruzione e movimento terra.
Quindi appalti pubblici e rapporti con i politici. E proprio di questi ultimi, negli anni da pentito, ha fatto nomi e cognomi.

Tra i quali Nevio Coral, uno degli indagati dello scorso giugno, sindaco di centrodestra di Leinì per trent’anni anni e suocero dell’assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero, del Pdl, che già prima dell’operazione ‘Minotauro’ aveva firmato le dimissioni per un caso di tangenti.
Coral sarebbe accusato di aver cercato voti della ’ndrangheta per l’elezione del figlio a sindaco della città. In un’intercettazione telefonica pronuncia queste parole a uno dei presunti ‘ndrangheristi: “Il principio che dobbiamo adottare è la creazione di un gruppo: ne mettiamo uno in Comune, uno in Consiglio, uno alla Pro Loco, e così diventiamo un gruppo forte”.
Tra gli altri nomi di politici indagati spicca Claudia Porchietto, Pdl, assessore al Lavoro della giunta regionale di Cota. Fotografata nel bar di Giuseppe Catalano nel periodo delle elezioni provinciali, mentre era candidata come presidente della Provincia, avrebbe incontrato anche Franco D’Onofrio, padrino del gruppo ‘Crimine’. E poi la stessa Caterina Ferrero, per i contatti con Adolfo Crea, pluripregiudicato, durante le elezioni regionali del 2005.
Operazioni, come questa ‘Minotauro’, che assestano quindi colpi importanti alle cosche e ne ridimensionano l’organico, ma l’esperienza insegna che i clan si riorganizzano in fretta: in base alle informazioni della Procura nazionale antimafia risulta chiaro come la ’ndrangheta sfrutti il territorio dove si annida per crescere. Secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, Torino sarebbe stata sede di rituali di affiliazione proprio come a Reggio Calabria. Nel 1998, all’interno dello stabile di un’impresa edile del capoluogo piemontese appartenente a un tale Giuseppe Leuzzi, sono stati scoperti appunti con istruzioni dettagliate sulla cerimonia d’ingresso nell’organizzazione.

Un mostro che si autogenera, che cresce silenzioso e che trova sempre nuovi modi per sfamarsi. La relazione della Dia evidenzia per il Piemonte 142 reati per estorsione denunciati nel solo primo semestre 2011, ma è chiaro che il cibo preferito sono le grandi opere pubbliche legate al territorio.
È del 2010 il sequestro dell’impresa Italia Costruzioni di Rivoli, appartenente a Francesco Cardillo, che aveva curato la realizzazione di alcuni grandi progetti nelle Olimpiadi Invernali di Torino: la ristrutturazione del Palavela e la costruzione del Palahockey e del Villaggio Media nella zona degli ex mercati generali. Cardillo, originario di Paulonia (Reggio Calabria), assieme allo zio Ilario D’Agostino avrebbero riciclato nell’economia legale i soldi provenienti dalle tasche del narcotrafficante Antonio Spagnolo, della cosca dei Ciminà.
E ancora, se si parla di grandi opere è impossibile tralasciare la Val di Susa, la prima zona di infiltrazione mafiosa in Piemonte. Tav=Mafia è la storica scritta che, pur avendo subìto varie cancellazioni e rimaneggiamenti, campeggia sul monte Musinè dal novembre 2008.
Un’equazione semplice. Un’equazione che ci parla di una valle strategica per i suoi collegamenti internazionali, e di quanto faccia gola avere il controllo delle vie di comunicazione per i traffici di droga e di armi. Un’equazione che è un affare da capogiro del valore di 21 miliardi di euro. Un’equazione che visti i trascorsi dalla Val di Susa da cinquant’anni anni a questa parte, rende difficile pensare che la matematica sia un’opinione.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar gen 09, 2018 7:13 am

Benvenuti al nord (2ª parte) - La mafia in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto
di Daniela Bettera e Lara Peviani
(Paginauno n. 28, giugno - settembre 2012)

http://www.rivistapaginauno.it/mafia-al-nord2.php
Fra passato e presente, dal soggiorno obbligato al controllo del territorio alla collusione con la politica locale

Nella prima parte dell’inchiesta ci siamo chieste quanto il soggiorno obbligato abbia pesato nella salita al nord della mafia. Difficile dirlo, perché la criminalità organizzata vive, cresce, si radicalizza e si espande dove c’è ricchezza e denaro, creando collusione con la politica e l’economia legale.
Pensare quindi che il nord Italia ne potesse restare immune è frutto di colpevole ignoranza. Ma di certo, spedire al nord i mafiosi, pensando così di reciderne i legami con l’organizzazione, non è stata una gran pensata. Dopo avere analizzato, nella parte precedente, la situazione di ieri e di oggi dell’infiltrazione mafiosa in Lombardia e Piemonte, ci occupiamo ora di Liguria, Emilia Romagna e Veneto.

Liguria
Un comune sciolto per mafia nel 2011, Bordighera, e uno nel 2012, Ventimiglia, ci tranquillizzano sul fatto che la Liguria, nonostante le dichiarazioni ufficiali – è del 2009 la memorabile affermazione del ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, all’epoca prefetto di Genova: “Emergenza mafia? Non ci risulta. Non abbiamo nessuna denuncia né dati che ci spingano a ipotizzare l’esistenza di infiltrazioni mafiose serie a Genova” – non sia esattamente libera dalla mafia.
Ma facciamo un passo indietro.

In principio fu Salvatore Fiandaca, spedito nel 1979 nel capoluogo ligure dal tribunale di Caltanissetta. Tempo un paio d’anni e Genova già aveva la sua prima ‘decina’, agli ordini di Piddu Madonia, Salvatore Riggio e Angelo Stuppia, che avrebbero dato vita alla ‘stidda’, una scheggia impazzita di Cosa nostra. Poi arrivò la famiglia di Vallelunga, con Di Giovanni e Lo Iacono, e quella dei ‘gelesi’, con Aglietti, Morso, Monachella e soprattutto gli Emmanuello, ultimi a sbarcare in terra ligure nel 1989. Mafia siciliana, dunque, ma non tardò ad arrivare anche la ‘ndrangheta.
In Liguria c’erano fiori e cantieri, con le nuove opere di costruzione, in primis l’autostrada, portate all’espansione dal boom economico del dopoguerra; settori certamente ricchi di possibilità per contatti politici, infiltrazioni e guadagni, ma per la criminalità organizzata il valore aggiunto della regione è sempre stato il suo territorio frontaliero, il facile accesso alla Costa Azzurra, dove dagli anni Settanta i clan hanno intessuto articolate reti logistiche per gli affari e la gestione di importanti latitanze, sfruttando anche i rapporti amichevoli con la storica criminalità marsigliese.

È in Francia, infatti, a Cap d’Antibes, che nei primi anni Ottanta viene arrestato il boss reggino Paolo di Stefano, poi seguito dal boss Luigi Facchineri, preso a Nizza nel 2002, da Rosmini, Antonio Mollica e Carmelo Gullace, solo per citarne alcuni. Paolo di Stefano è colui che negli anni Settanta portò la ‘ndrangheta al cambiamento, spingendo l’organizzazione a evolversi entrando nel giro degli appalti e dei rapporti politico-finanziari e scatenando una guerra contro i boss ‘tradizionalisti’ Macrì e Tripodo.
Un nuovo modo di ‘fare mafia’ che in Liguria ha trovato il suo territorio ideale. La relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) del 2006 lo conferma: le mafie in Liguria sono “orientate, più che a ottenere un diretto e immediato controllo del territorio, piuttosto alla conquista di mercati e riferimenti logistico-strategici per la gestione dei traffici illeciti”.
Una terra ricca, porti importanti, Genova, Savona, La Spezia, punti di collegamento tra nord e sud Italia e l’estero, un rinomato casinò e una fiorente industria del turismo che spesso e volentieri è legata allo scempio della costruzione selvaggia di abitazioni e hotel che l’alluvione dello scorso ottobre ha portato in primo piano, sono gli ingredienti di una torta golosa che le organizzazioni mafiose si spartiscono in base alle loro peculiarità criminali.

La camorra, radicata soprattutto a La Spezia e Massa – nella vicina Toscana – si occupa di traffico di droga, prostituzione di immigrate irregolari, ha in mano il racket delle estorsioni, ma soprattutto controlla il gioco d’azzardo all’interno delle bische clandestine e gestisce il business lucrosissimo della distribuzione delle apparecchiature video-poker. Risale al 2003 la maxi retata di 35 persone che detenevano il monopolio di queste macchinette, e a capo delle quali c’era il pregiudicato di Torre del Greco Vincenzo Di Donna. Affiliato alla Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo, era diventato coi suoi tre figli un referente per la Toscana e la Liguria. Attivi nel commercio troviamo gli Angiollieri, legati al clan napoletano Gionta. A Sanremo e Ventimiglia, infatti, la camorra detiene il monopolio dei mercati della merce contraffatta, sfruttando la manodopera extracomunitaria soprattutto senegalese. Forte è anche la sua presenza nella zona portuale di Genova, dove si dedica al traffico di auto verso i Paesi extracomunitari.

Cosa nostra opera principalmente nel capoluogo e a Imperia: narcotraffico e totonero sono i suoi affari preferiti, ma anche usura, estorsione e un giro di prostituzione nei salotti buoni genovesi. “In Liguria”, sottolinea la Direzione investigativa antimafia (Dia) nella relazione del primo semestre 2011, “è stata accertata la presenza di un’associazione di tipo mafioso di diretta emanazione della fazione di Cosa nostra riferibile al noto Giuseppe Piddu Madonia” di Caltanisetta e alle famiglie Emanuello, Monachello e Fiandaca: le stesse risalenti al soggiorno obbligato.

Ma a farla da padrone, in Liguria, è la ‘ndrangheta. Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana e Busalla sono le sue terre di riferimento dalle quali, vista la posizione strategica, coordina anche l’attività con Mentone, Marsiglia, Nizza e Tolosa, svolgendo di fatto un ruolo di supporto logistico alla casa madre nel sud. Si conosce l’esistenza di una vera e propria ‘camera di compensazione’ a Ventimiglia, sul confine: una struttura di collegamento tra i due territori, rigida e compartimentata, atta a fornire una base di appoggio per i latitanti e a gestire, spesso in accordo con le famiglie operanti in Piemonte, il traffico degli stupefacenti, le attività di usura correlate con le case da gioco, i video-poker e il riciclaggio di denaro.
Tra le presenze delle ‘ndrine si segnalano alcune tra le cosche storiche calabresi: i Romeo di Roghudi, i Nucera di Condofuri, i Rosmini di Reggio Calabria, i Mamone della piana di Gioia Tauro, i Mammoliti di Oppido Mamertina, i Raso-Gullace-Albanese di Cittanova e i Fameli, collegati ai Piromalli.

Le indagini della magistratura evidenziano che la ‘ndrangheta ha il monopolio incontrastato del traffico di stupefacenti curandone l’acquisto, il trasporto e la distribuzione in Europa tramite una fitta rete di contatti con i cartelli colombiani. Proprio Genova, nel ’94, è stata infatti il porto di smercio del più grande carico di cocaina, 5.000 chili, importato da un cartello federato colombiano-siculo-calabrese e sequestrato durante la famosa operazione Cartagine condotta dalla Dia.
Accanto al core business delle attività illecite la ‘ndrangheta cura, organizza, gestisce, si infiltra nel tessuto economico legale, non solo attraverso il paravento offerto dal Casinò di Sanremo (quale migliore lavatrice per il denaro sporco?) ma soprattutto grazie alla commistione con ambienti imprenditoriali e finanziari. E con un occhio sempre attento alla politica.
Emblematico il caso di Arenzano. Scrive il quotidiano Terra nell’agosto 2010: “Se si fa caso soltanto alla geografia, Arenzano è un paesotto in provincia di Genova con incantevoli scorci sul mar Ligure. Ma se invece si considera il radicamento e il condizionamento sulla pubblica amministrazione che la ‘ndrangheta ha in questo posto, potrebbe venire il dubbio che Arenzano si trovi nella Locride o in qualsiasi altro territorio ad alta densità mafiosa. Da diversi mesi, infatti, la giunta comunale di centrosinistra guidata dall’ex Ds Luigi Gambino è sotto la lente della magistratura e della prefettura”.

Luigi Gambino avrebbe aiutato Gino Mamone, proprietario della Eco.Ge, società leader in Liguria nel settore della bonifica e dello smaltimento dei rifiuti, a ottenere l’appalto per la bonifica di un’area tra Arenzano e Cogoleto dove è stata riscontrata una concentrazione di cromo esavalente fino a 64mila volte oltre i limiti stabiliti per legge.
I giochi sono chiari: appalti e concessioni in cambio di voti.
Accanto al settore dei rifiuti impera quello dell’edilizia, e non è una novità: nel 1983 viene arrestato e condannato Alberto Teardo, iscritto alla P2, allora presidente della regione Liguria e capo dei socialisti di Savona. Insieme ad altre 16 persone, ex sindaci e pubblici amministratori, fu accusato di aver costituito un’associazione a delinquere e di avere imposto un vero e proprio sistema di racket e di tangenti a commercianti e imprenditori della provincia ligure. Fu lui che inaugurò quel periodo di cementificazione selvaggia del Ponente ligure che non si è mai concluso.

Secondo il rapporto Mare Monstrum 2011 di Legambiente, in un’ipotetica classifica sull’abusivismo edilizio nelle aree di pubblico demanio la Liguria è al settimo posto, subito dopo Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Lazio.
In regione solo il 16% dei 135 chilometri di costa si salva dalla cementificazione selvaggia. La commissione prefettizia, concentrando la propria attenzione su alcuni appalti, in particolare legati al ripristino delle spiagge e agli interventi successivi all’alluvione che ha devastato le coste liguri nel 2006, ha scoperto che i lavori erano stati assegnati a imprese facenti capo alla famiglia calabrese dei Pellegrino, un clan al quale nel maggio 2011 la Dia ha sequestrato beni per 9 milioni di euro. Chissà a chi toccheranno i nuovi appalti dopo l’alluvione dello scorso ottobre...

I Pellegrino, appunto, insieme ad altre famiglie di origine calabrese – i Valente, i De Marte e i Barilaro – sono i protagonisti della vicenda che ha portato allo scioglimento del comune di Bordighera, il 10 marzo 2011. Ancora voti al posto di favori e appalti, la solita moneta di scambio da far girare con le buone o con le cattive. Dalle indagini svolte dai carabinieri del comando provinciale di Imperia sono emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l’apertura di una sala giochi.
Non diversa la situazione a Ventimiglia, comune sciolto per mafia il 3 febbraio scorso, dove la ‘locale’ premeva per far sì che la giunta affidasse alle ditte indicate dai mafiosi i lavori di movimento terra e scavo per la costruzione di un nuovo porto. Una di queste sarebbe stata la Marvon di Giuseppe Marcianò.
Sono risultati inequivocabili gli atti intimidatori ai danni di importanti imprenditori locali: nel marzo 2009 viene crivellata di colpi l’auto di Marco Prestileo, commercialista del sindaco di Ventimiglia, e direttore generale della Civitas, società municipalizzata che gestisce gli appalti pubblici; nel novembre 2010, 14 colpi di fucile vengono sparati contro l’auto di Piergiorgio Parodi,
imprenditore locale che non aveva rispettato gli accordi assunti.

E accanto agli atti intimidatori crescono anche le segnalazioni per corruzione, che la Dia (relazione del primo semestre 2011) collega a una zona sempre più ampia di penetrazione mafiosa all’interno del tessuto politico-amministrativo: nove denunce nel secondo semestre 2010 contro trenta registrate nei primi sei mesi del 2011.
Insomma, sembra proprio che in Liguria si sia scoperchiato un vaso di Pandora destinato senz’altro a regalare altre sorprese.

Emilia Romagna
Sono stati almeno 3.562, dal 1961 al 1995, gli appartenenti alle cosche mafiose confinati con soggiorno obbligato in Emilia Romagna, con una prevalenza nelle province di Forlì, Rimini, Parma e Modena.
Nel ’58 arrivò nella regione Procopio Di Maggio, di Cinisi, componente della commissione provinciale di Cosa nostra, condannato al maxiprocesso di Palermo nel 1987 e successivamente imputato per l’omicidio di Salvo Lima: Di Maggio soggiornò a Castel Guelfo (Bologna). Nel 1969 fu la volta del corleonese Giacomo Riina, parente del più tristemente noto Totò, che a Budrio (Bologna) trovò una sede perfetta per gestire gli affari delle cosche al nord, il soggiorno dei latitanti e il traffico di droga e armi con Turchia e Croazia. Sassuolo, in provincia di Modena, fu per due anni la città di Gaetano Badalamenti, esattamente tra il ’74 e il ’76. Di lui abbiamo un’accurata descrizione fatta nel 1976 dal rapporto della Criminalpol: “Il Badalamenti è capo riconosciuto della cosca che negli Usa era collegata a Galante Crimine, recentemente ucciso, al quale fanno capo i fratelli Scaduto e i cognati di Tommaso, i Buttitta, rappresentati per gli Usa accreditati dallo stesso presso varie ditte di ceramiche di Sassuolo, Scandiano e comuni limitrofi. Il Badalamenti sarebbe quindi il ‘boss’ che manovra ogni illecita attività nella zona di Modena forse in posizione di concorrenza con Bagarella Leoluca e Riina Biagio di Salvatore che si sono inseriti nella cosca liggiana, e attraverso i Riina e i Liggio di Budrio e Medicina controllerebbe in questa regione anche l’attività dei fratelli Commendatore di Catania e parte del contrabbando sulla costa romagnola”.

Nei due anni di confino, il comportamento di Badalamenti fu all’apparenza inappuntabile: firmava ogni mattina il foglio di controllo presso la caserma dei carabinieri, si faceva recapitare ogni settimana il pesce fresco da Palermo, e la gente del luogo ancora lo ricorda come educatissimo.
L’unica voce in disaccordo, rimasta inascoltata, fu quella del sindaco di allora, Alcide Vecchi, tessera Pci, il quale aveva visto la sua città, che vent’anni prima aveva solo 15mila abitanti, arrivare a 35mila unità impegnate nell’industria e nell’agricoltura. “A rimorchio di chi cerca lavoro”, scriveva in una lettera alle autorità, “arriva anche chi cerca di sfruttare lo spazio che una città delle dimensioni di Sassuolo offre [...] per la delinquenza organizzata, spazio che nasce dalla relativa prosperità e [...] dall’esistenza di un sottoproletariato determinato dall’eccesso di domanda rispetto all’offerta di lavoro. Non crediamo davvero opportuno inserire in questo nostro delicato tessuto sociale un individuo a contatto con le organizzazioni mafiose”.
Vecchi non è stato il solo sindaco a rimanere inascoltato: mentre Cosa nostra, ma anche Camorra e ‘ndrangheta, spostavano i loro affari in Emilia, il disappunto dei sindaci non ha mai ricevuto la dovuta attenzione. Un altro caso emblematico è stato quello di Gianfranco Micucci, sindaco di centro-sinistra di Cattolica, che nel 1993 gridò in faccia alla Commissione parlamentare antimafia che la sua città sarebbe entrata nel guinness dei primati per il più alto numero di sorvegliati e soggiorni obbligati. E in quell’occasione Micucci fece anche i nomi degli ospiti indesiderati: “Dal 1989 abbiamo avuto Ciro Mariano, elemento bene conosciuto per la strage dei quartieri spagnoli; Domenico Lo Russo della famiglia dei Capitoni, e altri capisquadra tra i quali Armando e Domenico Esposito”.

L’Emilia Romagna è quindi una terra che ha fatto e fa gola alla malavita organizzata, tanto da provocare in alcuni casi vere lotte tra le diverse fazioni per il controllo del territorio, come nel caso del clan dei Casalesi.
A metà degli anni Ottanta, con l’arrivo del boss Giuseppe Caterino, Modena diventò la sede distaccata del cartello camorristico di Casal di Principe. Caterino detto Peppinotto era titolare di un’attività commerciale e gestiva una bisca assieme ai suoi affiliati. Nel 1991 Modena scoprì la violenza del clan con un regolamento di conti sfociato in una sparatoria. Fu l’innesco di una guerra che fece numerose vittime e che alla fine proclamò un vincitore: l’ala di Francesco Schiavone, detto Sandokan, impose il suo impero sul territorio emiliano fino al famoso processo Spartacus. Durato dodici anni, dal 1998 al 2010, oltre 115 gli indagati, il celebre dibattimento ha portato sedici condanne all’ergastolo per altrettanti boss, tra i quali appunto Francesco Schiavone, Michele Zagaria, Antonio Iovine, Giuseppe Caterino e Raffaele Diana. Quest’ultimo, latitante fino al 2009, viveva a Bastiglia con la moglie e quattro figli. Nel modenese avrebbe gestito estorsioni e l’indotto dell’edilizia. Diana era stato accusato di essere il mandante dell’agguato all’imprenditore edile Giuseppe Pagano – originario di Caserta, a Modena da trent’anni – gambizzato nel 2007 in un cantiere di Riolo di Castelfranco; Pagano nel 2000 aveva testimoniato nell’inchiesta su imprenditoria edile e pizzo, estorsioni ‘alla casalese’, proprio contro lo stesso boss.

Un episodio che fa rabbrividire soprattutto se raffrontato con l’ultimo rapporto di Sos-Impresa, l’associazione di Confesercenti a tutela degli imprenditori che denunciano i mafiosi, secondo il quale attualmente il 5% dei commercianti emiliano romagnoli (soprattutto tra Modena, Bologna e la riviera) è sottoposto a pizzo, vale a dire circa 2.000 imprenditori.
“La crisi economica – denuncia il rapporto – in un’area caratterizzata da un’imprenditorialità diffusa ha creato quel terreno fertile nel quale l’usura si è insinuata quale credito sussidiario a quello bancario [...]. Nel triangolo Modena-Reggio Emilia-Parma, si segnala la presenza consolidata di gruppi camorristici del casertano attivi anche nelle pratiche Causurarie e della ‘ndrangheta che gestisce da anni il comparto delle bische clandestine e del gioco d’azzardo”.
A queste considerazioni vanno ad aggiungersi gli incendi dolosi, circa 350 negli ultimi anni, ai danni di pubblici esercizi, cantieri, mezzi di lavoro, auto ecc. Industria e agricoltura sono inoltre afflitte da un’altra piaga: nel rapporto Modena viene citata come la provincia in cui ci sono caporali che operano nel campo della macellazione, settore nel quale molti lavoratori extracomunitari sono assunti in nero e attraverso l’intermediazione di finte cooperative di facchinaggio.

Sono quindi le ‘ndrine oggi a dettare legge in Emilia Romagna: si calcola la presenza di 37 famiglie, contro le 12 rispettivamente di camorra e di Cosa nostra e solo una della Sacra Corona Unita. In generale, tra le province italiane più colpite dalla criminalità, l’Emilia Romagna piazza le sue nove tra le prime 56 (su 103). La classifica stilata da Il Sole 24ore (rilevazioni Anfp, aprile 2011), tiene conto del numero dei reati denunciati ogni mille abitanti. Dopo Bologna, in ambito regionale, la provincia meno sicura è Rimini (28,1 reati denunciati), che spunta l’ottavo posto nazionale e in classifica precede di due posizioni Modena (decima nazionale a 26,1). Reati in calo a Parma (14esima, 24 le denunce) e Ravenna, che con il 23,9 occupa la 16esima piazza. Sale Reggio Emilia, che divide con Venezia (23 reati) la 20esima posizione. Poi Ferrara (34esima a 19,8) e Forlì-Cesena (47esima a 18,5). Chiude Piacenza (17,2 denunce) in 56esima posizione.
Il primo settore nel quale si concentrano le attività criminali rimane quello del traffico e spaccio di sostanze stupefacenti che trova nella riviera romagnola il suo terreno più fertile, cui segue il controllo del mercato della prostituzione di origine straniera, lo sfruttamento del lavoro nero e il gioco d’azzardo. Seguono i reati economici: estorsione, usura, riciclaggio di denaro sporco che trovano invece nella vicina San Marino un ottimo punto di appoggio per ripulire i proventi illeciti.

L’Emilia Romagna, malgrado la crisi economica, rimane una delle regioni italiane con il reddito più elevato. Deve il suo successo a uno sviluppo omogeneo dei vari settori produttivi sia industriali che agricoli e alla presenza di piccole e medie imprese; intensi scambi commerciali e un turismo fiorente completano il quadro. Così come notevoli potenzialità di espansione e arricchimento sono rappresentate dalle grandi opere quali l’Alta Velocità, le tangenziali, le nuove corsie dell’autostrada che interessano le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna. Potenzialità che non potevano certo rimanere ignorate dalla mafia.

Veneto
Il 16 gennaio scorso a Brugine (Padova) viene arrestato Nicola Imbriani, braccio destro del boss Giuseppe Polverino, latitante. Il napoletano 56enne si occupava delle attività imprenditoriali del clan camorristico reinvestendo nell’edilizia privata i proventi delle attività criminali. Insieme a Imbriani sono finiti in manette anche Salvatore Sciccone, che lo ospitava nel suo appartamento, e il suo autista Giorgio Cecere.
Imbriani non rappresenta certo quell’eccezione che conferma la regola – la regola si conferma infatti da sé – eppure c’è ancora chi sembra non preoccuparsi della presenza mafiosa in Veneto. Il 21 febbraio scorso Pdl e Lega Nord hanno infatti detto “no” all’approvazione di una mozione presentata alla provincia di Verona da Diego Zardini del Pd, con la quale si chiedeva di inserire alcune opere pubbliche nella Legge Obiettivo in modo da renderle soggette a maggiori controlli antimafia. Forse Pdl e Lega non ritengono che i diversi arresti che si sono susseguiti negli anni siano sintomo di un’importante infiltrazione mafiosa in regione.

Nel 1992 a Longare (Vicenza) finisce in manette il boss di Gela, Giuseppe detto Piddu Madonia, ritenuto uno dei mandanti della strage di Capaci, condannato poi all’ergastolo per omicidio. Nel 1999, a Bassano del Grappa, sempre in provincia di Vicenza, viene arrestato Pasquale Messina, un pluriomicida della cosca di Madonia che da tre anni gestiva una lavanderia nel centro del paese. Nel 2003 l’inchiesta Cassiopea porta alla luce i meccanismi che regolavano lo smaltimento illegale dei rifiuti che dalle aziende del nord d’Italia arrivavano nelle campagne del casertano, dove venivano sotterrati.
Tra i personaggi coinvolti nell’indagine appare Giuseppe Vidori, di Treviso, amministratore unico della Vidor Servizi Ambientali. Nel 2008 a Valdagno (ancora Vicenza), scattano le manette per Diego Lamanna, calabrese: droga in quantità, dal sud America all’Italia, con guadagni milionari. La ‘ndrangheta era riuscita a rafforzare il suo potere nel traffico di stupefacenti controllando l’importazione della cocaina, grazie agli affiliati che dagli Stati Uniti e dal Canada gestivano i rapporti con i narcotrafficanti del Cartello del Golfo, un’organizzazione messicana. Nel 2009, a Vicenza, viene sequestrato parte del tesoretto della cosca Lo Piccolo: la Guardia di Finanza sigilla le quote azionarie di quattro società venete intestate a un prestanome del boss palermitano.

Le quote erano gestite da Danilo Preto, già componente del consiglio di amministrazione della catena di supermercati Sisa e amministratore delegato del Vicenza calcio dal 2007. Nel 2010 vengono sequestrate a Porto Marghera (Venezia) 50.000 tonnellate di rifiuti ferrosi stipati in una nave. Gli investigatori hanno stabilito che il materiale era partito da una ditta di Catania diretto a un’acciaieria di Vicenza. Sempre nel 2010 Vito Zappalà, latitante catanese di 61 anni, è arrestato a Mogliano Veneto (Treviso) mentre faceva jogging. Legato al clan dei Laudani, era dedito soprattutto a traffico e spaccio di droga, ed era nella lista dei 30 latitanti di mafia più pericolosi al mondo.
Nel 2011 la squadra mobile di Padova esegue un’ordinanza a carico di Cesare Longrondo, calabrese di 44 anni, residente a Torreglia (Padova), accusato, con altre ventisette persone, di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Ma come è potuto accadere tutto questo?

Negli anni Settanta il soggiorno obbligato ha portato in Veneto personaggi come Giuseppe Madonia, Salvatore Badalamenti, Gaetano Fidanzati e Totuccio Contorno.
Quest’ultimo, ‘uomo d’onore’ all’epoca non ancora pentito, fu iniziato a Cosa nostra nel 1975 e inviato in soggiorno obbligato in provincia di Verona. Gaetano Fidanzati venne invece spedito nel 1981 a Monselice, nel padovano; era uno dei boss storici di Palermo. Nel 1985 arrivò anche Salvatore Badalamenti, la mente del traffico di eroina tra la Sicilia e il Veneto e nipote di don Tano, noto boss che fece parte, con Riina e Bontade, del triumvirato che costituì Cosa nostra e decretò la morte di Peppino Impastato. Mentre a Longare (Vicenza) fu inviato Giuseppe u dottore Madonia, rappresentante provinciale di Cosa nostra per Caltanisetta.
Oltre ad aver importato la mafia, il Veneto è l’unica regione ad avere avuto un’organizzazione autoctona con le caratteristiche del 416-bis, l’articolo del codice penale che connota l’associazione di stampo mafioso: la Mala o Mafia del Brenta. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta l’organizzazione criminale compie decine di omicidi, centinaia di rapine, sequestri di persona, traffici di droga e armi, estorsioni, e si avvicina con la corruzione a uomini delle istituzioni. Ma tutto questo non sarebbe potuto accadere se la banda di Felice Maniero non fosse scesa a patti con le cosche mafiose del sud Italia presenti in regione. La questura di Venezia, nella relazione del 2003, scrive che “il vero e proprio salto di qualità della mala del Brenta avvenne in seguito agli incontri con esponenti di primo piano della mafia siciliana”, da Totuccio Contorno a Gaetano Fidanzati.

Nella relazione del primo semestre 2011 della Dia, il sostituto procuratore di Reggio Calabria Roberto Pennisi spiega che in buona parte del Veneto, “per ragioni allo stato inspiegabili”, si è lasciato praticamente campo libero a organizzazioni di tipo diverso da quella calabrese. Appaiono quindi stridenti le parole del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso pronunciate il 18 dicembre scorso durante un dibattito sulla mafia organizzato a Padova dall’associazione Nuova Frontiera: “Il Veneto – dice – è sotto il tiro della Camorra, più che della mafia siciliana o ‘ndrangheta calabrese, ma la regione ha saputo mostrare ‘anticorpi’: qui si denunciano subito situazioni dubbie, la camorra o la mafia fa fatica ad attecchire. Nel Nord Est c’è un humus civico e sociale che finora ha evitato il radicamento di piccoli grandi boss”.
Viene da chiedersi se Grasso abbia letto il rapporto semestrale della Dia: avrebbe potuto scoprire che nel Veneto le persone denunciate per corruzione sono passate da 3 (giugno-dicembre 2010) a ben 69 nei primi sei mesi del 2011. “L’agire mafioso, infatti, trova nel tessuto politico-amministrativo corrotto facili spazi di penetrazione e possibilità di rapida attuazione dei propri disegni imprenditoriali”, denuncia la relazione; il Veneto è salito al quarto posto della classifica, subito dopo Campania (117 casi), Sicilia (111) e Lombardia (88 denunce). Un analogo trend ha interessato il reato di concussione, anche se con valori meno evidenti rispetto alla corruzione: nello stesso periodo di riferimento, le persone denunciate per concussione sono passate da 4 a 23.

Si assiste invece a una diminuzione dei dati riguardanti estorsione e usura: 111 episodi di estorsione nel secondo semestre 2010 contro 92 registrati nei primi sei mesi del 2011, mentre l’usura scende da otto a tre casi. Sono il privato cittadino, il commerciante, l’imprenditore, il titolare di cantiere e il libero professionista a essere i più interessati dal (coloro che subiscono il) fenomeno. Impennata invece per il riciclaggio: 15.725 casi in Italia, 861 dei quali in Veneto, con un incremento del 10% rispetto al semestre precedente. Alla base dell’aumento del riciclaggio, c’è la “vulnerabilità dei tessuti sociali veneti, non solo per quanto riguarda il continuo incremento dei proventi illeciti, ma soprattutto nei confronti del riciclaggio da parte di organizzazioni mafiose connotate da matrice sempre più imprenditoriale”.
Progressione che la Dia definisce “silente”, sottolineando la pericolosità di azioni criminose che non sollevano allarmi sociali e assicurano ampi margini di profitto anche a chi ‘affianca’ le mafie come consulente.

D’altronde il Veneto è una delle regioni più ricche d’Italia, vi circola quindi molto denaro liquido e questo ne fa una meta ambita per il ‘lavaggio’ del denaro sporco. Il veicolo principale per il riciclaggio sono le grandi opere e gli appalti di rilievo: il passante autostradale Romea Commerciale, il famoso Mose di Venezia, il mega-polo immobiliare Veneto City, ma anche l’inceneritore di Marghera, l’edilizia, il turismo, i centri commerciali, il nuovo mercato del fotovoltaico, il settore dei trasporti; e sempre più ci sono imprenditori in cattive acque, bisognosi di quella liquidità che le banche faticano a concedere.
Il più ‘amato’ resta tuttavia il settore edilizio, che permette di investire e riciclare somme notevoli con molta facilità, riuscendo ad abbattere il costo del personale attraverso il lavoro nero. Il controllo dei centri commerciali, invece, consente di esercitare un grosso potere sui flussi di denaro: “Il circuito della grande distribuzione rappresenta anche uno strumento per consolidare il potere illegale sul territorio attraverso l’offerta di impieghi nell’indotto lavorativo”, scrive la Dia. Particolare attenzione attira anche il proliferare di nuove imprese gestite da imprenditori giovani e inesperti che dispongono di finanziamenti quasi illimitati. E infine molto redditizio sembra essere anche il settore dei rifiuti. Lo scorso aprile l’operazione investigativa denominata “Ferrari come back” ha individuato nel 49enne Franco Caccaro di Campo San Martino (Padova) il prestanome del noto avvocato Cipriano Chianese, il ‘re dei rifiuti’ legato al clan dei Casalesi.
Caccamo, titolare della società T.P.A (Tecnologia Per l’Ambiente) ha incassato tre milioni di euro grazie a due assegni versati dalla Resit di cui Chianese era il titolare, soldi che gli hanno permesso di diventare leader nel settore delle macchine per la triturazione di rifiuti, con oltre 200 dipendenti e sedi in tutto il mondo.

“La mafia combatte, i veneti muoiono”: così il Corriere della Sera titolava a tutta pagina il 21 agosto del 1986, 26 anni fa. In quegli anni la mafia sparava, e si rendeva evidente; ma quando non fa morti, perché tutto è tranquillo e nel silenzio fa affari, è proprio quando si espande ed è più pericolosa.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar gen 09, 2018 7:17 am

Veneto, quel flagello del soggiorno obbligato
Ettore Beggiato

http://www.lindipendenzanuova.com/venet ... -obbligato

A cavallo fra gli anni 70 e 80, la Regione del Veneto fu flagellata da una legge dello stato italiano attraverso la quale venivano mandati nelle nostre comunità delle “pecorelle smarrite” sospettate di appartenere alla mafia e alla ndrangheta: il cosiddetto “soggiorno obbligato”.

Personaggi con un curriculum impressionante, veri e proprio “pezzi da 90” che oggi non dicono molto, ma che all’epoca erano al vertice di “famiglie” potentissime e senza scrupoli.

“La mafia combatte, i veneti muoiono”, così il “Corriere della Sera” titolava a tutta pagina il 2178/86; Verona che era diventata la Bangkok d’Europa grazie al “clan dei calabresi” costituitosi attorno ai soggiornanti obbligati; non parliamo della Riviera del Brenta dove la piccola criminalità fece un salto di qualità grazie agli insegnamenti dei professionisti del crimine copiosamente inviati dallo stato italiano.

Incapacità, irresponsabilità o complicità da parte del governo di Roma? O la necessità di “fare gli italiani” livellando il livello di criminalità fra le varie regioni ?

Irresponsabilità, incapacità o complicità da parte di chi non si rese conto che il soggiorno obbligato, lungi dal poter essere uno strumento efficace nella lotta contro la mafia, diventata un fortissimo veicolo di impianto di criminalità organizzata in zone impossibilitate a difendersi ?

Illuminante quanto scrisse su questo aspetto il settimanale della diocesi di Belluno “L’amico del popolo”:

“E’ come diffondere una epidemia spostando i germi patogeni nei vari organismi sani; è come la metastasi del cancro che viene ad intaccare inesorabilmente i tessuti sani non diminuendo la virulenza della malattia, ma accrescendo di numero le parti malate”.

E dopo anni e anni di lotte, di manifestazioni, di proteste, il nostro popolo riuscì a vincere anche questa battaglia; all’epoca proprio al fine di non disperdere il ricordo di tutte queste battaglie stampai un libro bianco/rassegna stampa di quasi duecento pagine, “Soggiorno obbligato=esportazione di criminalità. La lotta dei veneti contro lo stato italiano”, testimonianza di una mobilitazione straordinaria che coinvolse tante regioni, dalla Lombardia al Trentino, dal Friuli all’Emilia; recentemente ho ritrovato il PDF di questa raccolta. E chi fosse interessato lo può richiedere alla mia e-mail: bejato@hotmail.com
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar gen 09, 2018 7:30 am

Paese si ribella: "Basta mafiosi in soggiorno obbligato"
di Stefano Santachiara | 20 aprile 2011

https://www.ilfattoquotidiano.it/2011/0 ... ato/105707

Dopo trent’anni di soggiorni obbligati per la prima volta un sindaco si ribella al trasferimento di un camorrista sorvegliato speciale, trovando il sostegno delle istituzioni locali. A Bomporto, piccolo comune della Bassa modenese, viene dichiarato ufficialmente non gradito Egidio Coppola, uscito dal carcere di Piacenza dopo aver scontato una condanna a sette anni nel processo Spartacus.

Quando si è sparsa la voce che il gestore del racket dei casalesi a Castelvolturno, ancora due anni fa in regime di 41/bis, si trovava nella frazione di Sorbara ospite di amici e parenti, il sindaco Alberto Borghi del Pd è intervenuto per dire basta. Lo ha fatto dopo un colloquio col procuratore capo di Modena Vito Zincani e l’aggiunto Lucia Musti e prima della decisione del tribunale di sorveglianza sul soggiorno obbligato di Coppola, in programma il 28 aprile.

Borghi, 41 anni dei quali 15 spesi in politica (prima consigliere e poi assessore alla cultura), ha visto crescere la densità mafiosa di queste zone e non ci sta “a rischiare di destabilizzare ciò che si era fatto negli ultimi anni a livello di azioni antimafia. In accordo col sindaco di Modena Giorgio Pighi e il presidente della Provincia Emilio Sabbatini abbiamo richiesto l’immediata attivazione del tavolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, affinché le Istituzioni preposte si attivino in tempi brevi ed evitino che questa persona rimanga sul territorio”.

Una presa di posizione che non avrà effetti concreti nella lotta alle mafie, anche se dovessero spostare Coppola di un centinaio di chilometri (l’alternativa sarebbe Piacenza), ma è sintomo di una maggiore consapevolezza del fenomeno. Le campagne divorate dal cemento tra le province di Modena e Bologna sono considerate dall’antimafia speculari al triangolo di Casapesenna, Casal di Principe e San Cipriano, cuore del Clan dei casalesi. A Sant’Agata Bolognese due anni fa decine di casertani inferociti assaltarono la caserma dei carabinieri per chiedere la liberazione del nipote del boss Luigi Venosa, Gianluca Simonetti, in arresto per il pestaggio di un giovane senegalese. A Bastiglia, tre chilometri a sud di Bomporto, con un soggiorno obbligato nel 1990 ebbe inizio la dominazione del capozona di Francesco ‘Sandokan’ Schiavone.

Raffaele Diana, condannato all’ergastolo nel processo Spartacus e catturato nel 2008 in un bunker a Casal di Principe, ha gestito videopoker truccati, traffico di droga e armi, estorsioni ai conterranei ma anche società edili per riciclare e spartirsi la torta degli appalti. Questa era la colonia Modena che la struttura piramidale del Clan aveva affidato a Diana, spazzata via la concorrenza della mala del Brenta di Felice Maniero e della fazione casalese perdente dei De Falco.

Arrestato la prima volta nel 2000 per estorsione, il boss evase dal carcere grazie a una licenza premio e inviò un commando a gambizzare Giuseppe Pagano, costruttore di Castelfranco di origini casertane ‘reo’ di aver testimoniato al processo contro di lui. Mentre Diana era latitante i fedelissimi, come gli autori dell’agguato Antonio e Vincenzo Noviello o gli esattori del pizzo Nicola Nappa e Antonio Pagano, dettavano legge da dietro le sbarre. Nel 2008 furono sorpresi a corrompere secondini per comunicare ai ‘paesani’ e a minacciare l’allora magistrato di sorveglianza Angelo Martinelli: ”Quello non ne vuole sapere proprio dei Casalesi – diceva Pagano intercettato – lo dobbiamo mettere con la testa sotto, deve passare quel guaio”. Il quartetto ha ottenuto dal collegio presieduto da Flavio De Santis un patteggiamento a due anni di pena.

Con 44 ordini di custodia cautelare due anni fa i carabinieri di Modena hanno decapitato quella generazione di affiliati e sequestrato beni e imprese per 20 milioni di euro riconducibili a Raffaele Diana, intestate al cugino Felice Pagano.

Anche l’attuale reggente del Clan Michele Zagaria muove i tentacoli in Emilia. Da Parma il fratello Pasquale, vera anima finanziaria, era partito per una speculazione a Milano assieme al costruttore parmigiano Aldo Bazzini, primo imprenditore del nord a subire una condanna per associazione mafiosa. Con un finanziamento milionario di Unicredit avrebbero ristrutturato il capannone ex Mondadori di Santa Lucia, in zona Navigli, se non fosse intervenuta l’antimafia napoletana.

Ma le tracce di Zagaria restano anche nel fazzoletto di terra tra Sant’Agata e Bomporto, nella città di Nonantola. A due passi dall’antica Abbazia benedettina la squadra Mobile ha scovato la base del gruppo di estorsori comandato da Alfonso Perrone e Sigismondo Di Puorto (legato al figlio di Sandokan Nicola Schiavone), condannati il mese scorso a 7 anni di carcere.

Perrone viveva in una villa-bunker, anonima dall’esterno e hi tech all’interno tra vetri scuri, scanner per intercettare la polizia e garage segreto, con l’ immancabile sfarzo al piano superiore fra marmi romani, solarium e trono con braccioli dorati. Intercettato, si vantava di avere al fianco un sedicente. “Michele Zagaria, amico di tutti” ma l’antimafia non lo ritiene credibile. E’ invece blindata da 16 arresti operati l’anno scorso nel Casertano l’ attendibilità di Raffaele Cantile, imprenditore originario di Casapesenna vittima di un’estorsione commessa direttamente dagli Zagaria. Cantile è uno dei giovani soci della Pi.Ca costruzioni di Nonantola, ditta in grado di aggiudicarsi in pochi anni appalti milionari, erigere un locale alla moda a Bomporto e alberghi in joint venture con Arts srl della famiglia Marazzi.

Il costruttore denunciò di aver subìto minacce da sgherri di Michele Zagaria e del fratello Carmine, nonchè di essere stato schiaffeggiato in un bar di

Casapesenna dall’anziano padre Nicola, ora ai domiciliari. Gli importanti risultati ottenuti nei confronti dell’ala militare dei Casalesi non hanno però frenato la penetrazione nell’economia in tempo di crisi, soprattutto delle cosche crotonesi che dominano Reggio Emilia (con l’alleanza fra le ‘ndrine Grande Aracri e Nicoscia) e sono presenti anche nel Modenese.

La geografia del crimine ha assegnato il distretto ceramico agli Arena-Gentile, che cinque anni fa fecero saltare in aria l’Agenzia delle Entrate di Sassuolo dopo la scoperta di una evasione di Iva da 94 milioni di euro. Un atto eclatante che l’estate scorsa ha consentito ai carabinieri di Modena di scoperchiare il vorticoso giro di società e fatture false tra Paolo Pelaggi (titolare della Point One informatica di Maranello e autore dell’attentato dinamitardo) e il commercialista svizzero Sergio Pezzati, imputati di truffa allo Stato e reinvestimento dei proventi della cosca madre. I referenti, Fabrizio Arena e Franco Pugliese, sono già coinvolti nell’inchiesta del procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo sul riciclaggio di Telecom Sparkle Fastweb e sulle schede false in Germania per l’elezione del senatore del Pdl Nicola Di Girolamo.

La vicenda, insolita per una ‘ndrangheta silenziosa e affarista, è uno spaccato delle mafie ‘spa’ quotate dai colletti bianchi. In un panorama di palazzi invenduti, alberghi vuoti, attività strapagate cash e società monouso, è allarmante il dato raccolto dalla Dia: in Emilia le segnalazioni per operazioni sospette provengono al 91% da soggetti obbligati, quali banche ed Enti pubblici, solo una segnalazione dalle agenzie immobiliari, una dagli avvocati, due dai notai, sei da imprese ed enti assicurativi, nessuna dall’intermediazione immobiliare.

Ma qualcosa sta cambiando. A Reggio Emilia negli ultimi mesi il Prefetto Antonella De Miro ha revocato una quindicina di certificati antimafia e il presidente della Camera di Commercio Enrico Bini ha introdotto la condivisione delle visure camerali delle imprese. A Modena, su proposta del presidente dell’ordine degli Ingegneri Pietro Balugani, è stata varata la prima carta etica delle professioni che prevede la radiazione degli associati condannati e la sospensione degli indagati. Anche la partecipazione ai dibattiti di Rete Viola, Agende Rosse e Libera è crescente. Il mese scorso, nella giornata nazionale in memoria delle vittime di mafia, centinaia di giovani hanno colorato il centro modenese per suonare la sveglia a istituzioni e società civile.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mar gen 09, 2018 7:33 am

“Basta mafiosi in soggiorno obbligato” Abolire la legge!
venerdì, 15, gennaio, 2016
Armando Manocchia

http://www.imolaoggi.it/2016/01/15/bast ... e-la-legge

‘Ndrangheta Emiliana: altri 6 arresti. L’operazione di Carabinieri e Gdf tra E-R, Veneto e Calabria è una ulteriore tranche dell’operazione ‘Aemilia’ contro la ‘Ndrangheta. Questi provvedimenti nascono da un’attività investigativa, sviluppata in prosecuzione dell’inchiesta madre che ha individuato e disarticolato una consorteria della ‘Ndrangheta autonomamente operante in Emilia, con capacità imprenditoriale e di infiltrazione.

Con l’operazione del 28 gennaio scorso furono arrestati 117 mafiosi e altri 224 furono rinviati a giudizio o sono tuttora con il processo in abbreviato in corso. Il valore complessivo di beni e società sequestrate nell’indagine è di quasi 500 milioni di euro.

“A mio avviso – dice Armando Manocchia – il soggiorno obbligato è una legge obsoleta che andrebbe abolita perchè ha permesso la ramificazione della mafia e dei mafiosi in tutto il Paese. Come tutti sappiamo, la criminalità organizzata di per sé, vive, cresce, si radicalizza e si espande ovunque vi siano ricchezza e denaro, creando soprattutto collusione con la politica e l’economia legale, ma la ‘genialata’ di distribuire i mafiosi al centro e nord Italia con lo scopo di recidere i legami con l’organizzazione, andava forse bene un tempo, non certo oggi che come vediamo ha permesso di sviluppare e radicalizzare organizzazioni ovunque.
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