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Messaggioda Berto » lun apr 03, 2017 6:17 pm

La Boldrini a Facebook: "Chiuda le pagine che inneggiano al fascismo"
La Boldrini scrive a Zuckerberg: "Da noi l'apologia di fascismo è un reato". E chiede di oscurare le pagine che inneggiano al fascismo
Sergio Rame - Lun, 03/04/2017

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 82017.html

"Da che parte stai?". Laura Boldrini ha scritto a Mark Zuckerberg per chiedergli perché su Facebook non vengono chiuse "le centinaia di pagine che inneggiano al fascismo".

Per il presidente della Camera non basta che si dica che "non c'è spazio per l'odio su Facebook", che è "contro le discriminazioni" e che crede in questo strumento per connecting people. "Deve anche mettere in atto misure che contrastino i fenomeni di odio che invece sono dilaganti, specialmente verso le donne".

Nella lettera inviata a Palo Alto la Boldrini ha ricordato a Zuckerberg che Facebook, come altri social media, ha "un enorme e straordinario potere". "Sono loro a condizionare l'opinione pubblica e a determinare, dicono gli esperti, possibilmente anche gli esiti elettorali. Se questo è vero, è chiaro che i social devono essere sempre più soggetti responsabili", ha spiegato la Boldrini che in una intervista a Radio Radicale ha ricordato che "non basta che dica che non c'è spazio per l'odio su Facebook, che è contro le discriminazioni e che crede in questo strumento per connecting people. Deve anche mettere in atto misure che contrastino i fenomeni di odio che invece sono dilaganti, specialmente verso le donne".

Da parte di Facebook e degli altri social media, la Boldrini vorrebbe "una presa di posizione chiara e coerente". "Se è vero che sono contro l'odio allora bisognerebbe avere nel nostro Paese un ufficio operativo di Facebook, che invece non esiste, a sostegno degli utenti e di chi vuole essere capace di interloquire con questa piattaforma, perchè ad oggi è molto complicato, e intato la notizia gira, intanto la falsa informazione fa i suoi danni, intanto l'odio dilaga", ha continuato il presidente della Camera chiedendo a Zuckerberg di oscurare le "centinaia e centinaia di pagine che inneggiano al fascismo". "Da noi l'apologia di fascismo è un reato, dopo che l'Anpi ha più volte segnalato gli inaccettabili contenuti di queste pagine, perché non vengono chiuse? Nella lettera che ho mandato a Zuckerberg ho chiesto perché non accade, non penso che sia una società multinazionale a dover decidere se una fattispecie sia o no reato - ha, poi, concluso - nel nostro ordinamento lo è, e allora non è possibile tollerare queste pagine. Ci sono molte contraddizioni che debbono essere chiarite perché altrimenti è difficile credere alla buona fede".


Alberto Pento
Questa persona è orrenda!
Un mostro ademocratico e totalitario nazi-comunista. E quelle che inneggiano al comunismo e all'islamismo e del nazismo palestinese contro Israele e dei suoi sostenitori che boicottano Isaraele ?
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Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 8:36 am

Le democrazie mafiose di Panfilo Gentile
Le pagine profetiche di un grande politologo che già negli anni sessanta aveva visto dove avrebbe portato la partitocrazia
di Riccardo Paradisi
http://www.laconfederazioneitaliana.it/?p=641

Che cosa hanno in comune Giuseppe Maranini, Luigi Sturzo e Panfilo Gentile? Che nesso unisce cioè un docente di diritto costituzionale, il fondatore del Partito popolare e un liberale conservatore, polemista di rango del Mondo di Panunzio e del Corriere della Sera? Che cosa lega questi tre nomi apparentemente così sconnessi l’uno dall’altro a parte una comune ma molto generica matrice liberale? Sicuramente il fatto di essere stati tra i principali attori intellettuali della critica alla partitocrazia nella cultura politica italiana del secondo dopoguerra. Una critica generalmente sottaciuta, rimossa dal dibattito pubblico del Paese, anatemizzata come qualunquista o addirittura antidemocratica. Accusa assurda se si pensa che Maranini, Sturzo, Gentile provengono tutti dal campo dichiaratamente antifascista, ma che rivela la cattiva coscienza di un sistema che rifiuta di guardare in faccia la sua malattia.
Giuseppe Maranini che del termine partitocrazia è addirittutra l’inventore (lo usa per la prima volta nel 1949, nel corso della lezione inaugurale per l’apertura dell’anno accademico all’università di Firenze) non si stancò mai, fino alla morte (avvenuta nel 1969) di denunciare da posizioni liberali e federaliste quello che lui stesso chiamava “il regime dei partiti”, l’oligarchia che tende a creare uno Stato nello Stato.
“Il problema della democrazia dei partiti, scriveva Maranini, appare come un problema di organizzazione giuridica, e può essere risolto solo su questo terreno”. In altri termini quando lo Stato liberale democratico assiste inerte al sorgere dei partiti organizzati e li rende arbitri della sua vita ma non si preoccupa di imporre alla loro organizzazione le stesse garanzie che lo caratterizzano come tale, commette un suicidio, “abdica alla sua funzione di difensore delle libertà individuali”.
Sul versante più strettamente politico anche Don Luigi Sturzo, parallelamente a Maranini, metteva a tema, tornato dall’esilio americano nel primo dopoguerra, una dura critica alla partitocrazia. Sturzo rilevava infatti che i partiti, compreso il suo, avevano la natura di “ingerirsi pesantemente nell’andamento amministrativo e governativo del Paese così da ridurre la libertà costituzionale del cittadino, da esautorare il parlamento della sua autonomia fino a occupare militarmentre la società civile attraverso la lottizzazione sistematica di ogni spazio di vita associato”.
Panfilo Gentile riguardo il regime dei partiti fu ancora più esplicito: per lui, liberale di destra con idee elitiste, la partitocrazia era in sostanza un regime mafioso retto da oligarchie demagogiche. Democrazie Mafiose (ripubblicato pochi anni fa da Ponte alle Grazie), insieme a Polemica contro il mio tempo (Volpe 1965) e Opinioni sgradevoli (Volpe 1966) sono i saggi dove Gentile mette a fuoco la sua polemica contro la partitocrazia, fenomeno di cui restituisce una disamina fredda, anatomica, chirurgica, piena non solo di rimandi storici, ma anche di ficcanti notazioni psicologiche sull’antropologia politicante, sui meccanismi di selezione delle classe dirigenti, sulla decadenza delle vecchie elite e la meschinità delle nuove: “Le oligarche mafiose, cui tendenzialmente sboccano le moderne democrazie – scrive – sono oligarchie di piccoli borghesi disoccupati, imbevuti di clericalismo ideologico, portati all’intolleranza e allo spirito settario”. Ma già nel 1969, quando ancora si era molto lontani dal parlare di morte delle ideologie e dal percepirle come paraventi per operazioni di potere, Gentile aggiunge: “Però le ideologie sono in realtà soltanto idee vecchie diventate popolari, idee al tramonto […] E con esse appassisce l’impulso vitale che animava ed anima i partiti”.
A questa profonda sfiducia per le nuove oligarchie, non corrisponde però una fiducia nel demos. Secondo Gentile infatti, cresciuto alla scuola del realismo elitista di Mosca e Pareto, il popolo “obbedisce a sentimenti elementari, buoni e cattivi, ma sempre incontrollati ed eccessivi”. Tanto che “le masse non si fermano al patriottismo moderato, conciliante, ma si scatenano per la nazione e si danno in balìa dei gruppi dirigenti più forsennati e delireanti”. Allo stesso modo “L’invidia sociale, come è sentita dalle masse, non è una molla per la propria elevazione. È un odio più generale contro tutte le superiorità e non mira tanto all’eliminazione della propria inferiorità, quanto all’abolizione della superiorità altrui”.
In queste considerazioni è condensata implicitamente anche la critica di un vecchio liberale verso i sistemi totalitari novecenteschi di destra e di sinistra. Sistemi che secondo Gentile non hanno mai rinunciato in verità a una componente democratica, visto che dicevano di agire in nome del popolo. Gentile così introduce un altro concetto: democrazia e libertà non sono sinonimi. Anzi, la democrazia spesso finisce col servire su un piatto d’argento la testa della libertà alle oligarchie partitocratiche. “Storicamente, il liberalismo o costituzionalismo, come possiamo chiamare la dottrina dello Stato di diritto e il democraticismo o popolarismo, furono termini quasi coevi e spesso anche confusi. Ma dal punto di vista dei concetti si tratta di cose diverse”.
E infatti lo Stato di diritto secondo Gentile non è più tale dal momento in cui esso è occupato dai partiti che contemporaneamente controllano governo e sottogoverno, enti statali e parastatali, che arrivano a usare anche la burocrazia come un loro strumento, tanto che “la politicizzazione della burocrazia si fa sentire fino al più umile cittadino». Certo, “il rimedio facile a questi guasti sarebbe quello di togliere al governo il diritto di nominare a suo piacere il personale dirigente di tutti questi enti”, personale che potrebbe essere reclutato con metodi che possano meglio garantire indipendenza e imparzialità. Ma è un rimedio impossibile, chiosa realisticamente Gentile, “perché in Parlamento non si troverà mai una maggioranza capace di approvarlo, tradurlo in legge. Nella storia si conoscono gli abusi di potere e non la rinunzia volontaria al potere”. Peraltro il Parlamento nella spietata disamina di Gentile è un istituzione sotto tutela, il luogo dove la partitocrazia recita i suoi riti esteriori: arcana imperii come quelli degli aruspici descritti da Cicerone.
A questo punto allora si pone la questione più drammatica che Gentile affronta, quella della legittimità del potere, del suo diritto di pretendere obblighi e obbedienza. In questo Gentile è drastico: smascherato il mito della sovranità popolare (i partiti sono delle oligarchie chiuse capaci di creare consenso indotto col controllo delle risorse economiche e dei mezzi d’informazione) il sistema resta nudo. Il suo potere si regge sulla rendita politica. Metodo che si giustifica con il concetto di Stato assistenziale o sociale il quale ha come contropartita “una tassazione feroce e una pesante ingerenza negli affari economici”. Abbiamo così quei regimi “che non sono né socialisti né liberali e nei quali lo spirito egualitario originario del socialismo è decaduto nel pesante e costoso statalismo assistenziale, utilizzato poi dai partiti a scopo clientelare e mafioso”.
Ma Gentile va oltre: nella sua analisi del sistema partitocratico non anticipa solo Tangentopoli prevede anche la progressiva liquidazione della politica nelle direzioni del leaderismo populistico da un lato e della resa incondizionata alle logiche della criminalità organizzata dall’altro. “La vita pubblica non attira più gli uomini migliori, non è più un club di gentlemen. E non è nemmeno diventata un arsenale di tecnocrati. Abbiamo purtroppo a che fare con piccoli borghesi disoccupati disposti a tutto pur di fare carriera”.
Che cosa è avvenuto? Che i sistemi costituzionali fondati su ordinamenti liberal-democratici e sorretti da una società strutturata in corpi intermedi hanno finito nelle società e nei partiti di massa per soggiacere sempre di più alle spinte dal basso, assecondandone con la demagogia anche gli imperativi più ciechi, le pulsioni più oscure. Ben prima che la categoria di populismo fosse messa a fuoco Gentile ricordava come le stesse dittature di destra e di sinistra, che si sono diffuse in Europa nel secolo scorso, hanno liquidato gli ordinamenti liberali in nome della volontà popolare: “I bolscevichi facevano tabula rasa dello Stato rappresentativo ma non aggredivano il dogma della sovranità popolare. Le dittature di destra riducevano in un mucchio di rovine i vecchi stati liberal-democratici, ma il titolo dei nuovi Cesari era ancora e sempre la volontà popolare”.
Il suffragio universale da solo insomma, senza l’equilibrio di istituti di contegno, come la camera alta inglese per esempio, conduce inevitabilmente alla degenerazione autoritaria o «partitocratica», ad un regime cioè in cui le organizzazioni politiche, sotto forma di macchine ideologico-burocratiche, “sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti” e impongono un regime dell’affiliazione, con ciò distruggendo l’essenza dello Stato liberale. Ma arriva il punto in cui suona la campana a morto per una classe politica senza più legittimità e idee, arroccata in un sistema di privilegi, incapace di rispondere alle esigenze di una società sempre più complessa.
Non è più solo il demos a imporle con la pressione del numero i propri imperativi, sono le organizzazioni criminali, che intanto hanno pervaso la società e l’economia sottraendo allo Stato il monopolio della forza, a condizionarla se non a dettarle la linea. Gentile descrive insomma il piano inclinato che percorre l’organizzazione politica democratica: dai regimi di consenso, a quelli popolari autoritari, dalla partitocrazia al potere mafioso.
Un quadro disperante quello che traccia Gentile e che non sembra trovare sbocchi propositivi, a parte un vago accenno alla Repubblica presidenziale vista come parziale, anche se rischiosa soluzione, al regime partitocratico. Ma Panfilo Gentile era pur sempre un reazionario, il nostalgico di un’epoca in cui gli Stati erano governati dai probiviri di una borghesia sobria e dignitosa e il suffragio universale era di là da venire. Sentimenti impolitici e inattuali. Di Gentile resta però la lucida e per certi versi insuperata critica alla partitocrazia, ai suoi meccanismi e ai suoi guasti. E con essa resta, purtroppo, anche la partitocrazia. E le sue ulteriori degenerazioni.
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Messaggioda Berto » mar mag 23, 2017 6:51 am

Natalino Balasso e la Telecoscienza
https://www.facebook.com/CarloMartelliM ... 1886150375
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Messaggioda Berto » gio ago 17, 2017 7:39 am

???

Dove ci porta la gente nell’era del web
Dal numero di pagina99 in edicola il 14 gennaio 2017

http://www.pagina99.it/2017/01/13/dove- ... ra-del-web

C’è una vecchia storiella che racconta di un giudice, molto saggio e di grande intelligenza, di fronte al quale si presentano due litiganti per dirimere la loro questione. Il giudice ascolta il primo, poi riflette e commenta: «Hai ragione». Poi ascolta anche l’altro litigante, torna a riflettere e conclude: «Hai ragione». Allora suo figlio, un bambino nemmeno adolescente che stava giocando nella stanza accanto e aveva ascoltato tutto, alza la testa e rivolgendosi al padre protesta: «Ma non possono avere ragione tutti e due allo stesso tempo». E il saggio giudice, sempre più saggio: «Hai ragione anche tu».

Ecco, ora fate un esperimento. Provate a trascrivere questa storiella sulla vostra bacheca Facebook. E aspettate. Ci vorrà poco tempo e fioccheranno i commenti. E c’è da giurarci che non mancheranno i detrattori: e quindi? che volevi dire? come fanno ad avere tutti ragione? una fallacia logica? rossi e neri tutti uguali? Ci saranno libere interpretazioni in un senso o nel suo esatto opposto. E sarà la notte dove le vacche sono tutte nere… Ma soprattutto vivrete l’elettrizzante esperienza della gente, del popolo che si esprime. E quando questo accade, come ogni cosa complessa, crea problemi. Anche se alla gente i problemi complessi non piacciono.

«Quando la gente pretende di ragionare, tutto è perduto».
A esprimersi così non è un qualche reazionario d’antan e nemmeno uno snob elitista, bensì il tollerantissimo Voltaire. Certo, si dirà, era la metà del XVIII secolo. Eppure il sentimento antipopolare attraversa la nostra storia da sempre – e oggi sembra più vivo che mai in molte parti delle democratiche società occidentali.
Basti pensare ad alcuni recenti avvenimenti: Brexit, l’elezione negli Stati Uniti di Donald Trump, l’ascesa dei movimenti anti-sistema in Europa, le vertiginose acrobazie (politiche e dialettiche) dei grillini nostrani… Eventi che polarizzano le persone che si ritengono nel giusto a bollare come “minorati mentali” gli altri che si esprimono in maniera divergente.
Come dire: da un lato un’élite colta che sa cosa è meglio per il Paese e quindi per la gente; dall’altra questa massa di idioti che non ha gli strumenti per capire e perciò compie le scelte sbagliate. Esperti contro comuni mortali. Che fare?

Non sono pochi quelli che auspicano l’eliminazione delle elezioni (per esempio David van Reybrouck, che argomenta questa tesi con acume nel suo libro Contro le elezioni, Feltrinelli) o anche chi, come il quotidiano liberal Washington Post ancor prima dell’elezione di Trump, ha ospitato un editoriale dal titolo esplicito Dobbiamo liberarci degli americani ignoranti dall’elettorato. Vasto programma, avrebbe commentato De Gaulle – almeno così il generale chiosò alla vista della jeep militare, la prima entrata a Parigi dopo la liberazione nazista, che portava la scritta Mort aux cons, “morte ai coglioni”. Insomma, quando la volontà popolare non ci piace siamo sempre più portati a invocare Bertold Brecht: «Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».

Ce lo dice la gente!

Come si concilia allora la gente, la volontà popolare, con i nostri avanzati sistemi politici? La democrazia rappresentativa è quello che di meglio abbiamo trovato nel corso dei millenni. Oggi c’è chi invoca il ricorso alla democrazia diretta con l’istituto del referendum popolare, come il Movimento 5 Stelle. Ovvero chiedere a tutti i cittadini la loro preferenza su qualsiasi decisione da prendere. Facile no? Basterebbe qualche manuale di teoria democratica per comprendere come questo sia un ingenuo vagheggiamento che assomiglia più a una narrazione distopica che a una realizzazione praticabile. E auspicabile. Il ricorso al referendum popolare dovrebbe limitarsi alle questioni etiche o di particolare importanza per la nazione, non a tutto.

Certo, la questione del voto della gente è annosa e, per rimanere in termini popolari, chiunque abbia partecipato a una riunione di condominio sa benissimo di cosa stiamo parlando. Esiste una vastissima letteratura sul valore della volontà popolare – che, è bene ricordarlo, è soltanto quantitativa. L’ha espresso senza remore Elias Canetti in quel capolavoro novecentesco che è Massa e potere: «Nessuno ha mai creduto davvero che l’opinione del numero maggiore in una votazione sia, per il predominio di quello, anche la più saggia. Volontà sta contro volontà, come in guerra». Ecco l’essenza delle democrazia: il prevalere dei più sui meno, l’opinione della maggioranza che però non vale di più, semplicemente pesa di più.

Da Edmund Burke ad Alexis de Tocqueville in molti si sono chiesti se le democrazie siano in grado di sopravvivere all’espressione della volontà popolare, quindi se e quando il volere della gente si trasforma in una dittatura della maggioranza. È un dibattito ampio, sempre vivo, impossibile da riassumere. Quel che si può ricordare – come non smetteva di fare Norberto Bobbio – è che la democrazia non è una condizione sufficiente affinché uno Stato sia liberale: ci sono Paesi dove governano autocrati eletti a furor di popolo ma dove non sono in vigore elementari tutele democratiche e diritti come la libertà di parola, di espressione, di religione ecc. Non solo: la tanto citata democrazia ateniese, madre di tutte le democrazie moderne, era fondata sulla schiavitù (gli schiavi non votavano, così come anche le donne e gli stranieri).

Per non dire del suffragio universale, acquisizione assai recente nella storia dell’umanità. La tanto osannata democrazia non è quell’idillio riassunto dallo slogan uno vale uno e dove ognuno, magari cliccando su di un sì o un no di fronte a uno schermo illuminato, interviene con la propria opinione. La vera peste del nostro tempo è che tutti pensano di saperla lunga su tutto; mentre in realtà bisognerebbe avere sempre accanto l’ombra benevola di Roland Barthes: «La prego, mi permetta di non avere un’opinione».

Dalla massa allo sciame

Al di là dei problemi formali della democrazia resta il punto: come e quanto la gente, il popolo, l’opinione della maggioranza interviene nella vita pubblica e la condiziona? La gente storicamente è una massa, un soggetto spinto da una forza che si autodetermina per frantumare sistemi politici, gerarchici, sistemi di autorità e di valori. È ciò che lo psicologo Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle (1895) individuava come il tratto dell’epoca moderna. Questo è stato vero sino al Novecento, ma oggi? Certo, abbiamo avuto le primavere arabe, Zuccotti Park e Gezi Park come esempi recenti di “massa”. Ma la massa più significativa e più potente è oggi quella del mondo digitale. È qui, nella piazza virtuale di Facebook che la massa vera e propria si trasforma in qualcosa di inedito: uno sciame, come lo chiama il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han in un’opera molto dibattuta in Europa (da noi tradotta col titolo Nello sciame. Visioni del digitale, per l’editore nottetempo).

In cosa si distingue questo sciame dal popolo, dalla gente che ha storicamente popolato le masse? Semplice, risponde Han: lo sciame digitale non ha un’anima, non ha uno spirito. Prima la massa aveva una sua identità, aveva scopi comuni. Oggi invece lo sciame raggruppa individui che non diventano mai un “Noi”, non si esprime mai con una sola voce. Anzi, quando si esprime lo fa con un frastuono, perché la modalità comune con la quale si palesano le proprie opinioni (quasi sempre anonime) è una Shitstorm – letteralmente una “tempesta di merda”. In questo contesto apocalittico il filosofo si domanda quale democrazia sia mai possibile in una sfera pubblica fatta di egoismo e narcisismo: «Forse una democrazia con il tasto “mi piace”?». Bisognerebbe comunicargli che sì, da noi c’è chi lo pensa.

Ma quali sono le caratteristiche di questo sciame? Secondo Han il sentimento che accomuna la gente del web è lo stato di eccitazione: esser eccitati è la norma, il registro della comunicazione è l’emotività, un registro molto più vicino al parlato che non allo scritto. Pure le ondate di indignazione, «efficaci nel mobilitare e nel mantenere desta l’attenzione», scrive Han, «non sono in grado di strutturare un discorso: montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente». Insomma il filosofo sudcoreano, per dirla con Eco, è decisamente un apocalittico. E dalle sue pagine la gente del web assomiglia a NAPALM51, il personaggio di Maurizio Crozza che racchiude bene alcune delle peculiarità idiosincratiche dell’homo digitalis: hater, leone da tastiera, complottista, ecc.

Ora, che la gente del mondo digitale sia uno “sciame” è un’idea affascinante e di certo alcune delle caratteristiche indicate da Han sono senza dubbio vere. Ma imputare al digitale tutti i mali del mondo è sbagliato. Come ha notato un altro filosofo, Maurizio Ferraris, Byung-Chul Han sbaglia con il web così come Popper sbagliava sulla televisione e Platone sbagliava sulla scrittura (per il primo la tv era una “cattiva maestra”, violenta e antieducativa; il secondo riteneva che la scrittura avrebbe ucciso la conoscenza perché sino ad allora era solo orale). La tecnologia in sé non ci rende più stupidi o più alienati, semplicemente potenzia le occasioni e la portata per farci conoscere per quelli che siamo. E forse è proprio questo il punto: l’imbecillità.

La nostra imbecillità.

Assistiamo infatti a una preoccupante montata di fastidio della gente – che si trasfigura in accolita di rancorosi – contro i competenti, contro i tecnici, contro gli scienziati “ufficiali”, contro gli esperti. Lo spiegava molto bene una recente vignetta del New Yorker, ampiamente diffusa e commentata, in cui un passeggero di un aereo chiedeva agli altri di pilotare lui poiché «quegli spocchiosi dei piloti hanno perso il contatto con noi passeggeri comuni». Ecco, l’odio contro le élite di cui si è molto scritto si sta trasformando nell’odio per le competenze. Ma chi è questa gente? Trump più d’una volta ha detto che a lui «piacciono quelli poco istruiti» (I love the poorly educated), e la vignetta del New Yorker esemplifica anche quel clima anti-intellettuale ormai esibito come un vezzo. E se volessimo elencare gli esemplari italioti presenti nell’agone politico che hanno qualche problema con l’istruzione e la cultura non basterebbe tutto questo giornale.

Il mito dell’ignoranza

Ma è importante non commettere un errore: pensare che la gente che alimenta questo tipo di demagogia del sapere sia costituita da minorati ignoranti e poco istruiti. Se c’è un dato incontrovertibile è quello che riguarda il livello di istruzione in Occidente, sempre più alto. Quindi non è vero che la gente che si polarizza sul web, che ha un’opinione su tutto, che pretende di eliminare la complessità del reale con semplicistiche analisi da bar sport sia soltanto composta da individui ignoranti e poco istruiti. Anzi, come hanno dimostrato alcune recenti ricerche, più una persona è istruita su un singolo e specifico argomento, più pensa di saperla lunga su tutto. Si tratta dell’evoluzione digitale del famoso effetto Dunning-Kruger, ovvero la distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti tendono a sopravvalutarsi.

In realtà l’ignoranza non è fonte di tutte le credenze (nonostante imperversi oggi l’argumentum ad ignorantiam, ovvero il fatto che se uno è convinto di un complotto o una castroneria come gli alieni su Marte sta a te dimostrare che non esistono, e ogni argomentazione può esser messa in discussione proprio perché fuori dalla ragionevolezza). Lo dimostra una vecchia storia chiamata Moon Hoax del 1835, molto prima di post-verità e bufale online: il quotidiano New York Sun inizia a pubblicare una serie di articoli dove descrive la costruzione di un telescopio prodigioso che vede la Luna e i suoi prati lussureggianti di fiori rossi, animali fantastici e così via.

Il clamore è tale che pure i giornali europei traducono gli articoli. Naturalmente era uno scherzo, una bufala, ma ciò che colpì molti commentatori dell’epoca, in particolare lo scrittore Edgard Allan Poe, era che quelli che ci cascarono erano soprattutto persone che avevano studiato. Il livello di istruzione, allora come ora, non rende immuni alle più discutibili castronerie. Sempre Poe offriva allora un’indicazione utile ancora oggi: le persone più istruite, diceva, hanno una disponibilità mentale maggiore e un orizzonte intellettuale allargato. Queste persone hanno perciò ragioni per credere, che non significa che abbiano ragione di credere – così esemplifica il lato oscuro della nostra razionalità il sociologo francese Gérald Bronner nel suo La democrazia dei creduloni (Aracne 2016).

La dittatura dell’imbecille

Il problema non è l’opinione a sproposito. Il problema è quando queste corbellerie si fanno massa, diventano virali, si trasformano nello spot “è la gente che lo vuole” e quindi politici e capipopolo arruffati e truffaldini ne cavalcano l’onda con gli slogan “io rappresento il volere del popolo”, “io sono l’uomo della gente”, “io esprimo la pancia delle persone” (sic!). In questo caso la gente porta alla dittatura dell’incompetenza. La questione non è se la gente abbia o meno il diritto di esprimersi, votare, partecipare alla vita associata, al dibattito e alla politica della loro comunità. Il problema è come questa massa viene usata.

Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset osservava che l’uomo saggio è colui che è sempre tormentato dal sospetto di essere un imbecille, mentre l’imbecille è fiero di sé. Ora, sulla scia di coloro che si sono interessati all’imbecillità (come Umberto Eco o Carlo Cipolla al quale dobbiamo il capolavoro, un vero classico, Le leggi della stupidità umana) il filosofo Maurizio Ferraris nel suo L’imbecillità è una cosa seria (appena pubblicato dal Mulino) ci mette in guardia. Quando inveiamo contro la gente per le scelte, le votazioni, le bufale e i complotti inventati e la bolliamo come imbecille, dobbiamo stare attenti: con quale autorevolezza le stiamo dando dell’imbecille?

«Se c’è un momento in cui una persona intelligente appare irrimediabilmente stupida è quando – d’accordo con il detto napoletano – fa il gallo sull’immondizia, come per esempio quando Valéry apre Monsieur Teste con un madornale “La stupidità non è il mio forte”». Ecco, non c’è nulla di più stupido di stupirsi della stupidità, ci dice ancora Ferraris – etimologicamente, stupido è chi si stupisce. Ecco perché non ci piace la gente: perché la gente siamo noi. Nessuno escluso. Di certo quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti, ammoniva Karl Kraus. Tutti noi viviamo un’epoca crepuscolare: dovremmo ricordarcene quando, la prossima volta, ci stupiremo della nostra lunga ombra.


Alberto Pento
Idiozia pura, un articolo demenziale, ignorante, presuntuoso, arrogante e falso.
La Svizzera che secondo le statistiche è considerato uno dei paesi più felici della terra sta a dimostrare come la democrazia diretta sia un bene, il massimo bene. Invece l'Italia preda dello stato italiano e delle sue caste di "esperti" tra cui i partitanti-politicanti-professionisti della politica con i loro intelettuali aggregati, dove regna la democrazia indiretta e rappresentativa, considerato dalle statistiche mondiali uno dei paesi occidentali più incivili e corrotti, con il debito più alto e la maggiore disoccupazione, dove si sta peggio, sta a dimostrare come l'ademocrazia aristocratica delle caste e degli esperti (veri e presunti, ma più presunti che veri) sia un male, il massimo male.


I primati dello stato italiano e dell'Italia in Europa e nel mondo
viewtopic.php?f=22&t=2587
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Messaggioda Berto » dom feb 11, 2018 8:51 am

Magistrati sull’orlo di una crisi di nervi
Giovanni M. Jacobazzi
2018/02/07

http://ildubbio.news/ildubbio/2018/02/0 ... risi-nervi

Da Bellomo agli ultimi casi, si sgretola il mito dei salvatori della patria

Sul Fatto quotidiano di ieri l’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito ha notato che mai come nell’imminente tornata elettorale si erano visti così pochi magistrati nelle liste. «I politici preferiscono i pregiudicati ai giudici», ha scritto la toga che condannò Berlusconi. Sarà. Ma sarebbe azzardato negare come anche nella magistratura cominci a porsi quella che gli amanti del genere definirebbero “una questione morale”. Solo per citare i due casi più recenti, cioè registrati nelle ultime ore, abbiamo nell’ordine un’ex presidente della sezione Misure di prevenzione a Palermo, Silvana Saguto, per la quale il pg di Cassazione ha chiesto la rimozione dall’ordine giudiziario, causa “condotte quotidiane di immensa gravità”; e un pm, Giancarlo Longo, che secondo la ricostruzione del gip di Messina sarebbe stato protagonista di “plurime condotte di mercificazione della funzione giudiziaria”, grazie a una “inquietante capacità criminale”. Attorno ai due exploit dell’ultim’ora orbitano satelliti che non impegnano la credibilità personale dei magistrati coinvolti ma pure lasciano sconcertati, come il dramma del procuratore di Brescia, il cui figlio tossicodipendente faceva rapine armato di mitraglietta. Il tutto mentre è ancora opprimente il peso della vicenda Bellomo, il consigliere di Stato destituito dalla funzione per le accuse mosse dalle frequentatrici di un suo corso, secondo le quali avrebbe imposto condizioni al limite della sevizia sessuale.

Che all’interno della magistratura si sia preoccupati per l’incredibile sequenza di storiacce, è comprensibile. Da anni le statistiche riferiscono di un inarrestabile calo della fiducia nei confronti delle toghe, e negli ultimi tempi gli indicatori paiono ancora più in picchiata. L’ultima legislatura è stata scandita dal tema dello strapotere correntizio: per evitare che tra i magistrati si rafforzasse una sorta di partitocrazia in sedicesimi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva ipotizzato una riforma elettorale del Csm. Non se n’è fatto nulla, anche per le forti ritrosie dei togati di fronte alle soluzioni più drastiche. Di recente si è aggiunto il caso di una norma misteriosamente inserita nella Manovra che ha cancellato l’anno di “naftalina” previsto per i consiglieri superiori uscenti: i sedici che stanno per terminare il loro quadriennio potranno assumere un incarico direttivo o fuori ruolo un minuto dopo aver lasciato Palazzo dei Marescialli.

Come si spiegano tanti scricchiolii? Alcuni sintomi come il successo associativo di Piercamillo Davigo, caso singolare di “moralismo populista” interno alla magistratura, fanno pensare a una sorta di mutazione antropologica: un numero sempre maggiore di aspiranti giudici sembra ambire alla toga più per l’ottima retribuzione che per lo slancio ideale. In sé, il dato non sarebbe scandaloso. Ma è probabile che la tensione civile un po’ rarefatta spinga le correnti a cristallizzarsi in sistema corporativo più che a valorizzare la vocazione di presìdi culturali. La cosiddetta deriva potrebbe avere d’altra parte una matrice mediatica prima che reale: vicende, isolate, di giudici corrotti ce ne sono state anche in passato. Potrebbe esserne cambiata la percezione: ci si era abituati a considerare la magistratura come l’estremo avamposto della morale e della legalità. A considerare i pm come unici salvatori della patria. Ecco: casi come quelli di Saguto o di Longo riportano tutti con i piedi per terra. Magari possono aiutare a far cadere un mito inutile, quello dei Savonarola in toga pronti a sostituire la politica indegna. Sarebbe un ritorno alla normalità perduta con Mani pulite. Se riumanizzare i magistrati servisse a riportare un po’ di equilibrio nel rapporto tra politica e giustizia, male non sarebbe. Con buona pace del giudice Esposito, vorrà dire forse che continueremo ad avere pochi pm in Parlamento. Il che sarebbe un altro segno di ritorno alla normalità.


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Messaggioda Berto » ven dic 07, 2018 8:07 am

Spataro attacca ancora Salvini: "Solo la procura può informare"
Chiara Sarra - Gio, 06/12/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 12256.html

Il magistrato va allo scontro col ministro: "L'operazione contro la mafia nigeriana conclusa ieri sera, non il 4 dicembre"

Armando Spataro non demorde: nonostante Matteo Salvini abbia spiegato che era stato informato dalla questura dell'operazione di polizia che ha portato in manette alcuni esponenti della cosiddetta mafia nigeriana, il procuratore capo di Torino torna all'attacco.

"La procura è l'unica competente in ordine alla direzione delle indagini, al rilascio della delega per la esecuzione di provvedimenti cautelari e alla gestione e autorizzazione alla diffusione delle conseguenti informazioni (nella specie, concordate - come sempre - con la poliziagGiudiziaria)", rimarca Spataro in un nuovo comunicato al veleno.

Il magistrato sostiene che l'operazione si sia conclusa solo ieri sera, con 6 arresti e altre 6 persone ricercate perché latitanti per associazione di stampo mafioso. "Le operazioni delegate si sono concluse solo ieri sera (non prima), a Padova, dove è stata eseguita una delle misure predette nei confronti di una indagata, non catturata nei giorni scorsi e tuttavia ricercata sulla base di precisi elementi che ne facevano prevedere la reperibilità. Non sono stati effettuati, dunque, fermi o arresti di iniziativa della polizia giudiziaria", sottolinea Spataro, che spiega come il 16 novembre siano stati emesse 15 ordinanze di custodia cautelare.

"La procura ha potuto emettere solo nella mattinata odierna il presente comunicato stampa per non compromettere l'esito delle operazioni delegate che non si erano concluse il 4 dicembre, ma che - come si è detto - lo sono state, ieri sera, con il previsto arresto a Padova. Non si possono fornire altre informazioni, dovendosi peraltro rispettare le valutazioni del Giudice procedente all'esito degli interrogatori di garanzia".




"Il ministro Salvini ragazzino". Bufera sulla toga al Csm
Bartolo Dall'Orto - Mer, 05/12/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 11858.html

Di fronte al plenum del Csm il togato di Area Giuseppe Cascini attacca il leghista. Ira del laico di Forza Italia: "È inconcepibile". E la toga deve scusarsi

Continua lo scontro tra politica e magistratura. Dopo gli screzi di ieri tra Salvini e Spataro, oggi anche il Csm entra a gamba tesa contro il ministro dell'Interno.

E lo fa per voce di Giuseppe Cascini, esponente di Area, "gruppo autonomo della magistratura associata" che raccoglie le toghe rosse (nata dall'unione tra Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia-art.3).

Al plenum del Consiglio superiore della Magistratura, questa mattina Cascini ha preso la parola per commentare quanto successo ieri tra il ministro dell'Interno e il procuratore capo di Torino sulla presunta "anticipazione" del blitz contro la mafia nigeriana. Spataro accusava il titolare del Viminale di aver rischiato di "danneggiare" il "buon esito" di una una operazione " ancora in corso". Una querelle smontata dal leader della Lega, che in diretta Facebook ha rivelato di aver ricevuto in un sms una comunicazione ufficiale ben un'ora e mezza prima di complimentarsi con le forze dell'ordine attraverso il famoso tweet. "Non possiamo trascinare il Paese e le sue istituzioni nel mondo dei social - ha attaccato Cascini - non siamo ragazzini e se un ragazzino assume un incarico istituzionale bisogna fargli capire che non è più un ragazzino e che deve avere un atteggiamento consono al ruolo".

L'intervento della toga di Area ha scatenato le proteste del laico di Forza Italia, Alessio Lanzi. Il quale, nel corso del dibattito, ha chiesto un "un intervento formale" del vicepresidente David Ermini "perchè è inconcepibile che si parli come al bar definendo ragazzino un ministro della Repubblica": "Definire un ministro un ragazzino - ha detto Lanzi i- nel momento in cui ci si lamenta di un 'vai in pensione' detto a chi ci andrà tra 15 giorni, mi sembra un'esasperazione di toni". Canscini ha quindi precisato la sua posizione, facendo un passo indietro e sostenendo non aver "mai chiamato ragazzino il ministro dell'Interno": "Mi guarderei dal farlo non ho inteso dire questo, mi sono espresso male e chiedo scusa".

Queste, però, erano state le sue parole: "Dobbiamo difendere le istituzioni, difendere anche l'istituzione ministero dell'Interno, anche da chi oggi ricopre quel ruolo se danneggia quell'istituzione. Non possiamo ridurre tutto a chi fa la battuta più veloce, a chi dice la cattiveria più intrigante: è una cosa che fanno i ragazzini a scuola". Il ministro dell'Interno, aveva aggiunto il togato di Area, "non può pensare di rispondere in quel modo a un rilievo critico, fosse anche infondato, con inammissibile dileggio, scherno e irrisione di fronte a un servitore dello Stato". Critiche sono arrivate anche dal togato di Magistratura indipendente, Corrado Cartoni: "Un ministro non può essere definito un ragazzino", ha detto.




Spataro, il pm anti-Salvini che fa politica con la toga
Domenico Ferrara - Mar, 04/12/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 11439.html

Dal decreto Sicurezza alla chiusura dei porti, dallo ius soli alle moschee: il procuratore ha sempre messo il leghista nel mirino

Un tweet come apice di uno scontro che va avanti da tempo. Il procuratore di Torino, Armando Spataro, ha attaccato il ministro dell'Interno Matteo Salvini, colpevole, a suo dire, di aver danneggiato il blitz contro 15 mafiosi nigeriani.

Per il magistrato, il leghista avrebbe dovuto tacere. Al netto della critica, più o meno condivisibile in linea di prinicipio, fa sorridere che la predica arrivi da un pulpito non proprio silenzioso. Infatti, da quando Salvini è diventato ministro le critiche di Spataro si sono susseguite vertiginosamente.

Praticamente, non c'è stata volta in cui il procuratore non abbia messo nel mirino i provvedimenti o gli annunci fatti dal leghista. Il dl Sicurezza? "Da giurista pratico dico che a mio avviso ci sono aspetti di incostituzionalità che, nel momento in cui il decreto dovesse diventare legge, potrebbero anche essere oggetto, se ricorrono gli estremi, di questioni sollevate dagli uffici giudiziari".

Il governo prepara la stretta al business dell'accoglienza? E il procuratore firma un protocollo con la cooperativa "L'Isola di Ariel" per impiegare i richiedenti asilo proprio negli uffici della procura. Perché "ci vuole l’intervento di chi ha la responsabilità pubblica non possiamo lasciare tutto il peso del problema alle cooperative. È impensabile immaginare l’immigrato come un peso di cui sbarazzarsi". Iniziativa che ha ottenuto l'approvazione del Pd, tanto che la vicepresidente del Senato Anna Rossomando dichiarò: "È il modo corretto di valorizzare le capacità di queste persone, rendendoli partecipi di un servizio come quello della giustizia mostrando il volto dello Stato che declina l'accoglienza con l'integrazione".

Il governo annuncia la chiusura dei porti alle Ong? E Spataro attacca i sovranisti e lo fa il 13 novembre durante la presentazione del libro dell'ex ministro dell'Interno Minniti: "Credo che debbano fare un passo indietro. Perché è chiaro che chi arriva in un paese straniero e chiede asilo ha il diritto di vedere considerata la sua richiesta. Non esiste la possibilità di vietare a degli immigrati di scendere dalle navi".

Qualche giorno prima, il 4 novembre, torna a smontare il dl Sicurezza: "Un decreto legge che prevede l'abolizione della protezione umanitaria: vedremo se ci saranno problemi di costituzionalità".

Il 16 luglio scorso Spataro sollecita poi il ministro della Giustizia Bonafede affinché sblocchi il fasciolo a carico di Salvini accusato di "vilipendio dell'ordine giudiziario" per aver criticato la magistratura, il 15 febbraio 2016 quando ancora non era al governo, definendola "schifezza".

Il 9 luglio Spataro è ancora più tranchant in merito alla chiusura dei porti italiani: "Nessuno può vietare a un barcone di attraccare. La convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede il diritto al non respingimento. Ragionando per assurdo se un barcone arrivasse a Torino ai Murazzi sul Po e qualcuno impedisse a chi sta sopra di scendere, avvierei degli accertamenti".

Anche su un altro tema caro alla Lega, quello delle moschee, il procuratore dice la sua: "Qualcuno pensa si debbano chiudere le moschee in Italia, ma questo non è compatibile con il nostro sistema giuridico". Spataro ne ha pure per i sindaci che si rifiutano di accogliere i migranti: "Gli direi semplicemente "vergogna", fermo restando che la destinazione e distribuzione dei migranti dev'essere fatta con accortezza".

Poteva mancare poi una dichiarazione sullo ius soli? Figurarsi. "Si manifesta una vera e propria xenofobia. La solidarietà è un diritto, non un sentimento, e chi è contro lo ius soli lo deve capire". Entro fine anno Spataro andrà in pensione. E di certo, anche se non sembra ne abbia bisogno, sarà ancora più libero di esprimere la sua opinione. Sempre che non abbia intenzione di entrare in politica.


Salvino Paternò
5 dicembre
Un inviperito Spataro, procuratore di Torino, si scaraventa, lancia in resta, contro il ministro dell’interno, colpevole di aver ringraziato, con un twett mattutino, le forze dell’ordine per l’arresto di “15 mafiosi nigeriani”.
“L’operazione è ancora in corso!”, tuona il magistrato, “se ne rischia il buon esisto!”
C’è da chiedersi come abbia fatto Salvini ad apprendere del blitz. O possiede poteri di preveggenza, o l’operazione gli era stata regolarmente segnalata dai vertici di polizia, i quali, a loro volta, erano stati regolarmente notiziati dai reparti operanti, i quali, in base ai regolamenti, inoltrano le comunicazioni solo al termine delle attività.
In men che non si dica interviene Saviano il quale, oramai affetto da grave sindrome di “salvini-fobia”, sbraita su fb: “Salvini ha fatto un tweet mentre erano in corso degli arresti e qualcuno è riuscito a sottrarsi alla cattura!”
Non so come faccia Saviano ad affermare ciò, dato che non risulta, ma è evidente che se così fosse la colpa è dei post di Salvini. Eh già, è risaputo che i nigeriani sono costantemente sintonizzati sui twett del ministro, seguire i suoi interventi è meglio del sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Mica costoro risultano spesso irrintracciabili perché vivono nell’illegalità come fantasmi, in perenne condizione di irreperibilità, senza fissa dimora o utenze intestate. Macchè! Ha stato Salvini!
"E' il caso che il Csm si faccia sentire!", ordina infine Saviano. E si sa che quando Saviano chiama, la magistratura risponde.
E così ecco che anche il CSM si lancia prontamente nella mischia per bocca del suo vicepresidente David Ermini (sì, lo stesso Ermini che fino a qualche giorno prima era uno dei massimi dirigenti del PD, comodamente allocato nel “cerchio magico” di Renzi, e ora, spogliatosi da tali vesti con la stessa abilità di Arturo Brachetti, siede con la massima imparzialità e obiettività sullo scranno del Palazzo dei Marescialli).
"Il lavoro serio, puntuale e rischioso che la magistratura porta avanti non può e non deve essere utilizzato per scopi di propaganda", sentenzia costui.
Ora, chi è avvezzo a tali operazioni di Polizia Giudiziaria (per averle eseguite e non lette o raccontate) sa perfettamente che tale sarabanda è fondata sul nulla e si domanda cosa possa averla veramente scatenata. Ritengo illuminante la frase contenuta nella reprimenda di Spataro: “la polizia non ha fermato 15 mafiosi nigeriani, ma sta eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta di questo Ufficio!”. Ah! Ecco la vera causa dei bruciori anali del procuratore di Torino. Il merito del blitz non è della polizia, bensì sua. E’ stato il suo ufficio che ha chiesto e ottenuto le ordinanze per arrestare i mafiosi; per cui il ministro ha sbagliato nel ringraziare le “migliori forze dell’ordine del mondo”. I veri super eroi sono i togati non certo gli sbirri. Ora è tutto chiaro. E poca importa se quelle richieste di ordinanza non sono sorte dal nulla ma scaturite da mesi e mesi di indagini della polizia giudiziaria.
Insomma, non è certo la prima volta che giudici e politici si facciano belli sugli sforzi investigativi delle forze dell’ordine, ma che ora lo faccia l’odiato Salvini è veramente intollerante. Per cui, ognuno stia al suo posto, il ministro faccia il ministro senza invasioni di campo nel potere giudiziario. Non faccia, per esempio, come Spataro che non perde occasione per denigrare l’attività del governo, esternando la sua contrarietà al Decreto Sicurezza, ai respingimenti degli immigrati o addirittura accusando il ministro di alimentare un clima di odio contro i clandestini.
Ha ragione Ermini, non bisogna interferire con il nobile operato della magistratura. Eh già…la nobiltà togata! Peccato che a volte tale nobiltà ricordi quella del Marchese del Grillo, il quale, al popolo che gli chiedeva per quale motivo lui potesse fare le cose che alla plebe erano vietate, rispondeva serafico: “perché io sono io, e voi non siete un….”


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