Il giorno del giudizio in IsraeleDuecentomila missili puntati su Tel Aviv. Cosa accadrà dopo lo strike anti iraniano? Si prepara la difesa della popolazione casa per casa. Intanto Ahmadinejad mostra le barre atomiche e la Siria prepara armi chimiche
di Giulio Meotti | 19 Febbraio 2012
http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c333.htmUna fredda mattina di fine gennaio, le ambulanze sfrecciano dentro Haifa, il porto più grande d’Israele. C’è appena stato un attacco missilistico con una “bomba sporca”, armata al cesio radioattivo 137. Medici e paramedici decontaminano i superstiti, le autorità informano il pubblico: “L’inimmaginabile” è successo nel cuore dello stato ebraico. L’esercitazione, nota come “Nube oscura”, ha fatto parte del piano dell’Home Front Command per preparare il paese in caso di guerra con l’Iran. Il dottor Lion Poles, dal ministero della Sanità, ha detto che si tratta di uno “scenario ipotetico ma plausibile”.
Teheran avrebbe tre obiettivi primari il giorno dopo quello in cui Gerusalemme avrà attaccato le centrali nucleari iraniane: il reattore atomico di Dimona, il porto e le raffinerie di Haifa e l’area di Zakariya, dove è stoccato l’arsenale missilistico dello stato ebraico.
Nel 1991, durante la Guerra del Golfo, Eyal Eisenberg faceva parte di un team segreto stazionato nei pressi della centrale di Dimona. Aveva il compito di rilevare la presenza di materiale tossico nei missili Scud lanciati da Saddam Hussein. Oggi Eisenberg ha il compito di proteggere la popolazione israeliana in caso di guerra con l’Iran. Il generale ha appena detto che “Haifa sarà sommersa da 12 mila missili”.
Israele è avvezzo ai missili. Dal 1948, l’anno della fondazione dello stato, ne sono caduti sul suo territorio oltre 60 mila. In questo momento ce ne sono 200 mila puntati su Tel Aviv. Mai è stata tanto forte la potenza di fuoco dei terroristi nella regione. Rafi Eitan, 85 anni e leggendario operativo del Mossad (comandò i servizi segreti israeliani che rapirono, a Buenos Aires, il gerarca nazista Adolf Eichmann), ha detto che “il fronte interno non è pronto”. È anche l’opinione dell’ex direttore del Mossad, Meir Dagan.
Il premier Benjamin Netanyahu è convinto che per Israele sarà dura, ma il prezzo di un Iran nucleare è più alto. L’Iran ha già annunciato di aver prodotto le prime barre di combustibile nucleare “autarchiche”, ovvero costruite internamente. Una prova di forza del regime a cui ha partecipato anche il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, e che conferma i peggiori timori d’Israele: Teheran non è dissuasa dall’interrompere il programma atomico. Anzi, dice al mondo che può fare a meno dell’assistenza straniera.
Ehud Barak, ministro della Difesa, ha detto che “Israele non sarà distrutta” e che in caso di guerra “se la gente rimarrà nelle proprie case ci saranno soltanto 500 morti”. Al suo ministero dicono “mille”, comunque tantissimo per una popolazione così piccola. Esiste un solo calcolo possibile. Nel 2006 Hezbollah lanciò su Israele quattromila missili che causarono quaranta vittime fra i civili israeliani. Un morto ogni cento razzi. Se ne lanciano 12 mila, potrebbero esserci mille vittime. Nella recente esercitazione “Turning Point 5” Hamas, Hezbollah e Iran lanciano diecimila missili su Israele, che uccidono “centinaia di civili, ne feriscono ventimila e costringono centinaia di migliaia di persone a lasciare le proprie case”.
La situazione è talmente drammatica che, stando a una rilevazione condotta dall’Università di Tel Aviv, un trenta per cento della popolazione con doppio passaporto sarebbe disposto a lasciare il paese. Ieri Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano, ha pubblicato una lista di “città-rifugio” dove è meglio vivere “in caso di emergenza”. Nel 2006 un milione di abitanti fu costretto a rintanarsi nei rifugi per oltre un mese. Può Tel Aviv, dove vive il sessanta per cento della popolazione israeliana, affrontare uno scenario che Yedioth definisce da “giorno del giudizio”? Israele ha investito molto nella difesa balistica con il “Progetto Muraglia” (“homa” in ebraico), per fermare i missili iraniani Shahab 3 che possono arrivare in Israele e portare 1.150 chili di dinamite e materiali chimici. Ma la miglior difesa resta la preparazione della popolazione.
Yaakov Katz, corrispondente militare del Jerusalem Post e autore del libro in uscita “Israel vs. Iran”, su questo è a colloquio con il Foglio. “Con l’Iran sarà diverso rispetto all’Iraq nel 1981 e alla Siria nel 2007, quando Israele bombardò i loro reattori nucleari e non ci fu rappresaglia. Israele dovrà affrontare una guerra regionale. Hezbollah ha 50 mila missili e l’Iran ne ha una certa quantità di letali che possono raggiungere Tel Aviv. Poi ci sono Hamas, il Jihad islamico e la Siria. Cosa farà Bashar el Assad? Potrebbe partecipare al conflitto per distogliere l’attenzione sulla crisi interna. Sarà una guerra devastante, ma Israele resisterà e sarà un prezzo minore rispetto a un Iran nuclearizzato. Non sarà come il 1973, quando i paesi arabi potevano sconfiggere Israele sul campo. In questo caso Hamas e Hezbollah non possono conquistare un solo metro di terra, ma possono terrorizzare la popolazione ebraica”.
C’è il pericolo di armi chimiche: “La Siria ne è fra i massimi produttori mondiali. Finora Israele riteneva razionale il regime di Damasco. Ma Assad continuerà a esserlo anche ora che è in crisi? Potrà passare armi chimiche a Hezbollah. E se i magazzini di armi batteriologiche cadessero in mani di terroristi? Israele per la prima volta affronterebbe un’entità non statale terroristica dotata di armi di distruzione di massa”.
Molte esercitazioni sono denominate “Nbc”: pericolo nucleare, biologico e chimico. La Siria è “il paese arabo più avanzato nella produzione di armi chimiche”, ha detto un rapporto del Centro di studi strategici dell’Università Bar Ilan, secondo cui la Siria ha prodotto centinaia di tonnellate di armi chimiche e nei suoi depositi ha accumulato bombe riempite di gas Sarin e di un altro gas letale, il VX. Israele ha messo a punto sirene per i missili che possono portare armi “sporche”. L’idea è quella che botulino, antrace e agenti patogeni di altre malattie, fino ai veleni, diventino armi utilizzate insieme con l’esplosivo. Cento grammi di gas mostarda bastano a uccidere cinquecento israeliani.
L’esercito stima che Hamas e Hezbollah abbiano 1.600 missili “precisi”, in grado di colpire obiettivi mirati a centinaia di chilometri di distanza. Gerusalemme potrebbe essere colpita con una precisione tale da escludere la moschea di al Aqsa, sacra all’islam. Per dirla con Matan Vilnai, ministro delle Retrovie, “l’edificio del ministero della Difesa al quindicesimo piano non rimarrà in piedi”. Ci si aspettano, come nel 2006, bombe Hezbollah di fabbricazione siriana in cui le biglie vanno in ogni direzione e amplificano la capacità della carica esplosiva. A rischio è la centrale elettrica di Reading. Un missile paralizzerebbe il paese. Secondo un rapporto del Comando militare delle retrovie, pubblicato dal quotidiano Israel Hayom, l’erogazione di acqua, gas e corrente elettrica sarebbe bloccata.
Israele prepara i rifugi. Questa settimana il ministero degli Esteri ha fornito alle ambasciate di Tel Aviv una lista di rifugi che i corpi diplomatici stranieri potranno utilizzare. Soltanto a Tel Aviv ce ne sono 240. La stazione di Gerusalemme è in grado di accogliere cinquemila persone. Agli israeliani sarà chiesto di avere a portata di mano “una valigia con documenti personali, medicine, vestiti, calze e scarpe, un radio-transistor, un telefono cellulare, cibo, bevande”. La guida al buon uso della maschera antigas si chiama “Lohama Kimit”: guerra chimica. Molte famiglie sono corse ai ripari. La milionaria Vivian Rakib nella sua casa di Tel Aviv ha fatto costruire tre livelli sotterranei per un’autosufficienza di sei mesi. Un bunker privato costa 100 mila dollari. Anche la milionaria Shari Arison lo ha fatto costruire in attesa dell’Armageddon.
Dopo il 2006, il paese è stato munito di tremila sirene. Ci sono teatri, come l’Habima di Tel Aviv, che sotto terra accoglieranno migliaia di persone. A Safed si è costruito il primo ospedale-bunker per bambini. Yedioth ha rivelato che un ospedale sotterraneo, protetto dalla minaccia di armi chimiche o batteriologiche, è stato segretamente costruito nel nord di Israele, presso Nahariya. Per accedervi bisogna passare attraverso una rete di tunnel, ha un sofisticato sistema di filtraggio dell’aria e dell’acqua. Il governo dispone di una “località segreta” nelle montagne della Giudea, fuori Gerusalemme. Un nuovo sistema d’allarme, nel deserto del Negev, calcola con esattezza la traiettoria d’un missile. In una frazione di secondo, tramite sms, avviso audio e illuminazione del display, il programma invia un allarme a tutti i telefonini in quella zona.
Piani di evacuazione sono approntati per Ramat Gan, la popolosa periferia di Tel Aviv su cui caddero i razzi nel 1991. Il Negev può ospitare le tendopoli. Fino a mezzo milione di israeliani potrebbero rifugiarsi nelle colonie ebraiche della Cisgiordania. Il comandante delle retrovie, generale Yair Golan, ha spiegato che “le città potrebbero trasformarsi in campi di battaglia” e che masse di persone sarebbero costrette a scappare in Samaria, definita in codice militare “rifugio nazionale”. Gli ospedali hanno piani per le emergenze. Le industrie più strategiche, come le banche e la compagnia telefonica Bezec, si sono dotate di tecnologie di sostituzione in caso di collasso.
Ogni casa a Kiryat Shmona, nell’unghia più a nord della Galilea, ha finestre che per precauzione sono incerottate in lungo e in largo, cosicché i vetri non schizzino da tutte le parti quando l’immancabile proiettile arriva insieme allo spostamento d’aria. Qui, nell’estate 2006, sono caduti mille missili. Adesso se ne aspettano molti di più. I 212 rifugi pubblici sono restaurati. Alcuni rifugi hanno tv e aria condizionata, altri sono decadenti e hanno l’aria soffocante. All’ingresso di “Kiryat Katyusha”, come è stata ribattezzata la città, il governo ha fatto costruire un Monumento alla pace. Gli artisti non hanno trovato altra ispirazione che dipingere carri armati di giallo, rosso e blu. I bambini ci si arrampicano. In attesa della sirena che annuncerà il prossimo katyusha. E la fine del countdown fra Teheran e Gerusalemme.
Leggi la prima puntata Countdown, storia preventiva dello strike - Leggi la seconda puntata Mañana. La guerra fantasma d’Israele - Leggi la terza puntata Nella mente dello strike - Leggi la quarta puntata La guerra dei trent'anni sta per finire - Leggi la quinta puntata La cura di Sneh
Countdown, storia preventiva dello strikeIn Israele si è iniziato il conto alla rovescia contro l’atomica di Teheran. La decisione pesa sulle spalle (e sulla metafisica personale) di Netanyahu
di Giulio Meotti | 04 Febbraio 2012
http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c211.htmAd accogliere i visitatori nel quartier generale dell’aviazione israeliana di Tel Aviv è un poster: “Le aquile d’Israele sopra Auschwitz”. Dieci anni fa lo stato ebraico ottenne, suscitando numerose proteste internazionali, di alzare i propri velivoli militari sopra la tomba invisibile di milioni di ebrei. Il poster mostra due caccia F-15, pilotati da nipoti e figli di sopravvissuti alla Shoah, che sorvolano i resti delle camere a gas nel campo di sterminio nazista. “Siamo arrivati troppo tardi per coloro che sono morti qui”, disse Ehud Barak, attuale ministro della Difesa israeliano. A guidare l’esercitazione c’era Amir Eshel, che oggi è il candidato principale per il comando dell’aviazione israeliana e quindi di un eventuale attacco militare alle installazioni nucleari in Iran. “L’Iran è il nuovo Amalek che apparirà nella storia per provare, ancora una volta, a distruggere gli ebrei”, disse Benjamin Netanyahu, oggi primo ministro d’Israele, di fronte ai resti delle camere a gas di Birkenau. “Ricorderemo sempre che cosa ci ha fatto l’Amalek nazista. Non dobbiamo dimenticare d’essere pronti ad affrontare i nuovi amaleciti. E’ come il 1938, e la nuova Germania è l’Iran, che sta preparando un nuovo Olocausto dello stato ebraico”.
In un recente articolo sul New York Times, Ronen Bergman, uno dei più noti giornalisti investigativi israeliani, ha scritto: “Dopo aver parlato con numerosi leader e militari israeliani sono arrivato alla conclusione che Israele attaccherà l’Iran nel 2012”. Sei mesi, al massimo un anno, è il tempo prima dell’“ora X”, prima cioé che Teheran sviluppi le capacità tecniche per assemblare un ordigno nucleare. A meno che non accetti di fermarsi o il suo programma non venga distrutto da un attacco militare. E’ il countdown, il conto alla rovescia sull’atomica degli ayatollah.
Il capo di stato maggiore d’Israele, Benny Gantz, ha appena definito il 2012 “l’anno dell’Iran”. Lo scorso giovedì il capo dell’intelligence militare israeliana, Aviv Kochavi, ha detto che l’Iran “ha già materiale fissile sufficiente per costruire quattro bombe atomiche”. Il giorno stesso Moshe Ya’alon, vice primo ministro ed ex capo di stato maggiore, annunciava che “Israele può distruggere tutte le strutture nucleari iraniane”. La tensione sale ogni giorno di più. Secondo una previsione del segretario alla Difesa americano Leon Panetta raccolta da David Ignatius, famoso giornalista del Washington Post, gli Stati Uniti temono che Israele possa attaccare i siti nucleari iraniani in “aprile, maggio o giugno”. L’aviazione di Gerusalemme penserebbe di colpire i bersagli iraniani per “4 o 5 giorni”.
“L’orologio tecnologico prevede che l’Iran sviluppi la bomba atomica entro massimo un anno”, spiega al Foglio il più noto giornalista militare israeliano, Ron Ben Yishai, corrispondente di Yedioth Ahronoth immortalato nel film “Valzer con Bashir”, in quanto fu il primo giornalista al mondo a entrare nel campo di Sabra e Shatila. “L’orologio delle sanzioni scatterà invece non prima di luglio e per Israele quella data è considerata troppo tardi per fermare i piani iraniani. Israele teme che non resti tempo per fermare l’atomica iraniana e non può permettersi che Teheran sviluppi una sorta di ‘immunità’ sul nucleare, portando il programma ancora più sotto terra, dopodiché sarebbe impossibile fermare Teheran. L’attuale ‘red line’ dell’America è se l’Iran supera il trenta per cento di produzione di uranio arricchito, per Israele questa linea rossa è inaccettabile, perché da lì in poi entro tre mesi Teheran potrebbe assemblare la bomba. Israele quindi potrebbe decidere di attaccare, con o senza gli americani, avendo senza ombra di dubbio le capacità di paralizzare o distruggere il programma nucleare iraniano”.
Scrive Ronen Bergman che Benjamin Netanyahu “è l’uomo che ha fatto dell’Iran la questione numero uno in Israele”. Vent’anni fa, quando ancora non si parlava di Qom, Bushehr, Fordow e Isfahan, ovvero la fitta rete di fabbriche nucleari che il regime iraniano ha costruito nei sotterranei dell’antica Persia, Netanyahu pubblicò un libro dal titolo “Fighting Terrorism”, in cui scriveva: “Non c’è più tempo, il mondo è di fronte a un abisso e una volta che l’Iran avrà acquisito armi atomiche nulla può escludere che possa spingersi verso l’irrazionalità”. All’epoca Netanyahu era semplicemente il “Dottor No” della destra e i baroni del Likud gli davano dell’“amerikano”, per il suo inglese impeccabile, per gli studi al Massachusetts Institute of Technology e perché durante la guerra del Golfo era il “darling della Cnn”. Negli studi dell’emittente americana a Gerusalemme, Netanyahu andava in tv indossando una maschera antigas, a testimoniare l’angoscia d’Israele mentre Saddam Hussein lanciava missili scud su Tel Aviv. “A Netanyahu spetta la decisione di attaccare l’Iran, la storia d’Israele poggia sulle spalle dei primi ministri e sono loro a decidere per il bene del popolo ebraico”, dice al Foglio Yoel Guzansky, uno dei massimi esperti d’Iran e direttore della sezione iraniana dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, il maggiore pensatoio per la sicurezza nazionale in Israele. “Per Israele oggi conta soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico, non il rapporto con gli Stati Uniti”.
Vent’anni dopo la pubblicazione di quel libro, Netanyahu ha lanciato la più vasta distribuzione di maschere antigas dai tempi della guerra del Golfo. Nei giorni scorsi il maggiore Eshel ha detto che ancora metà della popolazione è senza la nuova maschera antigas. Israele sta correndo ai ripari, timoroso della “biologia nera” nelle mani di Iran, Siria e Hezbollah. La distribuzione della nuova maschera, che porta il nomignolo di “Candy”, fa parte di un piano di autodifesa del “fronte interno” in caso di strike all’Iran. In ogni casa israeliana si conservano ancora le vecchie maschere dentro brutte scatole color caki, nella stanza meno usata, per esorcizzare il pericolo. Tutti ricordano le immagini dei genitori che all’interno di una stanza sigillata leggevano una fiaba al figlio che aveva in testa una specie di casco da astronauta in grado di proteggerlo dai veleni.
L’uso preventivo della forza da parte d’Israele sarebbe giustificato. “Ogni persona e ogni stato ha il diritto di difendersi se sotto minaccia esistenziale, non devi aspettare il punto in cui il tuo nemico ti possa attaccare per distruggerti”, dice al Foglio Avi Sagi, filosofo morale e coautore dello “Spirit of the IDF”, il più recente codice di condotta etica dell’esercito ebraico. “Se Israele è certo che possa finire sotto attacco atomico, allora ha il diritto a un attacco preventivo. C’è una piccola linea rossa invisibile in cui si intreccia la questione tecnica dell’atomica ma anche la volontà della leadership di Teheran. Cosa c’è nella mente degli iraniani? Gli iraniani sono abbastanza razionali da avere la bomba senza usarla, come avvenne durante la crisi dei missili a Cuba? L’attacco preventivo venne usato già durante la Seconda intifada, quando Israele eliminò alcuni capi terroristi in esecuzioni extragiudiziali. E’ una moralità che fa parte dell’ethos ebraico. Israele è prigioniero da sempre di una guerra asimmetrica, in cui soldati combattono terroristi in abiti civili. Israele ha sospeso operazioni militari per il timore di vittimi civili fra i palestinesi e gli iraniani devono sapere che in caso di strike Israele farà tutto il possibile per evitare vittime civili e che l’obiettivo sono le sue infrastrutture nucleari. Ma l’esercito d’Israele è nato per difendere gli ebrei”.
Il countdown inizia dalla mente del primo ministro. “Per Menachem Begin (primo ministro all’epoca dell’attacco alla centrale nucleare di Osirak) era una questione fra lui e Dio”, dice Ariel Levite, ex consigliere per la sicurezza nazionale. “Anche Netanyahu pensa di essere parte di una missione storica”. La posizione di Netanyahu su Teheran, dicono fonti vicine al primo ministro, è plasmata “da Amalek e dall’Olocausto”. E’ il tema della festa di Purim, quando gli ebrei celebrano la sconfitta di Aman che ai tempi del re Assuero di Persia voleva annientare tutti gli ebrei. Dopo Amalek, il terribile guerriero del deserto, vennero i Romani con la distruzione di Gerusalemme e l’imperatore Tito che entrò nel canone ebraico come successore di Aman; poi è stata la volta di Hitler, dell’Olp di Yasser Arafat e infine dell’Iran nuclearizzato, che secondo Netanyahu primeggia come metafisico persecutore fra gli odiatori assoluti di ebrei. Ahmadinejad come Aman, protagonista della Meghilà di Ester, il libro di Ester.
I giornalisti più maligni, non senza ragione, dicono che questa ideologia di Netanyahu proviene da suo padre, un intellettuale di fama mondiale. “L’Olocausto non è mai finito, l’Iran promette che il movimento sionista è arrivato alla fine e che non ci saranno più sionisti al mondo”, ha appena detto il venerando Ben Zion Netanyahu di fronte a una platea di amici e parenti riuniti per festeggiare i suoi cent’anni. “Il popolo ebraico deve riporre la fede nel proprio potere militare. La nazione d’Israele mostra al mondo cosa deve fare uno stato di fronte a una minaccia mortale: guardare negli occhi il pericolo e decidere cosa fare. E farlo quando ancora c’è la possibilità di farlo”.
L’anziano medievista, nato a Varsavia e da molti considerato il più grande studioso mondiale d’Inquisizione spagnola, dal suo quartiere di Katamon, in una zona di Gerusalemme dove la famiglia Netanyahu risiede da più di mezzo secolo, seguita a scrivere libri sulle persecuzioni. Secondo Amir Oren di Haaretz, Netanyahu vede se stesso come l’ultimo paladino della saga revisionista. “Il primo ministro è convinto di essere nato per anticipare gli eventi. Ze’ev Jabotinsky, di cui Ben Zion Netanyahu fu il segretario per tutta la vita, previde l’Olocausto. Netanyahu vede l’Olocausto dell’Iran e continuerà questa dinastia profetica”.
Un anno fa Netanyahu ha reso nota una lettera del padre scritta proprio durante la Pasqua ebraica del 1941, quando gli ebrei venivano spediti a morte nelle camere a gas e all’epoca il professor Netanyahu era direttore della Zionist Organization of America e perorava la causa degli ebrei europei: “Attraverso oceani di sangue, il nostro sangue, attraverso oceani di lacrime, le nostre lacrime, soltanto una nazione del nostro calibro poteva sopravvivere attraverso epoche di sofferenza impareggiabili. Ma siamo vivi e lottiamo per la libertà”. Ci dice un ex consulente del premier che il padre ha instillato nel figlio “questa viscerale identificazione con il miracolo della sopravvivenza ebraica”.
Una delle più note firme di Haaretz, Ari Shavit, dice che “Benjamin Netanyahu crede di essere uscito dal grembo di sua madre per salvare il popolo ebraico e la civiltà occidentale dal pericolo che sorge da Natanz (la centrale nucleare iraniana). Vuole essere la persona che sconfiggerà il nazismo del XXI secolo”. Ne parliamo con Yossi Klein Halevi, scrittore e intellettuale di punta del mondo ebraico americano. “Ci sono similarità e differenze fra Menachem Begin, che attaccò il reattore nucleare in Iraq, e Benjamin Netanyahu, l’uomo dell’Iran. Begin fu l’unico leader israeliano nell’Europa dell’est imprigionato dai comunisti e la cui famiglia venne uccisa dai nazisti. La Shoah era parte essenziale della vita di Begin. Netanyahu è nato in Israele, ha servito con Ehud Barak nelle unità d’élite dell’esercito, è un simbolo del potere ebraico e della capacità del popolo ebraico di difendersi. Ma sull’Iran Netanyahu è tornato a Begin e alle origini della destra. Quando parla degli anni Trenta, Netanyahu intende la mentalità occidentale di appeasement riguardo all’Iran”.
Secondo Halevi, l’Olocausto è decisivo per capire cosa farà Israele nel caso in cui l’America si rifiuti di entrare in guerra contro gli iraniani. “Anche il socialista Barak, sostenitore dello strike, è stato influenzato dalla dottrina Osirak di Begin e pensa che Israele deve sparare il colpo preventivo prima che ci sia un altro Olocausto. Netanyahu sa che Ahmadinejad è un nemico molto più mortale per Israele di quanto non lo fosse Saddam Hussein. La dottrina Begin si basa proprio sulla capacità degli ebrei di fare da soli anche senza l’America. Quando Israele attaccò Osirak, l’Amministrazione di Ronald Reagan non venne avvertita da Israele. E sfido a paragonare Barack Obama a Reagan sulla difesa d’Israele per capire come potrebbe agire oggi Netanyahu. Oggi l’America è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dall’atomica iraniana”. Halevi dice anche che esiste un momento preciso che ha cambiato per sempre il “dossier Iran” in Israele, specie nella classe dirigente vicina a Netanyahu: “Fu quando nel 2005 Ahmadinejad organizzò ufficialmente la conferenza sul negazionismo della Shoah. L’Iran è l’unico stato mondiale devoto a dimostrare la falsità dell’Olocausto. Da allora Israele non ha più guardato a Teheran allo stesso modo. Anche se lasciamo da parte gli scenari apocalittici, nessuno può essere certo che l’Iran non possa lanciare una testata atomica su Tel Aviv. Allora la storia ebraica sarebbe finita. Netanyahu inoltre sa che l’Iran darà il via libera a una difesa nucleare nella regione per Hezbollah e Hamas. Sarebbe la fine della deterrenza d’Israele. Inoltre, i rivoluzionari di Teheran potrebbero passare una ‘bomba sporca’ ai terroristi e usarla contro lo stato ebraico. Infine, ci sarebbe una corsa alla bomba atomica nella regione. Se Israele sa che il punto di non ritorno è vicino, lancerà un attacco contro l’Iran, con o senza americani. In gioco c’è soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico”.
L’albero genealogico di Netanyahu reca anche un fratello eroe, caduto a Entebbe, nel famoso salvataggio degli ostaggi ebrei. E il ricordo di quel fratello eroe gioca un ruolo decisivo nella mente del primo ministro. Ogni anno, quando tutto il paese è concentrato nel ricordo dei suoi caduti e Yom Hazikaron, il Giorno del Ricordo, si stende su Israele tanto da bruciare, da rodere, da ferire, il primo ministro si reca sulla tomba del fratello ucciso. Il 4 luglio di trentaquattro anni fa un commando di teste di cuoio israeliane fu protagonista di un clamoroso blitz a migliaia di chilometri di distanza da casa. In Uganda gli israeliani volarono per liberare un centinaio di passeggeri ebrei di un jet della Air France dirottato da terroristi palestinesi. Il reparto è guidato da Yoni, fratello del premier e unica vittima del blitz. “Yoni si è battuto ed è morto per il popolo ebraico, ma la sua battaglia aveva orizzonti più ampi, Yoni vedeva questa guerra come una battaglia fra la civiltà e la barbarie”, si legge nel libro del 1997 scritto dal primo ministro. “E’ una battaglia che dall’inizio della Storia ha contrapposto le forze delle tenebre a quelle dei lumi”. La stessa dicotomia è applicata alle fornaci nucleari iraniane. Nel suo capolavoro, “Le Origini dell’Inquisizione”, pubblicato negli Stati Uniti da Random House, il padre di Netanyahu sostiene che l’Inquisizione fu il prototipo della persecuzione antiebraica del Novecento e che non era nata per estirpare il giudaismo come religione, ma gli ebrei come popolazione. La morale del professor Netanyahu è che “la persecuzione è eterna, cosmica”. E’ il grande messaggio che ha trasmesso ai figli: uno è morto combattendo i terroristi, l’altro vuole difendere Israele dalle centrali atomiche iraniane.
Secondo l’esperto di Iran Yoel Guzansky, la formazione ideologica di Netanyahu potrebbe spingerlo ad agire anche senza il consenso degli americani. “Netanyahu sa che le possibilità di uno scontro fra America e Iran sono molto basse al momento sulla questione nucleare, perché Washington è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dal nucleare. Netanyahu potrebbe decidere di lanciare una campagna militare anche senza il consenso americano. Tutto dipende dai dati che Israele avrà in mano, non certo dal dispiacere che potrebbe provocare negli Stati Uniti. Se Israele pensa che è rimasto solo in questa operazione, agirà da solo. Netanyahu attaccherà se l’intelligence gli fornirà certezze sul danno permanente che Israele può causare al programma iraniano. Abbiamo una opzione militare contro l’Iran e possiamo distruggere ancora le centrali iraniane”.
Per capire questa mentalità israeliana si deve sfogliare un altro libro di Netanyahu scritto nel 1993, “A Place Among the Nations: Israel and the World”, in cui il futuro primo ministro, pensando all’Iran, parla del “tradimento del sionismo da parte dell’occidente”. In un capitolo dal titolo emblematico, “Betrayal”, il tradimento, Netanyahu scrive che la Gran Bretagna, “gli arabisti del Foreign Office”, “abbandonarono gli ebrei sull’orlo dell’annientamento”. Un altro capitolo è dedicato a Ze’ev Jabotinsky, il padrino della destra israeliana che vide la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita. Il passo preferito dal primo ministro è quello in cui Jabotinsky cita Thomas Hobbes: “Saggio è stato il filosofo che ha detto ‘homo homini lupus’. Il tenere sempre il bastone in mano è l’unico mezzo per sopravvivere in questa guerra di lupi”. In questa possibile guerra con l’Iran, i bastoni d’Israele sono i missili Jericho, i caccia F-16, lo scudo “fionda di David”, il radar “Pino Verde”, i sottomarini Dolphin, Leviathan e Tekuma. Dentro quest’ultima parola, che in ebraico significa “rinascita”, c’è tutta l’eco di una guerra che se verrà avrà gli occhi di Benjamin Netanyahu e Mahmoud Ahmadinejad.
(primo di una serie di articoli)
Giulio Meotti è giornalista del Foglio dal 2004. E’ autore di “Non smetteremo di danzare” (Lindau), inchiesta sulle vittime israeliane del terrorismo. Il libro è stato tradotto negli Stati Uniti ed è in corso di pubblicazione in Norvegia. Jewish Ideas Daily lo ha inserito fra “i migliori libri ebraici del 2010”; per il presidente del Parlamento israeliano, Reuven Rivlin, “è un lavoro impressionante che riempie i vuoti nell’opinione pubblica internazionale su Israele”. Meotti ha scritto anche per il Wall Street Journal, Commentary, National Review, Jerusalem Post, Fox News, Jüditsche Allgemeine e per Yedioth Ahronoth, primo quotidiano israeliano.
Mañana. La guerra fantasma d’IsraeleCosì il Mossad di Meir Dagan ha ritardato i piani atomici di Teheran. Ma potrà Gerusalemme evitare lo strike? Storia di un conflitto invisibile
di Giulio Meotti | 11 Febbraio 2012
http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c993.htmNella strada che costeggia il Mediterraneo, a pochi chilometri da Tel Aviv, c’è un insieme di edifici bianco-grigiastri al di là di una fila di eucaliptus. Lì sorge il monumento ai 400 israeliani caduti servendo nei servizi segreti. Alcuni di loro non hanno neppure una tomba in terra ebraica, sepolti senza nome in qualche sperduto camposanto arabo. Come Eli Cohen, lo 007 che garantì la vittoria nel 1967 e che faceva emozionare Yitzhak Rabin quando ne ricordava la figura: “Eli è un mito, ci siamo tramandati la sua storia da comandante a soldato, da padre in figlio”. Eli Kamal, come si faceva chiamare Cohen, divenne amico personale dei generali siriani, venne ammesso a visitare le postazioni sul Golan e dalle colline sul lago di Tiberiade prese nota dei bunker, dei carri armati e dei missili terra aria arrivati da Mosca. Scoperto, Cohen verrà giustiziato in diretta tv. “Morte al sionista”, grida la folla a Damasco mentre il boia gli stringe il cappio intorno al collo e la moglie, da Tel Aviv, assiste allo scempio del corpo del marito.
Quando Meir Dagan ha lasciato la guida del Mossad, un anno fa, dopo aver abbracciato le storiche guardie del corpo, non si è portato via soltanto la celebre pipa, ma anche il suo più grande rimpianto, ovvero non aver saputo riportare in patria le spoglie di Cohen. Dopo Issa Harel “il piccolo”, che catturò il gerarca nazista Adolf Eichmann in Argentina, Dagan è stato il più ardito direttore del Mossad, il servizio segreto d’Israele. La sua ossessione, in questi otto anni, è stato il programma atomico dell’Iran, in un crescendo che adesso potrebbe avere come atto finale un blitz aereo.
Ma a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, Dagan è contrario allo strike. E’ “la nemesi di Netanyahu”. Un paradosso difficile da comprendere, perché in un paese di duri come Israele, Dagan è il più duro. Nel 1967 Dagan saltò su una mina egiziana e oggi cammina con fatica. Ma quella ferita, disse, “è la prova che ho una spina dorsale”. Quando trent’anni dopo emerse come uno dei possibili capi del Mossad, il Times lo chiamò “il cacciatore di arabi”. Nel 2002 l’allora primo ministro Ariel Sharon, che chiese a Dagan di risollevare un moribondo servizio segreto, disse che la specialità dello 007 consisteva nel “separare un arabo dalla propria testa”. Il “metodo Dagan” sull’Iran, come lo ha ribattezzato il quotidiano Yedioth Ahronoth, consiste nel rafforzamento delle sanzioni e nel fomentare le rivolte interne, ma soprattutto nell’assassinio di scienziati e nel sabotaggio del materiale atomico. Un metodo che va sotto la sigla di “mañana”. Si rimanda l’ora X della bomba atomica. Domani e domani e domani… Mañana, appunto. “Una tecnica dilatoria” dice Yaakov Katz, editor militare del Jerusalem Post che sta per pubblicare, assieme allo storico Yoaz Hendel, il libro “Israel versus Iran. The Shadow War”, la guerra fantasma. E’ la guerra di Dagan. La guerra che c’è ma non si vede e colpisce le centrifughe atomiche, i magazzini di fluoruro di uranio, gli scienziati e gli emissari stranieri.
“Il piano Dagan è stato un grande successo”, dice al Foglio Ron Ben Yishai, il re dei corrispondenti militari israeliani per Yedioth Ahronoth, che nel 2007 riuscì a visitare, unico giornalista al mondo, il sito nucleare siriano bombardato dall’aviazone israeliana (uno dei successi di Dagan). “Si iniziò a parlare di Iran nel 2000 e si disse che avrebbe avuto la bomba atomica entro tre anni. Ancora non ce l’hanno. Grazie a Dagan. I sabotaggi e le uccisioni hanno funzionato. Adesso Dagan pensa che Israele debba procedere secondo l’orologio di Washington, mentre l’orologio di Netanyahu procede più spedito. Ma sia Dagan sia Netanyahu concordano che Israele non accetterà un Iran nucleare, lo stato ebraico sarebbe vittima di una lunga guerra di attrito fra i terroristi nella regione protetti dall’ombrello atomico di Teheran”. Meir Javedanfar, autore del libro sulla “Sfinge Iraniana” e docente a Herzliya, dice al Foglio: “La linea rossa per Dagan è la costruzione della bomba atomica. E’ come se oggi l’Iran avesse tutte le parti della bomba sul tavolo e dovesse ancora decidere di assemblarle. Se alla fine Israele riceverà la ‘luce verde’ dagli americani Netanyahu attaccherà l’Iran. Israele non può aspettare un test iraniano e ci sarà un attacco preventivo”.
Sull’ultimo numero di Newsweek anche lo storico di Harvard Niall Ferguson, uno dei maggiori opinion maker al mondo, ha scritto che “Israele e Iran sono alla vigilia di una nuova guerra dei Sei giorni. La guerra preventiva è un male minore rispetto all’appeasement”.
Dal 13 gennaio 2010, cinque scienziati nucleari iraniani, esperti missilistici e tecnici sono stati uccisi da una mano invisibile. Altri sono morti nei mesi precedenti. L’ultima vittima attribuita a Dagan si chiamava Mostafa Ahmadi Roshan, che dirigeva il nuovo centro a Qom per l’arricchimento dell’uranio. “Possiamo presumere che molti altri esperti dal basso profilo siano stati uccisi”, ci dice Ben Yishai. “E’ un ottimo deterrente per altri scienziati, compresi gli stranieri”. Alcuni giorni fa Dagan ha risposto con un sorrisetto malizioso quando gli è stato chiesto se era stato “Dio” a mettere a segno i sabotaggi in Iran.
Il culmine della saga Dagan si celebrò due anni fa, a Dubai, dove una squadra di ventisette agenti del Mossad atterrò con voli di linea provenienti da Roma, Francoforte, Parigi e Zurigo. Erano lì per Mabhouh al Mabhouh, il leader di Hamas il cui nome in codice era “Plasma”. Il team è formato da membri della “Caesarea”, l’élite specializzata in omicidi e penetrazioni in strutture straniere. Non hanno un indirizzo di lavoro, non usano i propri nomi e persino le famiglie – tranne i parenti stretti – non sanno cosa fanno. Mabhouh era sulla lista dei “most wanted” fin dagli anni Novanta, quando uccise due soldati israeliani nel Negev. L’unico rimpianto, disse Mahbouh ad al Jazeera, fu di non aver sparato lui stesso in faccia agli israeliani.
Pochi giorni prima che la squadra entrasse in azione, in un capannone alla periferia di Tel Aviv, la sede del Mossad nota come “Midrasha”, Netanyahu sarebbe arrivato con le sue Audi A6 per incontrare Dagan e gli uomini di Dubai. Il premier avrebbe ascoltato il piano e alla fine dato l’okay: “Il popolo d’Israele conta su di voi. Buona fortuna!”. Mabhouh stava andando a Bandar Abbas, il porto iraniano, per un carico d’armi. Era l’uomo di Hamas in Iran. Per questo nella mente di Dagan, ucciderlo valeva ogni costo, anche l’incredibile video che ha inchiodato gli israeliani. E’ un’operazione rischiosa. Nel 1997 Netanyahu ordinò l’uccisione di un altro leader di Hamas, Khaled Meshaal, nelle vie di Damasco. Fu un disastro. Il Mossad gettò un veleno nel suo orecchio, ma senza ucciderlo. Gli agenti furono catturati e per liberarli Gerusalemme consegnò l’antidoto e liberò lo sceicco paralitico di Hamas, Ahmed Yassin. Due anni prima, a Malta, agenti israeliani su ordine di Shimon Peres avevano ucciso Fathi Shkaki, il capo del Jihad islamico, “il Dottore” che aveva inventato la guerra suicida sugli autobus. Mabhouh muore in un hotel a Dubai. Ma il Mossad viene scoperto. Pochi mesi dopo, Dagan è sostituito da Tamir Pardo.
Il “siberiano”, come è noto Dagan per esser nato nella glaciale Novosibirsk, nella guerra all’Iran ha reclutato uomini d’azione di diverse nazionalità. Li ha infiltrati nei paesi più difficili, soprattutto in Siria. Forse anche in Iran. L’ex capo dell’Unità speciale Saieret Matkal, Amiram Levine, ha detto che Israele può facilmente infiltrare agenti speciali nella Repubblica Islamica: “L’Iran non è al di fuori della nostra portata: ho visto cose più complicate”. Nel settembre 2007 una soffiata di Dagan portò alla distruzione del sito nucleare di Deir al Zour. E’ l’Operazione frutteto. Decisiva sarebbe stata una fotografia che un agente del Mossad ha scattato al sito nucleare. Poi viene decapitato, letteralmente, il comandante dell’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, all’uscita dal quartier generale dei servizi segreti a Damasco. Sei mesi dopo è la volta del generale Mohammed Suleiman, il punto di raccordo con il programma nucleare nordcoreano e iraniano, assassinato mentre si stava rilassando nella sua villa in riva al Mediterraneo da un cecchino a bordo di uno yacht che veleggiava poco lontano.
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Speriamo che gli israeliani abbiano delle armi e delle relazioni segrete, perché il mondo occidentale in mano agli idolatri dogmatici mussulmani e a taluni cristiani (con il loro debole per il disumano martirio idolatra con assassinio per gli uni e con inutile sacrificio per gli altri), senza Israele e la fede ragionevole degli ebrei, sarebbe un orrore.