Rasixmo,rasisti contro łi ebrei e Ixraele i crimini de l'ONU

Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » sab gen 23, 2016 8:18 pm

Le ensemense só e contro łi ebrei
viewtopic.php?f=197&t=2178


Dixime valtri se on popoło, coeło ebreo, ke łè sta secołi sciavo de łi ejisiani, kel ga dovesto lotar secołi par catarse fora on toco de tera endoe star e ke lè devegnesto Ixrael; kè dapò lè stà en parte deportà o exiłià da łi asiri a Babiłonia; ke dapò lè stà envaxo, stermenà e desperso dai romani e podopo stermenà e desperso anca da łi arabi musulmani e par 1600 ani persegoità e stermenà dai cristiani fina a ła shoah co milioni de morti e ke ancó lè insidià e asedià en caxa e tacà da tuti cantoni ente ogni parte del mondo co cortełi, mitrałie, ràsi e boicotaji; dixime valtri se łi ebrei łi podeva e łi pol esar i paroni, i comandanti e warnanti sconti del mondo?


Ditemi voi se un popolo, quello ebreo, che è stato per secoli schiavo in Egitto e che poi ha dovuto combattere secoli per trovare un pezzo di terra dove stabilirsi e costruire il suo Israele; che poco dopo è stato in parte deportato o esiliato dagli assiro babilonesi a Babilonia e poi invaso, occupato, sterminato e disperso dai romani e dopo di loro perseguitato e sterminato dagli arabi mussulmani e per altri 1600 anni perseguitato e sterminato a milioni dai cristiani e che oggi è assediato in casa e attaccato ovunque nel mondo con coltelli, mitraglie, razzi e boicottaggi; ditemi voi se gli ebrei, questo popolo incredibile, poteva essere e può essere padrone, comandante, governante occulto del mondo?
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 11:31 am

La sfilata della vergogna gay. Cacciato Israele dal raduno Lgbt
A Chicago i perbenisti omosex contro lo stato ebraico
di Giulio Meotti | 23 Gennaio 2016

http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/01/2 ... e_c105.htm

La National Lgbtq Task Force è la più grande organizzazione gay d’America. Dal 20 al 22 gennaio è riunita a Chicago per promuovere la causa omosex e transgender negli Stati Uniti. Quale posto migliore per omaggiare Tel Aviv, nominata “città più gay friendly del mondo”? E invece no. La pressione degli attivisti anti-israeliani ha spinto il conclave Lgbt ad annullare un ricevimento con i leader della comunità gay israeliana. “Siamo rattristati per quella che sembra essere la capitolazione alle intimidazioni di un piccolo numero di estremisti anti-israeliani che vogliono chiudere le voci di coloro che non aderiscono alla loro linea di partito” ha detto Arthur Slepian, direttore di “A Wider Bridge”, l’organizzazione israeliana cacciata.

I capi della comunità gay d’America hanno così deciso di non invitare i rappresentanti dell’unico paese mediorientale dove gli omosessuali hanno il diritto a esistere: chiunque atterri a Tel Aviv o a Gerusalemme o a Haifa “vede” l’omosessualità per le strade e nei caffè, nelle discoteche e nei centri commerciali, nelle annuali sfilate dell’orgoglio gay e in divisa. Ma non solo, Israele ha anche l’esercito più gay friendly del mondo. Un soldato in Israele è un soldato, al di là del sesso del partner che lo aspetta a casa. Alla fine, nel disonore e nell’ipocrisia per la National Lgbtq Task Force, la delegazione israeliana è stata reinvitata.

Ma non è la prima volta che la cultura queer si scaglia contro lo stato ebraico. Gli organizzatori della Gay Pride Parade di Madrid, una delle più importanti del mondo, nel 2010 decisero di non invitare le associazioni gay e lesbiche di Tel Aviv alla loro sfilata dell’orgoglio omosessuale. L’allora portavoce del ministero degli esteri israeliano, Yossi Levy, parlò d una “decisione molto triste e preoccupante: la Sfilata dell’Orgoglio diventa la Sfilata della Vergogna”. A San Francisco, attivisti gay hanno inscenato proteste contro il Frameline Lgbt Film Festival soltanto perché il governo israeliano figurava tra i suoi sponsor. A Stoccolma, una conferenza sui diritti gay è stata interrotta da militanti Lgbt antisraeliani. E alla marcia dell’orgoglio gay di Berlino, i gay israeliani sono stati costretti a pubblicizzarsi come “delegazione di Tel Aviv” anziché “di Israele” per evitare la protesta. E non importa se Israele nel 2014 ha salvato, concedendo loro diritto di asilo, 1.034 gay palestinesi, che altrimenti sarebbero andati incontro a morte sicura per mano dei predoni islamisti. L’ipocrisia del mondo Lgbt si era visto già l’estate scorsa, quando a Stoccolma si tenne uno speciale gay pride. E i militanti Lgbt deciso di protestare con gli incauti organizzatori della parata, la destra liberale nazionalista. Il motivo? La presenza di cittadini di fede islamica nei quartieri dove sarebbe dovuta passare la marcia. A scandalizzarsi era stata l’Rfsl, l’organizzazione gay finanziata dal lauto welfare svedese.

E’ il film Yossi & Jagger, la storia d’amore tra due ufficiali dell’esercito israeliano in una nazione sconvolta dall’angoscia terroristica. La storia di due uomini che scoprono di amarsi mentre fanno la guardia in un remoto avamposto di frontiera sul Golan. Decisi a non farsi piegare da chi, oltre confine, agli omosessuali vuole staccare la testa. Ma i perbenisti moralisti dell’Lgbt non vedono le forche in Iran o i gay lanciati dai palazzi di Raqqa.

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... -lisis.jpg
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 12:12 pm

Complimenti all'Italia. Che lunedì accoglie come uno statista questo signore le cui mani grondano sangue innocente. In Iran si lapidano le donne, si sfregia con l'acido chi non indossa il velo, si giustiziano gli omosessuali e si è persino reintrodotta come "pena corporale" la fustigazione. Il medio Evo salutato con la fanfara e gli alti onori dal nostro Paese mi fa schifo.
L’operazione simpatia del regime in atto da mesi aveva solo l'obiettivo di portare al ritiro delle sanzioni. Il paese non è affatto più aperto e pronto alle riforme. La visione ottimistica, che vuole presentarci Rouhani come un "moderato" non corrisponde alla realtà. Riportiamo qualche dato estratto da Iran Human Rights (IHR), 27/01/2015:

https://www.facebook.com/giuseppe.crima ... 3354235907

La Repubblica Teocratica dell'Iran ha un sistema giuridico basato sulla sharia nel quale la pena di morte è prevista per omicidio, rapina a mano armata, stupro, blasfemia, apostasia, rapimento, tradimento, spionaggio, terrorismo, reati economici, reati militari, cospirazione contro il Governo, adulterio, prostituzione, omosessualità, reati legati alla droga. L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la sharia in Iran. Avviene tramite delle gru per assicurare una morte più lenta e dolorosa.

Nell’aprile 2013, il Consiglio dei Guardiani dell’Iran ha reinserito la lapidazione nel codice penale come punizione per le persone condannate per adulterio. In caso di lapidazione, il condannato viene avvolto da capo a piedi in un sudario e interrato; un carico di pietre viene portato sul luogo e funzionari incaricati compiono l’esecuzione. L’art. 104 del Codice Penale stabilisce che “le pietre non devono essere così grandi da provocare la morte con uno o due colpi”, in modo che la morte sia lenta e dolorosa.

In Iran convertirsi al cristianesimo o ad altra religione è considerato un crimine capitale, mentre ai cristiani è permesso convertirsi all’Islam. I convertiti al cristianesimo sono perseguitati e costretti a riunirsi clandestinamente, mentre i missionari sono di solito espulsi e a volte incarcerati per aver distribuito Bibbie. Gruppi bahai e cristiani subiscono arresti arbitrari, detenzioni prolungate e confisca dei beni. Dalla rivoluzione islamica del 1979, il Governo ha giustiziato più di 200 Bahai. Nel nuovo Codice il termine “omosessuale” ha rilevanza penale e i rapporti sessuali tra due individui dello stesso sesso sono considerati crimini “Hudud” e soggetti a punizioni da 100 frustate fino all’esecuzione. Se la parte attiva è un non-musulmano e la parte passiva un musulmano, entrambi saranno condannati a morte.

Il regime si è abbattuto in particolare nei confronti delle donne. La loro segregazione ha avuto un’accelerazione dopo la prima elezione di Mahmoud Ahmadinejad, il quale già durante il suo mandato di sindaco di Teheran inaugurò la separazione di donne e uomini negli ascensori. Le autorità iraniane hanno iniziato pattugliamenti di polizia nella capitale per arrestare le donne vestite in un modo giudicato sconveniente. I sostenitori della linea dura dicono che un velo inappropriato è una “questione di sicurezza” e che una “moralità spregiudicata” mette in pericolo l’essenza della Repubblica Islamica.

Non c’è solo la pena di morte, secondo i dettami della Sharia iraniana, ci sono anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che l’Iran ha ratificato e che queste pratiche vieta. Migliaia di ragazzi subiscono ogni anno frustate per aver bevuto alcolici o aver partecipato a feste con maschi e femmine insieme o per oltraggio al pubblico pudore.

Non tutto riguarda poi i Diritti Umani. La visita in Italia di Rouhani cade un giorno prima del Giornata della Memoria e il fatto non è casuale. L’Iran insulta la memoria della Shoah negandone continuamente l’esistenza e indicendo concorsi satirici con finalità antisemite e per alimentare l’odio nei confronti degli ebrei. I suoi rappresentanti predicano apertamente la distruzione di Israele e finanziano il terrorismo internazionale attraverso proxy come Hezbollah in Libano

L'elezione di Hassan Rouhani come Presidente della Repubblica Islamica nel 2013 ha portato la comunità internazionale ad essere ottimista. Ma non c’è alcuno spiraglio per l’ottimismo. Il nuovo Governo ha nettamente aumentato il tasso di esecuzioni capitali a partire dall’estate del 2013. Secondo Iran Human Rights e l'Iran Human Rights Documentation Center (IHRDC), nel 2014 sono state effettuate almeno 721 esecuzioni, di cui solo 291 riportate da fonti ufficiali iraniane. Le esecuzioni di minorenni sono raddoppiate nel 2014, fatto che pone l’Iran in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato.

Quello che si chiede all'Italia è di non tacere di fronte a queste ingiustizie. Di levare con forza la propria voce ponendo condizioni chiare per il prosieguo dei rapporti bilaterali. Ai massimi rappresentanti dello Stato italiano spetta per primi in Europa il compito di porre la questione del rispetto dei Diritti Umani al centro di ogni incontro e intesa con rappresentanti iraniani. In occasione della visita del Presidente Rouhani in Italia, ci auspichiamo che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Primo Ministro Matteo Renzi usino questa preziosa occasione per denunciare le violazioni di cui l'Iran si fa continuamente protagonista.

‪#‎DiteloaRouhani‬. Se non possiamo ormai più impedire certi "effetti collaterali" dello sciagurato accordo sul nucleare, occorre almeno vigilare affinché le istituzioni non svendano la loro dignità in cambio di qualche accordo economico.



La fine di Israele come lo conosciamo
“Un Iran nucleare viola i due tabù del dopoguerra: mai più Auschwitz e Hiroshima”. Parla Klein Halevi
di Giulio Meotti | 16 Luglio 2015

http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/07/1 ... e_c344.htm

Come una sentenza di morte diluita nel tempo. Così in Israele è stato percepito l’accordo di Vienna sul nucleare iraniano.
“L’Iran nuclearizzato è il più grande pericolo che Israele abbia mai affrontato in sett’antanni, da quando nel 1948 mezzo milione di ebrei sconfissero gli eserciti arabi”, dice al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale americano diventato un astro dell’intellighenzia israeliana, arruolato da pensatoi a Gerusalemme, editorialista di New York Times, Wall Street Journal e New Republic, nonché autore di “Like Dreamers”.

C’è angoscia nelle parole di tanti commentatori israeliani, anche fra i liberal come Klein Halevi. “Puoi abusare del potere in due modi: usandolo in maniera eccessiva o non usandolo affatto”, dice. “Israele commetterebbe questo secondo errore se consentisse all’Iran di nuclearizzarsi. Significherebbe che l’impegno del popolo ebraico dopo la Shoah verrebbe meno. Per noi ‘never again’ non vuol dire come in Europa ‘mai più razzismo’.
Per noi significa mai più ebrei indifesi, ebrei vittime, ebrei mandati al macello”. L’Olocausto è raramente invocato nella politica israeliana. “Ma la minaccia iraniana ha riportato la ‘soluzione finale’ al cuore del discorso israeliano”, spiega Klein Halevi. “Comandanti dell’esercito , che probabilmente una volta consideravano le analogie con l’Olocausto come un affronto al sionismo, ormai abitualmente parlano di ‘secondo Olocausto’.
Editoriali, scritti da sinistra, così come commenti da destra, paragonano questi tempi al 1930. Gli israeliani ricordano come la comunità internazionale abbia reagito con indifferenza quando una nazione fortemente armata dichiarava guerra al popolo ebraico e percepiscono un modello simile oggi. Le invocazioni dell’Iran alla distruzione di Israele tendono a essere liquidate come pura retorica dai media occidentali”.

Che succede ora? “Non sono più sicuro adesso di cosa accadrà. Penso che dobbiamo attaccare o l’Iran avrà la bomba. E purtroppo dobbiamo subire ancora un anno e mezzo di Barack Obama, questo presidente americano disastroso, il peggiore nella storia per Israele. L’accordo di Vienna è anche la fine di ogni speranza di accordo con i palestinesi, Israele si sente troppo vulnerabile per scommetterci ancora”. Il pericolo non è solo l’atomica di Teheran “che l’accordo rende possibile”, come ha detto ieri Yuval Steinitz, ministro e consigliere del premier Benjamin Netanyahu, ma anche la minaccia di attacchi convenzionali e terroristici grazie ai cento miliardi di dollari cui Teheran avrà accesso con la fine delle sanzioni.

Ma anche senza colpo ferire, un Iran nuclearizzato per Yossi Klein Halevi sarebbe la fine del sionismo. “Gli investitori stranieri fuggirebbero dal paese, come pure molti israeliani. In un sondaggio, il 27 per cento degli israeliani ha detto che prenderebbe in considerazione di lasciare il paese se l’Iran si nuclearizzasse. La minaccia iraniana è penetrata nella vita quotidiana come un’ansia costante, appena cosciente. Gli israeliani credono ancora nella loro capacità di proteggere se stessi, e molti credono anche nella protezione divina. Entrambe sono espressioni di fede di un popolo che teme possa ancora una volta affrontare l’impensabile da solo”.

Un’ansia che emerge anche sotto forma di umore. Ieri, il magazine liberal israeliano +972 ha scritto: “Le 77 cose da fare prima che gli iraniani ci uccidano tutti”. Un’ansia che Yedioth Aharonot, il maggiore giornale del paese, trasformava in titolo a tutta pagina: “Il mondo si arrende all’Iran”, e il paragone è con Monaco 1938, quando Francia e Gran Bretagna sacrificarono la Cecoslovacchia a Hitler per “salvare la pace”, salvo poi gettare l’Europa tutta in guerra. Secondo molti commentatori israeliani, l’accordo di Vienna sancisce un fatto politico senza precedenti, e per usare una analisi di Debka, vicina all’intelligence israeliana, “l’accordo nucleare spinge Israele da parte e innalza l’Iran a primo partner degli Stati Uniti”.

“Israele non avrà altra scelta che sostenere il suo ruolo di rifugio del popolo ebraico”, conclude Klein Halevi. “Il filosofo francese André Glucksmann ha scritto che, con la minaccia di distruggere Israele e raggiungendo i mezzi per farlo, l’Iran viola i due tabù su cui l’ordine del dopoguerra è stato costruito: ‘Mai più Auschwitz e mai più Hiroshima’. Uno stato ebraico che si permette di essere minacciato con le armi nucleari, da un paese che nega il genocidio di sei milioni di ebrei europei e minacciando sei milioni di ebrei di Israele, perderà il suo diritto di parlare in nome della storia ebraica”. Ma sull’attacco, c’è chi, come l’ex capo del Mossad Meir Dagan, ha persino sostenuto che Israele potrebbe lanciarlo soltanto “quando il coltello sta già tagliando la carne” (di Israele).

Klein Halevi dice che non è possibile arrendersi a questo fatalismo. “Oggi l’Iran controlla sei capitali del mondo arabo-islamico: Teheran, Damasco, Beirut, Sanaa, Baghdad e Gaza, dove Hamas è il suo unico alleato nel mondo sunnita. Adesso vuole Gerusalemme. Allora secondo me ci sono soltanto due scenari possibili: o Israele attacca o l’Iran avrà la bomba, e allora sarà la fine di Israele così come lo conosciamo”.


Quando Netanyahu mise in guardia il mondo dall'Iran
Teheran promette morte, tirannia e la ricerca del jihad. Non fidatevi di loro, disse Bibi al Congresso americano
di Redazione | 15 Luglio 2015

http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/07/1 ... e_c383.htm

Lo scorso 3 marzo il premier israeliano Benjamin Netanyahu era intervenuto al Congresso degli Stati Uniti per mettere in guardia gli americani dalla politica della mano tesa intrapresa con Teheran. Il discorso "chirurgico" di Netanyahu esprimeva tutti i dubbi e i timori condivisi non solo da Israele ma anche dalle altre potenze del medio oriente, in primis quelle del Golfo: un accordo sul nucleare provocherà un'escalation di violenze nella regione e incoraggerà la corsa ad armamenti sofisticati e devastanti che finiranno nelle mani di paesi non democratici e che, per di più, hanno già minacciato ripetutamente, anche nel corso dei negoziati con il gruppo"5+1", il diritto stesso di esistere di Israele. Pubblichiamo di seguito alcuni stralci del discorso rilasciato quel giorno dal premier israeliano davanti al Congresso di Washington. Molti dei quali si riferiscono all'appoggio dato all'estremismo islamico proprio dall'Iran, dal paese che ora si pone come alleato dell'Occidente contro lo Stato islamico. Allora, al termine dell'intervento, i deputati americani riservarono a Netanyahu una standing ovation senza precedenti. Qualche mese più tardi ha prevalso la linea di Obama.

Oggi il popolo ebraico affronta un altro tentativo da parte di un potentato persiano di distruggerlo. La Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, vomita l’odio più antico, lo stesso odio antico antisemita, con le tecnologie più moderne. Twitta che Israele deve essere annientato. Twitta. Sapete, in Iran non c’è esattamente un internet libero. Ma lui twitta in inglese che Israele deve essere distrutto. A quelli che pensano che l’Iran minaccia lo stato ebraico ma non il popolo ebraico, dico di ascoltare Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, il capo dei terroristi alleati dell’Iran. Ha detto: se tutti gli ebrei si riunissero in Israele, ci toglierebbero il disturbo di andarli a prendere in giro per il mondo.

Gli iraniani sono persone talentuose. Sono gli eredi di una grandissima civiltà. Ma nel 1979 sono stati dirottati da fanatici religiosi che hanno imposto una dittatura cupa e brutale. Quell’anno, i fanatici scrissero una Costituzione nuova per l’Iran. Imponeva alle Guardie della Rivoluzione non soltanto di proteggere i confini dell’Iran ma anche di completare la missione ideologica del jihad. Il fondatore del regime, l’ayatollah Khomeini, esortava i suoi seguaci a “esportare la rivoluzione ovunque nel mondo”. Io oggi sono qui a Washington, e la differenza è profonda. Il documento che è alla base dell’America promette vita, libertà e ricerca della felicità. Il documento fondativo dell’Iran promette morte, tirannia e la ricerca del jihad. E mentre alcuni stati collassano in medio oriente, l’Iran riempie i vuoti proprio per compiere questa missione. Gli sgherri dell’Iran a Gaza, i suoi lacchè in Libano, le sue Guardie della Rivoluzione sulle alture del Golan stanno stringendo Israele con i loro tentacoli del terrore. Sostenuto dall’Iran, Assad sta ammazzando i siriani. Sostenute dall’Iran, le milizie sciite si stanno scatenando in Iraq. Sostenuti dall’Iran, gli Houthi stanno prendendo il potere in Yemen, mettendo a rischio gli stretti alla bocca del mar Rosso. Assieme allo stretto di Hormuz, questo concede all’Iran un secondo collo di bottiglia nella fornitura di petrolio nel mondo. Proprio la settimana scorsa, vicino a Hormuz, l’Iran ha fatto esercitazioni militari facendo esplodere una finta portaerei americana. Questo solo la settimana scorsa, mentre erano in corso i colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti. Ma sfortunatamente negli ultimi 36 anni gli attacchi dell’Iran contro gli americani non sono stati affatto uno scherzo. L’Iran ha preso decine di ostaggi a Teheran, ha ucciso centinaia di soldati americani, marine, a Beirut, e ha ucciso migliaia di americani, uomini e donne, in Iraq e Afghanistan. Al di là del medio oriente, l’Iran attacca l’America e i suoi alleati attraverso un network globale del terrore. Ha fatto esplodere il centro ebraico e l’ambasciata israeliana a Buenos Aires. Ha aiutato al Qaida a bombardare le ambasciate americane in Africa. Ha cercato di assassinare l’ambasciatore saudita, qui a Washington. Nel medio oriente, l’Iran ora ha il dominio su quattro capitali: Baghdad, Damasco, Beirut e Sana’a. E se l’aggressione dell’Iran resta senza conseguenze, ci saranno nuove conquiste. Mentre molti sperano che possa unirsi alla comunità internazionale, l’Iran è impegnato a trangugiare paesi. Dobbiamo stare uniti per fermare la marcia dell’Iran per conquistare, soggiogare e terrorizzare.

Due anni fa ci fu detto di dare al presidente Rohani e al ministro degli Esteri Zarif una chance di portare cambiamento e moderazione nel paese. Che cambiamento! Che moderazione! Il governo di Rohani impicca gay, perseguita cristiani, imprigiona giornalisti e esegue condanne a morte contro più prigionieri di prima. L’anno scorso, lo stesso Zarif che ammicca ai diplomatici occidentali ha fatto omaggio alla tomba di Imad Mughniyeh. Imad Mughniyeh è lo stratega del terrore che ha versato più sangue americano di tutti a eccezione di Osama bin Laden. Mi piacerebbe vedere qualcuno fargli una domanda su questo. Il regime iraniano è fondamentalista come non mai, le sue urla “Morte all’America” – la stessa America che chiama Grande Satana – tuonano come non mai. Ora, questo non dovrebbe essere sorprendente, perché l’ideologia del regime rivoluzionario iraniano è radicata profondamente nell’islam militante, e questa è la ragione per cui questo regime sarà sempre nemico dell’America. Non fatevi ingannare. La battaglia tra Iran e Stato islamico non trasforma l’Iran in un amico dell’America. L’Iran e lo Stato islamico sono in competizione per il primato dell’islam militante. Uno si fa chiamare la Repubblica islamica. L’altro lo Stato islamico. Entrambi vogliono imporre un impero islamico militante prima sulla regione e poi sul mondo intero. Sono soltanto in disaccordo su chi sarà a governare quell’impero. In questo “Game of Thrones” mortale non c’è spazio per l’America o per Israele, non c’è pace per i cristiani, gli ebrei o i musulmani che non condividono lo stesso credo islamista medievale, non ci sono diritti per le donne, non c’è libertà per nessuno. Per questo, quando si tratta di Iran e Stato islamico, il nemico del tuo nemico è il tuo nemico. La differenza è che lo Stato islamico è armato con coltelli da macellaio, armi rubate e YouTube, mentre l’Iran potrebbe essere presto armato con missili balistici intercontinentali e bombe nucleari. Dobbiamo sempre ricordare – lo dico ancora una volta – che il pericolo più grande che minaccia il nostro mondo è l’unione tra militanti islamici e armi atomiche. Battere lo Stato islamico e lasciare che l’Iran abbia le armi nucleari è vincere la battaglia ma perdere la guerra. Non possiamo lasciare che accada.

Senza una cambio drastico sappiamo con certezza che ogni accordo con l’Iran includerà due grandi concessioni. La prima grande concessione lascerà all’Iran la sua vasta infrastruttura nucleare, grazie alla quale il tempo per arrivare alla bomba è molto ridotto. E’ il cosiddetto break-out time, il tempo che ci vuole per ammassare abbastanza uranio di grado militare o plutonio per una bomba nucleare. Secondo l’accordo, non un solo sito nucleare sarà demolito. Migliaia di centrifughe usate per arricchire l’uranio saranno lasciate a girare. Migliaia saranno temporaneamente disconnesse, ma non distrutte. Siccome il programma nucleare dell’Iran sarà lasciato in gran parte intatto, il tempo di break-out sarà molto breve – circa un anno secondo le stime americane, ancora più breve secondo quelle israeliane. E se il lavoro dell’Iran su centrifughe avanzate, centrifughe sempre più veloci, non sarà fermato, quel tempo di break-out potrebbe essere ancora più breve. E’ vero, certe restrizioni sarebbero imposte sul programma e ci sarebbe la supervisione degli ispettori internazionali. Ma ecco il problema: gli ispettori registrano violazioni, non le fermano. Ma la seconda grande concessione crea il pericolo ancora più grande per cui l’Iran potrebbe ottenere la Bomba mantenendo l’accordo. Perché virtualmente tutte le restrizioni sul programma nucleare dell’Iran scadranno automaticamente in circa un decennio. Ora, un decennio può sembrare molto tempo nella vita politica, ma è un battito di ciglia nella vita di una nazione.

Il mio amico di vecchia data, John Kerry, segretario di stato, ha confermato la scorsa settimana che l’Iran può possedere legalmente un’enorme quantità di centrifughe quando l’accordo scade. Ora, voglio che ci pensiate. Il maggiore sponsor del terrorismo globale può essere a settimane di distanza da avere abbastanza uranio arricchito per un arsenale intero di armi nucleari, e questo con la piena legittimazione internazionale. E inoltre il programma di missili intercontinentali dell’Iran non è parte dell’accordo, e finora l’Iran rifiuta anche di metterlo sul tavolo negoziale. Ora, l’Iran potrebbe avere i mezzi per lanciare questo arsenale nucleare agli angoli più remoti del mondo, compresa ogni parte degli Stati Uniti.

I vicini di Israele – i vicini dell’Iran sanno che l’Iran diventerà ancora più aggressivo e sponsorizzerà ancora di più il terrorismo quando la sua economia sarà liberata e gli sarà dato il via libera per la Bomba. E molti di questi vicini dicono che risponderanno cercando di ottenere l’arma nucleare per se stessi. Perciò questo accordo non migliora l’Iran, peggiora soltanto il medio oriente. Un accordo che dovrebbe prevenire la proliferazione nucleare potrebbe invece provocare una corsa alle armi nucleari nell’area più pericolosa del pianeta. Questo accordo non sarà un addio alle armi. Sarà un addio al controllo delle armi. (…) Una regione dove piccole scaramucce possono provocare grandi guerre sarebbe trasformata in una polveriera nucleare. Signore e signori, sono venuto qui oggi per dirvi che non dovete scommettere la sicurezza del mondo sulla base della speranza che l’Iran migliorerà. Non dobbiamo giocare d’azzardo con il nostro futuro e con il futuro dei nostri bambini. Possiamo rimanere saldi sul fatto che le restrizioni al programma nucleare dell’Iran non siano sollevate finché l’Iran continua la sua aggressione nella regione e nel mondo.


Speriamo che gli israeliani abbiano delle armi e delle relazioni segrete, perché il mondo occidentale in mano agli idolatri dogmatici mussulmani e a taluni cristiani (con il loro debole per il disumano martirio idolatra con assassinio per gli uni e con inutile sacrificio per gli altri), senza Israele e la fede ragionevole degli ebrei, sarebbe un orrore.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 12:21 pm

Il giorno del giudizio in Israele
Duecentomila missili puntati su Tel Aviv. Cosa accadrà dopo lo strike anti iraniano? Si prepara la difesa della popolazione casa per casa. Intanto Ahmadinejad mostra le barre atomiche e la Siria prepara armi chimiche
di Giulio Meotti | 19 Febbraio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c333.htm

Una fredda mattina di fine gennaio, le ambulanze sfrecciano dentro Haifa, il porto più grande d’Israele. C’è appena stato un attacco missilistico con una “bomba sporca”, armata al cesio radioattivo 137. Medici e paramedici decontaminano i superstiti, le autorità informano il pubblico: “L’inimmaginabile” è successo nel cuore dello stato ebraico. L’esercitazione, nota come “Nube oscura”, ha fatto parte del piano dell’Home Front Command per preparare il paese in caso di guerra con l’Iran. Il dottor Lion Poles, dal ministero della Sanità, ha detto che si tratta di uno “scenario ipotetico ma plausibile”.
Teheran avrebbe tre obiettivi primari il giorno dopo quello in cui Gerusalemme avrà attaccato le centrali nucleari iraniane: il reattore atomico di Dimona, il porto e le raffinerie di Haifa e l’area di Zakariya, dove è stoccato l’arsenale missilistico dello stato ebraico.

Nel 1991, durante la Guerra del Golfo, Eyal Eisenberg faceva parte di un team segreto stazionato nei pressi della centrale di Dimona. Aveva il compito di rilevare la presenza di materiale tossico nei missili Scud lanciati da Saddam Hussein. Oggi Eisenberg ha il compito di proteggere la popolazione israeliana in caso di guerra con l’Iran. Il generale ha appena detto che “Haifa sarà sommersa da 12 mila missili”.

Israele è avvezzo ai missili. Dal 1948, l’anno della fondazione dello stato, ne sono caduti sul suo territorio oltre 60 mila. In questo momento ce ne sono 200 mila puntati su Tel Aviv. Mai è stata tanto forte la potenza di fuoco dei terroristi nella regione. Rafi Eitan, 85 anni e leggendario operativo del Mossad (comandò i servizi segreti israeliani che rapirono, a Buenos Aires, il gerarca nazista Adolf Eichmann), ha detto che “il fronte interno non è pronto”. È anche l’opinione dell’ex direttore del Mossad, Meir Dagan.

Il premier Benjamin Netanyahu è convinto che per Israele sarà dura, ma il prezzo di un Iran nucleare è più alto. L’Iran ha già annunciato di aver prodotto le prime barre di combustibile nucleare “autarchiche”, ovvero costruite internamente. Una prova di forza del regime a cui ha partecipato anche il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, e che conferma i peggiori timori d’Israele: Teheran non è dissuasa dall’interrompere il programma atomico. Anzi, dice al mondo che può fare a meno dell’assistenza straniera.

Ehud Barak, ministro della Difesa, ha detto che “Israele non sarà distrutta” e che in caso di guerra “se la gente rimarrà nelle proprie case ci saranno soltanto 500 morti”. Al suo ministero dicono “mille”, comunque tantissimo per una popolazione così piccola. Esiste un solo calcolo possibile. Nel 2006 Hezbollah lanciò su Israele quattromila missili che causarono quaranta vittime fra i civili israeliani. Un morto ogni cento razzi. Se ne lanciano 12 mila, potrebbero esserci mille vittime. Nella recente esercitazione “Turning Point 5” Hamas, Hezbollah e Iran lanciano diecimila missili su Israele, che uccidono “centinaia di civili, ne feriscono ventimila e costringono centinaia di migliaia di persone a lasciare le proprie case”.

La situazione è talmente drammatica che, stando a una rilevazione condotta dall’Università di Tel Aviv, un trenta per cento della popolazione con doppio passaporto sarebbe disposto a lasciare il paese. Ieri Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano, ha pubblicato una lista di “città-rifugio” dove è meglio vivere “in caso di emergenza”. Nel 2006 un milione di abitanti fu costretto a rintanarsi nei rifugi per oltre un mese. Può Tel Aviv, dove vive il sessanta per cento della popolazione israeliana, affrontare uno scenario che Yedioth definisce da “giorno del giudizio”? Israele ha investito molto nella difesa balistica con il “Progetto Muraglia” (“homa” in ebraico), per fermare i missili iraniani Shahab 3 che possono arrivare in Israele e portare 1.150 chili di dinamite e materiali chimici. Ma la miglior difesa resta la preparazione della popolazione.

Yaakov Katz, corrispondente militare del Jerusalem Post e autore del libro in uscita “Israel vs. Iran”, su questo è a colloquio con il Foglio. “Con l’Iran sarà diverso rispetto all’Iraq nel 1981 e alla Siria nel 2007, quando Israele bombardò i loro reattori nucleari e non ci fu rappresaglia. Israele dovrà affrontare una guerra regionale. Hezbollah ha 50 mila missili e l’Iran ne ha una certa quantità di letali che possono raggiungere Tel Aviv. Poi ci sono Hamas, il Jihad islamico e la Siria. Cosa farà Bashar el Assad? Potrebbe partecipare al conflitto per distogliere l’attenzione sulla crisi interna. Sarà una guerra devastante, ma Israele resisterà e sarà un prezzo minore rispetto a un Iran nuclearizzato. Non sarà come il 1973, quando i paesi arabi potevano sconfiggere Israele sul campo. In questo caso Hamas e Hezbollah non possono conquistare un solo metro di terra, ma possono terrorizzare la popolazione ebraica”.

C’è il pericolo di armi chimiche: “La Siria ne è fra i massimi produttori mondiali. Finora Israele riteneva razionale il regime di Damasco. Ma Assad continuerà a esserlo anche ora che è in crisi? Potrà passare armi chimiche a Hezbollah. E se i magazzini di armi batteriologiche cadessero in mani di terroristi? Israele per la prima volta affronterebbe un’entità non statale terroristica dotata di armi di distruzione di massa”.

Molte esercitazioni sono denominate “Nbc”: pericolo nucleare, biologico e chimico. La Siria è “il paese arabo più avanzato nella produzione di armi chimiche”, ha detto un rapporto del Centro di studi strategici dell’Università Bar Ilan, secondo cui la Siria ha prodotto centinaia di tonnellate di armi chimiche e nei suoi depositi ha accumulato bombe riempite di gas Sarin e di un altro gas letale, il VX. Israele ha messo a punto sirene per i missili che possono portare armi “sporche”. L’idea è quella che botulino, antrace e agenti patogeni di altre malattie, fino ai veleni, diventino armi utilizzate insieme con l’esplosivo. Cento grammi di gas mostarda bastano a uccidere cinquecento israeliani.

L’esercito stima che Hamas e Hezbollah abbiano 1.600 missili “precisi”, in grado di colpire obiettivi mirati a centinaia di chilometri di distanza. Gerusalemme potrebbe essere colpita con una precisione tale da escludere la moschea di al Aqsa, sacra all’islam. Per dirla con Matan Vilnai, ministro delle Retrovie, “l’edificio del ministero della Difesa al quindicesimo piano non rimarrà in piedi”. Ci si aspettano, come nel 2006, bombe Hezbollah di fabbricazione siriana in cui le biglie vanno in ogni direzione e amplificano la capacità della carica esplosiva. A rischio è la centrale elettrica di Reading. Un missile paralizzerebbe il paese. Secondo un rapporto del Comando militare delle retrovie, pubblicato dal quotidiano Israel Hayom, l’erogazione di acqua, gas e corrente elettrica sarebbe bloccata.

Israele prepara i rifugi. Questa settimana il ministero degli Esteri ha fornito alle ambasciate di Tel Aviv una lista di rifugi che i corpi diplomatici stranieri potranno utilizzare. Soltanto a Tel Aviv ce ne sono 240. La stazione di Gerusalemme è in grado di accogliere cinquemila persone. Agli israeliani sarà chiesto di avere a portata di mano “una valigia con documenti personali, medicine, vestiti, calze e scarpe, un radio-transistor, un telefono cellulare, cibo, bevande”. La guida al buon uso della maschera antigas si chiama “Lohama Kimit”: guerra chimica. Molte famiglie sono corse ai ripari. La milionaria Vivian Rakib nella sua casa di Tel Aviv ha fatto costruire tre livelli sotterranei per un’autosufficienza di sei mesi. Un bunker privato costa 100 mila dollari. Anche la milionaria Shari Arison lo ha fatto costruire in attesa dell’Armageddon.

Dopo il 2006, il paese è stato munito di tremila sirene. Ci sono teatri, come l’Habima di Tel Aviv, che sotto terra accoglieranno migliaia di persone. A Safed si è costruito il primo ospedale-bunker per bambini. Yedioth ha rivelato che un ospedale sotterraneo, protetto dalla minaccia di armi chimiche o batteriologiche, è stato segretamente costruito nel nord di Israele, presso Nahariya. Per accedervi bisogna passare attraverso una rete di tunnel, ha un sofisticato sistema di filtraggio dell’aria e dell’acqua. Il governo dispone di una “località segreta” nelle montagne della Giudea, fuori Gerusalemme. Un nuovo sistema d’allarme, nel deserto del Negev, calcola con esattezza la traiettoria d’un missile. In una frazione di secondo, tramite sms, avviso audio e illuminazione del display, il programma invia un allarme a tutti i telefonini in quella zona.

Piani di evacuazione sono approntati per Ramat Gan, la popolosa periferia di Tel Aviv su cui caddero i razzi nel 1991. Il Negev può ospitare le tendopoli. Fino a mezzo milione di israeliani potrebbero rifugiarsi nelle colonie ebraiche della Cisgiordania. Il comandante delle retrovie, generale Yair Golan, ha spiegato che “le città potrebbero trasformarsi in campi di battaglia” e che masse di persone sarebbero costrette a scappare in Samaria, definita in codice militare “rifugio nazionale”. Gli ospedali hanno piani per le emergenze. Le industrie più strategiche, come le banche e la compagnia telefonica Bezec, si sono dotate di tecnologie di sostituzione in caso di collasso.

Ogni casa a Kiryat Shmona, nell’unghia più a nord della Galilea, ha finestre che per precauzione sono incerottate in lungo e in largo, cosicché i vetri non schizzino da tutte le parti quando l’immancabile proiettile arriva insieme allo spostamento d’aria. Qui, nell’estate 2006, sono caduti mille missili. Adesso se ne aspettano molti di più. I 212 rifugi pubblici sono restaurati. Alcuni rifugi hanno tv e aria condizionata, altri sono decadenti e hanno l’aria soffocante. All’ingresso di “Kiryat Katyusha”, come è stata ribattezzata la città, il governo ha fatto costruire un Monumento alla pace. Gli artisti non hanno trovato altra ispirazione che dipingere carri armati di giallo, rosso e blu. I bambini ci si arrampicano. In attesa della sirena che annuncerà il prossimo katyusha. E la fine del countdown fra Teheran e Gerusalemme.

Leggi la prima puntata Countdown, storia preventiva dello strike - Leggi la seconda puntata Mañana. La guerra fantasma d’Israele - Leggi la terza puntata Nella mente dello strike - Leggi la quarta puntata La guerra dei trent'anni sta per finire - Leggi la quinta puntata La cura di Sneh


Countdown, storia preventiva dello strike
In Israele si è iniziato il conto alla rovescia contro l’atomica di Teheran. La decisione pesa sulle spalle (e sulla metafisica personale) di Netanyahu
di Giulio Meotti | 04 Febbraio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c211.htm

Ad accogliere i visitatori nel quartier generale dell’aviazione israeliana di Tel Aviv è un poster: “Le aquile d’Israele sopra Auschwitz”. Dieci anni fa lo stato ebraico ottenne, suscitando numerose proteste internazionali, di alzare i propri velivoli militari sopra la tomba invisibile di milioni di ebrei. Il poster mostra due caccia F-15, pilotati da nipoti e figli di sopravvissuti alla Shoah, che sorvolano i resti delle camere a gas nel campo di sterminio nazista. “Siamo arrivati troppo tardi per coloro che sono morti qui”, disse Ehud Barak, attuale ministro della Difesa israeliano. A guidare l’esercitazione c’era Amir Eshel, che oggi è il candidato principale per il comando dell’aviazione israeliana e quindi di un eventuale attacco militare alle installazioni nucleari in Iran. “L’Iran è il nuovo Amalek che apparirà nella storia per provare, ancora una volta, a distruggere gli ebrei”, disse Benjamin Netanyahu, oggi primo ministro d’Israele, di fronte ai resti delle camere a gas di Birkenau. “Ricorderemo sempre che cosa ci ha fatto l’Amalek nazista. Non dobbiamo dimenticare d’essere pronti ad affrontare i nuovi amaleciti. E’ come il 1938, e la nuova Germania è l’Iran, che sta preparando un nuovo Olocausto dello stato ebraico”.
In un recente articolo sul New York Times, Ronen Bergman, uno dei più noti giornalisti investigativi israeliani, ha scritto: “Dopo aver parlato con numerosi leader e militari israeliani sono arrivato alla conclusione che Israele attaccherà l’Iran nel 2012”. Sei mesi, al massimo un anno, è il tempo prima dell’“ora X”, prima cioé che Teheran sviluppi le capacità tecniche per assemblare un ordigno nucleare. A meno che non accetti di fermarsi o il suo programma non venga distrutto da un attacco militare. E’ il countdown, il conto alla rovescia sull’atomica degli ayatollah.
Il capo di stato maggiore d’Israele, Benny Gantz, ha appena definito il 2012 “l’anno dell’Iran”. Lo scorso giovedì il capo dell’intelligence militare israeliana, Aviv Kochavi, ha detto che l’Iran “ha già materiale fissile sufficiente per costruire quattro bombe atomiche”. Il giorno stesso Moshe Ya’alon, vice primo ministro ed ex capo di stato maggiore, annunciava che “Israele può distruggere tutte le strutture nucleari iraniane”. La tensione sale ogni giorno di più. Secondo una previsione del segretario alla Difesa americano Leon Panetta raccolta da David Ignatius, famoso giornalista del Washington Post, gli Stati Uniti temono che Israele possa attaccare i siti nucleari iraniani in “aprile, maggio o giugno”. L’aviazione di Gerusalemme penserebbe di colpire i bersagli iraniani per “4 o 5 giorni”.
“L’orologio tecnologico prevede che l’Iran sviluppi la bomba atomica entro massimo un anno”, spiega al Foglio il più noto giornalista militare israeliano, Ron Ben Yishai, corrispondente di Yedioth Ahronoth immortalato nel film “Valzer con Bashir”, in quanto fu il primo giornalista al mondo a entrare nel campo di Sabra e Shatila. “L’orologio delle sanzioni scatterà invece non prima di luglio e per Israele quella data è considerata troppo tardi per fermare i piani iraniani. Israele teme che non resti tempo per fermare l’atomica iraniana e non può permettersi che Teheran sviluppi una sorta di ‘immunità’ sul nucleare, portando il programma ancora più sotto terra, dopodiché sarebbe impossibile fermare Teheran. L’attuale ‘red line’ dell’America è se l’Iran supera il trenta per cento di produzione di uranio arricchito, per Israele questa linea rossa è inaccettabile, perché da lì in poi entro tre mesi Teheran potrebbe assemblare la bomba. Israele quindi potrebbe decidere di attaccare, con o senza gli americani, avendo senza ombra di dubbio le capacità di paralizzare o distruggere il programma nucleare iraniano”.
Scrive Ronen Bergman che Benjamin Netanyahu “è l’uomo che ha fatto dell’Iran la questione numero uno in Israele”. Vent’anni fa, quando ancora non si parlava di Qom, Bushehr, Fordow e Isfahan, ovvero la fitta rete di fabbriche nucleari che il regime iraniano ha costruito nei sotterranei dell’antica Persia, Netanyahu pubblicò un libro dal titolo “Fighting Terrorism”, in cui scriveva: “Non c’è più tempo, il mondo è di fronte a un abisso e una volta che l’Iran avrà acquisito armi atomiche nulla può escludere che possa spingersi verso l’irrazionalità”. All’epoca Netanyahu era semplicemente il “Dottor No” della destra e i baroni del Likud gli davano dell’“amerikano”, per il suo inglese impeccabile, per gli studi al Massachusetts Institute of Technology e perché durante la guerra del Golfo era il “darling della Cnn”. Negli studi dell’emittente americana a Gerusalemme, Netanyahu andava in tv indossando una maschera antigas, a testimoniare l’angoscia d’Israele mentre Saddam Hussein lanciava missili scud su Tel Aviv. “A Netanyahu spetta la decisione di attaccare l’Iran, la storia d’Israele poggia sulle spalle dei primi ministri e sono loro a decidere per il bene del popolo ebraico”, dice al Foglio Yoel Guzansky, uno dei massimi esperti d’Iran e direttore della sezione iraniana dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, il maggiore pensatoio per la sicurezza nazionale in Israele. “Per Israele oggi conta soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico, non il rapporto con gli Stati Uniti”.
Vent’anni dopo la pubblicazione di quel libro, Netanyahu ha lanciato la più vasta distribuzione di maschere antigas dai tempi della guerra del Golfo. Nei giorni scorsi il maggiore Eshel ha detto che ancora metà della popolazione è senza la nuova maschera antigas. Israele sta correndo ai ripari, timoroso della “biologia nera” nelle mani di Iran, Siria e Hezbollah. La distribuzione della nuova maschera, che porta il nomignolo di “Candy”, fa parte di un piano di autodifesa del “fronte interno” in caso di strike all’Iran. In ogni casa israeliana si conservano ancora le vecchie maschere dentro brutte scatole color caki, nella stanza meno usata, per esorcizzare il pericolo. Tutti ricordano le immagini dei genitori che all’interno di una stanza sigillata leggevano una fiaba al figlio che aveva in testa una specie di casco da astronauta in grado di proteggerlo dai veleni.
L’uso preventivo della forza da parte d’Israele sarebbe giustificato. “Ogni persona e ogni stato ha il diritto di difendersi se sotto minaccia esistenziale, non devi aspettare il punto in cui il tuo nemico ti possa attaccare per distruggerti”, dice al Foglio Avi Sagi, filosofo morale e coautore dello “Spirit of the IDF”, il più recente codice di condotta etica dell’esercito ebraico. “Se Israele è certo che possa finire sotto attacco atomico, allora ha il diritto a un attacco preventivo. C’è una piccola linea rossa invisibile in cui si intreccia la questione tecnica dell’atomica ma anche la volontà della leadership di Teheran. Cosa c’è nella mente degli iraniani? Gli iraniani sono abbastanza razionali da avere la bomba senza usarla, come avvenne durante la crisi dei missili a Cuba? L’attacco preventivo venne usato già durante la Seconda intifada, quando Israele eliminò alcuni capi terroristi in esecuzioni extragiudiziali. E’ una moralità che fa parte dell’ethos ebraico. Israele è prigioniero da sempre di una guerra asimmetrica, in cui soldati combattono terroristi in abiti civili. Israele ha sospeso operazioni militari per il timore di vittimi civili fra i palestinesi e gli iraniani devono sapere che in caso di strike Israele farà tutto il possibile per evitare vittime civili e che l’obiettivo sono le sue infrastrutture nucleari. Ma l’esercito d’Israele è nato per difendere gli ebrei”.
Il countdown inizia dalla mente del primo ministro. “Per Menachem Begin (primo ministro all’epoca dell’attacco alla centrale nucleare di Osirak) era una questione fra lui e Dio”, dice Ariel Levite, ex consigliere per la sicurezza nazionale. “Anche Netanyahu pensa di essere parte di una missione storica”. La posizione di Netanyahu su Teheran, dicono fonti vicine al primo ministro, è plasmata “da Amalek e dall’Olocausto”. E’ il tema della festa di Purim, quando gli ebrei celebrano la sconfitta di Aman che ai tempi del re Assuero di Persia voleva annientare tutti gli ebrei. Dopo Amalek, il terribile guerriero del deserto, vennero i Romani con la distruzione di Gerusalemme e l’imperatore Tito che entrò nel canone ebraico come successore di Aman; poi è stata la volta di Hitler, dell’Olp di Yasser Arafat e infine dell’Iran nuclearizzato, che secondo Netanyahu primeggia come metafisico persecutore fra gli odiatori assoluti di ebrei. Ahmadinejad come Aman, protagonista della Meghilà di Ester, il libro di Ester.
I giornalisti più maligni, non senza ragione, dicono che questa ideologia di Netanyahu proviene da suo padre, un intellettuale di fama mondiale. “L’Olocausto non è mai finito, l’Iran promette che il movimento sionista è arrivato alla fine e che non ci saranno più sionisti al mondo”, ha appena detto il venerando Ben Zion Netanyahu di fronte a una platea di amici e parenti riuniti per festeggiare i suoi cent’anni. “Il popolo ebraico deve riporre la fede nel proprio potere militare. La nazione d’Israele mostra al mondo cosa deve fare uno stato di fronte a una minaccia mortale: guardare negli occhi il pericolo e decidere cosa fare. E farlo quando ancora c’è la possibilità di farlo”.
L’anziano medievista, nato a Varsavia e da molti considerato il più grande studioso mondiale d’Inquisizione spagnola, dal suo quartiere di Katamon, in una zona di Gerusalemme dove la famiglia Netanyahu risiede da più di mezzo secolo, seguita a scrivere libri sulle persecuzioni. Secondo Amir Oren di Haaretz, Netanyahu vede se stesso come l’ultimo paladino della saga revisionista. “Il primo ministro è convinto di essere nato per anticipare gli eventi. Ze’ev Jabotinsky, di cui Ben Zion Netanyahu fu il segretario per tutta la vita, previde l’Olocausto. Netanyahu vede l’Olocausto dell’Iran e continuerà questa dinastia profetica”.
Un anno fa Netanyahu ha reso nota una lettera del padre scritta proprio durante la Pasqua ebraica del 1941, quando gli ebrei venivano spediti a morte nelle camere a gas e all’epoca il professor Netanyahu era direttore della Zionist Organization of America e perorava la causa degli ebrei europei: “Attraverso oceani di sangue, il nostro sangue, attraverso oceani di lacrime, le nostre lacrime, soltanto una nazione del nostro calibro poteva sopravvivere attraverso epoche di sofferenza impareggiabili. Ma siamo vivi e lottiamo per la libertà”. Ci dice un ex consulente del premier che il padre ha instillato nel figlio “questa viscerale identificazione con il miracolo della sopravvivenza ebraica”.
Una delle più note firme di Haaretz, Ari Shavit, dice che “Benjamin Netanyahu crede di essere uscito dal grembo di sua madre per salvare il popolo ebraico e la civiltà occidentale dal pericolo che sorge da Natanz (la centrale nucleare iraniana). Vuole essere la persona che sconfiggerà il nazismo del XXI secolo”. Ne parliamo con Yossi Klein Halevi, scrittore e intellettuale di punta del mondo ebraico americano. “Ci sono similarità e differenze fra Menachem Begin, che attaccò il reattore nucleare in Iraq, e Benjamin Netanyahu, l’uomo dell’Iran. Begin fu l’unico leader israeliano nell’Europa dell’est imprigionato dai comunisti e la cui famiglia venne uccisa dai nazisti. La Shoah era parte essenziale della vita di Begin. Netanyahu è nato in Israele, ha servito con Ehud Barak nelle unità d’élite dell’esercito, è un simbolo del potere ebraico e della capacità del popolo ebraico di difendersi. Ma sull’Iran Netanyahu è tornato a Begin e alle origini della destra. Quando parla degli anni Trenta, Netanyahu intende la mentalità occidentale di appeasement riguardo all’Iran”.
Secondo Halevi, l’Olocausto è decisivo per capire cosa farà Israele nel caso in cui l’America si rifiuti di entrare in guerra contro gli iraniani. “Anche il socialista Barak, sostenitore dello strike, è stato influenzato dalla dottrina Osirak di Begin e pensa che Israele deve sparare il colpo preventivo prima che ci sia un altro Olocausto. Netanyahu sa che Ahmadinejad è un nemico molto più mortale per Israele di quanto non lo fosse Saddam Hussein. La dottrina Begin si basa proprio sulla capacità degli ebrei di fare da soli anche senza l’America. Quando Israele attaccò Osirak, l’Amministrazione di Ronald Reagan non venne avvertita da Israele. E sfido a paragonare Barack Obama a Reagan sulla difesa d’Israele per capire come potrebbe agire oggi Netanyahu. Oggi l’America è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dall’atomica iraniana”. Halevi dice anche che esiste un momento preciso che ha cambiato per sempre il “dossier Iran” in Israele, specie nella classe dirigente vicina a Netanyahu: “Fu quando nel 2005 Ahmadinejad organizzò ufficialmente la conferenza sul negazionismo della Shoah. L’Iran è l’unico stato mondiale devoto a dimostrare la falsità dell’Olocausto. Da allora Israele non ha più guardato a Teheran allo stesso modo. Anche se lasciamo da parte gli scenari apocalittici, nessuno può essere certo che l’Iran non possa lanciare una testata atomica su Tel Aviv. Allora la storia ebraica sarebbe finita. Netanyahu inoltre sa che l’Iran darà il via libera a una difesa nucleare nella regione per Hezbollah e Hamas. Sarebbe la fine della deterrenza d’Israele. Inoltre, i rivoluzionari di Teheran potrebbero passare una ‘bomba sporca’ ai terroristi e usarla contro lo stato ebraico. Infine, ci sarebbe una corsa alla bomba atomica nella regione. Se Israele sa che il punto di non ritorno è vicino, lancerà un attacco contro l’Iran, con o senza americani. In gioco c’è soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico”.
L’albero genealogico di Netanyahu reca anche un fratello eroe, caduto a Entebbe, nel famoso salvataggio degli ostaggi ebrei. E il ricordo di quel fratello eroe gioca un ruolo decisivo nella mente del primo ministro. Ogni anno, quando tutto il paese è concentrato nel ricordo dei suoi caduti e Yom Hazikaron, il Giorno del Ricordo, si stende su Israele tanto da bruciare, da rodere, da ferire, il primo ministro si reca sulla tomba del fratello ucciso. Il 4 luglio di trentaquattro anni fa un commando di teste di cuoio israeliane fu protagonista di un clamoroso blitz a migliaia di chilometri di distanza da casa. In Uganda gli israeliani volarono per liberare un centinaio di passeggeri ebrei di un jet della Air France dirottato da terroristi palestinesi. Il reparto è guidato da Yoni, fratello del premier e unica vittima del blitz. “Yoni si è battuto ed è morto per il popolo ebraico, ma la sua battaglia aveva orizzonti più ampi, Yoni vedeva questa guerra come una battaglia fra la civiltà e la barbarie”, si legge nel libro del 1997 scritto dal primo ministro. “E’ una battaglia che dall’inizio della Storia ha contrapposto le forze delle tenebre a quelle dei lumi”. La stessa dicotomia è applicata alle fornaci nucleari iraniane. Nel suo capolavoro, “Le Origini dell’Inquisizione”, pubblicato negli Stati Uniti da Random House, il padre di Netanyahu sostiene che l’Inquisizione fu il prototipo della persecuzione antiebraica del Novecento e che non era nata per estirpare il giudaismo come religione, ma gli ebrei come popolazione. La morale del professor Netanyahu è che “la persecuzione è eterna, cosmica”. E’ il grande messaggio che ha trasmesso ai figli: uno è morto combattendo i terroristi, l’altro vuole difendere Israele dalle centrali atomiche iraniane.
Secondo l’esperto di Iran Yoel Guzansky, la formazione ideologica di Netanyahu potrebbe spingerlo ad agire anche senza il consenso degli americani. “Netanyahu sa che le possibilità di uno scontro fra America e Iran sono molto basse al momento sulla questione nucleare, perché Washington è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dal nucleare. Netanyahu potrebbe decidere di lanciare una campagna militare anche senza il consenso americano. Tutto dipende dai dati che Israele avrà in mano, non certo dal dispiacere che potrebbe provocare negli Stati Uniti. Se Israele pensa che è rimasto solo in questa operazione, agirà da solo. Netanyahu attaccherà se l’intelligence gli fornirà certezze sul danno permanente che Israele può causare al programma iraniano. Abbiamo una opzione militare contro l’Iran e possiamo distruggere ancora le centrali iraniane”.
Per capire questa mentalità israeliana si deve sfogliare un altro libro di Netanyahu scritto nel 1993, “A Place Among the Nations: Israel and the World”, in cui il futuro primo ministro, pensando all’Iran, parla del “tradimento del sionismo da parte dell’occidente”. In un capitolo dal titolo emblematico, “Betrayal”, il tradimento, Netanyahu scrive che la Gran Bretagna, “gli arabisti del Foreign Office”, “abbandonarono gli ebrei sull’orlo dell’annientamento”. Un altro capitolo è dedicato a Ze’ev Jabotinsky, il padrino della destra israeliana che vide la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita. Il passo preferito dal primo ministro è quello in cui Jabotinsky cita Thomas Hobbes: “Saggio è stato il filosofo che ha detto ‘homo homini lupus’. Il tenere sempre il bastone in mano è l’unico mezzo per sopravvivere in questa guerra di lupi”. In questa possibile guerra con l’Iran, i bastoni d’Israele sono i missili Jericho, i caccia F-16, lo scudo “fionda di David”, il radar “Pino Verde”, i sottomarini Dolphin, Leviathan e Tekuma. Dentro quest’ultima parola, che in ebraico significa “rinascita”, c’è tutta l’eco di una guerra che se verrà avrà gli occhi di Benjamin Netanyahu e Mahmoud Ahmadinejad.
(primo di una serie di articoli)
Giulio Meotti è giornalista del Foglio dal 2004. E’ autore di “Non smetteremo di danzare” (Lindau), inchiesta sulle vittime israeliane del terrorismo. Il libro è stato tradotto negli Stati Uniti ed è in corso di pubblicazione in Norvegia. Jewish Ideas Daily lo ha inserito fra “i migliori libri ebraici del 2010”; per il presidente del Parlamento israeliano, Reuven Rivlin, “è un lavoro impressionante che riempie i vuoti nell’opinione pubblica internazionale su Israele”. Meotti ha scritto anche per il Wall Street Journal, Commentary, National Review, Jerusalem Post, Fox News, Jüditsche Allgemeine e per Yedioth Ahronoth, primo quotidiano israeliano.


Mañana. La guerra fantasma d’Israele
Così il Mossad di Meir Dagan ha ritardato i piani atomici di Teheran. Ma potrà Gerusalemme evitare lo strike? Storia di un conflitto invisibile
di Giulio Meotti | 11 Febbraio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c993.htm

Nella strada che costeggia il Mediterraneo, a pochi chilometri da Tel Aviv, c’è un insieme di edifici bianco-grigiastri al di là di una fila di eucaliptus. Lì sorge il monumento ai 400 israeliani caduti servendo nei servizi segreti. Alcuni di loro non hanno neppure una tomba in terra ebraica, sepolti senza nome in qualche sperduto camposanto arabo. Come Eli Cohen, lo 007 che garantì la vittoria nel 1967 e che faceva emozionare Yitzhak Rabin quando ne ricordava la figura: “Eli è un mito, ci siamo tramandati la sua storia da comandante a soldato, da padre in figlio”. Eli Kamal, come si faceva chiamare Cohen, divenne amico personale dei generali siriani, venne ammesso a visitare le postazioni sul Golan e dalle colline sul lago di Tiberiade prese nota dei bunker, dei carri armati e dei missili terra aria arrivati da Mosca. Scoperto, Cohen verrà giustiziato in diretta tv. “Morte al sionista”, grida la folla a Damasco mentre il boia gli stringe il cappio intorno al collo e la moglie, da Tel Aviv, assiste allo scempio del corpo del marito.
Quando Meir Dagan ha lasciato la guida del Mossad, un anno fa, dopo aver abbracciato le storiche guardie del corpo, non si è portato via soltanto la celebre pipa, ma anche il suo più grande rimpianto, ovvero non aver saputo riportare in patria le spoglie di Cohen. Dopo Issa Harel “il piccolo”, che catturò il gerarca nazista Adolf Eichmann in Argentina, Dagan è stato il più ardito direttore del Mossad, il servizio segreto d’Israele. La sua ossessione, in questi otto anni, è stato il programma atomico dell’Iran, in un crescendo che adesso potrebbe avere come atto finale un blitz aereo.
Ma a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, Dagan è contrario allo strike. E’ “la nemesi di Netanyahu”. Un paradosso difficile da comprendere, perché in un paese di duri come Israele, Dagan è il più duro. Nel 1967 Dagan saltò su una mina egiziana e oggi cammina con fatica. Ma quella ferita, disse, “è la prova che ho una spina dorsale”. Quando trent’anni dopo emerse come uno dei possibili capi del Mossad, il Times lo chiamò “il cacciatore di arabi”. Nel 2002 l’allora primo ministro Ariel Sharon, che chiese a Dagan di risollevare un moribondo servizio segreto, disse che la specialità dello 007 consisteva nel “separare un arabo dalla propria testa”. Il “metodo Dagan” sull’Iran, come lo ha ribattezzato il quotidiano Yedioth Ahronoth, consiste nel rafforzamento delle sanzioni e nel fomentare le rivolte interne, ma soprattutto nell’assassinio di scienziati e nel sabotaggio del materiale atomico. Un metodo che va sotto la sigla di “mañana”. Si rimanda l’ora X della bomba atomica. Domani e domani e domani… Mañana, appunto. “Una tecnica dilatoria” dice Yaakov Katz, editor militare del Jerusalem Post che sta per pubblicare, assieme allo storico Yoaz Hendel, il libro “Israel versus Iran. The Shadow War”, la guerra fantasma. E’ la guerra di Dagan. La guerra che c’è ma non si vede e colpisce le centrifughe atomiche, i magazzini di fluoruro di uranio, gli scienziati e gli emissari stranieri.
“Il piano Dagan è stato un grande successo”, dice al Foglio Ron Ben Yishai, il re dei corrispondenti militari israeliani per Yedioth Ahronoth, che nel 2007 riuscì a visitare, unico giornalista al mondo, il sito nucleare siriano bombardato dall’aviazone israeliana (uno dei successi di Dagan). “Si iniziò a parlare di Iran nel 2000 e si disse che avrebbe avuto la bomba atomica entro tre anni. Ancora non ce l’hanno. Grazie a Dagan. I sabotaggi e le uccisioni hanno funzionato. Adesso Dagan pensa che Israele debba procedere secondo l’orologio di Washington, mentre l’orologio di Netanyahu procede più spedito. Ma sia Dagan sia Netanyahu concordano che Israele non accetterà un Iran nucleare, lo stato ebraico sarebbe vittima di una lunga guerra di attrito fra i terroristi nella regione protetti dall’ombrello atomico di Teheran”. Meir Javedanfar, autore del libro sulla “Sfinge Iraniana” e docente a Herzliya, dice al Foglio: “La linea rossa per Dagan è la costruzione della bomba atomica. E’ come se oggi l’Iran avesse tutte le parti della bomba sul tavolo e dovesse ancora decidere di assemblarle. Se alla fine Israele riceverà la ‘luce verde’ dagli americani Netanyahu attaccherà l’Iran. Israele non può aspettare un test iraniano e ci sarà un attacco preventivo”.
Sull’ultimo numero di Newsweek anche lo storico di Harvard Niall Ferguson, uno dei maggiori opinion maker al mondo, ha scritto che “Israele e Iran sono alla vigilia di una nuova guerra dei Sei giorni. La guerra preventiva è un male minore rispetto all’appeasement”.
Dal 13 gennaio 2010, cinque scienziati nucleari iraniani, esperti missilistici e tecnici sono stati uccisi da una mano invisibile. Altri sono morti nei mesi precedenti. L’ultima vittima attribuita a Dagan si chiamava Mostafa Ahmadi Roshan, che dirigeva il nuovo centro a Qom per l’arricchimento dell’uranio. “Possiamo presumere che molti altri esperti dal basso profilo siano stati uccisi”, ci dice Ben Yishai. “E’ un ottimo deterrente per altri scienziati, compresi gli stranieri”. Alcuni giorni fa Dagan ha risposto con un sorrisetto malizioso quando gli è stato chiesto se era stato “Dio” a mettere a segno i sabotaggi in Iran.
Il culmine della saga Dagan si celebrò due anni fa, a Dubai, dove una squadra di ventisette agenti del Mossad atterrò con voli di linea provenienti da Roma, Francoforte, Parigi e Zurigo. Erano lì per Mabhouh al Mabhouh, il leader di Hamas il cui nome in codice era “Plasma”. Il team è formato da membri della “Caesarea”, l’élite specializzata in omicidi e penetrazioni in strutture straniere. Non hanno un indirizzo di lavoro, non usano i propri nomi e persino le famiglie – tranne i parenti stretti – non sanno cosa fanno. Mabhouh era sulla lista dei “most wanted” fin dagli anni Novanta, quando uccise due soldati israeliani nel Negev. L’unico rimpianto, disse Mahbouh ad al Jazeera, fu di non aver sparato lui stesso in faccia agli israeliani.
Pochi giorni prima che la squadra entrasse in azione, in un capannone alla periferia di Tel Aviv, la sede del Mossad nota come “Midrasha”, Netanyahu sarebbe arrivato con le sue Audi A6 per incontrare Dagan e gli uomini di Dubai. Il premier avrebbe ascoltato il piano e alla fine dato l’okay: “Il popolo d’Israele conta su di voi. Buona fortuna!”. Mabhouh stava andando a Bandar Abbas, il porto iraniano, per un carico d’armi. Era l’uomo di Hamas in Iran. Per questo nella mente di Dagan, ucciderlo valeva ogni costo, anche l’incredibile video che ha inchiodato gli israeliani. E’ un’operazione rischiosa. Nel 1997 Netanyahu ordinò l’uccisione di un altro leader di Hamas, Khaled Meshaal, nelle vie di Damasco. Fu un disastro. Il Mossad gettò un veleno nel suo orecchio, ma senza ucciderlo. Gli agenti furono catturati e per liberarli Gerusalemme consegnò l’antidoto e liberò lo sceicco paralitico di Hamas, Ahmed Yassin. Due anni prima, a Malta, agenti israeliani su ordine di Shimon Peres avevano ucciso Fathi Shkaki, il capo del Jihad islamico, “il Dottore” che aveva inventato la guerra suicida sugli autobus. Mabhouh muore in un hotel a Dubai. Ma il Mossad viene scoperto. Pochi mesi dopo, Dagan è sostituito da Tamir Pardo.
Il “siberiano”, come è noto Dagan per esser nato nella glaciale Novosibirsk, nella guerra all’Iran ha reclutato uomini d’azione di diverse nazionalità. Li ha infiltrati nei paesi più difficili, soprattutto in Siria. Forse anche in Iran. L’ex capo dell’Unità speciale Saieret Matkal, Amiram Levine, ha detto che Israele può facilmente infiltrare agenti speciali nella Repubblica Islamica: “L’Iran non è al di fuori della nostra portata: ho visto cose più complicate”. Nel settembre 2007 una soffiata di Dagan portò alla distruzione del sito nucleare di Deir al Zour. E’ l’Operazione frutteto. Decisiva sarebbe stata una fotografia che un agente del Mossad ha scattato al sito nucleare. Poi viene decapitato, letteralmente, il comandante dell’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, all’uscita dal quartier generale dei servizi segreti a Damasco. Sei mesi dopo è la volta del generale Mohammed Suleiman, il punto di raccordo con il programma nucleare nordcoreano e iraniano, assassinato mentre si stava rilassando nella sua villa in riva al Mediterraneo da un cecchino a bordo di uno yacht che veleggiava poco lontano.
Leggi Countdown, storia preventiva dello strike




Speriamo che gli israeliani abbiano delle armi e delle relazioni segrete, perché il mondo occidentale in mano agli idolatri dogmatici mussulmani e a taluni cristiani (con il loro debole per il disumano martirio idolatra con assassinio per gli uni e con inutile sacrificio per gli altri), senza Israele e la fede ragionevole degli ebrei, sarebbe un orrore.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 12:34 pm

Nella mente dello strike
“Israele non si suiciderà, abbiamo il diritto di fermare le centrali iraniane” Da Louis Beres ad Asa Kasher, a colloquio con i cervelli dell’attacco preventivo
di Giulio Meotti | 12 Febbraio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c170.htm

Sta per scoppiare la guerra fra Iran e Israele, bombarderemo i siti iraniani prima del previsto, le sirene ci sveglieranno di prima mattina e il comando interno ci dirà come entrare nei rifugi. Il resto sarà storia”. Così Sever Plocker, vicedirettore del maggiore giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, lancia l’allarme sul countdown, il conto alla rovescia verso la resa dei conti fra lo stato ebraico e la Repubblica islamica dell’Iran. Sullo strike è al lavoro un ristretto gruppo di cervelli attorno al primo ministro Benjamin Netanyahu. Accanto a “Mefistofele”, come malignamente su Haaretz è stato definito Amos Gilad, c’è Uzi Arad, dirigente di spicco del Mossad e figlio di un leader sionista imprigionato dai fascisti romeni di Antonescu. E poi Yaakov Amidror, il primo generale con la kippa dei religiosi, e l’analista militare Yoaz Handel, che ha appena pubblicato il report “Iran’s nukes and Israel’s dilemma”. E’ il primo documento sull’attacco preventivo uscito dalla squadra di cervelli del primo ministro. In tutto, scrive Handel, “ci sono 60 obiettivi da colpire in Iran”. Poi c’è l’influenza del “lituano”, Moshe Arens, ex ministro della Difesa ma per la stampa “l’uomo che ha inventato Netanyahu” (il padre dell’attuale premier, il professore di storia Ben Zion Netanyahu, fece da testimone di nozze ad Arens). La “dottrina Arens” sull’Iran si basa sul timore che Israele perda quel potere di deterrenza faticosamente conquistato con la costruzione della centrale nucleare di Dimona e con la smagliante vittoria nella Guerra dei sei giorni. Da allora il deterrente si è già eroso per la sofferta guerra del Kippur (1973), per l’acquiescenza mostrata nella prima Guerra del Golfo e per la sconfitta subita da Hezbollah nel 2006. Nel sostenere lo strike contro l’Iran, Arens dice che Israele non deve commettere nuovamente l’errore del 1991, quando aspettò che il tiranno iracheno lanciasse quaranta missili su Tel Aviv. “Fu la prima volta che il paese porse l’altra guancia”, ha ricordato Arens, all’epoca era ministro della Difesa. “Non scherzate di nuovo con Israele”.
L’elaborazione strategica dello strike è avvenuta però al di fuori dell’attuale governo Netanyahu. Dieci anni fa Israele chiese a un gruppo di accademici e studiosi di formulare la dottrina dell’attacco preventivo. E’ il “Progetto Daniele”, dal nome del profeta biblico. Costituisce la giustificazione strategica per l’eventuale attacco ordinato dal primo ministro Netanyahu. Del gruppo hanno fatto parte, tra gli altri, l’ingegnere atomico israeliano Naaman Belkind, il generale della riserva Isaac Ben Israel e il colonnello dell’aviazione Yoash Tsiddon-Chatto. Il Foglio è a colloquio con l’accademico che ha scritto il “Progetto Daniele”, Louis René Beres, uno dei massimi esperti mondiali di genocidio all’Università americana di Perdue.
“La deterrenza nucleare funziona soltanto fra attori razionali”, ci dice Beres. “Noi del ‘Progetto Daniele’ per primi abbiamo spiegato che l’‘equilibrio del terrore’ non funziona con Teheran. Per Israele non difendersi preventivamente da un dichiarato nemico esistenziale – ovvero consentire a un regime islamico apocalittico di diventare nucleare – sarebbe suicida. Mutuando da Thomas Hobbes, nessuno stato ha il diritto di suicidarsi e lo studioso di diritto Ugo Grozio nel 1625 ha scritto che la vita innocente deve essere protetta. Quando i leader iraniani proclamano di credere nell’apocalisse sciita, misure difensive vanno considerate a Gerusalemme. L’Iran sta finalizzando la costruzione di armi atomiche e il regime dichiara che serviranno a creare ‘un mondo senza sionismo’. L’Iran può diventare, letteralmente, uno ‘stato suicida’. Noi del ‘Progetto Daniele’ abbiamo spiegato ai primi ministri israeliani che Israele potrebbe fronteggiare un attentatore suicida macroscopico, uno stato che agisce senza pensare alle conseguenze. Un nemico che potrebbe lanciare armi di distruzione di massa contro Israele sapendo molto bene che ci sarebbero delle rappresaglie. La conclusione di questo scenario è che Israele resterebbe paralizzato dall’irrazionalità del nemico e che quindi l’unica alternativa è l’attacco preventivo”.
Beres concorda con l’analisi su Newsweek di Niall Ferguson che Israele si trova di fronte a una nuova possibile guerra dei Sei giorni. “Lo stato ebraico nel 1967 optò per un attacco preventivo”, ci dice Beres. “La legge internazionale non è un patto suicida e include il diritto inerente degli stati all’autodifesa. Lo strike preventivo avrebbe un costo molto alto. Ma quali sono le alternative? Le sanzioni economiche, la guerra cibernetica, gli omicidi mirati possono ritardare la costruzione di armi nucleari atomiche, ma non possono fermarle. Di fronte a un primo colpo da parte dell’Iran su un paese della grandezza del New Jersey, qualcosa che significherebbe la scomparsa d’Israele, abbiamo il diritto a una difesa preventiva”.
Oggi lo strike appare come una bandiera della destra israeliana, ma è stata formulata da uno dei padri nobili della sinistra ebraica. E’ il professor Asa Kasher, docente di Filosofia etica all’Università di Tel Aviv, l’uomo senza uniforme, il professore che siede tra i generali di Tsahal e che per due anni ha lavorato al documento che ha definito l’etica dell’esercito israeliano. Si chiama Tohar HaNeshek (“purezza delle armi”), significa usare le armi secondo regole morali. Il testo venne duramente criticato dalla destra israeliana per bocca dell’ex capo di stato maggiore Rafael Eitan: “Si tratta di fesserie che possono solo demoralizzare l’esercito, non ci sono armi pure, perché sono uno strumento per uccidere”. Eppure l’allora chief of staff Ehud Barak e il suo primo ministro, Yitzhak Rabin, abbracciarono il documento che da allora è diventato la base morale dell’esercito più agguerrito e peculiare al mondo.
Kasher, considerato vicino al partito di estrema sinistra Meretz, è per tutti “the moralist”. Il professore oggi è a colloquio con il Foglio sull’Iran. “La giustificazione di un attacco preventivo israeliano poggia sulla dottrina della ‘guerra giusta’ e sullo spirito della legge internazionale”. Ci sono alcune condizioni per lo strike. “Una buona causa: generalmente soltanto l’autodifesa è considerata una buona causa. Nel caso dell’Iran, non c’è dubbio che sia un nemico aggressivo di Israele, è dietro a Hamas e Hezbollah e ha dichiarato apertamente di voler eliminare Israele. Una ostilità resa evidente anche dalla ripetuta negazione della Shoah da parte del presidente iraniano. Generalmente l’autodifesa è legata a un pericolo imminente. Nel caso dell’Iran, riferito alla sua capacità atomica e al desiderio di eliminare Israele, il pericolo imminente non è il lancio di testate atomiche, ma la capacità di farlo. Un attacco preventivo è quindi giustificato”.
Poi ci sono le possibilità di vittoria: “Le operazioni militari coinvolgono perdite da entrambe le parti, quindi devono avvenire non come gesti simbolici. Se la capacità iraniana di produrre l’atomica rimanesse intatta, lo strike sarebbe simbolico e non giustificabile. Se invece il danno è ingente o viene posticipato il programma, l’autodifesa è giustificabile”. Lo strike deve essere, dice Kasher, l’ultima risorsa: “Poiché il conflitto militare causa delle calamità, deve essere evitato se il problema alla radice può essere risolto con altri mezzi. Le sanzioni sono uno di questi, ma se falliscono lo strike militare è giustificabile”.
Ci deve essere, infine, la proporzionalità: “Noi siamo responsabili della vita dei cittadini israeliani, così come il Canada è responsabile dei cittadini canadesi. E’ tutto. Non c’è un governo mondiale responsabile, ci sono stati con proprie responsabilità. Poiché in gioco c’è l’esistenza d’Israele e la vita dei suoi cittadini, non c’è dubbio che un attacco militare all’Iran sarebbe proporzionato. Non esiste paragone più alto. I miei genitori sono arrivati qui prima dell’Olocausto, ma mia moglie è una sopravvissuta. Quale lezione possiamo trarre dalla guerra? Che non faremo affidamento su nessun altro quando si tratta di proteggere i nostri cittadini. E anche se i nostri nemici dovessero portare dei bambini sui tetti delle case per spararci addosso, non capitoleremo. E’ tragico, ma non molliamo”.
L’idea dello strike è sposata anche dal filosofo morale Moshe Halbertal, l’allievo di Michael Walzer che ha collaborato al manuale di comportamento delle forze di difesa d’Israele: “Ci potrebbe essere una situazione in cui l’unico modo per prevenire un attacco nucleare contro Israele sarà quello di distruggere lo stato iraniano. Con questo voglio dire distruggere la sua capacità di agire come uno stato. Non è Hiroshima o Nagasaki. Ma sarebbe volto a distruggere laboratori nucleari, fabbriche, i reattori e tutto ciò che hanno. L’apparato statale che è necessario per ordinare e formare una cosa simile”.
Martedì il quotidiano Yedioth Ahronoth ha rivelato che i diplomatici di stanza a Tel Aviv e Gerusalemme hanno appena chiesto al governo israeliano di dotare anche le loro famiglie di maschere antigas. E’ già pronto anche un piano di evacuazione. Ieri l’Alef, il sito web iraniano vicino all’ayatollah Ali Khamenei ripreso dalla Fars News Agency, ha pubblicato la giustificazione iraniana per l’eventuale attacco a Israele, definito “materiale corrotto”. Si cita l’ultimo censimento israeliano, secondo cui il sessanta percento della popolazione risiede fra Tel Aviv e Haifa. Scrive l’analista Alireza Forghani che un solo missile Shahab 3 è in grado di eliminare il “cancro”. Sulla costa israeliana, vive un terzo della popolazione ebraica mondiale.
Leggi la prima puntata Countdown, storia preventiva dello strike - Leggi la seconda puntata Mañana. La guerra fantasma d’Israele



La guerra dei trent'anni sta per finire
Per Ronen Bergman, sarà la fine del regime iraniano. O di Israele
di Giulio Meotti | 15 Febbraio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c179.htm
C’era un tempo in cui Ezer Weizman, il fondatore dell’aviazione israeliana, stringeva accordi economici con il ministro per gli Armamenti dell’Iran, Hassan Toufanian. C’era un tempo in cui Yaakov Shapiro, l’ufficiale israeliano che curava i rapporti con gli iraniani, veniva ricevuto a Teheran “come un re”. C’era un tempo in cui la sola ambasciata con la stella di David in tutto il medio oriente era quella a Teheran. C’era un tempo in cui si vedeva un viavai di tecnici israeliani nel centro nucleare di Isfahan. Tutto ebbe fine il primo di febbraio del 1979, 12 Bahman 1357, alle ore nove e 7 minuti, quando un Jumbo dell’Air France comparve nel cielo azzurro-ceramica di Teheran, sorvolando i Monti Alborz.
Su quell’aereo, noleggiato a credito, c’era Khomeini, il “profeta disarmato”. Ritornava in patria dopo quindici anni di esilio impostogli dallo scià Pahlavi, il “re dei re”. Milioni di persone avevano inondato le strade. Piangevano: “Allahu akbar”, Allah è grande, e “Marg bar scià”, morte allo scià. Uri Lubrani, ultimo ambasciatore israeliano in Iran, aveva mandato un cablo a Washington e Gerusalemme: “Lo scià sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Il presidente americano Jimmy Carter l’aveva ignorato. “Manderò davanti al tribunale del popolo tutti i corrotti sulla terra”, proclamò Khomeini. “Spezzerò i denti, taglierò le mani dei servi dell’imperialismo”. A ogni frase dell’imam, un milione e mezzo di persone gli faceva eco: “Sa’i ast”, ovvero “è giusto” e “così sia”. Per Israele, fu l’inizio della fine. Fu anche l’inizio del countdown atomico.
“Quella fra Israele e Iran è la più lunga guerra nella storia del medio oriente”, dice a colloquio con il Foglio Ronen Bergman, il più noto giornalista investigativo israeliano. “Nel 2006 l’Iran, attraverso Hezbollah, ha sconfitto lo stato ebraico. E’ dal 1979 che i due paesi si stanno facendo una guerra sotterranea. Non è possibile fare profezie, ma per la prima volta da quando si parla di Iran, ovvero da metà degli anni Novanta, ho la certezza che Israele stia pianificando un attacco preventivo”. Bergman scrive per Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano ebraico, e recentemente sul New York Times ha firmato un lungo articolo in cui ha spiegato che Israele attaccherà l’Iran nel 2012. Il saggio ha fatto il giro del mondo, perché Bergman è il giornalista più insider d’Israele.
Bergman, che attualmente sta lavorando a un libro sul Mossad, è l’autore di “The secret War with Iran”, libro-inchiesta su trent’anni di conflitto fra Teheran e Gerusalemme. “E’ una guerra titanica fra una rivoluzione islamica aggressiva e una società compiacente e soddisfatta di sé che vuole gettarsi alle spalle le paure esistenziali. Questi anni hanno dimostrato che l’Iran e Hezbollah sono avversari più tenaci, determinati e sofisticati di quelli che Israele e Stati Uniti hanno incontrato finora in medio oriente”.
Con lo stato ebraico la monarchia di Reza Pahlavi intratteneva rapporti di collaborazione in campo agricolo, industriale, energetico e militare. La prova più eclatante di questo legame è una stella di David gigante scoperta nel dicembre 2010 sul tetto della Iran Air, accanto all’aeroporto internazionale di Teheran. L’edificio era stato costruito da ingegneri israeliani prima della Rivoluzione. Nella biografia di Khomeini “The Spirit of Allah”, il giornalista iraniano Amir Taheri racconta di una audiocassetta in cui l’imam denuncia una cospirazione fra la monarchia, “la Croce e gli ebrei”. Nei sermoni di Khomeini lo scià è chiamato “spia ebrea”.
La rivoluzione provocò un terremoto in Iran nel campo della difesa, dei burocrati, dei servizi, dei militari legati allo scià. La prima cosa che fece Khomeini fu tagliare i rapporti con Israele, definito “cancro”. Ma alcune fabbriche israeliane avrebbero continuato a ricevere i pagamenti ogni anno (a causa del caos amministrativo a Teheran) per lavori che non erano mai stati terminati. Gli iraniani chiesero di riavere indietro il denaro per la cifra tonda di cinque miliardi di dollari. Racconta Bergman che nelle moschee i preti islamici distribuirono manifesti contro “il sionismo internazionale”, che avvennero piccoli pogrom e che “I Protocolli dei savi anziani di Sion” con prefazione di Joseph Goebbels vennero tradotti in farsi, la lingua iraniana. Il Mossad lanciò l’operazione “Shulchan Arukh” per portare via quarantamila ebrei.
La predicazione antiebraica di Khomeini raggiunge il Libano, dove vive una folta comunità sciita. Hezbollah, detta “gli oppressi della terra”, spedì il primo kamikaze islamico contro i marine americani. Decine le vittime. Racconta Bergman che nel villaggio di Dir Qanoun al Nahr emissari iraniani presero parte al funerale dell’autista della Peugeot imbottita di dinamite. Il Mossad intercettò una lettera alla famiglia del kamikaze spedita da Teheran: portava la firma di Khomeini. Il 4 novembre 1983 un camion esplosivo uccide ventotto israeliani dell’intelligence militare. Si scoprirà che l’operazione era stata ordita da un quadro di Hezbollah noto come “lo Sciacallo sciita”, Imad Mughniyeh, ucciso a Damasco al numero 17 di via Nisan, in una operazione israeliana di due anni fa. Hezbollah nel 2006 diventerà l’unica organizzazione che abbia davvero “sconfitto” Israele a forza di rapimenti, bombardamenti, smembramenti di corpi e ricatti. Israele ha lasciato il Libano nel 2000. In una notte, ridenti e piangenti, i soldati israeliani abbandonarono la “striscia di sicurezza”. Effi Eitam, comandante del battaglione libanese, disse all’allora primo ministro Ehud Barak quando ricevette l’ordine di sgombrare: “Non credere di portare i soldati via dal Libano, stai portando il Libano in Israele”. Stava portando l’Iran in casa. Da allora tutta la Galilea ebraica, dove viverci o è una necessità di poveri oppure è una scelta ideale e di vita, è stata bombardata a tappeto da Hezbollah.
Secondo Bergman il countdown è impossibile da comprendere senza il caso di Ron Arad, il giovane pilota israeliano che precipitò nel 1986 presso il porto libanese di Tiro e che fu acquistato letteralmente dagli iraniani per 300 mila dollari. L’ultima foto di Ron risale al 1991, ha una lunga barba e il volto sfinito da prigioniero torturato. “Da allora Teheran e le sue carceri popolarono le fantasie e gli incubi degli israeliani”, dice Bergman. Come dice un ex ufficiale del Mossad, “mai così tanto nella storia dell’uomo sono state spese energie per ritrovare una persona scomparsa”.
La guerra agli ebrei arriva in America latina. 1992, marzo, una bomba uccide trenta persone all’ambasciata israeliana di Buenos Aires. Due anni dopo, ai primi giorni di luglio, i servizi israeliani notano una “insolita frenesia” nel corpo diplomatico iraniano nei paesi del sud America, ma non trovano una spiegazione. La risposta arriva alle dieci di mattina del 18 luglio, quando un camioncino imbottito d’esplosivo distrugge la sede dell’Associazione ebraica di Buenos Aires. Ottantacinque i morti. Il mandante è l’Iran, gli esecutori una cellula di Hezbollah. Da Israele arrivano due aerei, con a bordo 90 persone: investigatori, agenti del Mossad, personale specializzato in soccorsi con esperienza in terrorismo. Intanto anche dentro all’Iran ci sono scoppi di odio antiebraico. Tredici ebrei tra scriba, maestri di scuola, rabbini, chi proveniente da Isfahan, chi da Shiraz, il cuore dell’antica Persia, vengono gettati nelle carceri iraniane con l’accusa di “spionaggio”. Nel 2002 la mano di Teheran arriva sempre più vicina allo stato ebraico. La nave Karin A è un vascello carico di brutti presagi, con 50 tonnellate di armi che per indirizzo avevano Gaza. Le casse portano scritte in farsi, la lingua dell’Iran. Le armi iraniane includevano missili, mortai e tonnellate di esplosivo C-24 che si usa negli attacchi suicidi.
Risale al 1992, poco dopo l’attacco a Buenos Aires, la prima segnalazione dell’intelligence israeliana sui movimenti nucleari interni all’Iran. Vent’anni dopo il quaranta per cento delle risorse del Mossad sono devote al file “Iran”. “Se Israele vuole disarmare l’Iran prenderà una decisione entro sei mesi o al massimo un anno. Israele non accetterà mai, a nessuna condizione, che Teheran si doti del nucleare, lo stato ebraico non può contenere l’Iran atomizzato”. Secondo Bergman adesso ci sono cinque scenari possibili: “L’attacco israeliano, l’attacco americano, americani e israeliani che attaccano insieme, l’Iran che rinuncia all’atomica e un cambio di regime a Teheran. Poiché il secondo e il quinto scenario sono molto improbabili, il primo è il più possibile. L’America, dopo l’Iraq, non ha la forza di un’operazione preventiva simile e certamente Obama non vorrà attaccare prima della rielezione. Per Israele è troppo tardi. Lo stato ebraico preferirebbe agire con gli americani, ma la visione israeliana è plasmata da tre lezioni dell’Olocausto: Israele è lo scudo degli ebrei, ci saranno sempre nemici degli ebrei e i non ebrei non ci soccorreranno. Quindi Israele agirà anche senza americani se ritiene di dovere farlo. Israele ha fatto capire al mondo che aderisce ancora alla ‘dottrina Begin’, implementata per la prima volta nel 1981 con il bombardamento del reattore iracheno di Osirak. E sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale le lezioni dell’Olocausto continuano a guidare i leader israeliani. Israele ha le capacità militari per ritardare di cinque anni il programma iraniano. E lo strike avrebbe soprattutto un effetto psicologico devastante. Immagina di essere uno scienziato a Teheran il giorno dopo lo strike. Chi vorrà ancora lavorare al progetto quando tutto il tuo lavoro è andato perduto?”. Bergman pensa che questo countdown potrà concludersi soltanto in due modi: la fine d’Israele o del regime iraniano. “Questa guerra dei trent’anni è come un grande vulcano pieno di lava. Presto ci sarà una grande conflagrazione”.
Leggi la prima puntata Countdown, storia preventiva dello strike - Leggi la seconda puntata Mañana. La guerra fantasma d’Israele - Leggi la terza puntata Nella mente dello strike




La cura di Sneh
“Israele è pronto a fermare da solo l’atomica iraniana”. Parla il generale del blitz di Entebbe
di Giulio Meotti | 15 Febbraio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/02 ... e_c413.htm

A Entebbe il generale Ephraim Sneh era noto a tutti come “il dottore”. Il 4 luglio 1976 tra le sue braccia morì Yoni Netanyahu, fratello dell’attuale primo ministro d’Israele e a capo del celebre blitz ugandese che liberò gli ostaggi. Con Sneh nella Sayeret Matkal, le teste di cuoio israeliane, c’era la “cabala del commando”, ovvero Benjamin Netanyahu, primo ministro, Ehud Barak, ministro della Difesa, e Moshe Yaalon, il vice premier noto come “the brain”, il cervello. Erano i wonder boy dell’unità famosa per il motto “Chi osa vince”, mutuato dalle Sas inglesi. Oggi sono i falchi dello strike contro Teheran.

“Eravamo i campioni del mondo, ma è stata una missione costosa perché abbiamo perso Yoni”, dice Sneh al Foglio. “Contro le centrali nucleari iraniane siamo pronti ad agire di nuovo a migliaia di chilometri da casa. Non parliamo di risposta a un attacco: a Israele spetta la prima mossa”. Newsweek rivela che la visita a Washington del capo del Mossad, Tamir Pardo, è servita a saggiare la reazione americana allo strike preventivo contro Teheran. Sabato, su Fox News, il maggiore opinion maker conservatore, Charles Krauthammer, ha scandito chiaro: “Israele farà lo strike per prevenire un secondo Olocausto”. E’ il countdown.

Dice Sneh: “Si illude chi crede al cliché secondo cui il programma nucleare iraniano è un problema di cui si occuperà la comunità internazionale, Israele deve essere pronto a fermarlo da solo”. Il generale, a lungo anche viceministro della Difesa, è noto come “l’uomo che ha scoperto l’Iran”, perché fu il primo a sollevare l’allarme sull’atomica iraniana. Sneh sottopose le sue conclusioni all’allora primo ministro, Yitzhak Rabin che, il 26 gennaio 1993, annunciò alla Knesset: “L’Iran è un pericolo strategico per lo stato d’Israele”.

Al Foglio, Sneh dice che “il regime iraniano è religioso e fanatico e ha esportato il terrore nel mondo. Al Jihad islamico paga un bonus per ogni israeliano ucciso e l’Iran è responsabile per il bombardamento all’ambasciata israeliana di Buenos Aires. L’Iran ha missili balistici per portare fino all’Europa le testate nucleari. Nella Shoah abbiamo già perso un terzo del popolo ebraico a causa della combinazione di fanatismo e mezzi militari. Non accadrà di nuovo, non ignoreremo chi ci dice ‘vi elimineremo dalla carta geografica’”. Un Iran nucleare darebbe il via al caos atomico. “Israele non può vivere dentro una tenaglia atomica. Se l’Iran avrà il nucleare, anche Arabia Saudita, Egitto e Turchia lo vorranno. Governi islamici con armi atomiche: è l’incubo più grande per Israele e per i suoi figli. Israele è la casa sicura degli ebrei e una grande economia che attrae eccellenza e investimenti. Sotto minaccia atomica, non è più una casa sicura. Sarà la fine d’Israele. Siamo uno stato piccolo e il cuore della nostra economia ruota attorno a Tel Aviv. L’Iran è uno stato grande e meno vulnerabile. Non c’è simmetria o deterrenza fra Iran e Israele. I fanatici religiosi non avranno la bomba”. Per Sneh lo strike è possibile. “Una campagna israeliana contro le installazioni nucleari iraniane li paralizzerebbe per un certo numero di anni. La rappresaglia sarebbe dolorosa per Israele, ma sostenibile”. Ci sono soltanto due modi per fermare l’Iran: “La prima è usare le sanzioni per convincere il regime a rinunciare al programma nucleare. Se non funziona, resta l’attacco militare. Israele non deve sentirsi nell’angolo, perché quando si parla della nostra vita non chiediamo il parere degli Stati Uniti. Significa questo ‘never again’”. E’ anche la lezione di Entebbe.

“Raggiungere i nemici ovunque siano. Da allora sono passati quarant’anni, il terrorismo è diventato religioso e satanico nel metodo, ma Israele è di nuovo pronto a colpire a migliaia di chilometri di distanza da casa”.

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Speriamo che gli israeliani abbiano delle armi e delle relazioni segrete, perché il mondo occidentale in mano agli idolatri dogmatici mussulmani e a taluni cristiani (con il loro debole per il disumano martirio idolatra con assassinio per gli uni e con inutile sacrificio per gli altri), senza Israele e la fede ragionevole degli ebrei, sarebbe un orrore.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 12:42 pm

Obama tradisce Israele e ne svela i segreti della bomba atomica
Il Pentagono rende pubblico il documento su come Gerusalemme ha fabbricato testate nucleari. E’ la fine dell’“utile ambiguità”
di Giulio Meotti | 28 Marzo 2015

http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/03/2 ... e_c403.htm

Roma. L’arsenale atomico di Israele è un segreto di Pulcinella. Tutto si è svolto clandestinamente. Anche i finanziamenti negli anni vennero mascherati sotto altre voci di bilancio. Mantenere il segreto era una priorità assoluta e i dirigenti israeliani non hanno mai esitato a mentire ogni volta che è stato necessario. La stessa bomba non è stata mai veramente sperimentata. “Gli israeliani sanno così bene quel che fanno – disse il grande fisico Edward Teller – che non hanno bisogno di un vero esperimento: certo, possono sbagliarsi di un qualche kilotone in più o in meno. Ma che differenza fa?”. In settant’anni, Gerusalemme ha sempre ripetuto la formula che Shimon Peres utilizzò per rispondere a John Kennedy: “Non saremo i primi a introdurre armi atomiche in medio oriente”. È la dottrina della “utile ambiguità”: né confermare, né smentire. Il presunto arsenale che, mai pubblicizzato o confermato, fa da deterrente verso i nemici, senza violare le richieste di non proliferazione (il Trattato di non proliferazione nucleare è stato firmato da 189 paesi e solo Israele, India, Pakistan, Corea del nord non lo hanno mai sottoscritto). La centrale atomica di Dimona, nel deserto del Negev, costituisce la grande, ultima garanzia per la sopravvivenza del popolo ebraico, ma senza bisogno di sbandierarla in faccia ai nemici. Tutto il mondo sa che Israele è l’unico stato nuclearizzato dell’area.

Finora gli Stati Uniti si erano sempre rifiutati di rivelare questo segreto. Finora. Fino a Barack Obama. Due giorni fa il governo americano ha declassificato un documento top secret del 1987 che parla dell’atomica di Gerusalemme. Sono 386 pagine dal titolo “Critical Technological Assessment in Israel” e vi si spiega che “i laboratori nucleari di Israele sono l’equivalente (in America, ndr) di Los Alamos, Lawrence Livermore e Oak Ridge”. Come scrive su Forward Michael Karpin, autore di “The Bomb in the Basement. How Israel Went Nuclear and What That Means for the World” ( Simon & Schuster, 2006), “in vista della tensione aumentata ultimamente tra Washington e Gerusalemme, la tempistica del declassamento della pubblicazione, dopo un lungo processo legale, potrebbe far sollevare molte sopracciglia. Non ho mai visto un documento americano ufficiale su argomenti che fino ad ora erano stati considerati da entrambe le amministrazioni come segreti indicibili”. Il rapporto descrive in dettaglio il progresso tecnologico di Israele negli anni 70 e 80.

La parte più sorprendente del rapporto del Pentagono afferma che gli israeliani sanno “sviluppare il tipo di codici che consentiranno loro di realizzare bombe all’idrogeno”. In pratica, è la conferma che negli anni Ottanta gli scienziati israeliani erano in grado di raggiungere la capacità di fusione dell’idrogeno, e costruire il tipo di bombe mille volte più potenti di quelle atomiche. Va ricordato che già nel 2010 Obama chiese a Israele di partecipare a un summit a Washington contro la proliferazione atomica. Il premier Benjamin Netanyahu spedì una delegazione di basso profilo, non perché non condividesse le finalità del trattato, ma perché Israele si riserva ufficialmente il diritto di dotarsi di quelle armi il giorno che lo facesse un suo nemico giurato (e sono tanti nella regione). Inoltre, il Trattato è stato ratificato anche da paesi come Siria, Iraq e Iran che hanno cercato o stanno cercando di acquisire testate nucleari. Alla luce dei colloqui sull’atomica iraniana in Svizzera, i tempi del declassamento al Pentagono potrebbero rivelarsi a dir poco problematici per Gerusalemme. Sarà sempre più difficile mantenere la politica di ambiguità sul programma nucleare di Israele e, di conseguenza, questo rafforzerà le ambizioni all’uranio arricchito dell’Iran. Lo stato ebraico, intanto, è sempre più solo. E Washington sempre più lontana.


“Spie dell’Armageddon”, così il Mossad ha ucciso gli scienziati iraniani
di Giulio Meotti | 29 Luglio 2012

http://www.ilfoglio.it/articoli/2012/07 ... e_c276.htm

“Per una missione così pericolosa, come un assassinio nella capitale iraniana, il Mossad non fa affidamento su mercenari”. La rivelazione, contenuta nel libro di Dan Raviv e Yossi Melman “Spies against Armageddon”, sta facendo il giro del mondo. Nel libro i due noti giornalisti investigativi israeliani raccontano in dettaglio come agenti israeliani abbiano eliminato almeno quattro scienziati iraniani impegnati nel progetto nucleare.
Quello che finora era stato un chiacchiericcio giornalistico, nel libro di Raviv e Melman diventa cronistoria. Alcuni mesi fa Meir Dagan, ex capo del Mossad, ha risposto con un sorrisetto malizioso quando gli è stato chiesto se era stato “Dio” a mettere a segno gli attentati in Iran (a ogni spettacolare eliminazione mirata, come quelle di Imad Mughniyeh e di Mahmoud al Mabhouh, il Mossad si è spesso lasciato andare a qualche smorfia di compiacimento). Come tutto quello che riguarda Israele e le sue operazioni di intelligence, bisogna aspettare qualche anno per conoscere la verità. I due giornalisti, intanto, hanno realizzato la più corposa e dettagliata storia delle operazioni clandestine dello stato ebraico, in cui il capitolo iraniano è il più importante e attuale.

Dal 13 gennaio 2010, cinque scienziati nucleari iraniani, esperti missilistici e tecnici sono stati uccisi da una mano invisibile. Altri sono morti nei mesi precedenti. Luglio 2011: Daryoush Rezaei, docente universitario esperto dell’Organizzazione atomica iraniana, è ucciso davanti la sua casa a Teheran da un killer in moto. Novembre 2010: lo scienziato nucleare Majid Shahriari muore a Teheran per una bomba “adesiva” attaccata alla sua auto. Gennaio 2010: Massud Ali Mohammadi, uno dei responsabili del programma nucleare, è ucciso a Teheran da una moto bomba. L’ultima vittima certa si chiamava Mostafa Ahmadi Roshan ed era il direttore del nuovo centro a Qom per l’arricchimento dell’uranio.

“I metodi, le comunicazioni, il mezzo di trasporto e anche le bombe usate nelle uccisioni a Teheran sono troppo sensibili perché il Mossad le abbia condivise con i mercenari”, scrivono Melman e Raviv. Le eliminazioni degli scienziati iraniani avrebbero quindi lo stampo “blu e bianco”: i colori della bandiera israeliana. Il libro spiega che agenti israeliani entrano ed escono dalla Repubblica islamica dell’Iran e che ci sarebbero persino “case sicure” per le spie ebraiche, risalenti al periodo in cui Gerusalemme aveva relazioni speciali con l’Iran della monarchia Pahlavi. Si dice che l’intelligence israeliana abbia collaborato con le minoranze in Iran che vogliono rovesciare il regime khomeinista, come curdi, baluci, azeri, sunniti e Mujaheddin e Khalq.

Ma l’esecuzione finale degli scienziati è stata opera di agenti israeliani. In particolare, della cosiddetta “Unità baionetta”, in ebraico Kidon. È il corpo scelto degli agenti del Mossad incaricati di portare a termine operazioni clandestine di assassinio e sabotaggio mirato di terroristi e organizzazioni nemiche. Provengono dalle teste di cuoio dell’esercito. È l’unità più segreta del Mossad, una sorta di servizio segreto dentro al servizio segreto.
Agenti del Mossad sarebbero penetrati in Iran attraverso numerose “rotte”, a cominciare dalla zona curda in Iraq. Negli ultimi anni, Israele avrebbe stretto una forte collaborazione con i curdi in nome della comune guerra contro gli arabi. Il libro spiega quanto rischiose siano state queste missioni per gli israeliani infiltrati in Iran: “Se fossero stati presi, sarebbero stati impiccati nella pubblica piazza”. Il Mossad farebbe uso anche della grande comunità ebraica iraniana espatriata all’estero. “Individui abbastanza coraggiosi da tornare in Iran per servire Israele”, si legge.

Il principale obiettivo della campagna di omicidi non è interrompere il programma atomico iraniano (gli scienziati uccisi vengono sostituiti), bensì di “spedire un messaggio chiaro agli iraniani e agli scienziati degli altri paesi che intendono lavorare per il programma nucleare. Il Mossad dice loro: ‘Restate nelle vostre aule e godetevi la vita universitaria, ma non aiutate l’Iran a diventare una potenza atomica, o le vostre vite potrebbero finire prima del previsto con un proiettile o una bomba’”. Se in passato scienziati russi, cinesi e pachistani hanno lavorato nelle centrifughe iraniane, oggi soltanto i nordcoreani sembrano intenzionati a farlo. La deterrenza funziona. Il libro racconta come il Mossad vanti numerosi precedenti storici nell’eliminazione di scienziati prestati ai nemici di Israele, come ad esempio l’operazione “Spada di Damocle”, con cui agenti israeliani uccisero scienziati tedeschi che avevano lavorato nella base nazista di Peenemünde e che si erano poi messi al servizio dell’Egitto. Poi ci sono gli scienziati prestati a Saddam Hussein, come il fisico egiziano Yehia Meshad, trovato morto nel 1980 in una stanza d’albergo di Parigi. O il caso dello scienziato canadese Gerald Bull, che regala a Saddam il sogno del “supercannone” con il quale sparare satelliti o proiettili nucleari.

Bull muore a Bruxelles, secondo Melman e Raviv, per mano di agenti del Mossad su ordine dell’ex premier Yitzhak Shamir, da poco scomparso. I due autori rivelano che in quegli stessi anni l’ex capo di stato maggiore e attuale ministro della Difesa, Ehud Barak, mise appunto con il Mossad il piano “Roveto” per eliminare un capo di stato straniero: Saddam Hussein. Commando israeliani erano già pronti a entrare in territorio iracheno per portare a termine la missione, che però fu congelata dai vertici dello stato per le ripercussioni che avrebbe avuto su Israele.
Il titolo del libro è dunque presto spiegato: nella teologia cristiana l’Armageddon, che sorge nei pressi della moderna città israeliana di Megiddo, è il sito dove avverrà la fine del mondo. Ma nella tradizione ebraica non ci sarà alcun evento calamitoso. Compito della mano invisibile d’Israele è prevenire il peggio.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 9:45 pm

“Al Parlamento europeo, a favore di Israele si è presentato un sacerdote in abito talare, alto e maestoso, barba folta, Gabriel Naddaf.”

https://www.facebook.com/padregabrielit

Con queste parole il coraggioso giornalista e scrittore italiano Giulio Meotti ha voluto presentare Padre Gabriel Naddaf ai lettori del Foglio, in occasione della sessione di dicembre del Parlamento europeo sulla marchiatura dei prodotti israeliani dalla Cisgiordania, marchiatura contro cui il Foglio ha lanciato una campagna che ha raccolto oltre cinquemila firme.
Riportiamo per esteso l’articolo di Meotti raggiungibile a questo link: http://www.ilfoglio.it/…/scegliete-o-con-isis-o-con-israele…

“Si tratta di antisemitismo”, ha esclamato Naddaf. “La marchiatura dei prodotti israeliani tradisce il nucleo del patrimonio cristiano dell’Europa, ed è un ulteriore segno dell’indebolimento dei valori cristiani in Europa”.
Poi l’accusa di ipocrisia rivolta a Bruxelles: “Mentre l’Europa è occupata nella marchiatura dei prodotti israeliani, le terre in tutto il medio oriente e l’Africa sono inzuppate del sangue dei cristiani. In medio oriente c’è un solo paese dove i cristiani possono vivere in sicurezza, in cui possono prosperare, e dove ci sono la libertà di espressione e quella religiosa. In quel paese i cristiani sono in grado di praticare le loro tradizioni religiose, possono essere eletti al Parlamento e hanno pieni diritti democratici. È l’unico paese del medio oriente, dove la popolazione cristiana cresce e prospera.
Questa è la nazione ebraica, la nazione di Israele. E noi, i cristiani, dobbiamo proteggere questa terra santa, che è la fonte della fede cristiana”.

Non si era mai sentito nulla di simile in un’aula del Parlamento europeo. Naddaf è una figura unica in medio oriente. Leader carismatico della chiesa greco-ortodossa in Israele, il sacerdote deve andare in giro con la scorta messagli a disposizione dalle autorità israeliane. La “colpa” di Padre Naddaf è quella di denunciare la sorte dei cristiani nel mondo arabo-islamico e di essere filoisraeliano. Si capisce perché sulla testa di Naddaf pesa oggi una taglia promossa dagli islamisti. La sua vita è in pericolo. È stato definito “un traditore” e “un apostata”.

I suoi pneumatici sono stati trinciati più volte e stracci insanguinati vengono spesso lasciati fuori da casa sua. Il sacerdote viene regolarmente minacciato al telefono e il figlio è stato aggredito fuori casa da un giovane brandendo una mazza di ferro. “Gesù era ebreo, di famiglia ebraica e parlava aramaico, non arabo”, dice al Foglio Padre Naddaf. “Dobbiamo sempre ricordarcelo. Ogni cinque minuti un cristiano viene ucciso in quanto cristiano in medio oriente. In Siria, c’erano due milioni di cristiani, oggi sono solo duecentomila. In Iraq, nel 2000, c’erano quattro milioni di cristiani, mentre ora ce ne sono solo trecentomila. I massacri quotidiani vissuti dai cristiani hanno aperto gli occhi dei loro correligionari in Israele, dove invece c’è una comunità cristiana che cresce ogni anno di più”. Secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme, erano 158 mila i cristiani in Israele nel 2012. Alla fine del 2014 erano 163 mila, cinquemila in più. Ma soprattutto, dal 1948 a oggi il loro numero totale è più che quadruplicato.

“Il nostro debito verso la Terra Santa passa attraverso la protezione di Israele e della sua democrazia”, ci spiega Padre Naddaf.
“Altrove, i fanatici islamici sono ansiosi di uccidere cristiani. Soltanto in Israele possiamo prosperare. E’ il tempo della chiarezza. Cosa aspettiamo a dire la verità? Israele deve essere forte anche per noi minoranze. Ogni giorno rivolgiamo appelli per salvare i cristiani del medio oriente ma nessuno risponde. Perché?”.

A quanto risulta, il Dipartimento di stato americano intende designare come “genocidio” gli attacchi perpetrati dallo Stato islamico contro gli yazidi, escludendo così i cristiani. “Perché quando il califfo promise di eliminare la cristianità i nostri capi non dissero nulla?”, continua Naddaf. “Io non ho paura, andrò avanti a dire la verità, ovvero che come cristiani non possiamo che stare dalla parte del popolo ebraico e che Israele è l’unico paese che non cerca di buttare fuori i cristiani, costringendoli a cercare rifugio. Coloro che vogliono distruggere lo stato ebraico stanno firmando anche la condanna a morte degli ultimi cristiani liberi in Terra Santa”.



I NEMICI D'ISRAELE HANNO RUBATO IL NOME "PALESTINA"
https://www.facebook.com/padregabrielit ... 0018035352
La convinzione errata (ma comune) che gli ebrei colonialisti abbiano invaso un paese chiamato Palestina e ne abbiano sradicato gli abitanti autoctoni è completamente falsa. Innanzitutto, il popolo della Palestina che ha le radici più profonde in quella terra è il popolo ebraico, i cui parenti e antenati vi hanno vissuto (in varia misura) per diverse migliaia di anni. In secondo luogo, la maggior parte degli arabi che fuggirono dalla Palestina tra il 1947 e il 1949 lo fecero perché erano sicuri che i loro compatrioti arabi dell'Egitto, dell'Iraq e di altri paesi sarebbero riusciti a rendere la Palestina Judenrein.

E' giunto il momento di ricordare agli arabi e alla comunità internazionale che gli ebrei sono i veri palestinesi. Altrimenti, come mai esistono un Talmud palestinese e un giornale ebraico chiamato The Palestine Post? Come mai, fino alla creazione d'Israele, gli ebrei erano noti come "i palestinesi"? Come mai Immanuel Kant si riferiva agli ebrei in Europa come ai "palestinesi tra di noi"? Come mai c'è una Stella di Davide sulla bandiera della Palestina del 1939? Come mai la rivista dell'Organizzazione Sionista d'America si chiamava New Palestine? Come mai la Compagnia Elettrica Israeliana si chiamava originariamente Compagnia Elettrica Palestinese? Come mai il principale fondo di finanziamento dell'Organizzazione Sionista Mondiale si chiamava Palestine Foundation Fund?

La risposta è: "Perché la parola Palestina indica la terra che, per migliaia di anni, è stata l'incubatrice dell'identità ebraica".

Il nome Palestina era stato imposto agli ebrei dall'Impero Romano nel 135 d.C., quando l'imperatore Adriano aveva voluto cancellare ogni traccia ebraica da quella terra, che si chiamava Giudea. E' quindi più che comprensibile che nel 1948 i leader dell'Yishuv (la comunità ebraica che già abitava quella terra prima dell'indipendenza) non abbiano voluto mantenere il nome Palestina per lo Stato che finalmente l'ONU aveva deciso di riconoscere, ed abbiano scelto di chiamarlo Israele (anche Giudea era tra i nomi presi in considerazione). Ma non dobbiamo lasciare che gli arabi e i loro sostenitori israelofobici si approprino dei nomi "Palestina" e "palestinese" come parte della loro campagna di delegittimazione. La Palestina era ebraica, non è mai stata araba. Il linguaggio è tutto. Rinunciando all'uso corretto delle parole, e permettendone la rimozione dal contesto storico, la realtà dei fatti è sminuita o persa del tutto.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 12:51 pm

VENETO SERENISSIMO GOVERNO
Ufficio di Presidenza

L'islamofobia non c'entra niente con l'antisemitismo

Mi trovo a constatare il fatto che, troppo spesso, per analizzare la realtà che viviamo ci si affida all'ideologia e si tende all'auto-censura attraverso un'ostentazione di perbenismo; per questa eccessiva preoccupazione di risultare offensivi per la sensibilità altrui, si arriva al punto di mascherare i fatti, si smussano gli angoli, fin quasi ad accusare sé stessi dei crimini subiti.
Molti commentatori, evidentemente, utilizzano una lente deformata da una propaganda strisciante per analizzare gli attacchi terroristici, una lente che viene deformata da millenni di antisemitismo (antigiudaismo, antisionismo), o addirittura una lente rotta dalla propaganda terzomondista in cui si usano stereotipi razzisti per giustificare coloro che compiono gli attentati.
Una certa ideologia, che io vedo all'interno di quella che, secondo me è una pseudo sinistra, con un volo pindarico arriva al punto di accostare l'islamofobia all'odio antiebraico. Anche qui è necessario evitare la mistificazione della realtà, poiché omologa tutto, azzerando le differenze, arrivando a legittimare l'invenzione di fatti e fonti che non sono mai esistiti pur di far stare in piedi affermazioni assurde come quella appunto che individua una similitudine, per non dire una identità, tra odio antiebraico ed islamofobia.
È bene ricordare che la paura per l'islam risiede nel fatto che la matrice dei numerosi attentati terroristici che sono avvenuti in questi primi anni del XXI secolo (e non solo) sono di matrice islamica (gli attentatori si sono esplicitamente rifatti alla loro religione per giustificare i massacri e le violenze). A che religione si rifacevano gli attentatori dell'11 settembre 2001, quelli di Bali, Madrid, Beslan, Mosca, Londra, Parigi, Gerusalemme, Tel Aviv, ecc.?

Ma mi sembra altresì opportuno ricordare che le violenze in siria, iraq, iran, afghanistan, libia, nigeria, “isis”, ecc. sono perpetrate in nome dell'islam.

Mi sembra interessante sottolineare che il terrorismo dei “palestinesi” nei confronti di Israele viene legittimato anche attraverso una pretesa islamica su Gerusalemme. Questa si fonda sul fatto che sarebbe la terza città sacra per l'islam poiché nel corso di un presunto viaggio “interstellare” di maometto, il cavallo di questi avrebbe posato uno zoccolo a Gerusalemme (anche se il corano non cita mai il nome di Gerusalemme). Questo tipo di mitologia, quando viene considerato storia, non solo da quanti l'hanno inventata ma anche dal resto del mondo, può arrivare a deformare talmente la realtà da portare a ignorare qualunque elemento archeologico, storico, documentale descriva e narri il legame tra Gerusalemme ed il popolo ebraico.

È ormai palese che le violenze di Colonia sono state fatte da islamici nei confronti di donne occidentali, in maniera collettiva ed in un certo senso strutturata; con l'avvallo culturale offerto dal fatto che l'islam considera le donne come proprietà degli uomini, e che ritiene parte della conquista di terre, popoli e nazioni lo stupro collettivo delle donne delle popolazioni che l'islam vuole assoggettare. Questo fatto, come anche gli attentati sopra citati e quelli che purtroppo continuano ad essere compiuti quotidianamente, sono basati su fonti chiare, chi decide di ignorarli lo fa sapendo che sta narrando una favola, che sta mentendo a sé stesso ed al resto del mondo. Certo, si può sempre credere al mito del “buon selvaggio”, si può pensare che l'islam sia una minoranza da tutelare e difendere anche a scapito della propria sicurezza, nonostante i numeri e le azioni dicano esattamente il contrario. Ma non si può negare che una certa fobia, il comportamento dell'islam la può giustificare. La storia contemporanea e la cronaca ci raccontano che spesso, vari imam, ovunque nel mondo, hanno predicato l'odio verso l'occidente, o per meglio dire l'odio verso tutti coloro che la pensano in maniera diversa. Non si tratta di fare di tutta l'erba un fascio ma di constatare il fatto che, purtroppo, sono pochi gli islamici che pubblicamente denunciano il terrorismo, che accusano l'antisemitismo, che vogliono vivere in un clima di reciprocità pacifica.

Parlando di antisemitismo, invece, troviamo che tutte le teorie che avvallano questa ideologia criminale trovano le loro radici nella menzogna e nell'odio verso il diverso. L'antisemitismo si radica in quello che fu l'antigiudaismo che, a partire dall'assurda accusa di deicidio perpetrato dagli ebrei, giustificò tutta l'azione nel medioevo ed in età moderna della chiesa e dell'inquisizione che ha considerato noi ebrei responsabili di ogni male al mondo, attribuendoci ogni tipo di colpa, costringendoci a conversioni forzate o uccidendoci, e in ogni caso distruggendo tutti i nostri libri e rubando tutti i nostri beni. In età contemporanea la scena non cambia gli ebrei sono sempre considerati colpevoli di tutto, e nel clima laicista post rivoluzionario francese l'antigiudaismo diviene antisemitismo, il problema non è più la religione ebraica e la morte di cristo ma il pretesto secondo il quale gli ebrei tendono a non integrarsi con il resto della società e quando lo fanno, a detta dei detrattori, lo fanno con secondi fini, con lo scopo di acquisire potere e di controllare la società, un esempio di documenti falsi su cui vengono costruite le azioni scellerate compiute assecondando queste stupidaggini sono i “protocolli dei savi di sion”.
Arrivando agli anni post Shoah, vediamo che l'odio antiebraico viene legittimato attraverso una nuova definizione: antisionismo. Ora dopo 6 milioni di morti non è più possibile per i “benpensanti” attaccare gli ebrei, ma diviene con un artificio lessicale possibile definire il proprio odio antiebraico attraverso l'odio verso lo Stato d'Israele, non è l'ebreo come singolo che viene odiato ma lo Stato ebraico. Si tratta di un odio collettivo/individuale verso l'ebreo che ha avuto l'ardire di formare uno Stato democratico, l'ebreo che ha imparato a difendersi, l'ebreo che non si presta ad essere un elemento di folkore ma che diviene entità politica indipendente.

Allo Stato d'Israele viene attribuita ogni sorta di colpa sia a livello internazionale ma anche, purtroppo ed ovviamente, a livello interno: se si difende dagli attentati non va bene, se si ritira da Gaza non va bene, se fa la pace con gli Stati contermini non va bene, se nel suo parlamento siedono deputati arabi non va bene, se tutte le libertà fondamentali vengono tutelate e difese non va bene, se investe in sanità non va bene, se combatte la desertificazione non va bene, se condanna coloro che commettono reati (sia che siano ex premier, ex presidenti, o terroristi) non va bene. L'unica cosa che andrebbe bene per gli antisionisti è, evidentemente, lo scioglimento dello Stato d'Israele, l'assimilazione degli ebrei e magari l'abbandono dell'ebraismo... e quindi la storia riparte come un ciclo infinito di odio che si cerca di legittimare adducendo fatti mai avvenuti. Per gli antisemiti/antisionisti è diventato principio base la regola del gerarca nazista Goebbels “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”.
Questo excursus per dire che è quanto meno inappropriato accostare odio antiebraico ad islamofobia. Perchè il primo parte da un pregiudizio infondato di odio verso gli ebrei, mentre la seconda attiene l'esperienza di una paura causata dal terrorismo di matrice islamica.

Noi non possiamo fare la parte nostra come società occidentale e fare anche la parte dell'islam.
Da parte nostra dobbiamo mantenere una base etica che si fondi su principi morali alti: l'amore per la vita e il rigetto della morte. Un'etica che non sia solo enunciazione ma che sia vita vissuta e condivisa.
Da parte loro, gli islamici e le loro società se vogliono dimostrare di essere diversi lo devono fare combattendo essi stessi il terrorismo, devono vivere in un clima di reciprocità con l'occidente senza usare la minaccia e la violenza, e quando vengono nelle nostre città sia come turisti che come immigrati devono rispettare le nostre leggi e le nostre tradizioni, e non devono tentare di convertirci al loro credo ma neppure al loro stile di vita.
Non è mistificando la realtà ed assimilando parole assai diverse per significato e storia che si risolvono i problemi, e le tensioni esistenti oggi a causa della forte ondata di violenza terroristica che ci sta colpendo. E' naturale avere paura, la paura è una reazione sana ad una situazione di pericolo, ciò che può fare la differenza è la capacità di affrontare e superare la paura, agendo e reagendo alle aggressioni quando è necessario.

Longarone 26 gennaio 2016

per il Veneto Serenissimo Governo
il Vicepresidente
Demetrio Shlomo Yisrael Serraglia

Veneto Serenissimo Governo
casella postale 24 - 36022 Cassola (VI)
VENETO
pepiva@libero.it- kancelliere@katamail.com
Tel. +39 328 7051773 - +39 349 1847544 - +39 340 6613027
www.serenissimogoverno.eu
www.radionazionaleveneta.org
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 12:52 pm

Non celebrate gli ebrei morti se non rispettate quelli vivi


di Flaminia Sabatello

26 gennaio 2016

http://www.linformale.eu/non-celebrate- ... -sabatello

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa a proposito della Giornata della Memoria, ma vi confesso che mi riesce molto difficile farlo per svariati motivi. In primis perché detesto le giornate dedicate a qualcosa, mi sanno tanto di “contentino”, come a dire “va beh, questa è la vostra giornata, da domani però non rompeteci più”. Bello sarà il giorno in cui non ci saranno più giornate dedicate a nulla, vorrà dire che ci saremo finalmente trasformati in un Paese civile.

Tornando alla Giornata della Memoria, quello che purtroppo ormai da qualche anno è diventato lo sport nazionale, eccolo rispuntare puntuale anche quest’anno; fateci caso, non c’è un post che parli di Shoah dove, immancabilmente, arriva qualcuno a paragonare quei morti con gli attuali palestinesi. Sempre, ovunque.

E chissenefrega se quei 6 milioni di morti non c’entrano niente con un conflitto iniziato tre anni dopo la guerra, chissenefrega se si paragona un genocidio di un intero popolo studiato a tavolino con un popolo triplicato in 70 anni. Chissenefrega se durante la Shoah le vittime erano solo da una parte e invece nel conflitto israelo-palestinese i morti sono da entrambe le parti. Chissenefrega se in 3 anni di conflitto in Siria è morto il quadruplo dei palestinesi morti in 70 anni di conflitto, mica si possono incolpare gli ebrei in quel caso, e allora pace, che li nominiamo a fare quelli che sono vittime di un vero genocidio,se proprio si sente il bisogno di fare paragoni tra genocidi.

Per questo ormai da anni il 27 gennaio evito caldamente di andare a leggere i commenti sulle pagine che parlano della Shoah,per salvaguardare quel poco di fegato che ancora mi resta, e perché a guardare dentro l’abisso, si rischia di caderci dentro.
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Re: Rasixmo contro łi ebrei

Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 12:52 pm

Giorno della Memoria, Netanyahu: “In Europa ebrei nel mirino”. Juncker: “Intollerabile che si debbano nascondere”
Il premier israeliano: "Gli ebrei sono di nuovo colpiti per il solo fatto di essere ebrei, le comunità vivono in una paura crescente. Vediamo un odio collettivo". Il presidente della Commissione Ue: "Gli attacchi agli ebrei sono attacchi a tutti noi. Siamo determinati: mai più perché un'Europa di odio la rifiutiamo"
di F. Q. | 26 gennaio 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01 ... re/2408551

In Europa gli ebrei sono ancora a rischio, nel mirino, “condannati a nascondersi”, “colpiti per il solo fatto di essere ebrei”. Questo accade oltre 70 anni dopo l’Olocausto pianificato dal nazismo. A dirlo è il premier di Israele Benyamin Netanyahu, ma prima di lui lo stesso concetto era stato espresso dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. “‘Condannati a nascondersi’. Non avrei mai immaginato di leggere titoli così nella mia vita – ha detto Juncker in un messaggio in occasione del Giorno della Memoria – Non avrei mai immaginato che un rabbino a Marsiglia avrebbe dovuto dire alla sua comunità che sarebbe meglio nascondere la kippah, non avrei mai immaginato che le scuole ebraiche e le sinagoghe avrebbero dovuto essere protette, non avrei mai immaginato un’Europa dove gli ebrei si sentono così insicuri da far raggiungere il picco più alto d’immigrazione verso Israele”. Secondo Juncker, “settantuno anni dopo la liberazione di Auschwitz questo è intollerabile”. “L’Europa – conclude il presidente della Commissione Ue – non può accettare e non accetta questo. Gli attacchi agli ebrei sono attacchi a tutti noi, contro il nostro modo di vivere, la tolleranza e la nostra identità”. Per questo “siamo determinati: mai più. Perché un’Europa di odio è un’Europa che noi rifiutiamo. Perché un’Europa senza ebrei non sarebbe più Europa”.

Alle parole di Juncker si aggiungono quelle di Netanyahu: “In Europa e altrove gli ebrei sono di nuovo colpiti per il solo fatto di essere ebrei – dichiara il premier israeliano – Nel mondo le comunità ebraiche vivono in una paura crescente. Assistiamo ad un antisemitismo diretto contro i singoli ebrei, e vediamo un odio collettivo contro gli ebrei, contro lo Stato ebraico“. Per il capo del governo “gli estremisti islamici incorporano il più oltraggioso antisemitismo nelle loro dottrine omicide. Ma anche rispettati opinion leader dell’Occidente hanno cominciato ad infettarsi con l’odio verso il popolo ebraico e Israele”. Netanyahu – che ha sottolineato l’importanza del Giorno della Memoria – ha concluso affermando che oggi “noi possiamo proteggerci e difendere la nostra libertà. Siamo cambiati, ci siamo e parliamo forte in nostra difesa”.
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