Libertà di pensiero, di critica contro i dogmi e l'idolatria

Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » lun feb 29, 2016 12:53 pm

NON ESISTE ALCUN CONTRATTO SOCIALE! E HOBBES AVEVA TORTO

http://www.miglioverde.eu/non-esiste-al ... veva-torto

di GUGLIELMO PIOMBINI
Il Problema del’autorità politica. Un esame del diritto di obbligare e del dovere di obbedire di Michael Huemer (Liberilibri) è un capolavoro di filosofia politica destinato a diventare un classico del pensiero libertario. L’autore insegna filosofia all’Università del Colorado e si definisce un “estremista ragionevole”. Le sue riflessioni, infatti, prendono l’avvio da premesse condivise da tutti, ma giungono a conclusioni radicali. Con uno stile chiaro e pacato Huemer dimostra che solo una società anarco-capitalista è compatibile con le convinzioni morali più comuni.
Il problema centrale affrontato nel libro è quello della giustificazione dell’autorità politica. Per quale motivo, si chiede Huemer, 535 persone a Washington hanno il diritto di dare ordini a 300 milioni di altre persone? E perché gli altri devono obbedire? E per quale ragione, potremmo chiederci noi, 945 personaggi di dubbia levatura morale e intellettuale riuniti a Roma possono comandare su 60 milioni di persone che abitano la penisola italica? Secondo Huemer nessuna filosofia politica, tra quelle più accreditate, riesce a dare una risposta soddisfacente a queste domande.

NON ESISTE ALCUN CONTRATTO SOCIALE
Stando alla teoria più diffusa, esisterebbe un patto tra lo Stato e i cittadini in base al quale il primo si impegna a fornire alcuni servizi pubblici e i secondi a rispettare le leggi e a pagare le tasse. I moderni teorici del contratto sociale spiegano che si tratta di un accordo implicito, tacitamente approvato dagli individui con il proprio comportamento anche se non l’hanno realmente sottoscritto. Huemer riesce però facilmente a dimostrare che, nel caso del contratto sociale, non ricorrono nemmeno le condizioni minime richieste per la validità di un contratto tacito, a partire dall’eccessiva onerosità e dall’impossibilità di recesso.
Huemer demolisce anche la variante del contratto sociale elaborata da John Rawls, secondo cui gli attuali sistemi socialdemocratici sarebbero il risultato di una ipotetica contrattazione tra individui razionali posti in una posizione originaria di assoluta uguaglianza. Il celebrato filosofo di Harvard tuttavia non ha spiegato le ragioni per cui tutti coloro che partecipano all’accordo iniziale dovrebbero essere favorevoli alla creazione di un governo statale con le caratteristiche a lui gradite. Niente, ad esempio, autorizza l’autore di Una teoria della giustizia a escludere, tra le persone ragionevoli che si trovano a discutere nella posizione originaria, coloro che non vogliono sottostare a nessun governo, come gli anarchici.
Huemer critica anche il linguaggio filosofico contorto, asettico e da iniziati, usato da Rawls e da molti suoi colleghi. Il “filosofese” ha la funzione di ammorbidire gli ostacoli emotivi all’accettazione dell’autorità dello Stato e incoraggiare atteggiamenti di rispetto e di sottomissione alle istituzioni di potere. Serve ad agghindare con abiti sobri e civili la discussione su chi dovrebbe essere sottoposto a violenza.

HOBBES AVEVA TORTO
Un argomento di tipo più utilitarista afferma che se molti cittadini si rifiutassero di obbedire alle leggi e di pagare le tasse lo Stato crollerebbe lasciando la società nel caos più completo. Il risultato, secondo la spaventosa descrizione dello stato di natura fatta da Thomas Hobbes, sarebbe la guerra costante di tutti contro tutti. Non ci sarebbero industria, commercio o cultura, perché ognuno cercherebbe di depredare il prossimo e vivrebbe con la paura costante di una morte violenta. L’autorità politica è dunque giustificata dalla necessità di impedire le terribili conseguenze derivanti dall’assenza di un governo.
Questo scenario catastrofico sembra però poco realistico, anche perché non è facile portare degli esempi storici a suo sostegno. Le famiglie e gli individui che convivono in aree isolate, lontane dalle istituzioni governative, normalmente non si comportano nel modo ipotizzato da Hobbes. In tali circostanze aggredire i propri vicini per rapinarli sarebbe un comportamento veramente illogico. I rischi di attaccare qualcuno dotato di una forza analoga alla propria superano di gran lunga i benefici, perché l’aggredito o i suoi famigliari potrebbero difendersi o reagire in ritorsione. Gli atteggiamenti violenti inoltre suscitano la diffidenza degli altri abitanti, che adotterebbero misure preventive.
La verità è che, con buona pace di Hobbes, la maggior parte degli esseri umani non è sociopatica, ma desidera vivere in pace col prossimo. La grande maggioranza delle persone ha forti obiezioni morali e forti sentimenti negativi nei confronti della violenza e del furto, e quando la prudenza e la morale puntano verso la stessa direzione, osserva Huemer, praticamente tutti sceglieranno quel percorso.
Prendiamo un esempio moderno, quello del Far West americano. Il 98 per cento degli uomini del West lavoravano duramente tutto il giorno, e mai si sarebbero sognati di attaccare il prossimo. Malgrado l’assenza dello Stato, i fuorilegge non superavano il 2 per cento della popolazione, e quasi mai riuscivano a farla franca. Il maggior storico della Frontiera, Frederick Jackson Turner, ha giudicato “miracoloso” il modo pacifico con cui vennero colonizzati gli immensi spazi dell’Ovest americano. La ragione è chiara: poiché quasi tutti erano armati, non vi era nessuno dotato di una superiorità tale da poter attaccare il prossimo senza correre rischi personali. Nel West la rivoltella Colt veniva chiamata, giustamente, “la grande equalizzatrice”.
Il principio strategico generale, spiega Huemer, è che l’uguaglianza di potere genera il rispetto. Nessuna persona razionale ha interesse a entrare in un conflitto violento con avversari che hanno la stessa forza. Le probabilità di perdere il conflitto sono troppo alte. Anche il vincitore apparente, probabilmente, starà peggio che all’inizio del conflitto, perché il danno causato dal combattimento è quasi sempre maggiore del valore delle risorse che vengono contese. Per queste ragioni gli individui ragionevoli, se non sono costretti, combattono solo battaglie difensive.
L’esistenza dello Stato crea invece un grande squilibrio di potere a favore di alcuni individui, eccitandone i desideri predatori. La presenza all’interno alla società di un’organizzazione enormemente più forte di tutte le altre toglie a coloro che ne fanno parte ogni timore dettato dalla prudenza. I membri dello Stato sanno di non correre alcun rischio di ritorsione, e possono quindi opprimere le proprie vittime in totale sicurezza. All’opposto di quanto pensava Hobbes, è la concentrazione di potere che genera l’abuso.

LE RESPONSABILITÀ MORALI DEGLI AGENTI DELLO STATO
Non è un caso che tutti i grandi crimini di massa siano stati organizzati e portati a termine da un’autorità politica. L’esperienza storica e diversi esperimenti psicologici condotti nelle università americane hanno dimostrato che le persone sono molto più disposte a violare le comuni norme morali quando glielo ordina l’autorità. Infatti, che si tratti dell’agente della polizia segreta che tortura l’oppositore politico o del funzionario di Equitalia che rovina l’imprenditore inducendolo al suicidio, i persecutori giustificano sempre il proprio operato richiamandosi al rispetto dell’autorità. Le frasi tipiche sono: eseguivo gli ordini, facevo rispettare la legge.
Per il giovane filosofo del Colorado queste azioni non hanno scusanti. I funzionari statali non dovrebbero mai eseguire ordini ingiusti: un soldato dovrebbe rifiutarsi di combattere una guerra ingiusta; un poliziotto dovrebbe lasciare in pace una persona perseguitata da norme arbitrarie; un giudice dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per piegare il risultato a favore dell’imputato accusato da leggi inique, assolvendolo o infliggendogli la pena minima possibile. I dipendenti statali che si trovano regolarmente, per le esigenze del proprio lavoro, a prendere parte all’ingiustizia (prendiamo il caso dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate che, come ha denunciato Luciano Dissegna, si arricchiscono rovinando interi settori produttivi) dovrebbero dimettersi e cercare una professione più giusta.
Il fatto che questi dipendenti rischino il licenziamento nel caso non applichino la legge è irrilevante. Supponiamo, ipotizza Huemer, che io ordini al mio autista di fermarsi e picchiare un bambino per strada, minacciandolo di licenziamento nel caso non esegua l’ordine. Se l’autista scende e malmena il bambino, non può discolparsi dicendo “Sto solo facendo il mio lavoro. Non faccio io le regole”. L’autista dovrebbe rifiutare tali ordini, anche se ciò ha come risultato di perdere il suo lavoro, e lo stesso vale per il funzionario di Stato.
Purtroppo queste raccomandazioni di Huemer non vengono quasi mai eseguite. Gli impiegati statali di solito fanno rispettare qualsiasi politica, giusta o ingiusta, venga loro ordinata. Non importa quanto uno Stato sia illegittimo, violento, ladro o corrotto: esiste quasi sempre un ampio numero di dipendenti pubblici pronti a sostenerlo. Questi zelanti impiegati non possono andare esenti da colpe, se non hanno fatto abbastanza sforzi per scoprire dove sta il loro vero dovere morale. Quando cade il sistema politico per cui lavorano, dovrebbero salire sul banco degli imputati.
Se la legittimità dell’autorità statale è dubbia o indimostrabile, allora la disobbedienza agli ordini del governo è giustificata molto più spesso di quanto non sia generalmente riconosciuto. Secondo Huemer sfidare le leggi ingiuste non è mai sbagliato. Non rispettarle in privato è perfettamente accettabile, e sfidarle in pubblico, come fa ad esempio Giorgio Fidenato, è un atto di coraggio encomiabile. Tuttavia la disobbedienza non è moralmente obbligatoria quando appare troppo temeraria. Vista la severità e la credibilità delle minacce comunemente lanciate dallo Stato nei confronti dei trasgressori della legge, scrive Huemer, nella maggioranza dei casi la sfida è troppo azzardata, come sarebbe imprudente, quando un rapinatore ti punta addosso una pistola, rifiutarti di consegnare il portafogli. Ma non è eticamente sbagliato.

LA PSICOLOGIA DELL’AUTORITÀ E LA SINDROME DI STOCCOLMA
Anche per ragioni psicologiche, la sottomissione allo Stato è molto più frequente della disobbedienza. Huemer fa notare che i cittadini sono soggetti a sviluppare nei confronti dello Stato gli stessi sintomi delle persone colpite dalla Sindrome di Stoccolma, quello sconcertante meccanismo psicologico, osservato numerose volte e dettato forse dall’istinto di sopravvivenza, che porta gli ostaggi a solidarizzare con i rapitori.
Infatti, quando una persona è completamente assoggettata a un’altra e non ha alcuna possibilità di fuga, l’unica sua speranza di salvezza consiste nel creare un rapporto di amicizia con il proprio sequestratore. Inconsapevolmente la vittima del sequestro finisce per sviluppare un sentimento di simpatia verso il proprio carnefice, e si illude di vedere in lui dei segni di gentilezza, anche solo sotto forma di mancanza di abusi.
In maniera del tutto analoga, molte persone tartassate, maltrattate o angariate dallo Stato continuano a pensare, a dispetto dell’evidenza contraria, che il proprio Stato sia fondamentalmente buono perché offre qualche servizio, per quanto scadente, o perché non abusa del proprio potere quanto altri Stati nella storia.

L’OBIETTIVO LIBERTARIO: LA CONDANNA UNIVERSALE DELLO STATO E DELLA TASSAZIONE
La depredazione e lo sfruttamento, conclude Huemer, non si verificano solo perché gli esseri umani sono egoisti. Sono necessarie due condizioni: l’egoismo individuale, e il fatto che alcuni individui siano molto più potenti di altri. Le soluzioni stataliste a questo problema sono sbagliate perché rafforzano la condizione stessa che con più probabilità causa il comportamento predatorio: la concentrazione del potere. Occorre invece percorrere la via opposta, favorendo la più estrema decentralizzazione del potere.
Nella seconda parte del libro l’autore spiega nei dettagli come potrebbe funzionare una società priva di un governo centralizzato. La sua proposta coincide in larga misura con il modello anarco-capitalista descritto da Murray N. Rothbard o Hans-Hermann Hoppe: la protezione dovrebbe essere fornita da agenzie private di vigilanza in concorrenza tra loro; la giustizia da arbitri scelti dalle parti; le strade e altre opere pubbliche da associazioni di proprietari come nelle città private americane. Non dovrebbero esserci organi legislativi, perché la Legge emergerebbe dai contratti tra privati, dalle consuetudini o dalle sentenze pronunciate dai giudici sui singoli casi, come nella common law.
Huemer è convinto che prima o poi questa società sarà realizzata, perché intravede nel cammino dell’umanità uno sviluppo intellettuale coerente con un movimento nella direzione dell’anarco-capitalismo. Le generazioni future probabilmente troveranno scontate cose che oggi molti hanno difficoltà a vedere. La risposta negativa alla domanda “Esiste un gruppo speciale di persone con il diritto di utilizzare minacce di violenza per costringere tutti gli altri a obbedire ai loro ordini, anche se questi sono sbagliati?” potrà sembrare talmente ovvia da non meritare neanche una discussione.
La condanna universale della tassazione, in quanto istituzione malvagia e degradante, potrebbe rappresentare una conquista di civiltà paragonabile al rifiuto della schiavitù. La tassazione infatti autorizza alcuni individui, proprio come nei sistemi schiavistici, ad espropriare con la forza i frutti del lavoro di altri. Le persone ragionevoli dovrebbero riflettere su quanto sangue, dolore e violenza è costata all’umanità l’accettazione della pratica della tassazione. I giganteschi apparati fiscali, con i loro controlli asfissianti, le costrizioni, le intimidazioni e le confische non avvelenano forse l’intera vita sociale? Non sono pratiche indegne delle persone civili, come ha denunciato anche il filosofo tedesco Peter Sloterdijk? La risposta di Huemer sembra chiara: la sopravvivenza degli Stati e dei loro barbarici sistemi di tassazione appare sempre più incompatibile con il progresso morale dell’umanità.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » lun mar 07, 2016 12:04 pm

No xe łe rełijon e łe fedi ke łe ne porta ła spirtoałetà parké ła spertoałtà ła xe na despoxision natural e ogniversal ca ghè xa ente ogni creadura come esensa de ła vida; łe fedi, i credi, łe rełixon łe xe lomè na enterpretasion, na deformasion, na manepołasion de ła spertołetà natural e 'nte sto senso łe xe tute pagane e eidołatre.

Non sono le religioni e le fedi che portano all'uomo la spiritualità, perché la spiritualità è una disposizione naturale e universale che c'è già in ogni creatura come essenza della vita; tutte le fedi, i credi, le religioni non sono altro che interpretazioni, deformazioni, manipolazioni della spiritualità natural e in questo senso sono tutte pagane e idolatre.



L'ombra di dio. Diverse Interpretazioni Della Comune Origine - Ebraismo, Cristianesimo e Islam

https://www.youtube.com/watch?v=J8Pv4XRC1bo
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » lun mar 07, 2016 4:12 pm

"Dal 2084 islamico non c'è scampo: siamo già sottomessi"

Eleonora Barbieri - Dom, 06/03/2016

http://www.ilgiornale.it/news/2084-isla ... ok+Interna

«Sì, in effetti in Francia il mio libro è andato bene...». Boualem Sansal sorride, è in una strada del centro di Roma a «prendere un po' d'aria», e il vento gli fa svolazzare i capelli lunghi e grigi sugli occhiali, sulla faccia. Sorride anche quando dice che «è vero, mia moglie in Algeria ha avuto dei problemi, non può più insegnare».

Per colpa sua? «Sì, per colpa di quello che scrivo, di quello che dico». Sorride e rimane tranquillo, incredibilmente tranquillo, ma come fa? «E che altro posso fare?» dice lo scrittore algerino, 66 anni, una serie di libri in cui ha criticato il fondamentalismo islamico fino all'ultimo, 2084. La fine del mondo (appena uscito in Italia, pubblicato da Neri Pozza) che in Francia è stato un caso e ha vinto anche il Grand Prix du Roman de l'Académie française. È il Grande fratello di Orwell, un secolo dopo, islamico: il mondo dell'Abistan, dove donne e uomini girano coperti dal burni, dove si vive fra delazioni, lapidazioni, guerre sante e manipolazione mentale, dove l'unica legge è il Gkabul, la parola non caritatevole del dio Yölah e del suo Delegato, Abi, fatta rispettare dall'Apparato e inculcata con una lingua nuova, l'abiling. Solo Ati, l'ateo protagonista, si lascia sedurre dalla ribellione del pensiero e della libertà fra desolazione, rovine, fame, bruttezza. «Perché quando si distrugge l'umanità che c'è nell'uomo, allora si distruggono anche la bellezza, la ragione e l'amore».

Ma perché ha scritto un libro così duro e fosco?

«Perché la realtà è dura e fosca. E perché vivo in un Paese dove tutti siamo chiamati in causa direttamente, minacciati dalla situazione. È il mio modo di difendermi da questa situazione».

Di quale situazione parla?

«Ha grandi punti di contatto con quello che succede in Siria e in Irak: quello che succede lì viene conquistando sempre più aree e Paesi, per esempio la Libia. E si esprime nel terrorismo».

È pessimista?

«Lo sono, però non è la parola giusta... Piuttosto mi sforzo di fornire una analisi lucida della realtà. È la situazione che è così».Vede arrivare il 2084?«È sempre un romanzo, la realtà è ben più complessa. Però la situazione è dura e drammatica. Faccio l'ipotesi che quello che abbiamo visto in Afghanistan, in Algeria, in Mali si evolverà e assumerà forme diverse».

Tutti i Paesi saranno islamizzati?

«Se l'Italia sarà islamizzata, possiamo dire fin da ora che l'islamismo di marca italiana non sarà quello afghano. Ma come sarà è impossibile dirlo».

Ci sono segnali?

«Per esempio, in Francia osservo quello che si sviluppa in certi quartieri di certe città, come Parigi e Lione: è una situazione assolutamente affine a quella che si vede in Egitto o in altri Paesi del mondo arabo musulmano. L'islam in ascesa in quei quartieri è lo stesso che da noi in Algeria».

Ma perché l'islam ha così presa?

«Questa è una grossa domanda. Ha presa dappertutto nel mondo, ormai. Una presa fortissima, e non solo sulle persone più sprovvedute di mezzi intellettuali e materiali, ma anche su quelle abbienti e formate, con educazione e cultura. Questo è ciò che è più sorprendente. Perciò si può pensare che dietro l'ascesa dell'islam ci sia una strategia, molto intelligente, perché riesce là dove il marketing e la pubblicità non riescono a fare presa».

L'Europa è debole? O lo è tutto l'Occidente?

«L'Occidente è un'astrazione. Parliamo dell'Europa, che è una realtà, geografica e culturale. Ecco, io la vedo in uno stato di notevole malattia, dal punto di vista dell'economia, dell'organizzazione della società e sotto il profilo esistenziale. Per me oggi l'Europa è il luogo più fragile del mondo».

Possiamo fare qualcosa per evitare il 2084?

«Senta, non ci credo tanto. Forse potremmo fare in modo che non sia troppo grave, ma è una evoluzione in atto, e grave sarà comunque. Del resto come la si ferma, visto che non siamo riusciti a fermare le crisi delle migrazioni e quella siriana? Non escludo che possiamo trovare una soluzione, ma per ora non ce ne sono».

Ma la fede è per forza legata alla paura e alla guerra?

«Certo. Se non avesse paura, l'essere umano non avrebbe bisogno di inventare Dio. E se uno ha fede, allora per forza si immagina dei nemici: e se c'è un nemico bisogna fare la guerra. È una concatenazione inestricabile».

In 2084 dice che la sottomissione è più importante della fede. Perché?

«La fede è sottomissione. Quando ci rappresentiamo una entità superiore, il solo modo per esprimere la fede verso questo padrone è sottomettersi. Ha visto le dinamiche di branco nelle scimmie?».

Che cosa fanno le scimmie?

«Ognuna va dal capobranco e si sottomette. Credere è sottomettersi, e il non credente non ne ha bisogno».

Quindi lei non crede?

«No, non credo, se si intende una credenza religiosa. L'uomo che non crede non ha paura: può vivere come gli piace, come i bambini. Certo è assai difficile che l'uomo non abbia una fede. Se non crede nella religione, si inventerà una ideologia. E, di nuovo, finirà nella stessa situazione».

Nel romanzo la lingua è centrale, come strumento di potere.

«Certo. La lingua è tutto. È un mezzo di comunicazione, di diffusione della cultura, di formattazione delle persone e della società. Chi detiene la lingua detiene il potere. Infatti nella storia gli Stati hanno sempre cercato di controllare la lingua nazionale».

E la religione?

«È lo strumento per indottrinare il popolo, è cruciale. La socializzazione passa attraverso la lingua. Per esempio, nelle banlieue francesi la lingua di comunicazione usata non è quella nazionale: è l'arabo, o una sorta di gergo».Che significa?«Che lì la socializzazione avviene in modo diverso rispetto al resto del Paese. Che ci sono molte persone, soprattutto giovani, fuori sincrono. Perciò la risocializzazione per eccellenza è insegnare la lingua nazionale».

In Abistan la dittatura inventa una lingua artificiale. Perché?

«Basta un vocabolario di cento parole per trasformare un gruppo di ragazzi in soldati, gente a cui dici: vai a uccidere e loro lo fanno; vai a farti uccidere, e lo fanno. Nell'Abistan è uguale: chi è al potere sa che basta una piccola lingua da inventare affinché le persone si sentano obbligate a usarla. Una piccola, non una grande, che possa esprimere riflessione, pensiero, ricerca...».

Si è ispirato alla neolingua?

«Orwell ha capito bene il rapporto tra lingua e potere, con la neolingua. Io ho fatto la stessa cosa: i poteri religiosi si impadroniscono della lingua, una lingua fatta solo per ripetere sempre le stesse frasi. Però, per imparare questa piccola lingua, devi fare la guerra alle altre; altrimenti, non sia mai, la gente potrebbe continuare a pensare».

Che differenza c'è tra islam e islamismo? È paura di offendere o una deriva vera?

«Entrambe le cose. Islam e islamismo sono lo stesso discorso. L'unica diversità è nel metodo: il musulmano fedele può essere pacifico, l'islamista non lo è. Questa è forse l'unica differenza».

Ha iniziato a scrivere tardi, a cinquant'anni. Come mai?

«È stata la guerra civile degli anni '90 nel mio Paese che mi ha spinto a scrivere. È stato il mio modo di impegnarmi politicamente e di denunciare quelli che avevano messo il mio Paese a ferro e fuoco, i militari e gli islamisti».

E per questo è anche perseguitato. Non ha mai paura?

«Mi sono fatto dei nemici potenti, che non me la perdonano. Da allora la mia vita è difficile. Sono stato fatto fuori dal mio lavoro, mia moglie ha perso il suo, sono insultato e minacciato. Bisogna vivere con tutto questo».

Ma con la Primavera araba è cambiato qualcosa?

«Il bilancio delle Primavere arabe è disastroso. Hanno distrutto i Paesi arabi, aperto la strada agli islamisti, rinforzato la dittatura dei militari e la piaga degli oligarchi».

Moriremo islamici?

«È cominciata una fase in cui le persone non diventano musulmane, ma si sottomettono. Già ci siamo, ma ci entreremo sempre più profondamente. Pensa che tutti i sauditi siano veri wahabiti? No, ma per paura e tradizione si sottomettono».

Succede anche in Europa?

«Avviene lo stesso processo di sottomissione: per paura, per educazione, per timore di offendere o per convenienza e interesse. Pensi alla visita qui da voi, a Roma, del presidente iraniano: l'idea di coprire le statue nude è una prova di sottomissione. Per idiozia, per paura, per piccola politica. Il processo nel mio Paese è già compiuto, da voi in Europa avanza a grandi passi».
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » gio mar 24, 2016 4:25 pm

Magdi Allam: "Lascio la Chiesa, che legittima Islam e protegge immigrati" - Il Fatto Quotidiano
di RQuotidiano | 25 marzo 2013

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03 ... ati/541366


“Papalatria” e “buonismo fisiologico” di una Chiesa che legittima “l’Islam come vera religione” e si erge “a massimo protettore degli immigrati – e soprattutto – i clandestini”. La conversione di Magdi Cristiano Allam è durata solo quattro anni e, “in concomitanza con la fine del papato” di Benedetto XVI, è arrivata al capolinea. In un lungo articolo pubblicato su Il Giornale, l’ex vicedirettore del Corriere della Sera dice addio al cattolicesimo, abbracciato il 22 marzo 2008 in San Pietro, alla vigilia di Pasqua, col battesimo celebrato da Ratzinger in cui Maurizio Lupi gli fece da padrino.

Si tratta di “una scelta – spiega – maturata anche di fronte alla realtà di due Papi”, ma ciò che “più di ogni altro fattore mi ha allontanato dalla Chiesa – specifica – è la legittimazione dell’Islam come vera religione di Allah come vero Dio, di Maometto come vero profeta, del Corano come testo sacro, delle moschee come luogo di culto”. Allam, che anche per la campagna elettorale aveva utilizzato slogan contro la religione musulmana, si dice inoltre “convinto che l’Islam sia un’ideologia intrinsecamente violenta così come è stata storicamente conflittuale al suo interno e bellicosa al suo esterno” e ritiene che “l’Europa finirà per essere sottomessa all’islam, così come è già accaduto a partire dal Settimo secolo”, “se non avrà la lucidità e il coraggio di denunciare l’incompatibilità dell’islam con la nostra civilità e i diritti fondamentali della persona, se non metterà al bando il Corano per apologia dell’odio”.

Non solo: per l”ex’ convertito, “è una autentica follia suicida il fatto che Giovanni Paolo II si spinse fino a baciare il Corano il 14 maggio 1999, che Benedetto XVI pose la mano sul Corano pregando in direzione della Mecca all’interno della Moschea Blu di Istanbul il 30 novembre 2006, mentre Francesco I ha esordito esaltando i musulmani ‘che adorano Dio unico, vivente e misericordioso”. Tuttavia, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata “la Papalatria che ha infiammato l’euforia per Francesco I e ha rapidamente archiviato Benedetto XVI“, evidenzia.

Ma l’allontanamento di Magdi Cristiano è dovuto anche ad altri fattori. Ad esempio “il buonismo che porta la Chiesa a ergersi a massimo protettore degli immigrati – e soprattutto – i clandestini”. E lo dice nonostante anche lui rientri nella prima categoria, visto che è nato e cresciuto fino a vent’anni al Cairo, in Egitto. A supporto della tesi, cita anche il Vangelo che “applica” alla sua personale visione: “Io sono per l’accoglienza con regole e la prima regola è che in Italia dobbiamo innanzitutto garantire il bene degli italiani, applicando correttamente l’esortazione di Gesù ‘ama il prossimo tuo come te stesso'”. E conclude: “Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente con il cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l’uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo”.

Te ghè fato benon; mi a xe on toco ke ła go łasà!

Magdi Cristiano Allam l'apostata
viewtopic.php?f=188&t=1854
Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... -Allam.jpg
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » sab apr 23, 2016 12:33 pm

Merkel, Erdogan e quell'Europa che non sa difendere le libertà
Diritto e libertà
23 Aprile 2016
di Simona Bonfante

http://www.stradeonline.it/diritto-e-li ... le-liberta

Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan è un massacratore del più fondamentale requisito dei regimi democratici, la libertà di espressione, sul rispetto della quale l’Europa non può transigere.

L’espressione si manifesta in forme diverse: il giornalismo, l’arte, la narrativa, la satira. La satira offende. Può essere elegante, raffinata o al contrario triviale e superficiale, ma non può essere clemente. La satira deve colpire, ferire e possibilmente annientare. La satira può essere estrema eppure restare satira. Satira è Charlie Hebdo, appunto.

Pochi leader politici hanno senso dell’umorismo. Tutti i leader politici ne sono però bersaglio. Solo i leader politici democratici sono in grado di tollerarlo. Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan non è tra questi. Lo è ancor meno il Presidente russo Vladimir Putin. Erdogan e Putin non si limitano a non tollerare la satira: trovano che l’informazione libera sia un nemico e non si fanno scrupolo di abbatterlo. Turchia e Russia appartengono alla categoria delle “democrature”, infatti, non a quella delle democrazie.

Con il presidente turco Erdogan l’Europa ha un rapporto conflittuale, come d’altronde ce l’ha con il Presidente russo Putin, il Presidente egiziano Al Sisi o il leader iraniano Rouhani. L’Europa istituzionale, l’Europa economica, tuttavia, con quei paesi e con quei leader tratta. Si incontra su interessi comuni, si allea contro nemici comuni. Cede, negozia male, subisce e non sempre è capace di restare Europa.

I capi di Stato e di Governo che compongono il Consiglio europeo, con la Turchia del non-democratico Erdogan, hanno sottoscritto un accordo, entrato in vigore il 20 marzo scorso, che prevede la "restituzione" dalla Grecia alla Turchia dei migranti entrati illegalmente in territorio europeo. L’Europa ricava il (fantomatico) beneficio di arginare il flusso di disperati da Afghanistan, Pakistan, Siria verso le pacifiche capitali europee. La Turchia guadagna 3 miliardi di Euro e la facoltà per i suoi cittadini di muoversi in Europa senza più il visto.

L’accordo è dubbio sotto il profilo dell’efficacia - per una rotta che si chiude dalla Grecia se ne apre un’altra di accesso dall’Italia - e dubbio sotto il profilo giuridico - la Turchia nega lo status di rifugiato agli afgani che fuggono dagli orrori talebani. Si può appaltare alla non-democrazia autoritaria, liberticida, repressiva dei diritti umani di Erdogan la gestione di una questione umanitaria non episodica ma epocale la cui soluzione è eminentemente globale?

Un pessimo accordo, dunque, ma l’unico che l’Europa è stata in grado di concordare. L’unico accordo che i leader europei riuniti in Consiglio si sono risolti a offrire alle opinioni pubbliche nazionali impaurite, confuse, frustrate dalla incapacità delle loro élite di proteggerle, confortarle e dare loro ragione del conflitto tra umanità e possibilità.

In questo quadro irrompe il caso Merkel-Erdogan. È il 31 marzo quando Jan Boehmermann, popolare comico tedesco, recita alla tv pubblica ZDF una poesia dedicata al Presidente turco. Un atto di satira volutamente estremo: riservare al Capo di Stato turco il trattamento che solo in una democrazia i Capi di Stato sono attrezzati a reggere. Gli dà dello zoofilo, puzzolente sodomita di capre. I versi del poeta cantano un Erdogan omosessuale pidocchioso senza palle e sessualmente poco dotato che guarda film pedo-pornografici mentre picchia ragazzine con indosso una maschera di gomma.

Erdogan si rivolge alla giustizia tedesca intentando una causa per diffamazione. Ma l'articolo 103 del Codice Penale, rimasto intonso dall’era prussiana, prevede che se ad essere diffamato è un Capo di Stato straniero, questi possa chiedere al Governo di autorizzare un procedimento penale per lesa maestà. I precedenti nella storia recente richiamano una manciata di episodi: lo shah di Persia Reza Pahlavi e il dittatore cileno Augusto Pinochet. Erdogan segue anche questa via. Merkel concede l’autorizzazione del Governo. In virtù di quell’anacronistico codicillo, Boehmermann sarà giudicato da un tribunale tedesco per lesa maestà.

Nel frattempo il comico si trova semi-recluso nella sua abitazione e sotto protezione della polizia; la ZDF ha rimosso dal sito il video incriminato e la polizia di Berlino ha impedito una manifestazione di protesta davanti all’Ambasciata turca.

La decisione di concedere l’autorizzazione governativa al giudizio della corte è stata comunicata pubblicamente dalla stessa Merkel. La quale ha spiegato di aver ponderato la questione con i ministeri competenti, aver valutato la sussistenza dei requisiti legali del richiedente, ed aver dunque accolto l’istanza perché è la vetusta, commendevole legge tedesca ad imporlo. Si applica la legge che c’è, ma quella legge è sbagliata e va eliminata. Questo ha detto Merkel.

E ha detto anche di più. Ha espresso “profonda preoccupazione” per la persecuzione dei giornalisti e le continue limitazioni ai diritti delle opposizioni perpetrate in Turchia. Ha detto che la libertà di espressione non è un principio negoziabile ed ha rilevato come l’autorizzazione del governo alla causa penale metta Erdogan nella condizione di sottoporsi al giudizio di un tribunale tedesco perché non è il governo che giudica in Germania: sono i tribunali.

L’opinione pubblica tedesca insorge. Insorge l’opinione pubblica europea. Si indigna la stampa del mondo libero - dal Washington Post al Guardian al Foglio. Il britannico conservatore Spectator - lo stesso che appoggia Boris Johnson nella campagna per la Brexit - lancia un concorso di poesia per il componimento più offensivo da rivolgere ad Erdogan. Mille sterline in palio. Possono concorrere solo poemi che rispettino il criterio di essere completamente diffamatori e pienamente osceni. Perché - è la motivazione dell’iniziativa - “la libertà di parola non è una cosa di cui si parla, è una cosa che si fa”.

Insorgono in Germania anche le forze politiche che con Merkel condividono la responsabilità di governo. Il Ministro degli Esteri socialdemocratico, Frank-Walter Steinmeier, ed il collega della Giustizia, Heiko Mass, rivendicano la supremazia del diritto costituzionale alla libertà di espressione e presentano una proposta di legge per abrogare l’articolo del codice che la Cancelliera ha invece deciso di applicare.

L’accusa a Merkel è di prostrarsi alle richieste di un dittatore nei confronti del quale ci sarebbe semmai da esigere. Esigere incondizionato ed immediato rispetto per i diritti umani e civili dei cittadini turchi perseguitati dalle autorità giudiziarie controllate dalle autorità politiche per il solo fatto di aver pubblicato notizie (vere) o giudizi (legittimi) non graditi al Presidente. Dunque come può Merkel fare una concessione così simbolicamente cruciale sul terreno dei fondamenti libertari della cultura europea ad un così arrogante mistificatore di quegli stessi principi?

Merkel non ha compiaciuto Erdogan - ha osservato su Facebook Udo Gümpel, corrispondente per l’Italia della Tv tedesca Rtl-Ntv. “Ha dato al contrario una bella lezione su come funziona uno stato di diritto. Anche un Erdogan qualsiasi ha il diritto di rivolgersi ad un giudice indipendente, a differenza delle migliaia di perseguitati dissidenti in Turchia”.

“In realtà - ha scritto James Kirchick su Politico - lo scandalo dimostra le inintenzionali conseguenze negative della globalizzazione”. “Il benessere economico e la sicurezza dell’Occidente, in generale, e dell’Europa in particolare, dipendono sempre più da regimi illiberali ai quali si è disposti a sacrificare i nostri valori fondamentali. E questo vale tanto per il governo italiano che copre le nudità delle statue capitoline per non offendere il presidente iraniano quanto per i giornali che si rifiutano di pubblicare le immagini di Maometto.”

Auto-censuriamo la nostra libertà per non essere costretti allo scontro con chi quella libertà vuole a tutti gli effetti annientare. Lo facciamo perché non possiamo farne a meno o perché non siamo più così certi dei nostri stessi valori?

Noi che ergiamo muri e rivendichiamo dazi e allestiamo galere per quelli che arrivano con un passaporto che sa di remoto; noi che assecondiamo la paranoia nazionalista, regionalista, identitaria per il timore di perdere la nostra identità, sebbene quella identità sia fondata sulla incondizionata supremazia dell’uomo, la sua dignità, la sua libertà. Noi che avremmo potuto protestare contro l’accordo con la Turchia che tutti i governi europei hanno sottoscritto, ma non l’abbiamo fatto. Noi che onoriamo il sacrifico ucraino a Maidan sbattendo le porte in faccia a quegli stessi partigiani della libertà europea che si sono sacrificati nella piazza di Kiev. Noi che avremmo potuto insorgere contro l’annessione della Crimea da parte di Putin, e per la libertà di un popolo militarmente costretto a tornare sovietico, ma che non ci siamo nemmeno posti il problema se girare la testa di là. Noi ora insorgiamo contro la Merkel.

Merkel avrebbe potuto negare l’autorizzazione al procedimento giudiziario contro il comico tedesco perché la satira è satira ed in Europa la satira è libera. Ma oltre alla libertà di espressione - rivendicare la quale costa davvero nulla - in difesa di quale altra libertà fondamentale della civiltà europea siamo disposti a mobilitarci?
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » dom giu 19, 2016 1:13 pm

Giulio Meotti: «I 30 anni in cui l’Europa ha perso la libertà»
Di: Ilaria Myr
31/05/2016 Milano

http://www.mosaico-cem.it/articoli/attu ... la-liberta

Il massacro a Charlie Hébdo non è stato soltanto un atto barbarico di violenza islamista nel cuore dell’Europa. È stato anche un grande test per tutto l’Occidente e per la libertà di espressione nelle democrazie. E ha dimostrato che stiamo tutti fallendo. È in corso una servile resa su più fronti. La stampa, la politica e i media hanno adottato una politica dell’autocensura forzata”. È sintetizzata in queste poche righe, contenute nelle ultime pagine, la tesi di fondo del nuovo libro di Giulio Meotti Hanno ucciso Charlie Hébdo. Il terrorismo e la resa dell’Occidente: la libertà di espressione è finita (Lindau, 161 pagg, 16 €): un testo in cui l’autore, giornalista de Il Foglio, inserisce la tragica vicenda della strage al giornale satirico francese del 7 gennaio 2015 in un contesto molto più ampio, costellato di altri episodi importanti di limitazione della libertà di pensiero e di espressione che hanno colpito tanti intellettuali, scrittori e registi che hanno “osato” esprimersi sulla religione islamica in termini non apprezzati dal mondo musulmano. Le vicende di Salman Rushdie, autore de I versi satanici, sul quale già nel 1989 venne lanciata una fatwa proprio per i contenuti del libro; del regista olandese Theo Van Gogh, assassinato per strada nel 2004 come ritorsione contro alcune immagini mostrate nel suo film Submission, o della politica e scrittrice somalo-olandese Ayan Hirsi Ali, autrice della sceneggiatura del film di Van Gogh, che vive sotto scorta per le proprie posizioni critiche sulla condizione delle donne nell’Islam: insieme alla strage di Charlie Hébdo sono tutti anelli di una stessa catena, quella della limitazione della libertà di espressione da parte del mondo islamico, nel cuore della civilissima Europa.
Libro Meotti C_Hebdo«La storia di Charlie Hébdo non può essere considerata solo come un tragico episodio francese o che riguarda solo un giornale satirico: è invece il culmine di una guerra che dura da 30 anni, che ha colpito molti scrittori, registi e intellettuali, alcuni dei quali si sa poco – dichiara Meotti al Bollettino Magazine -. E che inizia per i giornalisti del settimanale satirico francese ben prima del 2015, già nel 2006, quando decidono di pubblicare le vignette su Maometto uscite sul giornale danese Jyllands-Posten l’anno prima, che scatenarono una serie di violente proteste nel mondo islamico, sia civile che politico. Seguirà un processo, da cui saranno assolti».
Ma ciò che rende unico questo libro è l’accusa al mondo occidentale di non avere difeso i propri intellettuali quando sono stati tacciati di “islamofobia”, ma anzi di averli colpevolizzati come “irresponsabili”, “masochisti”, mettendo in atto un processo di censura preventiva già trent’anni fa. «Quando uscì Versi satanici, un giornalista tedesco propose di pubblicarne il primo capitolo – racconta – ma si trovò tutti contro. Già allora c’era la tendenza a lisciare la pelle al mondo islamico». Man mano che il tempo passa e che si moltiplicano in Europa le accuse di islamofobia, crescono vertiginosamente gli episodi di censura e autocensura preventiva. Fino ad arrivare a Charlie Hébdo. «Se, anziché accusarli, le testate europee non fossero state accecate dalla codardia e avessero ripubblicato all’unisono le vignette di Charlie Hébdo, i suoi giornalisti probabilmente sarebbero ancora vivi – continua Meotti -. Addirittura Papa Francesco, dicendo che se uno avesse insultato sua madre avrebbe dovuto aspettarsi un pugno, perché ‘Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri’, pronunciò una delle frasi più terribili, che suggeriva che quelli del magazine se la fossero cercata».

Eppure, tutto ciò non accadde quando l’Europa occidentale accolse i dissidenti dell’Unione Sovietica: ci furono degli editori che pubblicarono i libri di Pasternak o di Soleznitsyn, nonostante non mancasse chi li considerava dei disturbatori. È nel 1989, quando Rushdie fu condannato a morte dall’ayatollah Khomeini per il suo libro, che si ha il primo episodio di quella che Nadine Gordimer chiamò allora “condanna a una doppia morte: doppia perché il libro di Salman Rushdie dev’essere cancellato per sempre dalla letteratura mondiale e l’autore deve essere privato dalla vita”. Da allora questa guerra moderna dei 30 anni ha portato a un punto di non ritorno, in cui chi si esprime contro l’islam rischia di morire o, comunque, di perdere sicuramente la propria libertà individuale. «Lo stesso magazine francese non è più lo stesso: Charlie Hébdo è morto – commenta Meotti -. Ma ad averlo ucciso non sono solo i terroristi – che in strada, dopo la strage, urlarono al cielo “abbiamo vendicato il Profeta, abbiamo ucciso Charlie Hébdo” -: è anche tutta l’opinione pubblica occidentale, i media e i politici, che non reagendo alla censura e, anzi, autocensurandosi, hanno portato alla morte anche la libertà di espressione».
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » dom giu 19, 2016 1:13 pm

???

Papa: "Chi non accoglie non è cristiano e non entrerà nel regno dei cieli"
2016/06/18

http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/ ... 3YAgP.html

"Chi non accoglie non è cristiano e non sarà accolto nel regno dei cieli". Papa Francesco, nella sua visita a Villa Nazareth nella capitale, è tornato sul tema dell'accoglienza. "Stiamo vivendo in una civiltà di porte chiuse e di cuori chiusi. Ci difendiamo l'uno dall'altro. C'è una paura ad accogliere e non parlo solo di migranti - che è un problema politico mondiale - ma anche di accoglienza quotidiana. Mi fa male - dice Francesco - quando vedo le chiese a porte chiuse. Ci saranno alcuni motivi giustificabili, ma una chiesa a porte chiuse significa che quella comunità cristiana ha il cuore chiuso".

"Se non accogliamo non siamo cristiani e non saremo accolti nel regno dei cieli: è così", sottolinea il Pontefice invitando alla responsabilità sociale ed ecclesiale. È necessario, avverte il Papa, "insegnare e fare capire che questa è la porta della strada cristiana. L'accoglienza fa fruttificare i talenti. C'è la grande accoglienza di chi viene da terre lontane e la piccola accoglienza di chi torna dal lavoro e dopo una giornata di lavoro ascolta i figli. L'accoglienza è una bella croce perchè ci fa ricordare l'accoglienza che il buon Dio ha avuto ogni volta che noi andiamo da lui per consigliarci e chiedere perdono".

Papa Francesco denuncia l'"immoralità" del mondo economico: "Il mondo economico, oggi come è sistemato nel mondo, è immorale. Ci sono eccezioni, c'è gente buona. C'è gente e istituzioni che lavorano contro questo, ma abbiamo capovolto i valori". Nel suo intervento, una nuova denuncia ai trafficanti di armi: "la guerra è l'affare che in questo momento che rende più soldi. Anche per fare arrivare gli aiuti umanitari in paesi di guerriglia è una difficoltà: tante volte la Croce Rossa non è riuscita, ma le armi arrivano sempre, non c'è dogana che le fermi perchè è l'affare che rende di più".

Il Papa tuona contro le "grandi ingiustizie" e dice "dobbiamo parlare chiaro: questo è peccato mortale. Mi indigna e mi fa male quando - ed è una cosa di attualità - vengono a battezzare un bambino e ti portano uno dicendo 'Lei non è sposato in chiesa quindi non può fare il padrino'. E poi ti portano un altro che è un trafficante di bambini e uno sfruttatore, e ti senti dire 'Ah no, lui è un buon cattolico: abbiamo capovolto i valori".

Alberto Pento comenta
Io non sono assolutamente cristiano e non mi interessa il regno dei cieli dell'idolo Cristo, come non mi interessa la resurrezione dei morti che non ha alcun senso, tamto meno le vergini islamiche. Tu Bergoglio sei un idolatra e quello che dici è disumano e va contro i Dirirtti Umani Universali, sei come i nazi-islam-comunisti, un teocratico totalitario, sei ignorante e presuntuoso. Ringrazio la vita che mi ha dato tanto, che mi ha dato la forza e la gioia di non credere nelle idiozie dei vostri idoli. Non esiste alcun regno dei cieli, esiste soltanto il Creato o la Creazione perennemente in atto che è la manifestazione della potenza e della gloria di D-o che non è certo Cristo o Jahvè o Allà.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » sab gen 28, 2017 5:15 pm

Non capite Charlie Hebdo perché conoscete solo la satira bigotta
Figlia di un Paese dominato dal familismo amorale, la nostra satira non potrà mai essere sanamente nichilista. La vetta irraggiungibile della garbata inoffensività sono le vignette di Giannelli sul Corriere. Ma anche a sinistra Sergio Staino, Ellekappa e perfino Makkox non pungono
di Fulvio Abbate

http://www.linkiesta.it/it/article/2017 ... otta/33080

La satira? Un paese come il nostro, dominato dal familismo (più o meno amorale, poco importa), non potrà mai dotarsi di una vera satira corposamente nichilista, dunque in grado di non fare sconti di pena a nessuno, neppure allo zoppetto, e sarà dunque perfino incapace a comprendere quella altrui, soprattutto se si tratta di una satira - l’Altra - votata a far tabula rasa d’ogni altare, d’ogni tinello, d’ogni spogliatoio di stadio, perfino di un centro commerciale. Un maestro della satira assoluta, il francese Georges Wolinski, ebreo ateo e (già) comunista, per esempio, due anni prima di morire nella strage di “Charlie Hebdo” ci diceva con convinzione assoluta, certo delle conquiste acquisite dopo le barricate del maggio 1968: «Noi, qui in Francia, non crediamo alle menzogne della religione». Quanto basta per ritenere che non ci si può far schiacciare da un’idea di divino venuta al mondo nel tempo in cui gli uomini si accoppiavano con le capre, vorrà pur dir qualcosa se il progresso e la modernità ci hanno fatto dono delle capre gonfiabili, o no? Gli islamisti, storia ormai nota, non hanno preso affatto bene una simile laica disinvoltura. Alle spalle delle sua scrivania, la prima pagina de “l’Aurore”, il “J’accuse…!” di Zola in difesa di Dreyfus. Povero Wolinski, felice erotomane.

D’altronde, basterebbe sfogliare le annate di CH per comprendere il sentimento laico e insieme estraneo a qualsivoglia conformismo che consente di non avere remore neppure di fronte alla morte del padre della Patria, pensiamo qui al modo in cui a CH accolsero la scomparsa del generale De Gaulle: “Ballo tragico a Colombey! 1 morto”. Ne seguì il sequestro e la chiusura immediati del giornale! Eppure da allora nulla fu come prima, la satira vinse la sua battaglia di libertà: sì, esatto: si può ridere anche dei morti, perfino sugli handicappati. Quando, per esempio, sempre lui, Wolinski, scelse di iscriversi al Partito comunista francese, il giornale, parafrasando e soprattutto ribaltando il titolo un suo libro, titolò in prima pagina: “Wolinski ha deciso di morire idiota”. Per non parlare del rotocalco fiancheggiatore di “Charlie”, ossia “Hara Kiri”, su tutte svetta la copertina dove, ribaltando la retorica femminista, c’era modo di scorgere una donna al guinzaglio del suo accompagnatore maschio che orinava a quattro zampe sotto il marciapiede: “Le donne sono cagne! Insegniamo loro a fare pipì nel canale di scolo”. Immagino già, più che l’indignazione, l’opinione stupita, nonostante si ironizzi sulle non proprio amate femministe, dei nostri vicini: e questa sarebbe satira? Ma non è forse vero, come insegnava lo stesso Honoré Daumier, lui, padre patrono della satira, che disegnava i giudici ora arcigni ora ottusi dei tribunali di Francia nell’Ottocento, che il suo obiettivo dovrebbe inquadrare i potenti, lasciando da parte i più deboli, le vittime?

La satira italiana è organica o del tutto inoffensiva. La vetta inarrivabile è quella del vignettista del Corriere Giannelli, le cui vignette sono degne della “Pravda” del grigiore brezneviano

In Italia, per esempio, questo assunto è stato assimilato così bene da avere generato una satira organica o del tutto inoffensiva. Tra catto-comunismo e buon senso piccolo borghese, incapace di andare oltre l’ironia sul difetto fisico dell’onorevole “forchettone”, e sai che sforzo! Escludendo per pudore e rispetto del sarcasmo stesso il vignettista del quotidiano della borghesia lombarda, Giannelli, le cui vignette son degne dell’insignificanza degna della “Pravda” del grigiore brezneviano, ossia un’auto parcheggiata sotto la Torre di Pisa. E vorresti pure che ridessi? Anche a sinistra negli ultimi decenni non c’è che dire a proposito di satira “organica”, ancor più che fiancheggiatrice, penso a Sergio Staino con quel suo consolatorio Bobo destinato a un ormai dissolto popolo delle sezioni, penso ad ElleKappa i cui testi sono degni di un probiviro del Pci-Pds-Ds-PD; al punto che si fa davvero fatica a non immaginarli come impeccabili funzionari di partito. E perfino Makkox, l’albertomanzi al pennarello ufficiale di Zoro, sulla tragedia di Rigopiano ha mantenuto un piano quaresimale, con tanto di retorica sui “soccorritori eroici”.

Mi direte: però c’è stato anche “Il Male”, dove Giuliano ci faceva dono dei monologhi di un Cristo in croce scazzato anziché no, e di Tanino Liberatore che ironizzava su un Wojtyla colpito dalla lebbra durante il suo viaggio in Africa: “Io detto a bambino negro: tu no toccare papa, lui voluto toccare papa, ed ecco frittata!” Convincente, ma la memoria non può non fare ritorno ancora una volta a un’altra firma-martire di CH, Cabu, cui dobbiamo il personaggio del cognato fascistoide e ottuso, “Mon boeuf”, già poujadista poi lepenista, lo stesso che, commentando la notizia della morte del dittatore spagnolo Franco nel 1975, rassicurava se stesso: “Me ne fotto, si vede che andrò in vacanza in Cile”. Mi direte: e con ciò? Volete scherzare? Massacrare in effigie il cognato significa soprattutto porsi fuori dalla difesa implicita del familismo, e questo al di là del fatto che chiunque possa detestare a torto o a ragione i propri parenti acquisiti, immaginandoli non proprio consanguinei in canottiera mentre maledicono governo nel corso del tempo: eccolo il cognato nel 1974 con doberman, eccolo nel 1994 con il codino…

Anche a sinistra negli ultimi decenni non c’è che dire a proposito di satira “organica”, ancor più che fiancheggiatrice: è quella di Sergio Staino, di ElleKappa e perfino di Makkox

A proposito di codino, che dire dello sdegno di Fiorello per la vignetta dedicata alla valanga che ha determinato la strage dell’hotel Rigopiano? Corrisponde all’idea, anzi, all’opinione diffusa assai “turistica” che i “cugini” d’Oltralpe sarebbero in sostanza degli autentici “pezzi di merda” (cit.), e questo perché, “stronzi quali sono”, farebbero bene a occuparsi dei fatti loro, non dimenticate che Mussolini a pochi giorni dalla dichiarazione di guerra dichiarò che “noi desideriamo che non si parli più di fratellanza, di sorellanza, di cuginanza e di altrettali parentele bastarde.” Morale prosaica che serve tuttavia a semplificare e rendere alla portata di tutti il succo amaro del nostro discorso: “…vuoi mettere con quella volta che a Versailles ci fecero pagare una Orangina 10 franchi?” O ancora: “Non ti dimenticare della testata di Zidane al nostro Materazzi!” O per finire: “E poi ci guardano dall’alto in basso, a Parigi il cane lupo, in un bistrot, mi stava dando quasi un morso, e poi, cazzo!, restituiscano la Gioconda, bastardi!”.

Combustibile antropologico di un subcultura sufficiente affinché l’odio che comunque serpeggia verso i nostri stessi consanguinei dentro ciascuno di noi, d’improvviso svanisca, anzi, si reifichi in amor di bandiera, di maglia, di calzettone, di filo di frizione, di libretto di manutenzione del folletto, di bandierone da “mundialito”, e dunque non si tocca il sangue del nostro sangue, giù le mani dai nervi dei nostri nervi, è il grande lucchetto del familismo sta lì a serrare ogni laicità ogni dialettica dentro il baule dell’orgoglio nazionale, d’altronde un popolo si riconosce dal modo in cui occupa la strada con la propria automobile, facciamo una Ritmo: gli italiani? Ritengono che ogni corsia gli appartenga, per spirito ancora una volta familistico, direbbe il romano: “Ce stamo io e mi fijo che annamo a trovà zi’ Ulisse, e tu vattela pija ‘der culo!” Basta osservare il catasto quotidiano delle offese in nome dell’orgoglio trafitto per comprendere che la libera satira in Italia non sa andare oltre le rimostranze per gli arretrati mai giunti; salvo poi alla fine sfogarsi con i dirimpettai sgozzandoli per un parcheggio usurpato. D’altronde, se il nuovo che avanza crede a rettiliani e microchip sottopelle hai voglia di aspettare che risorga l’incendiario.



Charlie Hebdo
viewtopic.php?f=141&t=2400
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » ven feb 10, 2017 6:24 pm

La tolleranza è una strada a senso unico?
Douglas Murray

https://it.gatestoneinstitute.org/9926/tolleranza


Il 7 gennaio scorso è ricorso il secondo anniversario dell'attacco messo a segno da tre uomini armati contro la sede parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, in cui sono rimaste uccise dodici persone, e sono anche passati due anni da quando gran parte del mondo libero ha detto di essere "Charlie" e ha tentato, sfilando per le strade, alzandosi in piedi e osservando un minuto di silenzio o ritwittando l'hashtag "Je Suis Charlie", di mostrare al mondo intero che la libertà non può essere soppressa e che la penna ferisce più del kalashnikov.

Perciò, due anni sono il momento giusto per fare il punto della situazione. Come è andata? Tutti quei "Je Suis" equivalgono a qualcosa di più di un blip su Twitter? Chiunque cerchi di rispondere a questa domanda potrebbe iniziare a guardare la situazione in cui versa la rivista per cui tutti erano così preoccupati. Come se l'è cavata Charlie Hebdo dopo che la maggior parte del suo staff è stata freddata dalla polizia antiblasfemia?

Una manifestazione di protesta organizzata l'11 gennaio 2015 a Parigi dopo l'attacco terroristico a Charlie Hebdo, con gli striscioni con su scritto "Je Suis Charlie". (Fonte dell'immagine: Olivier Ortelpa/Wikimedia Commons)

Non bene, se un banco di prova del benessere del settimanale francese consiste nel vedere se Charlie sarebbe disposto a reiterare il "crimine" per cui è stato attaccato. Sei mesi dopo la strage, nel luglio 2015, il nuovo direttore della pubblicazione, Laurent Sourisseau, annunciò che Charlie Hebdo non avrebbe più pubblicato vignette sul Profeta dell'Islam e disse che Charlie aveva "fatto il suo lavoro" e "difeso il diritto alla satira". Sono state pubblicate altre vignette su Maometto nel numero uscito subito dopo la strage e anche successivamente. Ma Sourisseau ha affermato che il giornale non avrebbe dovuto continuare a farlo. In pochi hanno redarguito lui e i suoi colleghi per questa decisione. Proprio quando quasi ogni altra rivista del mondo libero non riesce a difendere i valori della libertà di parola e il diritto di satira e quello di offendere, chi poteva aspettarsi questo da un gruppo di vignettisti e giornalisti che avevano già pagato un prezzo così alto per aver difeso tali libertà da soli?

Ora, nel secondo anniversario dell'atrocità, una delle figure di spicco del magazine, Zineb El Rhazoui, ha annunciato che lascia la rivista. La giornalista, che è stata definita "la donna più protetta di Francia" a causa della scorta che le è stata assegnata dallo Stato francese, ha dichiarato che Charlie Hebdo si è rammollito con il radicalismo islamico. Zineb ha detto all'agenzia France Press che "Charlie Hebdo è morto [il 7 gennaio 2015]". Il settimanale aveva avuto in precedenza la "capacità di tenere viva la fiamma dell'irriverenza e della libertà assoluta", ella ha affermato. "La libertà ad ogni costo è ciò che amavo di Charlie Hebdo, dove ho lavorato affrontando grandi avversità".

Ovviamente, Zineb El Rhazoui è una persona insolita. E rara, nell'Europa del XXI secolo. Ecco perché ha bisogno della scorta. Molte persone, che hanno detto di preoccuparsi del diritto di dire ciò che vogliono, quando e come vogliono, su qualsiasi cosa – compresa una religione particolarmente austera e suscettibile – intendevano essere coerenti ossia manifestare per le strade di Parigi con una matita in mano. Oppure volevano limitarsi a parlare, proclamando "Je Suis Charlie". Ma quasi nessuno ha fatto sul serio. Se lo avessero fatto – come ha sottolineato Mark Steyn – tutta quella gente non avrebbe dovuto sfilare con le matite alzate, ma mostrando le vignette su Maometto. "Dovrete ucciderci tutti", sarebbe stato il messaggio.

E anche i leader. Se il presidente Hollande e la cancelliera Merkel avessero creduto davvero nella difesa della libertà di espressione, allora, invece di camminare a braccetto a Parigi insieme a un personaggio così inopportuno come il leader palestinese Mahmoud Abbas, avrebbero mostrato le copertine di Charlie Hebdo e detto: "Questo è ciò che sembra una società libera e questo è ciò che sosteniamo: chiunque, i leader politici, le divinità, i profeti, tutti possono essere oggetto di satira, e se questo non vi piace, allora dovreste andarvene in qualunque luogo infernale ottuso e non illuminato che sognate. Ma l'Europa non è il continente che fa per voi".

Piuttosto, due anni dopo la strage, la società europea è diventata silenziosa. Ovviamente, ci sono state occasioni per mostrare l'idea moderna di virtù, spesso usando Charlie Hebdo come sacco da pugilato. Dopo l'attacco armato alla rivista, i censori che ora riempiono le nostre società (e che probabilmente non acquistano né leggono le riviste) inviano regolarmente messaggi sui social media che contestano le cose per le quali la rivista è stata messa in guardia.

Ecco come una rivista sconveniente e satirica si è ritrovata ripetutamente giudicata da moralisti privi di senso dell'umorismo e spesso considerata non sufficientemente reverenziale riguardo vari avvenimenti mondiali. Una vignetta di Charlie Hebdo sulle aggressioni a sfondo sessuale perpetrate a Colonia la notte di Capodanno è stata ritenuta di cattivo gusto. La reazione della rivista a un terremoto avvenuto in Italia è stata giudicata inammissibile da qualche non lettore. E così anche la vignetta sullo schianto di un aereo russo e altre caricature, ritenute prive dell'opportuna pietà.

Intanto, ci troviamo nella condizione di "interiorizzare" l'atrocità, come ha detto lo scrittore britannico Kenan Malik parlando del periodo successivo all'affaire dei Versi satanici. Tutta la stampa mondiale – forse soprattutto nei paesi liberi – ha interiorizzato ciò che è accaduto a Charlie Hebdo e anziché essere unita ha deciso, in silenzio e nella privacy delle redazioni, di non rischiare che accada mai più una cosa del genere. Questa nuova sottomissione al terrorismo islamista è forse il motivo per cui, nel 2016, quando un atleta senza alcun impegno nella politica, nella religione o nella satira è stato beccato a fare qualcosa che poteva essere considerato non del tutto rispettoso dell'Islam, non c'è stato nessuno a difenderlo. Anche la premier britannica Theresa May, invitata alla Camera dei Comuni a difendere il diritto di un atleta a non vedersi distrutta la carriera a causa di un fugace scherzo da ubriachi, ha equivocato:

"Questo è un equilibrio che dobbiamo trovare. In questo paese, apprezziamo la libertà di espressione e di parola, che è di fondamentale importanza per rafforzare la nostra democrazia.

"Ma diamo anche importanza alla tolleranza degli altri. E in relazione alle religioni. Questa è una delle questioni che abbiamo preso in considerazione nella strategia contro l'estremismo che il governo ha messo a punto.

"Penso che dobbiamo garantire che sia giusto che la gente possa avere questa libertà di espressione, ma quando si ha un diritto del genere si ha anche la responsabilità di riconoscere l'importanza della tolleranza degli altri".

Negli ultimi due anni, abbiamo capito che una tolleranza del genere è una strada a senso unico. Le nostre società avevano intrapreso questa strada. Ma dall'altra direzione è arrivata la brigata del kalashnikov che ha dovuto colpire una sola volta. Di fronte a questo, l'intero mondo civile ha scelto di fare inversione di marcia e correre nella direzione opposta. La polizia antiblasfemia di Allah sarebbe stupida se non approfittasse del vantaggio che una simile resa conferirà alla loro causa nei mesi e negli anni a venire.

Douglas Murray è uno scrittore britannico, un analista e opinionista, che risiede e lavora a Londra, in Inghilterra.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » sab mag 13, 2017 5:25 am

Utopie demenziali e criminali
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Utopie che hanno fatto e fanno più male che bene e molto più male del male che pretenderebbero presuntuosamente e arrogantemente di curare.
Totalitarismi maomettano (mussulmano o islamista), comunista (internazicomunista), nazista (fascista e nazista), globalista, idolatria cattolico-ecumenista, ...
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