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Attentato alla sinagoga di Roma (1982)Inchiesta sull'attentato alla sinagoga, parla Pacifici: "Così l'Italia ha venduto noi ebrei ai terroristi" - Il Riformista
Umberto De Giovannangeli
10 Dicembre 2021
https://www.ilriformista.it/inchiesta-s ... ti-266352/La nostra lunga chiacchierata è interrotta più volte da una voce strozzata dalla commozione, nel ricordo di quella tragica giornata. Quella di Riccardo Pacifici, storico presidente della Comunità ebraica romana, è una intervista che “corre” sul filo di una ferita personale che s’intreccia indissolubilmente con quella di una intera comunità colpita al cuore, quella mattina del 9 ottobre 1982. Nell’attacco terroristico all’antica Sinagoga di Roma muore un bimbo di due anni, Stefano Gaj Taché, e 37 sono i feriti, tra i quali Emanuele Pacifici, padre di Riccardo, che lottò per sei mesi tra la vita e la morte. Nell’intervista, l’ex presidente della Comunità ebraica di Roma racconta episodi inediti che visse personalmente, come una confidenza fattagli da Francesco Cossiga. E non solo.
«Il Governo sapeva e non fece nulla per impedire l’attentato agli ebrei». Così questo giornale ha titolato l’articolo-inchiesta in cui si dà conto delle carte segrete che rivelano lo scandalo. Lei come visse quella tragica giornata?
Quel giorno ha cambiato totalmente la mia vita. Ha cambiato i progetti di un ragazzo che allora faceva l’ultimo anno di liceo e che si apprestava, come altri ragazzi della mia età, a fare una esperienza in Israele. Quella mattina, casualmente, io non ero alla Sinagoga. Mio padre invece era lì, andava in Sinagoga tutti i sabati. Non era un ebreo osservante, era figlio di un rabbino, ed era rimasto orfano di ambedue i genitori morti nella Shoah. Venimmo a sapere dell’attentato da un mio cugino, ma di mio padre Emanuele non si avevano notizie. Un silenzio durato dieci angoscianti, interminabili ore. Mi precipitai in Sinagoga, per saperne di più e per aiutare a soccorrere i feriti. L’attentato avvenne attorno a mezzogiorno. Verso le 5 del pomeriggio scoprimmo che buona parte della mia famiglia era rimasta colpita. C’era anche il mio cuginetto Jonathan, il bambino nella foto che avete pubblicato nell’articolo, in braccio a una vigilessa. Jonathan aveva l’età di Gavi Tachè, quattro anni, due anni in più di Stefano, il bimbo ucciso. Gavi rimase ferito al volto, colpito dalle schegge di una bomba a frammentazione. Mentre ero lì si avvicinò un amico di mio padre che mi disse: “invece di occuparti degli altri, sai dove sta tuo padre? Lo stanno operando già da diverse ore e non è detto che l’operazione potrà avere buon esito…”. L’operazione durò 16-18 ore. Papà venne colpito da una bomba a frammentazione in pieno ventre. Le schegge gli lacerarono la gola e gli entrarono negli occhi. Per miracolo, mio padre si salvò. E si salvò grazie a un vecchio libro di preghiere che conservo ancora nella mia biblioteca. Un libro che quando uscì dalla Sinagoga, lui teneva stretto al petto. Una scheggia invece di colpire il cuore, uccidendolo, si conficcò in questo libro di preghiere molto corposo. Era il libro di mio nonno, il rabbino Riccardo Pacifici, assassinato ad Auschwitz. Papà fu miracolato due volte, perché fu messo a fianco della salma di Stefano Taché, coperto da un lenzuolo bianco. Ed era stato dato per morto. Oltre ai medici che l’operarono, e al libro di mio nonno, mio padre deve la vita al rabbino capo Elio Toaff che mentre lo stava benedicendo sentì dei rantoli. Il resto, cioè l’operazione che gli salvò la vita, lo fecero i chirurghi che l’operarono. Non finirò mai di esser loro grato.
Quella giornata che le cambiò la vita, la seguì anche negli anni in cui fu alla guida della Comunità ebraica di Roma. In questa veste fu lei a far riferimento al “lodo Moro” in occasione di una visita ufficiale alla Sinagoga di Roma dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una iniziativa che suscitò grande scalpore.
Assolutamente sì. Da quel momento abbiamo battuto su quel tasto più e più volte. Ricevendo il pieno sostegno del presidente Napolitano. E qui vorrei inserire un episodio che so essere molto forte e che s’inquadra perfettamente nel meritorio scoop de Il Riformista.
A cosa si riferisce?
Alla disarmante risposta che ebbe Daniela Gaj, la mamma di Stefano Taché, nel momento in cui intraprese una battaglia parallela. Lei sa che l’Italia istituì la Giornata delle vittime del terrorismo. Stefano Tachè non era in quell’elenco. La risposta che venne data, con una ingenuità che la dice tutta, senza rendersi conto della gravità di quell’affermazione, fu «noi ricordiamo le vittime italiane» del terrorismo! Questo filone lo si può ritrovare anche nel “lodo Moro”.
Lei che idea si è fatto in proposito?
Nell’immaginario collettivo, anche di alcune autorevoli figure delle istituzioni dell’epoca, quel “lodo Moro” non venne violato. Perché si parlava di una garanzia di “immunità” nei confronti dei cittadini italiani e delle istituzioni italiane. In quel perverso meccanismo ideologico, per cui un bimbo ebreo non era un cittadino italiano, il fatto che fosse stata colpita la Sinagoga non contraddiceva quel “lodo”. In un certo immaginario, l’ho vissuto sulla mia pelle a scuola, ebreo è sinonimo di israeliano, tant’è che ricordo i miei professori che mi chiedevano, a me che ero nato a Roma, ma se dovessero entrare in guerra Italia e Israele, tu da che parte stai? Un impasto di pregiudizi, stereotipi, e di una ignoranza a volte genuina e molte volte strumentale. Senza voler nulla togliere al fatto che per un ebreo, anche da un punto di vista dottrinale, delle preghiere che facciamo tre volte al giorno da duemila e passa anni, Israele, Gerusalemme, Sion è la meta verso la quale ogni ebreo si rivolge. È importante che questa apertura avvenne grazie a Giorgio Napolitano…
Perché?
Voglio dirlo per la storia del Partito comunista italiano, che lui ha rappresentato, e per quel filone del Pci, i cosiddetti “miglioristi”, coloro che inquadravano l’Italia nel patto atlantico, nella fedeltà agli Stati Uniti, senza che questo togliesse nulla alla battaglia per i diritti sociali. Da Napolitano come da Piero Fassino, allora responsabile delle relazioni internazionali e successivamente segretario del Pds, e anche da Occhetto, si levarono alcuni messaggi importanti. Ne cito alcuni. Quando nella Giornata della memoria, il presidente Napolitano affermò che una delle battaglie contro l’antisemitismo era la lotta all’antisionismo, «moderna forma dell’antisemitismo» cito le sue parole. Quel bellissimo rapporto con Napolitano portò ad uno dei suoi ultimi atti da Presidente della Repubblica: quello d’inserire Stefano Gaj Tachè nell’elenco delle vittime del terrorismo italiano, che poi trovò un forte, autorevole eco nel presidente Mattarella che nel suo discorso d’insediamento, appena eletto – e sono un po’ commosso a ripensarci – ricordando l’attentato alla Sinagoga e Stefano Taché, inserendo una parola che sembrava ovvia ma che ovvia non era affatto, parlò di lui come di un bambino ebreo italiano. Per rafforzare quel meccanismo che si era lacerato nel corso degli anni, purtroppo a causa del “lodo Moro”. Tant’è che la percezione che noi avemmo allora era che l’attentato alla Sinagoga fosse stato un incidente di percorso tollerato dalle autorità di allora. Che avevano verosimilmente altre priorità. Ma c’è un altro aspetto che può aiutare Il Riformista nell’indagine giornalistica che ha meritoriamente avviato…
Vale a dire?
Voi avete tirato fuori qualcosa che era nel sospetto di tanti. Una notizia che merita nelle prossime ore, nei prossimi giorni, ulteriori approfondimenti. Mi riferisco alla battaglia che c’è stata in questo paese anche all’interno degli stessi servizi d’intelligence. Le dico una cosa che mi raccontò personalmente Cossiga. Noi abbiamo vissuto in un paese che in quegli anni lottava contro il terrorismo nostrano, le Brigate rosse. Non a caso il cadavere di Aldo Moro venne trovato in via Caetani e successivamente si scoprì un appartamento in cui era stato “prigioniero” e dove c’era una cellula di brigatisti rossi i quali, stando davvero a pochi metri dalla Sinagoga, come rivelò lo stesso Moretti in un suo libro, fecero la mappatura della Sinagoga stessa facendo una relazione su come funzionava il sistema di sicurezza fuori di essa. Fecero delle piantine del luogo…
La rivelazione di Cossiga…
Per dire cos’era l’Italia a quei tempi. C’era un mandato di cattura internazionale, emesso nel 1980-81 dal giudice Mastelloni, nei confronti di Yasser Arafat per la fornitura di armi alle Brigate rosse. Ed era lo stesso tempo in cui Arafat veniva ricevuto per la prima volta da una nazione europea – l’Italia ebbe una funzione di apripista – dalle massime autorità dello Stato. Venne ricevuto dal Presidente della Repubblica di allora, Sandro Pertini, dal Papa, Giovanni Paolo II, dal sindaco di Roma, Ugo Vetere, ma non venne ricevuto dall’allora Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini. Questa fu una storia che fece notizia, aprì un dibattito nel paese, suscitando la protesta della comunità ebraica. Ebbene, una sera a cena, Cossiga mi disse, con una risata che non dimenticherò mai: devo farti una confessione, Arafat dormiva nel mio divano. Nel divano dell’allora ministro dell’Interno! Mentre tutti lo cercavano, era il 1981, Arafat godeva dell’immunità perché stava da me… E da casa di Cossiga, l’uomo su cui pendeva un mandato di cattura internazionale, venne portato alla Camera dei Deputati, dove tenne un discorso. Prima però ci fu un episodio illuminante che rivelò a mio padre un questore di cui era molto amico. Il questore bloccò tre guardie del corpo di Arafat, nonché lo stesso Arafat che si presentò, come fece anche all’Onu nel celebre discorso che tenne con una pistola in una mano e un ramo d’ulivo nell’altra, con un’arma. Il questore si oppose dicendo che in Parlamento nessuno entra armato. E sa che fine fece?
No, che fine fece?
Fu rimosso dall’incarico, con la motivazione che aveva creato un problema. Ci fu una colluttazione con le guardie del corpo di Arafat. Dicevo dello scontro interno ai servizi, tra chi, polizia e carabinieri, faceva blitz, penso al porto di Ancona e a spiagge vicine, negli yacht in cui erano custodite armi palestinesi per i brigatisti rossi, e altri che stavano lì per dire andatevene. Finché Matteo Renzi, nell’esercizio delle sue funzioni di Presidente del Consiglio, decretò l’apertura di alcuni archivi rimasti secretati, relativi all’attacco terroristico alla Sinagoga, che adesso stanno faticosamente uscendo fuori. Nell’articolo de Il Riformista viene rimarcato un fatto importante: la mattina della tentata strage non vi era la macchina della polizia davanti alla Sinagoga. Questo è un aspetto importantissimo. Io come tanti ragazzi, a quei tempi facevamo attività di volontariato e di vigilanza, non armata, fuori dall’ingresso della Sinagoga. Ricordo molto bene la sera prima dell’attentato. In quella circostanza, conobbi per la prima volta la signora Daniela Gaj e conobbi i suoi due bambini, Gavi, 4 anni, e Stefano, due anni. Me li diede in mano perché in Sinagoga donne e uomini pregano in posti separati e io li portai dal padre. Quella sera c’era la camionetta della polizia. La mattina dopo, quella dell’attentato, era sparita. Perché? È la domanda che noi rivolgemmo a tutti, a cominciare dal Presidente della Repubblica, e che ripetemmo a tutti i ministri dell’Interno che si sono avvicendati. Questo, fino alla desecretazione decisa da Renzi, fu il leit motiv che da portavoce e vice presidente della Comunità prima, lo sono stato per 12 anni, e poi, dal 2008, da presidente della Comunità ebraica romana, ha fortemente segnato la mia azione, la nostra battaglia. Ed è il motivo per cui ho deciso di fare del volontariato, perché occuparsi di questioni della comunità è un’attività elettiva ma di volontariato. Vi fu poi la vicenda di Sigonella e altri episodi che dettero conto di un approccio “ambiguo” in materia sancito dal “lodo Moro”. Questo è un punto cruciale. Alla base di questa sudditanza vi erano diversi motivi. In parte ideologici e in parte legati a interessi nazionali. Non va dimenticato che l’Italia e l’Europa venivano da uno shock petrolifero alla fine degli anni 70-80, per cui il petrolio era un’arma di ricatto pericolosissima per la sopravvivenza delle economie occidentali. Ma l’Italia aveva anche una vocazione geopolitica; essendo luogo di transito di tutte le attività eversive internazionali, sicuramente abbiamo pagato un prezzo. E credo che le parole di Mattarella non dico che abbiano rimarginato la ferita ma sicuramente hanno restituito onore alla verità e credo, interpretando un sentimento comune, che molta acqua è passata sotto i ponti…Un vecchio adagio romano che mi porta ad un’ultima rivelazione…
Di che si tratta?
Un mese fa il capo della polizia italiana, Lamberto Giannini, ha ricevuto un premio dall’European Jewish Association, che è una delle tre più importanti organizzazioni ebraiche europee. E quel premio evidenziava quello italiano come il modello da assumere in tutta Europa, quanto a efficienza e capacità di prevenzione. Ebbene, in quell’occasione, Giannini affermò, con grande onestà intellettuale e senso del dovere, posso rivendicare tanti traguardi raggiunti insieme, ma ho un cruccio: io non ho ancora portato davanti a un tribunale gli attentatori. Quattro dei quali, descritti come soggetti “teutonici”, sono rimasti sconosciuti. Quanto al quinto, il palestinese Abdel Osama al-Zomar, fu arrestato un anno dopo al confine tra Grecia e Turchia con un carico di 60 kg di tritolo. Come ha ricordato Il Riformista, l’Italia ne chiese l’estradizione ma il terrorista palestinese fu immediatamente scarcerato dalla Grecia per evitare guai. È stato condannato in contumacia nel 1991. Da figlio di una vittima di quell’attentato, ma penso di poter parlare anche a nome degli altri, chiedo giustizia. E continuerò a battermi perché venga fatta. Ritengo altresì che sulla base delle rivelazioni del suo giornale, sia corretto avviare una immediata indagine che faccia emergere nomi e cognomi di chi ha consentito tutto questo, di chi sapeva e non ha voluto fare. Presumo che non li potremo mettere in galera, ma almeno portarli, da un punto di vista della storia, di fronte alle loro responsabilità. Che vengano ricordati per aver venduto cittadini ebrei italiani a forze straniere. Ci hanno venduti, questo è fuor di dubbio. Capire chi era il questore, o chi per lui, di allora che diede l’ordine di togliere la camionetta della polizia dall’ingresso della Sinagoga. Si facessero avanti. Si assumessero le proprie responsabilità. Dicessero chi ordinò loro quel giorno di non mandare quella macchina. Se ci sono degli esecutori materiali ci sono anche responsabili morali. E costoro vanno individuati, senza sconti per nessuno. E se vi sono responsabilità dello Stato italiano questo va reinquadrato. Solo così, quella ferità potrà essere, almeno in parte, rimarginata.
Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Il cinismo antiebraico del Lodo MoroDimitri Buffa
10 dicembre 2021
https://www.opinione.it/editoriali/2021 ... olp-sismi/Non hanno avvertito gli italiani di religione ebraica della comunità romana del prossimo attentato palestinese alla Sinagoga della Capitale, ma alle forze dell’ordine che presidiavano la zona nei giorni delle festività avevano fatto capire in quei giorni di non trovarsi in zona.
Le meritorie rivelazioni del “Riformista” sui retroscena di quel maledetto attentato palestinese alla Sinagoga di Roma avvenuto il 9 ottobre 1982 portano a una deduzione-corollario su un cinico risvolto del tutto: in nome del Lodo Moro non furono avvertiti gli ebrei romani di quel che bolliva in pentola, eppure sono italiani, mentre gli appartenenti alle forze dell’ordine furono allertati.
In un Paese normale questo Lodo Moro e chi lo ha inventato sarebbero stati processati per alto tradimento possibilmente davanti a una corte marziale. Invece in un Paese non normale come l’Italia dobbiamo accontentarci di apprendere 40 anni dopo una verità che già tutti conoscevamo o intuivamo a grandi linee: l’Italia con il Lodo Moro non si è limitata a concedere un diritto di passaggio e una sorta di lasciapassare per i terroristi dell’Olp, ma li ha anche aiutati a compiere azioni potenzialmente omicide e stragiste. A Roma ci lasciò la vita Stefano Gaj Taché cui poi – bontà loro – decenni dopo è stata intitolata una piazza nello stesso ghetto ebraico dove i terroristi seminarono morte con la complicità dei Servizi italiani che obbedivano al Lodo Moro.
Per essere certi di ciò che noi tutti già sapevamo nella nostra intima consapevolezza abbiamo dovuto aspettare che l’ex premier Matteo Renzi togliesse nel 2015 la maggior parte dei segreti di Stato che coprivano le nefandezze degli anni Sessanta-Ottanta. E che qualcuno iniziasse a ficcarci il naso. Adesso presto o tardi sarà la volta delle informative Sismi sulla strage di Bologna. E anche qui ne vedremo delle belle: altro che neofascisti pagati da Licio Gelli. Anche su questa strage Francesco Cossiga la sapeva lunga. E sempre sui palestinesi e sul Lodo Moro puntava l’indice.
Cossiga agli ebrei italiani: “Vi abbiamo venduto”Francesco Cossiga
6 ottobre 2008
https://www.focusonisrael.org/2008/10/0 ... lodo-moro/Riportiamo la traduzione integrale dell’intervista rilasciata dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga al quotidiano israeliano Yediot Aharonot il 3 Ottobre 2008, intervista abilmente censurata da tutti i mass media italiani:
Il Presidente del Consiglio avrebbe firmato l’accordo segreto, i servizi segreti avrebbero obbedito tacitamente, e gli ebrei sono stati uccisi in attentati terroristici. La vergognosa storia dell’Italia
Lo chiamavano “L’Accordo Moro”, e la formula era semplice: l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani. Tuttavia, ora si scopre che gli ebrei erano esclusi dall’equazione. In un’intervista speciale, l’ex Presidente Francesco Cossiga rivela come le Autorità di Roma avrebbero collaborato con le organizzazioni terroristiche negli Anni Ottanta, ed ammonisce: “Oggi c’è un accordo analogo con Hezbollah in Libano”
di Menachem Gantz
In casa di Francesco Cossiga, nel cuore del quartiere Prati di Roma, sventolano – l’una accanto all’altra – tre bandiere eleganti: quella dell’Italia, quella della Regione Sardegna e quella di Israele. Non sempre l’ex Presidente della Repubblica italiana – uno dei politici più noti e di buona fama del Bel Paese – era un tale amante di Sion. Una volta, negli Anni Cinquanta, fu lui ad inaugurare l’Associazione d’amicizia Italia- Palestina. Poi, quando era Presidente del Senato, ha persino dato, nel suo Gabinetto,asilo ad Arafat quando era stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti.
Ma oggi, a ottant’anni, Cossiga ama Israele. Questo è forse il motivo per il quale accetta quasi immediatamente, senza condizioni, di concedere un’intervista ad un giornale israeliano. Questo è forse anche il motivo per cui è disposto ad aprire, con raro candore, un vaso di Pandora tra i più stupefacenti e orripilanti dell’Italia, [che egli ha conosciuto] nei lunghi anni di servizio pubblico. Sarà forse l’imbarazzo, la volontà di riparare al male causato dall’accordo in cui l’Italia avrebbe di fatto permesso di sottrarre la vita di qualsiasi ebreo in quanto tale – sarà forse questo che lo porta ad aprire la storia per intero.
Tutto è cominciato lo scorso agosto, quando la maggior parte degli italiani inondava le spiagge per le vacanze estive. In un’intervista al Corriere della Sera, Bassam Abu Sharif, considerato il ministro degli esteri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina negli Anni Settanta e Ottanta, ha svelato che in quegli anni i Governi di Roma permettevano ad organizzazioni terroristiche palestinesi di agire liberamente in territorio italiano, in cambio [di un impegno] a non colpire obiettivi nazionali in Italia e nel mondo. L’accordo, secondo Abu Sharif, era stato denominato “L’Accordo Moro”, riprendendo il nome di Aldo Moro, ex Presidente del Consiglio assassinato nel 1978, che ne era il responsabile.
Cossiga si è affrettato [in agosto] a confermare le asserzioni di Abu Sharif. “Ho sempre saputo – benché non sulla base di documenti o informazioni ufficiali, sempre tenuti celati nei miei confronti – dell’esistenza di un accordo sulla base della formula “tu non mi colpisci, io non ti colpisco” tra lo Stato italiano ed organizzazione come l’OLP ed il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha ammesso in un articolo pubblicato dal Corriere.
Ma quella pubblicazione aveva lasciato dei buchi, degli interrogativi troppo grandi. Se l’Italia aveva ottenuto l’immunità dal terrorismo palestinese, come mai ebbero luogo nel Paese attentati sanguinosi contro obiettivi ebraici? Se c’era un accordo, come mai vi erano stati uccisi ebrei innocenti?
Ora Cossiga rivela tutta la verità. “In cambio di una “mano libera” in Italia”, ammette in un’intervista speciale, “i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l’immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici – fin tanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. In altre parole: gli italiani non si toccano, ma se sono ebrei – questo è già un altro paio di maniche.
“Per evitare problemi, l’Italia assumeva una linea di condotta [che le permetteva] di non essere disturbata o infastidita”, spiega Cossiga, “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi. Posso dire con certezza che anche oggi esiste una simile politica. L’Italia ha un accordo con Hizbullah per cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmamento, purché non siano compiuti attentati contro gli uomini del suo contingente”.
Cossiga ammette di essere rimasto sorpreso per l’indifferenza con cui venne accolta in Italia la sua rivelazione. “Ero convinto che la notizia pubblicata in agosto avrebbe risvegliato i media, che magistrati avrebbero cominciato ad indagare, che sarebbero cominciate interrogazioni ai coinvolti. Invece c’è stato il silenzio assoluto. A quanto pare, nessuno se ne interessa qui. Lei è l’unico ad avermi interpellato in materia”.
Tuttavia, scavare nella profondità di questo dossier potrebbe rivelare agli italiani molto sul loro regime e sulla sua condotta. E pare non ci possa essere persona più qualificata, esperta ed informata dei dettagli di questo ambiente che Cossiga. Ha ricoperto innumerevoli cariche: Direttore Generale del Ministero della Difesa, Ministro dell’Interno, Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica. Le riforme che portò a termine nei servizi segreti italiani gli hanno guadagnato il soprannome “Spy Master”. Oggi non ha più un ruolo ufficiale, a parte quello di Senatore a Vita, ma le telefonate di Ministri ed alti ufficiali della Polizia, che interrompono continuamente l’intervista, dimostrano che la sua posizione è inalienabile. Cossiga continua a muovere i fili.
I rapporti complessi con il meccanismo del terrorismo palestinese, li ha conosciuti per la prima volta alla sua nomina a Ministro dell’Interno nel 1976. “Già allora mi fecero sapere che gli uomini dell’OLP tenevano armi nei propri appartamenti ed erano protetti da immunità diplomatica“, rammenta, “Mi dissero di non preoccuparmi, ma io riuscii a convincerli a rinunciare all’artiglieria pesante ed accontentarsi di armi leggere”.
Più tardi, quando era Presidente del Consiglio nel 1979-1980, gli divenne sempre più evidente il fatto che esistesse un accordo chiaro tra le parti. “Durante il mio mandato, una pattuglia della polizia aveva fermato un camion nei pressi di Orte per un consueto controllo”, racconta, “I poliziotti rimasero sbigottiti nel trovare un missile terra-aria, che aveva raggiunto il territorio italiano per mare”. Nel giro di alcuni giorni, racconta Cossiga, una sua fonte personale all’interno del SISMI – lui lo chiama “gola profonda” – passò al segretario del governo informazioni in base alle quali il missile andava restituito ai palestinesi. “In un telegramma arrivato da Beirut era scritto che secondo l’accordo, il missile non era destinato ad un attentato in Italia, e a me fu chiesto di restituirlo e liberare gli arrestati”.
Cossiga stesso, va sottolineato, non era stato mai ufficialmente informato dell’esistenza di questo telegramma. Se non fosse stato per la sua fonte nel SISMI, non sarebbe stato consapevole di tutta questa storia. “Alle dieci di notte telefonai al capo del SISMI e lo rimproverai, “Mi stai nascondendo delle informazioni. Perché non mi hai informato del telegramma indirizzato a me?”. Ma egli, a quanto pare, era partecipe dell’accordo con i palestinesi”.
Il Presidente del Consiglio cominciò a sospettare che dietro all’evento di poca importanza si celasse qualcosa di più grande. “Col tempo cominciai a chiedermi che cosa potesse essere questo accordo di cui si parlava nel telegramma”, racconta. “Tutti i miei tentativi di indagare presso i Servizi e presso diplomatici si sono sempre imbattuti in un silenzio tuonante. Fatto sta che Aldo Moro era un mito nell’ambito dei Servizi Segreti. Sin dalla fondazione della Repubblica fino ai miei tempi al Quirinale ho conosciuto tre politici che sapevano utilizzare i Servizi Segreti: il fondatore, io, e Aldo Moro. La gente gli giurava fedeltà, e continuava anche dopo finito l’incarico”.
Ma le vere prove dell’esistenza de “L’Accordo Moro”, e soprattutto i suoi raccapriccianti dettagli, si potevano trovare solo nella realtà. Ventisei anni sono passati dall’attentato al ghetto ebraico di Roma, ma la ferita è ancora aperta. Era il 9 ottobre 1982. La prima Guerra del Libano era in corso, e la comunità ebraica era esposta ad un’ondata di odio senza precedenti. “Sentivamo l’atmosfera”, racconta uno dei vertici della comunità di quei giorni, “sentivamo che qualcosa di terribile si stava avvicinando”.
Quel giorno, poco prima di mezzogiorno, un commando di sei terroristi si scagliò contro la sinagoga, sparando e lanciando bombe a mano sui fedeli che avevano appena finito la preghiera. Decine di persone furono ferite. Stefano Tache’, un bambino di due anni, rimase ucciso per mano dei terroristi.
Dichiarazioni ufficiali di condanna da parte dei politici al vertice furono subito rilasciate, ma gli ebrei di Roma non ne rimasero convinti. La sensazione di abbandono era grave: quel mattino, all’improvviso, sparirono senza spiegazione le due volanti della polizia che durante le feste ebraiche fornivano protezione all’ingresso della sinagoga. Anche dopo l’attentato è continuato l’atteggiamento strano. A tutt’oggi non sono stati pubblicati i nomi dei terroristi. Con il passare degli anni, prende sempre più piede l’ipotesi che anche attivisti dalla Germania ed elementi delle Brigate Rosse avessero sposato la causa di assassinare ebrei, ma a Roma non c’è stato a tutt’oggi un governo che abbia ritenuto necessario portare i colpevoli in corte.
“Io non avevo un ruolo ufficiale in quell’epoca”, chiarisce Cossiga, che allora aveva terminato l’incarico di Presidente del Consiglio e ancora non era stato nominato Presidente del Senato. “Ricordo di essere arrivato per primo sul luogo dell’attentato. Ho visto la pozza di sangue del bambino di due anni”.
Solo uno degli attentatori fu catturato, e nemmeno dagli italiani. Avvenne un mese dopo l’attentato, quando Abd El Osama A-Zumaher fu arrestato in Grecia con esplosivi nella sua macchina. I greci lo liberarono dopo sei anni, ed egli scappò in Libia. Le Autorità italiane non ne chiesero l’estradizione. “Oggi”, ammette Cossiga, “non si può più scoprire tutta la verità su quanto accaduto lì. L’Italia non chiederà mai la sua estradizione, ed i libici non lo consegneranno”.
Cossiga sa perfettamente il significato delle cose che sta rivelando qui, ne conosce la gravità. Né cerca di giustificare coloro che presero le decisioni. Tuttavia, anche oggi torna a spiegare la logica di questo pensiero: l’Italia non si immischia in quanto non la concerne. A prova di ciò, presenta l’altra parte. “L’azione del Mossad contro gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 è passata anche per Roma”, dice. Come noto, Adel Wahid Zuaitar, il simbolo della furbizia dell’organizzazione del Settembre Nero, fu ucciso a Roma. “Crede che l’Italia non potesse, a suo tempo, arrestare i due agenti che lo fecero fuori? Un giorno, mentre rientrava in casa, due giovani lo picchiarono all’ingresso e lo fecero fuori con due pistole munite di silenziatore. Crede che gli italiani non sapessero chi fossero? È ovvio che lo sapevano, ma in questioni del genere è meglio non mettere le mani, ed è questa la linea che guidava il comportamento dell’Italia”.
Lei paragona l’eliminazione di un terrorista all’assassinio di un bambino di due anni all’uscita della sinagoga?
“No, assolutamente no. Se avessi saputo che le volanti della polizia erano state istruite ad andarsene quella mattina, nell’ambito di quell’accordo di cui mi hanno sempre negato l’esistenza, forse tutto sarebbe andato diversamente”. La colpa, tuttavia, la attribuisce solo ed esclusivamente ad Aldo Moro.
Tuttavia, basta un ulteriore singolo sguardo sull’Italia degli ultimi trent’anni per scoprire che l’influenza dell’Accordo Moro non è finita lì. Nel dicembre 1985, quando Cossiga era già Presidente della Repubblica, avvenne l’attentato sanguinoso al banco della El Al all’aeroporto di Fiumicino. Fu un attacco combinato, a Roma e a Vienna, a firma delle unità di Abu Nidal, in cui morirono 17 persone, di cui 10 in Italia. Le Autorità di Roma, superfluo anche dirlo, non si sono considerate parte in causa.
Come si concilia l’attentato all’aeroporto con l’accordo di non colpire obiettivi italiani? “Non furono colpiti obiettivi italiani”, spiega Cossiga, “fu la compagnia aerea israeliana ad essere attaccata nell’aeroporto”.
Ma il territorio era italiano.
“I morti furono tutti israeliani, ebrei ed americani, non italiani. Gli scambi di fuoco non hanno incluso i nostri uomini, solo i palestinesi e gli addetti alla sicurezza di El Al e dello Shabak [servizi di sicurezza interna israeliani – Ndt].
Cossiga sa perfettamente il significato di ciò. Dal punto di vista dell’Italia, in fondo, l’attentato non era affatto una cosa che la riguardava. Fin tanto che non sono stati uccisi italiani non ebrei, tutto bene. “Non ho mai visto le carte, ma credo di sì. Così funzionavano le cose”, ammette. Il capo del SISMI a quei tempi, Fulvio Martini, ammette in un libro che ha scritto che era stato ricevuto un vero e proprio avvertimento dell’attentato. “Qualcosa non ha funzionato con le forze della sicurezza italiane, che sapevano a priori dell’attacco”, spiega.
Cossiga tiene a che si sappia che egli non era stato coinvolto personalmente nell’accordo. “Quando ero Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica non ne sapevo niente”, insiste fermamente, “me lo tenevano nascosto. Io soltanto speculavo che un tale accordo esistesse, per via di quel telegramma da Beirut, ma tutti stavano zitti. Bassem Abu Sharif ha detto che l’Accordo Moro fu firmato a Roma e a Beirut e che gli italiani erano rappresentati dal capo dei servizi segreti dell’Italia che era in servizio in Libano, ma io non ne sapevo niente”.
Tuttavia, Cossiga mostra un certo bisogno, forse incontrollabile, di difendere quell’Italia che avrebbe firmato l’accordo.Quella politica, egli spiega, era comune anche in altri Paesi. “La Germania ha liberato il commando dei terroristi che uccisero gli atleti a Monaco di Baviera, e anche la Francia si è comportata analogamente. Questa era la politica europea. Tranne gli inglesi, ovviamente. I palestinesi sapevano quel che facevano. Non ho mai incontrato un capo di un’organizzazione terroristica che fosse stupido. Arafat non era stupido.
Cossiga, per inciso, non è solo. Dopo la rivelazione del Corriere della Sera, il famoso magistrato Rosario Priore – responsabile in quegli anni dell’indagine di misteri come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e l’attentato contro Papa Giovanni Paolo II – ne ha ammesso i dettagli.
“L’Accordo Moro è esistito per anni”, ha dichiarato, “l’OLP aveva in territorio italiano uomini, basi ed armi. Anche fazioni autonome come quelle di Abu Abbas, il Consiglio della Rivoluzione e il Fronte di George Habbash. Era stata una decisione politica fredda, che aveva come scopo l’immunità della nostra gente e dei nostri interessi in territorio italiano, in cambio [dell’accettazione] dell’immagazzinamento e del trasporto di esplosivi e di commandi terroristici che dovevano operare altrove”.
Ebbene sì, anche l’uomo che oggi è membro della Corte di Cassazione di Roma, non ha incluso gli ebrei della città nella definizione “immunità della nostra gente”.
L’elenco non termina qui. L’Accordo Moro, si scopre, ha avuto un’influenza decisiva sulla vita – e sulla morte – di molti.
Anche le circostanze del sequestro della nave italiana Achille Lauro rivelano un legame tra l’Amministrazione di Roma e le organizzazioni terroristiche, e anche questa volta – che sorpresa! – gli obiettivi erano ebraici.
Il 7 ottobre 1985, mentre la nave era in viaggio da Alessandria d’Egitto a Port Said, l’hanno sequestrata quattro terroristi armati del Fronte per la Liberazione della Palestina di Ahmad Jibril. I sequestratori, entrati in azione prima del previsto poiché erano stati smascherati da un membro dell’equipaggio, hanno minacciato di uccidere ostaggi se non fossero stati liberati 50 prigionieri palestinesi che erano incarcerati in Israele. Si sono diretti verso la Siria, ma questa non ne ha permesso l’ingresso nelle sue acque territoriali.
La vittima di quel sequestro fu Leon Klinghoffer, un passeggero ebreo americano, paralitico in sedia a rotelle. I sequestratori non ebbero pietà di lui: gli spararono e poi lo gettarono in mare ancora vivo, con la sedia a rotelle. La nave ritornò in Egitto, e dopo due giorni di trattative i sequestratori acconsentirono a lasciarla. Furono trasferiti verso la Tunisia su un aereo civile egiziano, che fu però intercettato da caccia americani e costretto ad atterrare nella base NATO in Sicilia.
Questo evento è indelebilmente impresso nella memoria collettiva italiana. Forze italiane dei carabinieri da una parte, incursori delta americani dall’altra, in mezzo l’aereo con i sequestratori a bordo, e tutti che si minacciano a vicenda con le armi cariche, mentre si attende che i politici trovino una formula per uscire dalla crisi. L’evento è rimasto impresso nella coscienza italiana come un simbolo dell’indipendenza dell’Italia e dell’immobilità dell’allora Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, di fronte agli americani.
Solo che ora Cossiga rivela che il motivo della fermezza di Craxi era ben altro. Spiega che Craxi ha scelto di riservare ad Arafat un atteggiamento ruffiano. “C’era stato un accordo chiaro tra l’Italia e Arafat, secondo cui la nave sarebbe stata liberata dal commando terroristico in cambio della libertà di Abu Abbas, e così fu”, svela.
I sequestratori furono arrestati dalle forze della polizia italiana ed all’aereo fu permesso di continuare il viaggio malgrado la richiesta americana di fermarlo – poiché tra i passeggeri liberi c’era anche l’uomo che era alla guida dei sequestratori, Abu Abbas. I quattro sequestratori furono processati in Italia e trovati colpevoli. Abu Abbas, invece, fu liberato.
La spiegazione ufficiale di Craxi e del governo italiano fu che le asserzioni degli americani sul coinvolgimento diretto di Abu Abbas nel sequestro erano arrivate troppo tardi, solo dopo il suo decollo dall’Italia in direzione della Jugoslavia. Cossiga, comunque, chiarisce che non fu proprio così. “Non è assolutamente andata così”, dice, “tutto era parte dell’accordo con Arafat. Fu lui a convincere Abu Abbas, malgrado non facesse parte dell’OLP, di liberare la nave al Cairo, in cambio della sua libertà e di una promessa di incolumità. La posizione italiana, secondo cui questo lo si venne a sapere solo dopo la sua liberazione, è una frottola. Lo abbiamo liberato dopo”.
C’è chi asserisce che egli sia rimasto a Roma alcune ore ed abbia persino incontrato alcune personalità.
“Io non ne so niente. Ero Presidente della Repubblica e a me dissero che era rimasto tutto il tempo all’interno dell’aeroporto. Le ricordo che tutta l’area era circondata da agenti della CIA”.
Questo episodio, va sottolineato, è lungi dallo sparire dalla coscienza pubblica italiana. Proprio in questi giorni, la corte a Roma sta per discutere la domanda di uno dei sequestratori, Abdel Atif Ibrahim, liberato dopo vent’anni in carcere, di rimanere in Italia. “Gli permetteranno di rimanere qui, non c’è dubbio”, afferma Cossiga, “ma la decisione, in definitiva, sarà politica, ed il Ministro dell’Interno dovrà decidere”.
Se Lei fosse oggi Ministro dell’Interno e dipendesse da Lei, gli permetterebbe di restare?
“Io lo metterei su un velivolo militare diretto in Libano, atterrerei lì con la scusa di portare un diplomatico, spegnerei i motori, aprirei la porta, lo butterei sulla pista e decollerei di ritorno”.
Nonostante oggi Cossiga tenga molto a presentarsi come un fermo oppositore del terrorismo palestinese, c’è ancora chi non dimentica la sua posizione favorevole ad Arafat quando contro questi era stato emesso un mandato di cattura in Italia. Anche da questa faccenda, le Autorità e i meccanismi della legalità in Italia non escono – come dire – brillantemente. “Arafat”, spiega Cossiga, “era arrivato in Italia per il funerale del leader della sinistra italiana, Segretario Generale del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, che era mio cugino. Fino ad oggi c’è molta gente che non crede
affatto che fossimo imparentati. All’arrivo di Arafat qui, lo attendeva un mandato di cattura del tutto folle emesso da un giudice italiano.
“A me chiesero di riceverlo a Palazzo Giustiniani, in qualità di Presidente del Senato, e permettergli di riposarsi. Stiamo parlando, Le ricordo, del 1984. Arafat partecipò al funerale e a tutta la cerimonia, alla quale era presente anche il Vice Segretario Generale del Partito Comunista di Mosca. Venne da me accompagnato dai Servizi Segreti italiani e dalle sue guardie del corpo.
Contemporaneamente, una forza di polizia era partita alla sua ricerca per ordine di un giudice. Lei crede [veramente] che non sapessero dove si trovasse?”
Comunque sia, oggi Francesco Cossiga si identifica orgogliosamente come amico prossimo dello Stato di Israele ed entusiasta sostenitore degli Stati Uniti. Questo, forse, è il motivo per cui si permette ora di dire cose del tutto in ortodosse riguardo alla condotta degli scaglioni che contano.
E se a qualcuno potesse sembrare che quei giorni bui siano spariti, il quadro che dipinge Cossiga è allarmante: l’Italia, egli crede, attua oggi un accordo analogo con Hizbullah. Le forze di UNIFIL sarebbero invitate a circolare liberamente nel sud del Libano, senza temere per la propria incolumità, in cambio di un occhio chiuso e della possibilità di riarmarsi data a Hizbullah. “L’Accordo Moro non mi fu mai esposto in maniera chiara, ne ho solo ipotizzato l’esistenza. Nel caso di Hizbullah posso affermare con certezza che esiste un accordo tra le parti”, dice Cossiga con certezza, “Se verranno ad interrogarmi, deporrò davanti ai giudici che trattasi di segreti dello Stato, e io non sono tenuto a rivelare le mie fonti”.
Cossiga ha dichiarato che intende sottoporre un’interrogazione al Governo riguardo all’esistenza di un tale accordo segreto, atto a proteggere il contingente italiano in Libano. Come noto, durante gli Anni Ottanta, le forze americane e francesi in Libano hanno subito gravi perdite, mentre nessun attentato è stato compiuto contro la forza italiana.
Il giudice Priore – di nuovo lui – ha osato addirittura portare le ipotesi di Cossiga un passo in avanti. “È possibile”, ha dichiarato ad un’agenzia stampa italiana, “che esista oggi persino un accordo tra l’Italia e Al Qaida od un’altra organizzazione fondamentalista”.
La maggior parte degli italiani sono rimasti, come ho detto prima, sorprendentemente indifferenti di fronte alla rivelazione. Ma prevedibilmente, la comunità ebraica ne è rimasta scossa. Reagendo alle nuove rivelazioni esposte su queste pagine, il Presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, fa appello al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di aprire un’indagine approfondita.
“È ovvio che non possiamo andare indietro nel tempo, e non si può cancellare questa vergognosa storia dell’Italia”, ha detto a Yediot Aharonot, “ma bisogna esporre gli irresponsabili che hanno offerto gli ebrei d’Italia in sacrificio, trattandoli come stranieri, come immigrati di passaggio. Più di ogni altra cosa, esigiamo risolutamente la piena sicurezza per gli ebrei d’Italia e per le loro istituzioni”.
È molto dubbio se Berlusconi darà ascolto ed inizierà l’intensa indagine che esige la comunità ebraica. È vero che il Presidente del Consiglio italiano ha modificato l’atteggiamento del suo Paese nei confronti di Israele, ma si possono ancora riconoscere incrinature nella comprensione che gli ebrei d’Italia sono parte radicale della vita italiana. Più di una volta, rivolgendosi agli ebrei, egli ha detto “il vostro governo” – intendendo il Governo dello Stato d’Israele, e non quello italiano. La buona volontà forse c’è, ma la strada è ancora lunga per assicurare che la storia non si ripeta.
(Fonte: Yediot Aharonot, 3 Otobre 2008, p B10 )