Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

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Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:03 am

Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:04 am

Preistoria e storia del diritto, fonti varie
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Re: Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:04 am

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO COMPARATO (IUS/02)
XXI ciclo
IL DIRITTO EBRAICO NELLO STATO DI ISRAELE
https://flore.unifi.it/retrieve/handle/ ... iorgia.pdf

Halakhah (ebr. הלכה)
https://it.wikipedia.org/wiki/Halakhah
Halakhah (ebr. הלכה) — traslitt. anche con Halakha, Halakhà, Halacha, o Halocho; plur. halakhot — è la tradizione "normativa" religiosa dell'Ebraismo, codificata in un corpo di Scritture e include la legge biblica (le 613 mitzvòt) e successive leggi talmudiche e rabbiniche, come anche tradizioni e usanze.

Il nome Halakha deriva in ebraico: da halakh הָלַךְ‎?, che significa "camminare" o "andare"; quindi una traduzione letterale non darebbe "legge", bensì "la via da percorrere". La radice potrebbe essere il semitico aqqa, che significa "essere vero, essere adatto".
Il termine Halakhah può riferirsi ad una legge singola, ad un corpus letterario di testi legali rabbinici, o al sistema complessivo di leggi religiose.
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Re: Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:05 am

Il diritto nella Bibbia e il diritto ebraico


Le leggi universali di Noè
https://it.wikipedia.org/wiki/Noachismo

Nell'ebraismo le sette leggi di Noè (in ebraico: שבע מצוות בני נח‎?, Sheva mitzvot B'nei Noach) sono una serie d'imperativi morali che sarebbero stati dati da Dio ai "figli di Noè" (e dunque a tutto il genere umano). Esse formano il sistema morale della tradizione ebraica denominato noachismo, che viene considerata dagli ebrei la religione naturale e più antica dell'umanità.[1]

Secondo la tradizione ebraica il mondo è bipartito in goyim e yehudim. Gli ebrei rappresentano il popolo "sacerdote" di YHWH davanti all'umanità, e, perciò, hanno più obblighi; inoltre devono conservare la tradizione noachica - oltre a quella ebraica - e spiegarla a chi lo desidera.[1][2]

Ognuno nell'ottica ebraica ha un suo compito di tikkun, perfezionamento nel mondo. Gli ebrei devono rispettare, come popolo nel loro complesso, 613 mitzvot, mentre i goyim ne devono rispettare sette.[1]

Queste sette leggi sono state date, secondo la tradizione ebraica, a Noè quando uscì dall'arca successivamente al Diluvio Universale. La fonte di queste sette leggi si trova nella Torah e la loro specificazione nel Talmud.[1]

Secondo la tradizione rabbinica il non ebreo che rispetti pienamente questi sette precetti è considerato un giusto tra le nazioni del mondo ed ha parte nell'olam habba, il mondo futuro.[1] Il Rambam ritiene necessario a tal fine che tali regole non siano rispettate per il solo fatto di averne raggiunto la loro consapevolezza per mezzo della ragione, ma che sia anche necessario che si creda che esse sono state date da Dio a Mosè nel Sinai.

L'ebraismo consente comunque la conversione, il ghiur, e dunque il non ebreo che volesse rispettare tutte le mitzvot della Torah può sempre farlo convertendosi all'ebraismo. L'ebraismo però, pur permettendo la conversione, non fa attivamente opera di proselitismo, ed anzi chi cerca di convertirsi viene dapprima dissuaso dal far ciò, facendogli notare che egli, rispettando solo sette leggi, può essere una persona giusta e meritoria del mondo futuro: gli si fa notare ad esempio che se prima mangiava maiale non era una colpa, mentre se ora mangiasse maiale sarebbe considerato un peccato.

Stipulata da Dio con Noè un'alleanza cosmica, in ebraico B'rith 'Olam (ברית עולם), l'"alleanza noachica" si compone dei 7 precetti così enunciati:

credere nell'unicità di Dio;
non uccidere né suicidarsi: "Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo" (Gen 9,6: fondamento della "legge del taglione", nell'esegesi ebraica con ciò intendendo il risarcimento pecuniario);
non rubare e/o non rapire;
non compiere le relazioni sessuali illecite non ammesse dalla Torah (omosessualità, incesto, zooerastia, stupro);
non bestemmiare, non commettere idolatria;
divieto di mangiare parti del corpo di animali ancora vivi;
istituire tribunali giusti (distinguendo quindi tra testimonianza vera, falsa testimonianza nonché Lashon hara, ovvero "maldicenza", esaminando però i vari casi).


http://www.avventismoprofetico.it/modul ... Y9xxf.dpbs

http://forumbiblico.forumfree.it/?t=48163292




Le leggi di Mosè
http://www.padrepio.catholicwebservices ... amenti.htm


En łengoa veneta

Mi a so el to Sehnor e el to Dio

No te ghe n’avarè altri fora ke mi
No sta nomarme par gnente
Soviente de far sante łe feste
Onora to mare e to pare
No sta copar
No sta far çesti scostoumà
No sta robar
No sta dir buxie o bàle e testemognar el falbo
No sta ver voja par ła dona de łi altri
No sta ver voja par ła roba de łi altri


In lingua italiana
Io sono il Signore Dio Tuo:

Non avrai altro Dio fuori di me
Non nominare il nome di Dio invano
Ricordati di santificare le feste
Onora il Padre e la Madre
Non uccidere
Non commettere atti impuri
Non rubare
Non dire falsa testimonianza
Non desiderare la donna d'altri
Non desiderare la roba d'altri
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Re: Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:05 am

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Re: Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

Messaggioda Berto » mer apr 05, 2017 9:07 am

Non nel nome di Dio
http://www.giuntina.it/Schulim_Vogelman ... o_682.html

Jonathan Sacks
https://it.wikipedia.org/wiki/Jonathan_Sacks
Jonathan Henry Sacks (Londra, 8 marzo 1948) è un rabbino britannico, considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, col titolo di Chief Rabbi of Great Britain and the Commonwealth of Nations ("Rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth delle nazioni") dalla sua nomina nel 1991 fino alla conclusione del suo mandato nel 2013. Creato Sir dalla Regina Elisabetta II nel 2005 per servizi resi alla Comunità e alle relazioni inter-religiose e nel 2009 nominato Lord Barone con un seggio a vita nella Camera dei Lord.


Capitolo 11
L’universalità della giustizia, la particolarità dell’amore

Nell’emergente mondo di conflittualità etnica e di scontro di civiltà, la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa … L’imperialismo è l’inevitabile corollario dell’universalismo.

Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine morale1

Dietro tutta questa analisi c’è un’ovvia domanda. Perché, prima di tutto, Dio ha bisogno di scegliere? Perché questo dramma di figli scelti e non scelti? Perché Isacco e non Ismaele? Perché Giacobbe e non Esaù? Perché Abramo e non tutti? Perché Israele e non tutta l’umanità?

Questo fenomeno ha sollevato più rabbia e biasimo, perplessità e malintesi di ogni altro nella storia della spiritualità occidentale. Perché Dio sceglie? L’ebraismo sembra intrappolato a metà strada tra le particolarità del mondo pagano – ciascuna nazione ha le sue divinità – e l’universalità del cristianesimo e dell’islam: un solo Dio, una sola verità, un solo sentiero per la salvezza, una sola porta per i cieli.

Questi altri due monoteismi abramitici hanno preso molto dall’ebraismo: la sua fede in un unico Dio e le sue sacre scritture nel caso del cristianesimo, le sue storie e i suoi profeti nel caso dell’islam – e tuttavia non hanno preso dall’ebraismo la sua caratteristica più singolare: la sua distinzione tra l’universalità di Dio come Creatore e Sovrano dell’universo, e la particolarità del patto, prima con Abramo, poi con Mosè e i figli d’Israele. È facile capire perché: se Dio è il Dio di tutta l’umanità, la logica sembrerebbe imporre che il modo di servirlo dovrebbe essere lo stesso per tutta l’umanità.

Ma, tuttavia, se una preoccupazione fondamentale della Bibbia ebraica fosse proprio la violenza nel nome di Dio? E se la Bibbia l’affronta direttamente? E se questo dovesse guidare la nostra lettura del testo? Che la Bibbia sia preoccupata dalla violenza è evidente dall’inizio. Il primo atto di culto riportato, le offerte da parte di Caino e Abele, portano direttamente al primo omicidio. Pertanto il collegamento tra religione e violenza lo si trova proprio all’inizio. La ragione addottata dalla Bibbia per il Diluvio è che «la terra era corrotta davanti a Dio, la terra era piena di violenza» (Gn 6, 11). La violenza non è un tema marginale nella Genesi, anzi è centrale. Fa sì che Dio «si pentì di avere fatto l’uomo sulla terra» (Gn 6, 6).

Nel capitolo 2 abbiamo visto perché gli uomini sono violenti. Ha a che vedere con il nostro essere animali sociali. Formiamo gruppi. Siamo esseri tribali. Siamo divisi in diverse nazioni, lingue, culture e codici che sono le basi dell’identità. Non esiste l’umanità in astratto come non esiste la lingua, la letteratura o l’amore in astratto. L’identità è inevitabilmente plurale. Ecco perché ci porta alla violenza. Essa divide il mondo in Noi e Loro. Questa è l’origine della guerra. In tempi con posizioni estreme come i nostri, essa porta al dualismo patologico, trasformando gli esseri umani in barbari, qualche volta nel nome di Dio.

Nel capitolo 2 abbiamo visto anche che ci sono stati tre tentativi rilevanti nella storia di sfuggire all’identità, ma nessuno ha avuto successo. Il cristianesimo e l’islam in effetti hanno detto entrambi: un solo Dio, quindi una sola identità definitiva. Ed ecco perché si sono scontrati nel Medioevo e perché, oggi, si scontrano nel Medio Oriente, in Africa e in alcune parti dell’Asia. Il principio di un unico Dio, una sola verità, una sola via non rende possibile la pace in un mondo in cui altri popoli hanno altre vie. Forse un giorno vedremo tutti il mondo, noi stessi e Dio allo stesso modo. Questa è la visione profetica. Ma non ora, non ancora. Il secondo grande tentativo, come abbiamo visto, è stato l’Illuminismo, il sostituto secolare europeo del cristianesimo, basato non sulla universalità di Dio ma su quella della ragione. La scienza e la filosofia, pensavano, avrebbero avuto successo là dove la religione e la rivelazione avevano fallito. Avrebbero unito l’umanità in ciò che Kant chiamava la «pace perpetua». La reazione a ciò, un secolo più tardi, fu l’emergere del nazionalismo, del razzismo e del comunismo, due guerre mondiali, la Shoah e il Gulag. Fu il ritorno del represso.

Il terzo tentativo – da parte dell’Occidente odierno – è stato quello di detronizzare il gruppo a favore dell’individuo. Il risultato è stato l’atomizzazione della società, il collasso della famiglia tradizionale, l’erosione della comunità e la perdita dell’identità nazionale, che ha portato alla controreazione dell’estremismo religioso tra coloro che ancora cercano l’identità e la comunità. Nonostante gli sforzi dell’Occidente, le tribù continuano a tornare, ogni volta più furiose di prima.

Il tema di questo capitolo è che la Bibbia affronta questa questione in modo diretto e assai originale. Lo fa in Genesi 6, 11, con due famose storie: il Diluvio e la Torre di Babele.

La Bibbia è chiara riguardo alle mancanze della generazione del Diluvio. Gli uomini erano malvagi, violenti, e «ogni inclinazione dei pensieri del loro cuore era sempre e soltanto male» (Gn 6, 5). Questo è il linguaggio di un fallimento morale sistemico.

L’atmosfera all’inizio della storia di Babele sembra, per contrasto, quasi idillica. «Tutta la terra aveva una lingua unica e le stesse espressioni» (Gn 11, 1). Sembra prevalere l’unità. I costruttori sono intenti a costruire, non a distruggere. Non è affatto chiaro quale fosse il loro peccato. Tuttavia, dal punto di vista della Bibbia, Babele rappresenta un altro cambiamento gravemente sbagliato, perché subito dopo Dio invita Abramo a iniziare un capitolo totalmente nuovo nella storia religiosa dell’umanità.

In realtà, le storie del Diluvio e di Babele sono descrizioni esattamente combacianti con le due grandi alternative: l’identità senza l’universalità, e l’universalità senza l’identità.
Il migliore resoconto del Diluvio, per quanto non si riferisca esplicitamente ad esso, fu opera dell’uomo che pose le fondamenta della moderna politica, Thomas Hobbes, nel suo classico Leviatano (1651). Prima che ci fossero le istituzioni politiche, diceva Hobbes, gli esseri umani erano in uno «stato di natura». Erano individui o piccoli gruppi. In mancanza di un governante stabile, di un governo effettivo e di leggi applicabili, le persone erano in uno stato permanente di violento caos – «una guerra di ogni uomo contro ogni uomo» – mentre si disputavano le scarse risorse. C’era «la paura continua, e il pericolo di morte violenta». Che è precisamente la descrizione della Bibbia della vita prima del Diluvio. Quando non c’è il dominio generale della legalità il mondo è colmo di violenza.

La storia di Babele analizza la realtà opposta. È stata di solito equivocata. L’interpretazione tradizionale è quella di un racconto eziologico che spiega come l’umanità, che originariamente aveva «una lingua unica e le stesse espressioni», sia arrivata al punto di essere divisa in molte lingue. Questa lettura è plausibile ma errata. La ragione è che il capitolo precedente, Genesi 10, ha già descritto la divisione dell’umanità in settanta nazioni, «aventi ciascuna la propria lingua» (Gn 10, 5). Il solo modo in cui la lettura convenzionale ha un senso è se Genesi 10 e Genesi 11 non sono in una sequenza cronologica corretta.2 Non c’è tuttavia alcuna ragione di supporlo.

Al contrario, l’unità della lingua all’inizio del capitolo 11 non era naturale ma imposta. Essa descrive la consuetudine dei primi imperi del mondo. Abbiamo la prova storica, che risale ai neo-assiri, che i conquistatori imponevano la loro lingua ai popoli sconfitti. Un’iscrizione del tempo riporta che Assurbanipal II «fece sì che tutti i popoli parlassero una sola lingua». Un’iscrizione su base cilindrica di Sargon II dice: «Popolazioni dei quattro quarti del mondo con lingue strane e parlata incompatibile … che io ho preso come bottino di guerra all’ordine di Ashur mio signore con la forza del mio scettro, ho indotto ad accettare una singola voce».3 I neo-assiri affermarono la loro supremazia insistendo sul fatto che la loro lingua era l’unica da usarsi da parte delle nazioni e delle popolazioni che avevano sconfitto. Babele è una critica dell’imperialismo.

C’è perfino una sottile allusione a ciò nel parallelismo del linguaggio tra i costruttori di Babele e il Faraone che rese schiavi i figli d’Israele. A Babele dicevano «Orsù [havà] costruiamo noi stessi una città e una torre … affinché [pen] non siamo dispersi su tutta la faccia della terra» (Gn 11, 4). In Egitto il Faraone diceva: «Orsù [havà] trattiamo saggiamente con loro, affinché [pen] non crescano di numero» (Es 1, 10). Queste sono le sole occasioni in cui nella Bibbia ebraica appare la locuzione «Orsù, facciamo/trattiamo… affinché non». Il collegamento è troppo evidente per essere accidentale. Babele, come l’Egitto, rappresenta un impero che sottomette intere popolazioni al prezzo delle loro distinte identità e libertà. Se il Diluvio riguarda la libertà senza ordine, Babele e l’Egitto riguardano l’ordine senza la libertà.

Il racconto della Bibbia ci sta dicendo questo: Genesi 10 descrive la divisione dell’umanità in settanta nazioni ed altrettante lingue. Genesi 11 ci narra come una potenza imperiale conquistava le nazioni più piccole, imponendo loro la sua lingua e la sua cultura, contravvenendo così direttamente al desiderio di Dio che gli uomini debbano rispettare l’integrità di ciascuna nazione e di ciascun individuo. Quando, al termine della storia di Babele, Dio «confuse le lingue» dei costruttori, non sta creando un nuovo stato delle cose ma ripristinando il vecchio.

Interpretati così, i racconti del Diluvio e della Torre di Babele non sono semplici narrazioni storiche. Insieme costituiscono una dichiarazione filosofica sull’identità e la violenza. Il Diluvio è ciò che accade quando ci siamo Noi e Loro e nessuna legge generale a mantenere la pace. Il risultato è l’anarchia e la violenza. Babele è ciò che accade quando le persone cercano d’imporre un ordine universale, obbligando Loro a diventare Noi. Il risultato è l’imperialismo e la perdita della libertà. Ricordate le parole di Samuel Huntington nell’intestazione di questo capitolo: «la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa […] L’imperialismo è l’inevitabile corollario dell’universalismo». Quando una singola cultura viene imposta a tutti, sopprimendo la diversità di lingue e tradizioni, questo è un attacco alle nostre differenze donateci da Dio. Come dice il Corano (49, 13): «O umanità! Ti abbiamo creata da una singola (coppia) di un maschio e di una femmina, e fatta diventare nazioni e tribù, così che possiate conoscervi reciprocamente (e non disprezzarvi reciprocamente)».

Così il Diluvio e la Torre di Babele insieme definiscono il dilemma umano fondamentale. Siamo diversi. Siamo tribali. E le tribù si scontrano. Il risultato è la violenza che, nel Diluvio, ha quasi distrutto l’umanità. Ma eliminate la differenza imponendo una singola cultura, religiosa o secolare, a tutti, e il risultato è la tirannia e l’oppressione. La Bibbia ebraica costituisce un tentativo, unico, di risolvere il dilemma mostrando come l’unità di Dio può coesistere con la diversità dell’umanità.

La diversità è ciò che dà colore e consistenza alla nostra vita sulla terra. L’arte, l’architettura, la musica, le storie, le celebrazioni, il cibo, le bevande, la danza: tutte queste sono cose particolari. Nessuna di esse è un universale astratto. Il compianto Sidney Morganbesser era un professore di filosofia presso la Columbia University con uno straordinario senso dell’umorismo. (Poco prima di morire, chiese a un altro filosofo: «Perché Dio mi fa soffrire così tanto? – Solo perché non credo in lui?»). Una volta portò i suoi studenti in un ristorante e ordinò una zuppa. «Che tipo di zuppa?» chiese il cameriere. «Di pollo, di carote, del borsht?». «Nessuna di queste» rispose. «Semplicemente una zuppa». Il cameriere, non essendo un filosofo, lasciò perdere. Il punto di Morganbesser è che non si può mangiare della zuppa in astratto. Non puoi parlare un linguaggio che è universale, e non puoi avere un’identità che dice: «Sono semplicemente un essere umano». Alcuni greci antichi lo pensarono, ma questo perché non consideravano i non-greci come pienamente umani. L’identità è plurale. Ciò costituisce l’inevitabile diversità dell’umanità.

Allora come evitiamo la violenza che nasce quando gruppi diversi s’incontrano e si scontrano? La risposta proposta dalla Bibbia è che qualcosa trascende le nostre differenze. Quel qualcosa è Dio, ed egli ha impresso la sua immagine su ciascuno di noi. Ecco perché ogni vita è sacra, e ciascuna vita è come un universo. L’unità di Dio ci chiede di rispettare lo straniero, chi è fuori dal gruppo, l’estraneo, perché anche se non è a nostra immagine – la sua etnicità, la sua fede o cultura non sono le nostre – ciò nondimeno è a immagine di Dio.

Quindi Dio è universale, ma la nostra relazione con lui è particolare. La Bibbia ebraica esprime questo concetto con le due parole fondamentali con le quali fa riferimento a Dio: Elokim* (E) e Hashem** (indicato dagli studiosi della Bibbia con J). Elokim è Dio nella sua universalità. Nella Genesi, Elokim parla ad Abimelek, re di Gerara (Gn 20, 3). Giuseppe, nel respingere le avances della moglie di Putifarre, dice: «Dovrei peccare contro Elokim?» (Gn 39, 9). Il Faraone, nel nominare Giuseppe, dice: «Si può trovare un uomo in cui sia presente, come in questo, lo spirito di Elokim?» (Gn 41, 38). La moralità in generale è descritta come «timore di Elokim» (Gn 20,11). Elokim è un termine puramente universale che si applica al rapporto fra le persone e Dio, sia che esse siano fuori o dentro il patto con Abramo.

Hashem, al contrario, è particolare. È come viene chiamato Dio nel contesto del patto abramitico e successivamente mosaico. È un nome proprio non un nome comune. È il linguaggio dell’intimità e del rapporto. Quando la Bibbia vuole descrivere ciò che Martin Buber chiamava una relazione Io-Tu usa la parola Hashem.

Ecco perché la Genesi descrive due patti; il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli, che non sono tutta l’umanità, ma solo un popolo in particolare al suo interno.
Il patto con Noè (Gn 9) usa sempre la parola Elokim, mentre il patto con Abramo usa la parola Hashem (Gn 15, 18; 17, 1-2). Il patto con Noè esprime l’unità di Dio e la dignità e la responsabilità condivisa dall’umanità. Il patto abramitico esprime la particolarità della nostra relazione con Dio, che ha a che vedere con la nostra specifica identità, storia, linguaggio e letteratura. Il risultato è che nella Bibbia c’è sia una moralità che riguarda tutti, amici ed estranei, e un’etica, cioè un codice specifico di condotta che formula le relazioni all’interno del gruppo. Per usare il linguaggio della filosofia contemporanea, la moralità è sottile (astratta, generale) mentre l’etica è spessa (densa di struttura e di specificità locali).

La moralità che riguarda tutti, secondo la Bibbia ebraica, è giustizia, correttezza, l’evitare di recare offesa. Questa fu la prima cosa che Abramo dovette insegnare ai suoi figli: «seguire le vie del Signore facendo ciò che è buono e giusto». Giustizia, correttezza e l’evitare di recare offesa sono quello che dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o ateo, amico o estraneo, connazionale o straniero.

L’etica che si applica all’interno della comunità del patto coinvolge concetti più forti come la santità, la reverenza, la lealtà e il rispetto. È un’etica del santo, non solo del buono. È anche un’etica di ciò che i rivoluzionari francesi chiamavano fraternità. La Bibbia spesso dice cose come: «Se tuo fratello è bisognoso…». Applica la lingua della parentela al gruppo. Il patto abramitico non è semplicemente un gruppo parentale. Non è soltanto una questione di discendenza biologica. C’è una conversione. Ruth, l’eroina del libro eponimo, non era etnicamente ebrea. Era una moabita. Ma divenne parte della comunità del patto e bisnonna di David, il più grande re d’Israele. Perciò quando la Bibbia usa il linguaggio della famiglia, lo fa metaforicamente. Ma si tratta di una potente metafora. Gli ebrei si sentono responsabili l’uno dell’altro come se fossero un’unica famiglia allargata.

Così la Bibbia ebraica combina i due elementi fondamentalmente diversi della vita morale/etica. C’è la giustizia, e c’è l’amore. La giustizia è universale. L’amore è particolare. La giustizia deve essere distaccata, imparziale, applicata in modo equo nei confronti di tutti. L’amore non vi esercita alcun ruolo. Se decido in favore del querelante perché è un membro della famiglia, o un amico, questa non è giustizia ma travisamento della giustizia. L’amore, d’altra parte, è assolutamente particolare. Leggete il meraviglioso duetto biblico, il Cantico dei cantici, e udrete come l’amante e l’amata parlano incessantemente di ciò che trovano di bello nell’altro: i capelli, il collo, la fronte, i piedi. Qui non vi è assolutamente niente di universale. Qui si tratta di ciò che Wallace Stevens chiamò «i particolari dell’estasi». Ne consegue che Elokim, Dio universale, è Dio-come-giustizia. Hashem, Dio particolare, è Dio-come-amore.

Possiamo ora comprendere perché, dopo Babele e il tentativo di imporre con la forza un’unica lingua a una popolazione diversa, Dio scelga Abramo e gli dica di abbandonare la sua terra e di viaggiare verso un luogo dove sarà uno straniero e un estraneo: diverso. Noè e il suo patto rappresentano universalità e giustizia. Abramo e i suoi discendenti rappresentano la particolarità e l’amore.

Il patto di Noè è il codice universale della Bibbia, la struttura fondamentale di un giusto ordine sociale. Le leggi noachidi, nell’interpretazione dei maestri dell’ebraismo, enunciano gli ampi parametri di una società rispettabile: il rispetto per Dio, per la vita umana, per la famiglia, per la proprietà, per il benessere degli animali e il dominio della legge.4 Questi princìpi sono generali, non specifici: sottili, non spessi. Si applicano a ogni uomo in virtù del fatto che è fatto a immagine di Dio, e quindi meritevole di dignità e di rispetto. Sono regole universali di ciò che oggi chiameremmo responsabilità e diritti.

Ma essi si riferiscono a ciò che abbiamo in comune, non a cosa ci rende diversi.
Così la Bibbia passa dall’universale al particolare: la narrazione di Abramo e Sara e dei figli d’Israele mentre viaggiano nel tempo e nello spazio verso la Terra Promessa. Questo è un racconto di ciò che significa vivere strettamente e continuamente sotto la sovranità e la tutela di Dio. È un racconto non soltanto di giustizia, ma anche ed essenzialmente di amore.

Non vi è alcuna indicazione che quella di Abramo o dei figli d’Israele sia l’unica storia. Al contrario, come si legge in Amos 9, 7: «Non siete forse per me, figli d’Israele, come i figli di Cush? – dice il Signore – Non è forse vero che ho fatto uscire i figli d’Israele dall’Egitto, i filistei da Caftor e gli aramei da Kir?». Dio è attivo nella storia delle altre nazioni. Manda un profeta, Giona, da un nemico d’Israele, l’Assiria, per persuaderli a pentirsi e salvarsi dalla catastrofe. Isaia prevede perfino un giorno quando Dio farà per l’altro grande nemico d’Israele, l’Egitto, ciò che ha fatto per i figli d’Israele contro l’Egitto stesso: liberarli dall’oppressione:

In quel giorno vi sarà in mezzo al paese d’Egitto un altare consacrato al Signore … e quando imploreranno il Signore per causa dei loro oppressori, egli manderà loro un liberatore che contenderà per loro e li salverà. Il Signore sarà allora conosciuto dagli egiziani … In quel giorno vi sarà una strada spianata dall’Egitto all’Assiria. Gli assiri andranno in Egitto, e gli egiziani in Assiria. Egiziani e assiri osserveranno il culto assieme. In quel giorno Israele sarà terzo all’Egitto e all’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Il Signore delle schiere li benedirà dicendo: «Benedetto l’Egitto mio popolo, l’Assiria, opera delle mie mani, e Israele mio possesso» (Isaia 19, 19-25).


Né vi è alcuna dichiarazione nella Bibbia che la famiglia di Abramo abbia il monopolio della virtù. Una delle eroine dell’Esodo, senza la quale non ci sarebbe stato Mosè, era la figlia del Faraone. Rachab, che dà rifugio agli esploratori di Giosuè, è una prostituta di Gerico (Gs 2). Yael, l’eroina che salva Israele da Sisera, è una chenita (Gdc 4). Uria, la cui fedeltà verso David è in acuto contrasto con la slealtà di David verso di lui, è un chitteo (2 Sam 11). Giobbe, l’esempio più lampante di un uomo assolutamente retto, non è un israelita.

Mosè critica più volte i figli d’Israele, dicendo loro: «Non dunque per la vostra rettitudine e per l’onestà del vostro cuore voi pervenite a possedere la loro terra» (Dt 9, 5). Questa osservazione è mantenuta fino alla fine del periodo profetico. Malachia, l’ultimo dei profeti, dice: «Dal sorgere del sole al suo tramonto il mio nome è grande tra i popoli … ma voi lo profanate» (Mal 1, 11-12).

Questo è un punto di estrema importanza. Un popolo scelto è il contrario di una razza padrona; primo, perché non si tratta di una razza ma di un patto; secondo, perché esiste per servire Dio, non per dominare gli altri.5 Una razza padrona venera se stessa; un popolo scelto venera qualcosa al di là di se stesso. Una razza padrona dà valore al potere; un popolo scelto ha cura degli inermi. Una razza padrona crede di avere diritti, un popolo scelto sa soltanto di avere delle responsabilità. Le virtù fondamentali di una razza padrona sono l’orgoglio, l’onore e la fama. La virtù fondamentale di un popolo scelto è l’umiltà. Una razza padrona produce edifici monumentali, iscrizioni trionfali e una letteratura autocelebrativa. Israele, fino a un livello unico nella storia, ha prodotto una letteratura di autocritica quasi ininterrotta.

Perché allora Isacco e non Ismaele? Perché Giacobbe e non Esaù? Perché Ismaele ed Esaù sono uomini forti, pieni di risorse, che sopravvivono grazie al loro talento e abilità. Il popolo del patto deve essere testimone in se stesso di qualcosa che è oltre se stesso. Isacco e Giacobbe non sono forti. Sono i preferiti delle madri, non dei padri. Sono i più giovani, non i più anziani. Ai patriarchi Dio ha dato due benedizioni: avranno molti figli e una terra. Tuttavia Sara, Rebecca e Rachele sono tutte sterili. I patriarchi non acquisiscono mai la terra. Abramo deve implorare il permesso per comprare una grotta in cui seppellire la moglie. Isacco è minacciato dalla popolazione locale quando riapre i pozzi del padre. Giacobbe deve pagare cento pezzi d’argento per comprare la terra su cui piantare la sua tenda.

Mosè, l’uomo della parola di Dio, è quello che dice: «Non sono un uomo che sa parlare … sono lento nella bocca e impacciato nella lingua» (Es 4,10). Israele doveva essere il popolo la cui forza non è la sua, come Mosè era l’uomo le cui parole non erano le sue. Doveva diventare il popolo la cui esistenza andava contro natura. Era piccolo. La sua terra, un luogo strategico tra imperi, sarebbe sempre stato vulnerabile alla conquista. Diversamente dal delta del Nilo o dalla valle del Tigri e dell’Eufrate, non aveva una riserva naturale di acqua e sarebbe dovuto dipendere sempre dalle piogge. Il suo popolo si sarebbe trovato a guardare in alto il cielo piuttosto che in basso la terra. Non conservava nella sua memoria collettiva alcuna sensazione di essere a casa come un diritto («siete stranieri e residenti provvisori presso di me» (Lv 25, 23). I figli d’Israele sarebbero sempre stati dipendenti da forze al di là di loro stessi. Un popolo scelto non è una razza padrona, ma il suo contrario: una comunità a servizio di. Ecco perché gli ebrei sono sempre stati attaccati – perché la loro esistenza è un affronto per coloro che si vedono come una razza padrona, un potere imperiale, o gli unici custodi della verità divina. Riusciamo ora a comprendere l’idea possente implicita nello strutturarsi della narrazione della Genesi. Inizia con gli archetipi universali – Adamo, Eva, Caino, Abele, il Diluvio, il patto con Noè e la critica di Babele – e solo allora passa alla particolarità del patto abramitico per dirci che la nostra umanità comune precede le nostre differenze religiose. Qualsiasi religione che disumanizzi gli altri per il semplice fatto che la loro fede è diversa non ha capito il Dio di Abramo.

Gli ebrei divennero il precedente giuridico di questa verità. Erano diversi: monoteisti in epoca pagana, poi noncristiani in un Europa cristiana. Oggi sono il gruppo non musulmano più evidente in un Medio Oriente islamico. Il destino degli ebrei attraverso i secoli è stato l’indicatore più chiaro del fatto se una cultura, una fede o un impero siano stati disponibili ad accordare dignità o diritti a quello-chenon-è-come-loro. La storia che ci racconta di come Dio ha concesso il suo amore ai deboli, ai pochi, ai vulnerabili e ai diversi è ciò che fa della Bibbia ebraica la grande narrazione di speranza nella civiltà occidentale.

L’amore di cui parlarono i profeti, del Dio per Israele, quel popolo litigioso, talvolta disobbediente, è l’amore per coloro che sono diversi, proprio per la loro diversità, non per coloro che sono affini, per la loro affinità. L’amore è particolare. Ecco perché, avendo dato all’umanità, col patto noachide, le regole generali di una società morale, Dio si rivolge ad Abramo e ordina a lui e ai suoi discendenti di essere un esempio vivente di ciò che vuol dire amare ed essere amati da Dio.

Non esiste alcun sistema, unico e semplice, che rispetterà sia gli elementi che abbiamo in comune che le nostre diversità. Il tribalismo, l’identità senza universalità, conduce alla violenza. L’imperialismo, l’universalismo senza identità, porta alla perdita della libertà e alla soppressione di quella stessa diversità che ci rende umani. Ecco perché la Bibbia stabilisce due patti, non uno solo: uno che renda onore alla nostra comune umanità, l’altro che santifichi la diversità e la particolarità dell’amore. E ciò che è universale viene prima. Non si può amare Dio senza prima rendere onore alla dignità universale dell’umanità fatta a immagine e somiglianza del Dio universale.

Osservate anche che la frase «immagine di Dio», come appare nella Bibbia, costituisce un paradosso, quasi una contraddizione. È assiomatico che per la Bibbia Dio non ha alcuna immagine. Sostenere altrimenti – fare un’immagine di Dio o adorarla – è il caso paradigmatico dell’idolatria. Quando Mosè chiede a Dio chi è, la sua risposta è: «Sarò ciò che sarò» (Es 3, 14). Dio trascende la categorizzazione. Se avesse un’immagine, sarebbe come questa, no quella, qui non là, in questo colore, credo o codice, non in quello. I maestri dell’ebraismo ne compresero pienamente le implicazioni:

Per questa ragione l’uomo fu creato solo, per insegnare che chiunque distrugge una sola vita è come se distruggesse un intero universo … e per amore della pace tra l’umanità, così che nessuno potesse dire all’altro: «Mio padre è più importante del tuo» … e per proclamare la grandezza del Santo, Benedetto egli sia, perché quando un essere umano fa molte monete da un unico stampo, esse sono tutte uguali, ma il supremo Re dei re fa ogni essere umano con la stessa immagine, e tuttavia sono tutti diversi.6

Come Dio resiste alla categorizzazione, così fa l’umanità.

La Bibbia ha in serbo per noi una seconda sorpresa. La stessa frase riappare otto capitoli dopo, dopo il Diluvio, come parte del patto di Dio con Noè:

Chi versa il sangue dell’uomo
avrà il proprio sangue versato dall’uomo;
perché a immagine di Dio
ha Dio fatto l’uomo (Gn 9, 6)

Questo suona come una riaffermazione di Genesi 1. In realtà, tuttavia, è il suo contrario. Genesi 1 dice che noi siamo fatti a immagine di Dio. Genesi 9 dice che l’altra persona è fatta a immagine di Dio. Genesi 1 parla della preminenza dell’umanità («Riempite la terra e rendetela soggetta a voi»). Genesi 9 afferma la proibizione contro l’omicidio. Tra le due sta la tragedia. Concesso il dominio sulla natura, gli uomini usarono il potere per tentare di dominare sugli altri uomini, e il risultato – da Caino al Diluvio – fu la violenza e l’omicidio. Ed è ancora così. Ecco perché Genesi 9 non è una ripetizione ma un rovesciamento di Genesi 1.

Genesi 1 riguarda il sé, Genesi 9 riguarda l’Altro umano. Uno che non è a mia immagine è tuttavia a immagine di Dio – questa è la base del patto di Dio con Noè, una condizione universale di tutte le culture se intendono onorare Dio che ci ha dato la vita. Il terrore, l’uccisione di innocenti e il sacrificio della vita umana per fini politici non sono semplicemente dei crimini. Sono un sacrilegio. Coloro che uccidono l’immagine di Dio nel nome di Dio commettono un doppio sacrilegio.

La struttura unica della spiritualità biblica – la sua tensione calibrata tra l’universalità della giustizia e la particolarità dell’amore, è il modo più avvincente che io conosca di dare espressione religiosa sia alla nostra comune umanità sia alle nostre differenze religiose.

Ma come funziona questo in pratica?

Considerate la vita di Abramo. I lettori della Bibbia conoscono così bene questa storia che spesso mancano di notare come è strana. Ecco il padre del monoteismo, ma nel testo biblico vero e proprio Abramo non spezza alcun idolo, non sfida alcun politeista, non cerca discepoli,7 e non fonda alcun nuovo movimento religioso. Vive tra un popolo le cui credenze e pratiche sono lontane dalla sua, e tuttavia non li ammonisce, tranne quando i servi di Abimelek, un re con cui aveva stabilito un patto, s’impossessano di uno dei pozzi che Abramo aveva scavato (Gn 21, 25). Li vincola agli standard di moralità, non a quelli dell’etica o della santità.

Quando suo nipote Lot sceglie di vivere tra la gente di Sodoma, di cui la Bibbia dice che «erano malvagi e grandi peccatori verso il Signore» (Gn 13, 13), Abramo non lo critica, né condanna gli abitanti di Sodoma, al contrario combatte una battaglia a loro nome (Gn 14), e quando sente che Dio progetta di punirli, perora la loro causa con una delle preghiere più audaci della Bibbia: «Il giudice di tutta la terra non farà giustizia?» (Gn 18, 25).

Abramo non cerca d’imporre le sue idee agli altri. Tuttavia i suoi contemporanei sentono che c’è in lui qualcosa di speciale, di divino. Melchitzèdek, re di Salem, lo saluta con le parole: «Benedetto tu sia, Abramo, dal Dio altissimo, Creatore del cielo e della terra» (Gn 14, 19). I chittei gli dicono: «Tu sei un principe di Dio tra noi» (Gn 23, 6). Abramo colpisce i suoi contemporanei per il modo in cui vive, non per il modo in cui obbliga, o addirittura spinge gli altri a vivere. Cerca di essere fedele alla sua fede e contemporaneamente una benedizione per gli altri a prescindere dalle loro fedi. Questa mi sembra una verità per il XXI secolo.

C’era chiaramente un amore profondo tra Abramo e Dio, ed è questo che, alla fine, ispirò non soltanto gli ebrei, ma anche i cristiani e i musulmani, nei loro modi diversi, a vedersi come suoi eredi.
Ma tutti quelli che scelgono Abramo devono aspirare a vivere come Abramo. Niente potrebbe essere più estraneo allo spirito del monoteismo abramitico di quello che sta accadendo oggi nel nome del jihad. Barbarie e brutalità, la scelta del terrore e dell’omicidio di innocenti, l’uccisione fredda, crudele, di coloro con cui non sei d’accordo, la ricerca del potere nel nome dell’impero, e l’idea che si può imporre la verità con la forza: queste sono idee pagane che non hanno spazio nell’universo di Abramo o del Dio di Abramo. Non rappresentano né la giustizia, né l’amore. Sono una profanazione.

Essere un figlio di Abramo vuol dire esser aperto alla presenza divina ovunque essa si riveli. La fede dei figli di Abramo è narrata in una serie di storie su come degli stranieri si rivelarono non essere quello che sembravano. Tamar non è una prostituta. Ruth non è una straniera. Mosè non è un egiziano, i tre che vengono in visita da Abramo non sono semplici uomini. Gli stranieri possono rivelarsi degli angeli. La figlia del Faraone può essere un’eroina. David, il ragazzo insignificante, diventa il più grande dei re d’Israele. L’imperativo etico che emerge da questa fede è: cerca l’impronta di Dio nel volto dell’Altro. Non credere mai che Dio è definito da e limitato a persone come te. Dio è più grande di ogni nazione, lingua, cultura o credo. Vive nel tuo gruppo, ma vive anche oltre.

«Perché quello che collega il pensiero e il sentimento umano con l’infinita e ineguagliabile luce divina deve [essere rifratto in] una molteplicità di colori, perciò ogni popolo e società deve avere un modo di vita spirituale diverso». Così diceva Rav Abraham Kook, primo rabbino capo di un Israele non ancora diventata stato.8 «I giusti di tutte le nazioni hanno una parte nel mondo a venire» dicevano i rabbini nel II secolo.9 Rabbi Akiva, il maestro della fine del I secolo, diceva: «Amato è ogni essere umano perché è a immagine di Dio. Amato è Israele (cioè ogni ebreo), perché ciascuno di noi è uno dei figli di Dio».10 Ecco come gli ebrei si definivano nel passato e come si definiscono oggi. Ci sentiamo vicini a Dio ma crediamo anche che Dio abbia una relazione con tutta l’umanità quale è definita nel codice noachide.

Ci sono delle volte in cui la Bibbia descrive i gentili come ben più religiosi degli ebrei. Nel giorno più sacro dell’anno ebraico, Yom Kippur, leggiamo il libro di Giona, in cui il profeta viene mandato dai nemici d’Israele, gli assiri a Ninive, a predicare il pentimento. Giona cerca di sottrarsi fuggendo. Chi desidera vedere i suoi nemici perdonati? Tuttavia Dio gli impedisce di fuggire. Giona pronuncia il suo messaggio, cinque semplici parole in ebraico, e tutto il popolo si pente. Non vi è alcun esempio in tutta la Bibbia ebraica di israeliti che rispondano con tale alacrità a un invito profetico. L’effetto di leggere questa storia, nel tempo più sacro di tutti, è quello di obbligarci a un senso di umiltà. Nonostante tutto l’orgoglio naturale che proviamo nell’essere parte del nostro gruppo – il popolo del patto, una nazione santa – veniamo messi faccia a faccia con il fatto che gli altri possono, talvolta, rispondere alla parola di Dio meglio di quanto facciamo noi.

Ecco quello che fa la duplice struttura della spiritualità ebraica; accetta l’inevitabilità dell’identità qui e ora. Non siamo tutti uguali. Ci siamo Noi e Loro. Ma Dio è universale e particolare, il che significa che lo si può trovare tra Loro come tra Noi. Dio trascende le nostre particolarità. Ecco perché spesso appare dove meno ce lo aspettiamo. Qualche volta ha la voce di uno sconosciuto, dell’uomo che ha lottato con Giacobbe di notte, o di quello che trovò Giuseppe che vagava in un campo, o perfino del profeta pagano Balaam. La dialettica, unica, della Bibbia ebraica – così raramente compresa, così spesso vituperata, tra l’universalità e la particolarità – è esattamente ciò che è necessario se vogliamo avere l’identità senza la violenza.

Perché, sebbene Dio sia il nostro Dio, è anche il Dio di tutti, accessibile a tutti: il Dio che benedice Ismaele, che dice ai figli di Giacobbe di non odiare i discendenti di Esaù, che ascolta le preghiere degli sconosciuti e i cui messaggeri appaiono come sconosciuti. Soltanto una fede che riconosce entrambi i tipi di patto – l’universale e il particolare – è in grado di comprendere che l’immagine di Dio può essere presente in colui la cui fede non è la mia, e la cui relazione con Dio è diversa dalla mia.

L’umanità vive sospesa tra le due realtà gemelle della comunanza e della differenza. Se fossimo completamente diversi, non saremmo in grado di comunicare. Se fossimo assolutamente uguali, non avremmo niente da dire. Il patto di Noè si rivolge alla nostra comunanza, il patto di Abramo e quello del Sinai alle nostre differenze. È questo che rende il monoteismo abramitico diverso dal tribalismo da un lato (ciascuna nazione con il suo Dio) e dall’universalismo dall’altro (un Dio e quindi una sola via). Né il tribalismo né l’universalismo sono adeguati alla condizione umana. Il tribalismo immagina un mondo permanentemente in guerra (il mio dio è più forte del tuo). L’universalismo rischia un mondo dualistico diviso tra i salvati e i dannati (io ho la verità, tu hai solo l’errore),11 e da qui ne conseguono le guerre sante, le crociate e i jihad.

E se il Dio dei crociati, dei terroristi, degli inquisitori, di chi mandava le streghe al rogo e dei jihadisti fosse anche il Dio delle loro vittime? E se non si potesse, con assoluta certezza, escludere questa possibilità? L’umanità vive in quel «e se» e non può sopravvivere senza. Perché noi siamo finiti, ma Dio è infinito. Noi siamo limitati, ma Dio non conosce limiti. Per quanto perfetta sia la nostra fede c’è qualcosa di Dio che sta oltre, qualcosa conosciuto da Dio ma che non può essere conosciuto dall’umanità fragile, fallibile, che è tutto ciò che siamo, e saremo sempre, da questa parte del cielo.

* k invece di h per non scrivere esattamente il Nome divino. (N.d.T.)

** Per la stessa ragione di cui sopra, al posto del Tetragramma è qui usato il termine Hashem (il Nome). (N.d.T.)
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele

Messaggioda Berto » gio apr 06, 2017 9:33 am

La legge dell'amore fraterno cristiano non è invenzione dell'ebreo Cristo ma è legge tradizionale ebraica fin dalla protostoria di Abramo:


Non nel nome di Dio
http://www.giuntina.it/Schulim_Vogelman ... o_682.html

Jonathan Sacks
https://it.wikipedia.org/wiki/Jonathan_Sacks
Jonathan Henry Sacks (Londra, 8 marzo 1948) è un rabbino britannico, considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, col titolo di Chief Rabbi of Great Britain and the Commonwealth of Nations ("Rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth delle nazioni") dalla sua nomina nel 1991 fino alla conclusione del suo mandato nel 2013. Creato Sir dalla Regina Elisabetta II nel 2005 per servizi resi alla Comunità e alle relazioni inter-religiose e nel 2009 nominato Lord Barone con un seggio a vita nella Camera dei Lord.


Capitolo 14 - Liberarsi dell’odio

È quello che ha fatto Mosè. Nel modo in cui la Bibbia ebraica lo narra, Mosè passò l’ultimo mese della sua vita rivolgendosi alla nazione con alcuni dei discorsi più lungimiranti mai pronunciati. Esistono a tutt’oggi nel libro del Deuteronomio. Questo è il libro che contiene il grande precetto che definisce l’ebraismo come una religione d’amore: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze» (Dt 6, 5). Come contiene il più importante precetto nella relazione tra gli uomini: «Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto» (Dt 10, 19). Il Deuteronomio contiene la parola «amore» più che ogni altro libro mosaico.

La cosa non ci sorprende. Mosè aveva parlato prima dell’amore, com’è ampiamente noto, nel precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18). Il monoteismo abramitico fu il primo sistema morale basato non soltanto sulla giustizia e la reciprocità – fai per gli altri ciò che vorresti gli altri facessero per te – ma sull’amore. Ciò che è realmente inaspettato è ciò che dice a proposito dell’odio:

Non odiare l’egiziano, perché fosti uno straniero nella sua terra. (Dt 23, 7)

...

Le persone a cui Mosè si rivolgeva non erano sopravvissuti, ma erano figli di sopravvissuti. I loro genitori avevano vissuto la prima tragedia collettiva del popolo ebraico. Era fondamentale insegnare loro a concentrarsi sul futuro, a non guardare indietro con rabbia o con dolore ma a usare il passato in modo costruttivo, creativo. I libri mosaici fanno spesso riferimento all’Esodo e all’imperativo della memoria: «Ricordate che foste schiavi in Egitto». Tuttavia questo ricordo non viene mai invocato come un motivo di odio, rappresaglia o vendetta. Si presenta sempre come parte della logica della società giusta e compassionevole che ai figli d’Israele viene comandato di creare: l’ordine alternativo, l’antitesi dell’Egitto. Non rendete schiavi gli altri, dice Mosè, o, poiché questo era chiedere troppo considerato il periodo storico, trattate gli schiavi con rispetto. Non sottoponeteli a una dura fatica. Concedete loro riposo e libertà il settimo giorno. Liberateli ogni sette anni. Riconosceteli come simili a voi, non ontologicamente inferiori. Nessuno nasce per essere schiavo.

Siate generosi con i poveri. Lasciate che godano di ciò che resta del raccolto. Riservate loro un angolo del campo. Condividete le vostre benedizioni con gli altri. Non private le persone dei loro mezzi di sostentamento. L’intera struttura della legge biblica è radicata nell’esperienza della schiavitù in Egitto, come a dire: nel vostro cuore sapete cosa significa essere vittima della persecuzione, quindi non perseguitate gli altri. L’etica biblica è basata su reiterati atti di rovesciamento di ruoli: il principio che abbiamo visto nella storia di Giuseppe nel capitolo 8. Non si può rimanere morali in tempi difficili, e umani verso i forestieri senza qualcosa di più forte della logica kantiana o della solidarietà dei seguaci di Hume. Quel «qualcosa di più forte» è il ricordo.3 Nell’Esodo e nel Deuteronomio, il ricordo diventa forza morale: non un modo per mantenere l’odio ma, al contrario, un modo per vincerlo, ricordando cosa significa essere una vittima. «Ricordate» – non per vivere nel passato ma per impedire la ripetizione del passato.

Il Discorso della Montagna ci dice di amare i nostri nemici. Questa è un’idea estremamente bella, ma di difficile attuazione. Mosè offre una soluzione più accettabile. Aiuta il tuo nemico. Non devi amarlo, ma devi assisterlo. Questa è la base di quel semplice precetto dell’Esodo:


I rabbini osservarono che in Deuteronomio 22, 4 appare una legge simile, ma questa volta in relazione a un amico, non a un nemico: parla dell’«asino di tuo fratello». Il Talmud stabilisce che in caso di conflitto, laddove tuo fratello e il tuo nemico abbiano entrambi bisogno del tuo aiuto, «dovresti aiutare prima il tuo nemico, allo scopo di dominare l’istinto cattivo».4 Entrambi possono trovarsi ugualmente nella sofferenza, ma nel caso di un nemico c’è qualcosa di più in palio: la sfida per superare la separazione, la distanza e il rancore. Pertanto ha la precedenza. Le antiche traduzioni aramaiche (il Targum Onkelos e, più esplicitamente il Targum Yonatan) dicono qualcosa di affascinante su questo punto. Prendono la frase «sicuramente lo aiuterai a scaricarlo» come se volesse significare non solo il fardello fisico che grava sull’asino, ma anche il fardello psicologico che grava su di te; e traducono il versetto così: «Di certo ti libererai dell’odio che hai nel cuore verso di lui».


La legge ebraica proibisce agli esseri umani di serbare rancore o di fare vendetta:

Cancellerai [qualsiasi offesa contro di te] dalla tua mente e non serberai rancore. Perché se si coltiva un’offesa e la si conserva nella mente, si può arrivare a fare vendetta. Perciò la Torà ci ammonisce fortemente dal serbare rancore, così che l’impressione del torto venga completamente cancellata e mai più ricordata. Questo è il giusto principio. Esso solo rende possibile una vita civilizzata e l’interazione sociale.7

Questo è il corollario della fede nella giustizia divina. Se la vendetta appartiene a Dio, non appartiene a noi.

C’è un legame tra il monoteismo e il liberarsi dell’odio. Voglio qui chiarire un’idea accennata brevemente nel capitolo sul dualismo. Civiltà diverse generano diversi tipi di carattere. Questo non perché il carattere sia una questione di etnia: questo è razzismo ed è anche falso. Gli uomini sono animali che producono cultura, e il modo in cui agiscono, perfino il modo in cui sentono, dipende in non piccola misura dalle strutture mentali che abbiamo interiorizzato dal nostro ambiente circostante e dalle abitudini del cuore apprese da bambini. Le religioni sono istituzioni che plasmano la cultura, ed esse non includono soltanto una teologia, ma anche un’antropologia. Ciò che noi crediamo di Dio incide su ciò che crediamo di noi stessi.8


https://it.wikipedia.org/wiki/Comandamento_dell%27amore
Il Comandamento dell'amore è un insegnamento lasciato da Gesù Cristo che costituisce il fulcro dell'etica cristiana . Ha un ruolo centrale nel Nuovo Testamento, dove il comandamento viene ribadito e declinato più volte e in formule diverse.



Sul precetto dell'amore del prossimo nell'Antico e nel Nuovo Testamento
http://www.amicidomenicani.it/leggi_sac ... hp?id=1326

Caro Padre Angelo,
Mi sono chiesto riferendomi a Mt 22,36-40 dove si legge :"Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?". Gli rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti".
Le chiedo se questo era già il sentire della legge al tempo di Gesù.
A parte il riferimento al prossimo che allora era inteso come i fratelli Giudei , nel Deuteronomio 5,24 non si accenna minimamente al prossimo.
Certo che dal tempo di Mosè erano passati millenni e può darsi che le diverse generazioni di Rabbini e Profeti abbiano esplicitato La Legge, ma io non conosco a fondo il Vecchio Testamento o la religione Ebraica di quei tempi .
Le sarei grato se mi potesse dare qualche ragguaglio a proposito (magari via email ).
Un caro saluto
Ugo

Risposta del sacerdote

Caro Ugo,
1. sì, questo era già il sentire degli ebrei prima della venuta di Cristo.
In Dt 6,5 (e non in Dt 5,24) si comanda di amare Dio con tutto il cuore e in Lev 19,18 troviamo il precetto dell’amore del prossimo come noi stessi: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”.

2. Dal testo di Lev 19,18 si desume anche chiaramente che per prossimo s’intendevano i figli d’Israele (i figli del tuo popolo).

3. In Proverbi 3,28 troviamo un’altra affermazione, assai significativa: “Non dire al tuo prossimo: «Và, ripassa, te lo darò domani», se tu hai ciò che ti chiede”.
La Bibbia di Gerusalemme commenta: “Il prossimo originariamente era il compagno, l’amico, il commensale, cioè l’uomo con il quale si hanno precise relazioni. Ma nei Pr questa parola acquista un significato più largo. È il primo passo vero l’allargamento del precetto dell’amore (Lv 19,18), che culminerà nel precetto evangelico dell’amore dei nemici (Mt 5,43ss)”.

4. Contestualmente a Lv 19,18 si hanno già nell’Antico Testamento alcuni riferimenti all’amore per i nemici: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23, 4-5); “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere” (Pr 25,21).

5. Ma questo comando sarà ulteriormente esplicitato e reso possibile soprattutto nel Nuovo Testamento: “Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti... Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,45.48).
Anzi, col Nuovo Testamento ci viene data la forza per un amore così grande: “perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).

Ti saluto, ti prometto un ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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