Ixrael paradixo de łebertà par arabi, musulmani e creistiani

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Messaggioda Berto » gio feb 15, 2018 8:55 am

C’è un mondo cristiano innamorato di Israele e del sionismo? Sì
Ester Moscati
di Ugo Volli

http://www.mosaico-cem.it/cultura-e-soc ... ionismo-si

Lo storico Elia Boccara narra un sorprendente capitolo filosemita

Si può chiamarlo antisemitismo, un termine che ha un secolo e mezzo di vita, oppure antigiudaismo, giudeofobia, antiebraismo. Certo è che il popolo di Israele è stato oggetto di odio e diffamazione in gran parte della tradizione intellettuale europea – e anche in quella islamica, che qui non ci interessa. Non sono stati solo i nazifascisti, la plebe facile all’odio, i razzisti; buona parte dei migliori filosofi e scrittori e teologi e artisti e politici europei, quando si sono espressi sul popolo ebraico, hanno mostrato un grado di odio e ribrezzo senza pari.

Non solo Goebbels e Heidegger e Rosenberg e Torquemada e Céline; ma anche Sant’Agostino e Sant’Ambrogio, Lutero ed Erasmo, Kant e Hegel e Fichte e Wagner e mille altri che non c’è qui lo spazio per nominare. Questa funesta eredità antisemita agisce ancora sottotraccia: non c’è altro modo di dare ragione della violenta ostilità che l’Europa nutre verso lo Stato di Israele se non pensando al volgersi in politica internazionale dell’“odio antico” contro gli ebrei e le loro comunità.

È su questo sfondo che si apprezza meglio il libro di Elia Boccara intitolato Sionisti cristiani in Europa – Dal Seicento alla nascita dello Stato di Israele (Giuntina). La parola “sionisti”, anch’essa nata meno di un secolo e mezzo fa, è una voluta forzatura: si tratta di persone che si proclamano amiche degli ebrei e ne comprendono il diritto, basilare per ogni popolo, all’autogoverno in una patria, auspicando dunque il ritorno in Terra di Israele. Si tratta però di eccezioni, persone illuminate spesso più dalla lettura delle Scritture che da una conoscenza effettiva di ebrei, che proprio per questa conoscenza letteraria vengono per lo più da settori marginali del cristianesimo, sono sospetti di eresia o appartengono a correnti minoritarie del Cattolicesimo o più spesso del Protestantesimo. Nel libro di Boccara, si merita innanzitutto un capitolo Jean Racine, il grande autore drammatico del Seicento francese vicino al giansenismo di Port Royal; la prova del suo “sionismo” sta in un’opera tarda, scritta per un collegio di fanciulle sotto la protezione del Re Sole. Si tratta della storia di Ester, che viene riletta sottolineando il diritto degli ebrei al ritorno a Gerusalemme. Poi vengono Padre Antonio Vieira, un gesuita portoghese che fu vicino alla comunità ebraica di Amsterdam, pubblicò degli scritti contro l’inquisizione ed ebbe i suoi guai per questo; Jean-Jacques Rousseau si lanciò in qualche pagina filoebraica dell’Emile, per gli ambienti inglesi puritani e non conformisti.

Da questo mondo emergono alcuni personaggi molto significativi, innanzitutto una grande scrittrice come George Eliot, soprattutto col romanzo Daniel Deronda, ma anche alcuni militari influenti sull’insediamento ebraico durante il Mandato britannico di Palestina, come Wyndam Deeds e Orde Wingate. In questo contesto vi è posto anche per un cappellano anglicano che fu un importante collaboratore di Herzl, William Hechler, e compare anche il calabrese eroe del Risorgimento Benedetto Musolino.

Sono storie assai diverse fra loro, per profondità di impegno, valore letterario e influenza politica. Storie anche isolate, di persone che non si conoscevano e non appartenevano allo stesso ambiente, se si fa eccezione per una tradizione britannica effettivamente importante e continuativa. Elia Boccara ha un grande merito a rievocarle, colmando una certa disattenzione per dei rapporti che senza dubbio hanno un valore significativo di testimonianza. Questa linea minoritaria di pensiero, che Boccara descrive con passione e lucida capacità di documentazione, mostrano fra l’altro che fu sempre possibile, per chi lo voleva, non essere ideologicamente nemici degli ebrei, non condividere il desiderio di genocidio culturale, se non fisico, che fu così largamente condiviso in Europa per tanti secoli. Il che sottolinea la responsabilità di chi invece non si sottrasse ad esso.
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Messaggioda Berto » mar mar 20, 2018 7:43 pm

UN CRISTIANO GAY, UN MUSULMANO E UNA DRUSA RACCONTANO ISRAELE

https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 8046285217

La difesa di Israele da chi non ti aspetti: un giovane musulmano, un cristiano gay e una donna drusa. «Nel 1936 la leadership araba voleva uccidere Alexander Zaid, un leader sionista: mio bisnonno ha protetto lui e la sua famiglia perché nella tradizione musulmana e beduina è vietato uccidere donne e bambini». Muhammad Ka’biya spiega che quello è stato il primo contatto della sua famiglia, beduina e islamica tradizionalista, con gli ebrei. Un legame diventato indissolubile: lui ha fatto il servizio militare nelle squadre di salvataggio dell’aeronautica israeliana. «Lo stato d’Israele dà a tutti la possibilità di integrarsi - dice - ci sono giudici della corte suprema e direttori di ospedali arabi. Ma a Gerusalemme Est ci sono arabi che non vogliono la cittadinanza israeliana, a loro dico: allora andate a vivere nei Territori». La via per la pace? «È semplice: i terroristi palestinesi abbandonino le armi».


Se un ragazzo arabo difende Israele
claudia luise
2018/03/20

http://www.lastampa.it/2018/03/20/crona ... agina.html

La difesa di Israele da chi non ti aspetti: un giovane musulmano, un cristiano gay e una donna drusa. «Nel 1936 la leadership araba voleva uccidere Alexander Zaid, un leader sionista: mio bisnonno ha protetto lui e la sua famiglia perché nella tradizione musulmana e beduina è vietato uccidere donne e bambini». Muhammad Ka’biya spiega che quello è stato il primo contatto della sua famiglia, beduina e islamica tradizionalista, con gli ebrei. Un legame diventato indissolubile: lui ha fatto il servizio militare nelle squadre di salvataggio dell’aeronautica israeliana. «Lo stato d’Israele dà a tutti la possibilità di integrarsi - dice - ci sono giudici della corte suprema e direttori di ospedali arabi. Ma a Gerusalemme Est ci sono arabi che non vogliono la cittadinanza israeliana, a loro dico: allora andate a vivere nei Territori». La via per la pace? «È semplice: i terroristi palestinesi abbandonino le armi».

La barba lo fa sembrare più grande dei suoi 27 anni. Studia Scienze politiche, dopo aver studiato dai francescani, «perché hanno una delle migliori scuole del Paese». È un vero groviglio intricato di religioni, popoli, culture e identità, quello che Muhammad ha portato a Torino insieme a Jonathan Nizar Elkhoury, di famiglia cristiana, e Lorene Khateeb, ragazza drusa del villaggio di Smea in Galilea. Le loro voci aiutano a scomporre un orizzonte che può sembrare monolitico. Ieri sera sono stati ospiti del Circolo della stampa a Torino, oggi 20 marzo saranno a Milano, poi Bologna e Roma.

Sono tre giovani israeliani che appartengono a minoranze, «anche se noi ci sentiamo israeliani e basta, perché siamo integrati: ci definiamo minoranza solo nelle nostre conferenze all’estero», aggiunge Jonathan, 25 anni, di Haifa, che studia Comunicazione e fa parte di un’altra minoranza, quella gay. E ancora: sua madre è cattolica, il padre greco-ortodosso. «Le differenze sono la nostra ricchezza». Sono stati invitati dall’ambasciata israeliana. Fanno parte dell’associazione «Reservist on duty», istituita da soldati e ufficiali di combattimento israeliani che vogliono difendere lo Stato d’Israele «dalla troppa disinformazione, secondo cui chi non è ebreo vive in una sorta di apartheid. È tutto l’opposto», dice Jonathan.

Hanno identità molto diverse ma la pensano allo stesso modo su Israele. La loro è una militanza. Jonathan, per esempio, è andato in giro per 4 ore ad Haifa con un grosso crocifisso al collo, per un video-risposta su Youtube a quello virale dell’ebreo con la kippah in testa per le strade di Parigi, che ha collezionato insulti e sputi. «Non mi ha notato nessuno: Israele è il migliore posto in cui vivere se sei una minoranza».

La voce di questi tre ragazzi, sempre con il sorriso e con il cellulare in mano, com’è normale a quest’età, è la voce di una sola parte del conflitto israelo-palestinese. Ma lascia intravvedere le contraddizioni e il magma che ribolle. Jonathan racconta che la sua famiglia ha dovuto lasciare il Libano: «Mio padre faceva parte dell’esercito che appoggiava Israele contro Hezbollah. Anche ad Haifa c’è chi ci considera traditori, per questo ho studiato nella scuola ebraica. C’erano dei cristiani che dicevano: non venite nella nostra parrocchia o nel nostro villaggio». Mohammad aggiunge: «Ho amici palestinesi che la pensano come me, altri dicono che Israele non dovrebbe esistere. Ma restiamo amici». Insomma: quella dei tre giovani è una delle tante possibili voci. Ammette Jonathan: «Non posso parlare a nome di tutti i cristiani». Però se il Vaticano si preoccupa perché Trump vuole dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, «ci sono tanti preti che in privato ti dicono che sono d’accordo con Trump», dice Jonathan.

Non ci sono solo l’etnia o la religione: anche il genere crea barriere. Lo sa bene Lorene, 21 anni, che studia sociologia, e sostiene progetti per l’integrazione delle donne, incoraggiandole a superare i ruoli femminili tradizionali. Lorene è drusa, una comunità araba nata da uno scisma nell’Islam, «ma in Israele non ci trattano come eretici». La pace? «Quello che facciamo noi, dialogando e con questi tour per parlare di Israele, spero serva».

Appuntamento a Palazzo Reale a Milano, oggi, 20 marzo, ore 17,30. Modera Elena Loewenthal. Domani, 21 marzo, saranno dalle 11 alle 13 al Museo Ebraico di Bologna; giovedì 22 dalle 17 saranno al Centro studi americani di Roma.
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Messaggioda Berto » ven giu 08, 2018 8:51 am

Quei mille gay palestinesi salvati da Israele
L'intraprendente
Gabriele Carrer

http://www.lintraprendente.it/2015/12/86416

Non solo Payam, il poeta iraniano in esilio che, sfoggiando una tatuaggio con una stella di David sul collo, ha dichiarato il suo amore per Israele, al suon di «è il posto migliore sulla Terra, ed il più bello». Sono infatti oltre mille in poco meno di un anno i gay palestinesi scampati da morte sicura trovando rifugio in Israele (gli omosessuali in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza vengono infatti incarcerati con l’accusa di essere collaborazionisti di Israele e qui seviziati e torturati, spesso fino alla morte) . Rights Reporter nei primi mesi di quest’anno ha monitorato la situazione dopo il primo report del 2014 sui gay palestinesi rifugiatisi in Israele. L’organizzazione, in collaborazione con le autorità israeliane e nel rispetto delle norme di sicurezza imposte dalla situazione, ha silentemente favorito l’ingresso di omosessuali palestinesi in Israele.

Rights Reporter non nasconde i problemi burocratici con le autorità israeliane per il riconoscimento dello status di rifugiato, pur affermando la piena collaborazione ed una «totale tolleranza nei confronti dei gay palestinesi che per varie ragioni non hanno ancora ottenuto lo status di rifugiati. Nessuno li ha espulsi, nessuno li ha privati dei loro fondamentali diritti a partire dalle cure sanitarie, nessuno gli ha proibito di fare coppia con cittadini israeliani tanto che le coppie miste (palestinese/israeliano) riconosciute dallo Stato Ebraico di Israele negli ultimi 12 mesi sono state oltre 130 (per la precisione 133)». Ecco i dati riportati da Rights Reporter. I gay palestinesi richiedenti asilo negli ultimi 12 mesi sono stati 1.034 (1.011 uomini e 23 donne). Ad aprile le domande accettate sono state 291 e tutte le altre erano in corso di verifica: nessuno infatti è stato rifiutato da Israele, che ha deciso di fare uno strappo alle sue leggi assai dure per garantire il sogno della libertà.

La storia di Payam non è isolata. Lui, originario della città iraniana di Kermanshah, grazie ad un video sul suo canale YouTube è arrivato in Israele per presentare la sua ultima fatica letteraria. Poi però ha trovato la libertà. La stessa libertà che le associazioni e le autorità israeliane garantiscono ai perseguitati in Palestina. Alla faccia di chi, dall’Onu alle varie ong pacifinte, si stracciano le vesti per i diritti umani citando solo dati di Hamas. Alla faccia di tutte le associazioni LGBT occidentali che sostengono il boicottaggio di Israele, nonostante questo sia l’unico stato in Medio Oriente democratico, dove una persona omosessuale è libera di esprimersi e vivere la propria vita e la propria libertà.
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Messaggioda Berto » ven giu 08, 2018 7:38 pm

LA DEMOCRAZIA ISRAELIANA HA RAGGIUNTO IL LIVELLO DI GUARDIA
MI CHIEDO se, nel Parlamento italiano, al tempo delle brigate rosse, ci fosse stato un parlamentare che avesse elogiato le azioni dei brigatisti e ne avesse esaltato le idee, come avrebbero reagito gli altri parlamentari e il Presidente della Camera.
A tutto c'è un limite e ora la Zoabi lo ha ampiamente superato.
06 giugno 2018

https://www.facebook.com/zio.Ferdinando ... 6257201850

Durante il suo discorso di oggi la deputata arabo israeliana Hanin Zoabi, è stata allontanata dalla Knesset dopo aver accolto con favore la decisione della nazionale argentina di non disputare l’amichevole contro Israele prevista per sabato sera a Gerusalemme, dopo aver dichiarato che la terra dei palestinesi è Israele e che i soldati israeliani sono degli assassini. Non è la prima volta che la Zoabi è al centro di questo genere di dichiarazioni anti-israeliane sostenendo apertamente il regime terrorista di Hamas. Contrariamente al volere degli altri deputati, sia di destra che di sinistra, la Corte Suprema l’ha sempre graziata e fatta riaccomodare nell’emiciclo del parlamento israeliano in nome di un imprecisato senso di democrazia. Due giorni fa un deputato aveva proposto una legge speciale che prevedeva l’espulsione definitiva dalla Knesset ai deputati che incoraggiano il boicottaggio di Israele e gli atti di terrorismo ma è stata subito accantonata.
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Re: Ixrael paradixo de łebertà par arabi, musulmani e creist

Messaggioda Berto » dom giu 17, 2018 8:24 pm

L’ ANNO PROSSIMO A GERUSALEMME
Di Bassem Eid - Analista politico palestinese e pioniere dei diritti umani.
17/06/2018

https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 4420304912

Sono nato nel quartiere Ebraico nella Città Vecchia di Gerusalemme, sotto l’occupazione Giordana. Nel giugno del 1966, il governo Giordano decise di evacuare 500 famiglie palestinesi compresa la mia famiglia, dal quartiere ebraico e di trasferirci nel campo profugo di Shuafat senza darci spiegazioni e senza motivi chiari.

Un giorno, prima della guerra del 1967, andai dal campo di Shuafat alla Città Vecchia di Gerusalemme per visitare mia zia. Il giorno dopo scoppiò la guerra del ‘67, avevo nove anni e rimasi a casa di mia zia. Sentii sparare e chiesi a mia zia spiegazioni di quello che stava succedendo- rispose - “ è una guerra tra arabi ed ebrei ‘ - gli chiesi “ cosa è un ebreo? Sono esseri umani come noi ?” Mi rispose di no.
“ Mangiano esseri umani “ ebbi paura. Tanta paura.
Dopo tre giorni di guerra, mia zia mi chiese se volevo andare a prendere del cibo, risposi di no. Ho pensato, mi mangeranno. Lei mi disse che non sarei andato solo ma accompagnato dai nostri vicini. Andai con loro e trovai soldati dell’ esercito Israeliano che distribuivano pane, pomodori e latte. Portai più cibo possibile a casa e capii che i soldati israeliani non erano come la strega della storia di Hansel e Gretel e che non facevano ingrassare i bambini per mangiarseli. Capii che mia zia mi menti’ e che il tutto non era una favola.

Il sesto e l’ultimo giorno di guerra, fecero ripetuti annunci tramite altoparlanti che chiunque volesse uscire era libero di farlo. La gente poteva aprire i negozi e poteva partire. Dissi a mia zia che volevo tornare dalla mia famiglia a Shuafat e camminai per sette km verso casa, attraversai Wadi al Joz, trovai cadaveri sparsi lungo la strada ed incontrai un auto militare Israeliana che mi nascose in una casa per aiutarmi e proseguire poi il mio cammino fino al campo di Shuafat.

All’entrata del campo trovai i miei genitori che stavano venendo a cercarmi, fu un momento molto emozionante dopo essersi persi per sei giorni senza sapere cosa fosse successo uno all’altro.

A Shuafat la vita era molto noiosa, terribile. Niente elettricità, niente acqua, corrente, televisione, frigo e nemmeno un bagno. Mio padre era un sarto, guadagnava un penny e noi in famiglia eravamo otto, costretti a sopravvivere in una stanza sola.

Nel 1972 mio padre trovò lavoro all’ospedale di Hadassah come uomo delle pulizie. Negli anni in cui mio padre lavorò li divenne molto amico di un medico ebreo. Questo medico veniva a trovarci il venerdì di Shabbat con sua figlia al campo di Shuafat. Il professor Isaac come lo chiamavamo noi, riuscì a costruire il Centro Sharett per la ricerca sul cancro a Hadassah e trovò un lavoro a mio padre nel nuovo edificio e
fece fare un corso di sei mesi a mio padre a Tel Aviv per imparare a sterilizzare le attrezzature mediche. Mi ricordo di un giorno in cui vidi mio padre uscire di casa in giacca e cravatta e chiesi a mia mamma preoccupato “ ma sta partendo?” Mia mamma mi rispose di no, che stava andando al lavoro. Gli risposi “ ma perché gli serve una giacca ed una cravatta per fare le pulizie?” Lei mi rispose “ tuo padre ha una nuova posizione “

Un giorno andai a trovare mio padre all’ospedale di Hadassah e lo vidi indossare un camice da medico in una stanza con macchinari e strumenti enormi. Quel giorno capii e realizzai di quanto fosse importante sostenere Israele, perché Israele è stato l’unico paese che ci diede l’opportunità per una vita migliore.

Io penso che la questione della causa palestinese sia quasi finita. Ne gli arabi, nel gli Stati Musulmani, ne la leadership palestinese si interessano alla causa palestinese. Chiedo quindi ai miei colleghi palestinesi di calmarsi e di realizzare i fatti sul campo. È arrivato il momento per i palestinesi di dire “ muoio dalla voglia di vivere!” Adesso è il momento di farlo.
In questi giorni sono davvero felice di vivere a Gerusalemme sotto il Governo Israeliano e non c’è dubbio che Gerusalemme sia la Capitale di Israele e questo fatto non può essere cambiato a prescindere dalla decisione USA di spostare l’Ambasciata. Se sarò invitato a festeggiare la nuova apertura dell’ Ambasciata a Gerusalemme sarò lieto di farlo. Il giorno di Gerusalemme sarà particolarmente denso di significato quest’anno in virtù della prima Ambasciata straniera a Gerusalemme voluta dalla prima amministrazione americana che ha avuto il coraggio di rompere uno stallo senza fine. Mi auguro che l’anno prossimo lo faccia l’ Arabia Saudita, la UE ed il Regno del Bahrein. L’anno prossimo a Gerusalemme!

Bassem Eid è analista politico palestinese di Gerusalemme, pioniere dei diritti umani e commentatore esperto della questione Israelo- Palestinese.
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Messaggioda Berto » lun lug 16, 2018 9:47 pm

Israele, Sharon Afek è il primo generale dichiaratamente gay
Federico Boni

https://www.gay.it/attualita/news/israe ... n-afek-gay

Giornata storica in Israele grazie a Sharon Afek, fino a pochi giorni fa avvocato delle Forze di difesa israeliane (IDF).

Afek è infatti diventato il primo generale apertamente gay della storia di Israele. Giovedì scorso la promozione ufficiale. Il Times of Israel parla di una piccola ma significativa cerimonia, con gli stemmi posti sulle sue spalle direttamente dal padre e dal capo di stato maggiore dell’IDF, Gadi Eisenknot.

Nel suo discorso di accettazione, Afek ha sottolineato come potrà ora “agire fianco a fianco ai comandanti, al fine di garantire che l’IDF sia in grado di raggiungere il suo obiettivo e vincere, senza rinunciare allo stato di diritto“. “Anche nel corso dei combattimenti più complicati e difficili“, ha proseguito Sharon, “l’IDF è stata severa, lo è tutt’ora e resterà severa nei limiti della legge e della giustizia“.

Lo scorso anno, Afek confessò l’importanza dei soldati apertamente gay all’interno dell’esercito israeliano, perché “è importante che giovani uomini e donne sappiano che non ci sono soffitti di vetro che possano limitarli, nell’IDF“. A inizio 2018 Israele ha eletto il suo primo sindaco apertamente omosessuale, Eitan Ginzburg, diventato primo cittadino di Ra’anana il 16 marzo scorso.


Amir Ohana
giugno 2019

Ciao! Mi chiamo Amir, sono quello a sinistra, e questa è la mia famiglia. I miei figli David e Elah, per cui non posso andare a dormire se prima non li vedo sognare e Alon, l’amore della mia vita con il quale convivo da quattordici anni. Sono le cose più preziose che ho, le più importanti. Sono israeliano, sionista e orgoglioso del mio paese che ho prima servito indossando l’uniforme dell’esercito, poi nei servizi segreti e infine intrapendendo la carriera politica. Sono stato appena rieletto nel Likud, il partito del primo ministro israeliano Netanyahu che ieri mi ha nominato Ministro della Giustizia. Dicono che Israele non sia un paese libero e liberale, noi in Israele viviamo senza paura, senza vergogna, senza segreti nonostante le pressioni di alcuni, abbiamo la libertà di dire «sono omosessuale», «sono lesbica», «sono bisessuale» o «sono transessuale». E se qualcuno storcerà il naso? Lasceremo che rimanga storto.


Benjamin Netanyahu ha nominato una persona dichiaratamente gay al ministero della Giustizia.

https://www.gaypost.it/netanyahu-israel ... 7uSTagL9q0

Si tratta del parlamentare del Likud Amir Ohana. E la prima volta che ciò accade nella storia politica di Israele, il paese considerato più friendly del Medio Oriende, ma con un sistema politico in cui pesa la presenza dei religiosi ortodossi, tra l’altro alleati nella coalizione guidata da Netanyahu. Ohana e il suo compagno hanno due figli avuti con la gestazione per altri in Oregon. Molto probabilmente, il premier ha messo in atto una mossa elettorale simile a quella fatta di recente da Donald Trump. Quest’ultimo, in vista delle elezioni del 2020, ha infatti proclamato il “Mese dell’Orgoglio Lgbt” negli Stati Uniti, per la prima volta da quando è presidente.


Le elezioni a settembre

“Amir Ohana è un giurista che conosce bene il sistema legale”, ha detto l’ufficio del premier in una nota. Ohana sostituirà Ayelet Shaked, estromessa nei giorni scorsi dal capo del governo. Avvocato israeliano, ex ufficiale di Shin Bet (il servizio segreto interno), dichiaratamente gay e attualmente membro della Knesset, Ohana potrebbe rimanere in carica fino a metà novembre, ben oltre le elezioni previste il 17 settembre. Netanyahu, che non è riuscito a formare un governo dopo le elezioni di aprile, ha optato per lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni. Questo ha impedito al presidente israeliano Reuven Rivlin di affidare a qualcun altro l’incarico di formare un governo. Israele andrà a elezioni anticipate il prossimo settembre, proprio a causa di una rottura tra Netanyahu e i religiosi ultraconservatori.
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Messaggioda Berto » sab giu 08, 2019 9:41 am

Quei soldati musulmani che giurano fedeltà a Israele e contro gli islamisti
Gian Micalessin
21 ottobre 2016

http://www.occhidellaguerra.it/17454-2/ ... QPiAJIglgU

Da Ha Movil (Israele). Da una parte del lungo tavolo il nero opaco d’una dozzina di Tavor, i mitragliatori d’ordinanza dell’esercito d’Israele. Dall’altra le copertine istoriate di altrettante copie del Corano. Davanti una fila di soldati immobili, allineati, gli occhi sollevati al cielo. In alto, sul pennone, la bandiera bianca e azzurra con la Stella di David. Sotto, iscritti in un bassorilievo, i versi della prima «shura» del libro sacro dell’Islam. Le reclute escono dalla fila, raggiungono il capitano dall’altra parte del tavolo. L’ufficiale afferra un libro. La recluta vi posa il palmo destro. Il tempo d’una formula segreta, silenziosa, sussurrata tra cuore e labbra e il libro sacro cambia mano. Quella destra afferra un mitragliatore, l’impugna, lo porta al fianco. La mano sinistra avvicina il libro all’arma, lo posa prima sul grilletto, poi sulla canna, rinnova l’antica formula di un giuramento beduino recitato sull’arma e sul Corano. Poi, quando anche l’ultima recluta ha terminato, gli altoparlanti intonano l’Ha Tikva, l’inno d’Israele. Siamo a Ha Movil nel sud della Galilea. Qui un sacrario ricorda i militari musulmani e beduini caduti servendo Israele. Qui ogni anno le reclute dell’Unità 585, meglio conosciuta come Battaglione di Ricognizione del Deserto, sanciscono il loro patto di fedeltà allo Stato ebraico giurando sul libro del Profeta. Una celebrazione che sembra quasi un ossimoro delle guerre combattute da Israele contro palestinesi e vicini arabi. Una celebrazione prologo di uno scontro tra musulmani che da decenni vede protagonisti questi strani soldati di Tsahal reclutati tra i 250mila beduini d’Israele.

«La mia tribù è da sempre stata alleata d’Israele. Mio nonno era un muktar, un capo clan, ma difendeva i kibbutz e collaborava con il Palmach, le unità ebraiche attive durante il mandato britannico. Poi quando è nato lo Stato israeliano la mia famiglia ha continuato a combattere dalla stessa parte», racconta il 42enne maggiore Gadir Gay, un veterano dell’unità impegnato nella sorveglianza di quei confini con il Libano dove la milizia sciita filo iraniana di Hezbollah, cerca talvolta d’infiltrare i suoi combattenti. Anche per il 18enne Ahmed Abu Latif, uno dei giovani soldati che s’è appena guadagnato il basco viola simbolo dell’Unità 585, servire Israele è una tradizione familiare. «Siamo musulmani e in teoria saremmo esentati dal servizio militare, ma mio padre era in questa unità e io ho sempre sognato di diventare come lui. Ma non lo faccio solo per questo. Secondo me, solo facendo il militare diventi un cittadino israeliano a tutti gli effetti. Molta gente al mio villaggio mi dice ma cosa fai? Con chi stai? Quello è l’esercito d’Israele quello che ammazza i palestinesi e i musulmani… tu che ci vai a fare?. Io rispondo sempre che non è un problema perché per me questo è il mio Paese. Sono nato in Israele, vivo in Israele, lavoro in Israele. E questo è il mio esercito».

Per capire cosa fanno i militari dell’Unità beduina basta salire sul bus che riporta Ahmed Abu Latif e gli altri nuovi arrivati a Kissoufim, una delle principali basi israeliane sul lato orientale della Striscia di Gaza. Qui ogni mattina un’unità del battaglione esce, poco prima dell’alba, per verificare che Hamas o altri gruppi armati non abbiano approfittato della notte per superare le barriere. «Siamo qui per proteggere le comunità israeliane che vivono lungo questa frontiera e sventare eventuali attentati dei terroristi», spiega il 30enne maggiore Hussein Fawaz mentre distribuisce le ultime istruzioni agli uomini che si preparano a seguirlo in pattuglia lungo il perimetro della Striscia di Gaza. Ora siamo con lui a bordo di una jeep blindata incolonnata dietro un enorme Nagmachon, un corazzato anti mina da 50 tonnellate.

«Avanti, avanti… A destra… Un pochino a sinistra, attenzione… Forse ci hanno visto… Via, via veloce, vai verso le barriere… controlliamo». Nonostante i suoi 4800 chili di acciaio, kevlar e vetri antiproiettile, la «Mtd David» schizza in avanti come un gatto impaurito, sollevando nubi di sabbia e rimbalzando tra i dossi e le buche della pista. Mentre la jeep blindata divora la polvere e la radio gracchia incomprensibili ordini in ebraico, il maggiore Fawaz scambia qualche parola in arabo con l’autista, s’allaccia l’elmetto, afferra il mitragliatore Tavor e inserisce il colpo in canna. Dieci secondi dopo siamo dietro le palizzate di cemento difese da una torre e da una mitragliatrice telecomandata. Lì, duecento metri a est, corre la barriera della Striscia di Gaza. Subito dietro, prima di Abajan Al Kabir, una serie di torri tappezzate da enormi ritratti fotografici fanno da cornice alle propaggini del villaggio palestinese. «Quelle lì in fondo duecento metri oltre le recinzioni – spiega il maggiore Hussein aprendo una feritoia d’osservazione – sono le torri di Hamas. Da lì i loro cecchini si divertono a spararci addosso. I poster con cui le hanno tappezzate sono le foto degli shuhad i loro martiri, quelli che noi chiamiamo terroristi». Il maggiore Hussein è convinto di aver ben poco a spartire con i militanti armati palestinesi che combattono all’altra parte della recinzione. «Sono un musulmano praticante, ma la religione in questa faccenda conta poco. La cosa più importante per me e tutta la mia famiglia è la fiducia nello Stato d’Israele. Io ho solo 30 anni, ma prima di me otto dei miei fratelli hanno vestito questa divisa. Lo facciamo per proteggere la nazione in cui viviamo. Quelli che vengono a fare la guerra a Israele non sono dei veri musulmani. Il vero Islam insegna a essere pacifici, a comportarsi bene e ad aiutare chi ha bisogno. Loro non fanno nulla di tutto ciò. Loro sono soltanto dei terroristi. Ma l’Islam vieta di seminare il terrore. Per questo non ho nulla da spartire con loro. Per questo non ho nessun problema a dare la caccia a quei terroristi e, se necessario, a eliminarli».

L’Unità 585 è stata fondata oltre 30 anni fa ed è sempre stata impiegata per sorvegliare, oltre al perimetro della Striscia di Gaza, tutti quei confini come la frontiera libanese, la zona delle alture del Golan, i territori adiacenti al Sinai, dove si temono le infiltrazioni di nemici e terroristi islamisti. In queste zone impervie e desertiche la capacità dei beduini di osservare il terreno, studiare le impronte del nemico e inseguirlo anche a distanza di giorni fanno di questi combattenti musulmani una risorsa eccezionale. Una risorsa insostituibile anche all’interno di un esercito, come Tsahal, dove l’utilizzo di droni, telecamere termiche, sensori a infrarossi e altre sofisticate tecnologie sembrano aver sostituito l’occhio umano. Ma non sempre è così. E i primi a fartelo capire sono gli scout beduini dell’unità. «Il mio occhio legge in una semplice impronta quello che nessun drone e nessuna apparecchiatura elettronica può raccontarti spiega a Il Giornale il sergente Id Krishat una delle guide più anziane e più esperte del Battaglione -. Oggi ho 42 anni, ma ne avevo solo cinque quando mio padre e mio nonno m’insegnarono a leggere i segreti della sabbia, dei sassi e dei cespugli. Le telecamere termiche possono vedere di notte, i droni possono inseguire un nemico dall’alto, le intercettazioni possono ascoltare le sue comunicazioni. Ma solo se si muove, parla al telefono o alla radio e non raggiunge un nascondiglio. Io invece leggo la storia che ha lasciato scritta sul terreno e posso inseguirlo anche se si nasconde. Studiando le sue orme posso dirti quanti sono i suoi uomini, dove si dirige, se porta armi, zaini ed esplosivi. Guardando un arbusto calpestato posso intuire da dove arriva e dove si dirige. E alla fine lo trovo sempre. Anche se ha scavato un tunnel e s’è infilato sotto terra». Anche per Id Krishat combattere i militanti fondamentalisti non rappresenta un problema. «Siamo beduini, siamo musulmani e siamo gente semplice, ma non ci facciamo ingannare, vediamo quel che fanno. Sono estremisti, hanno perduto la strada dell’Islam e non meritano la minima considerazione. Non credo a una parola di quel che dicono, per me sono solo una minoranza violenta, senza alcun ruolo nella nostra religione».
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Ixrael paradixo de łebertà par arabi, musulmani e creistiani

Messaggioda Berto » mar lug 30, 2019 7:21 pm

Gli arabi d’Israele si sentono cittadini israeliani
Ciò che impedisce loro di contare nella politica nazionale è la mancanza di leader e partiti che sappiano rappresentare questa loro attitudine
Di Salman Masalha
(Da: Ha’aretz, 28.7.19)

https://www.israele.net/gli-arabi-disra ... r5WswCI-Ks

La scarsa affluenza degli elettori arabi israeliani non è un fenomeno nuovo, ma il dato è spiccato in modo particolare durante le ultime elezioni politiche sullo sfondo della potenziale possibilità di creare un blocco che impedisse alla destra di formare il governo. Ciò che ha tenuto lontani dai seggi gli elettori arabi non è il fatto che lo scorso 9 aprile i partiti arabi della Lista Congiunta si sono presentati divisi. Il vero motivo è un altro, molto più profondo, ed è collegato all’impatto che i voti arabi hanno sulla vita dei cittadini arabi d’Israele.

Cosa dicono gli stessi arabi israeliani sulla questione? Quanto corrispondono le loro opinioni alle posizioni dei loro rappresentanti nella Knesset? Risposte interessanti a queste domande possono essere trovate in un sondaggio commissionato prima delle ultime elezioni da un sito web chiamato Local Call (Sicha Mekomit, “chiamata locale”). Il sondaggio, che comprendeva cittadini sia ebrei che arabi, è passato per lo più inosservato sebbene i suoi risultati gettassero una luce interessate su alcuni fenomeni all’interno della società araba d’Israele.

Per capire correttamente la situazione, è necessario esaminare la differenza di comportamento degli elettori arabi israeliani nelle elezioni amministrative locali e e in quelle nazionali per la Knesset. Nelle ultime elezioni locali l’affluenza complessiva alle urne è stata del 60%, ma le 44 comunità con la maggiore partecipazione di elettori erano arabe, con oltre l’80% di voti. In alcune di queste comunità si è andati oltre il 90%. Come si può spiegare questo enorme divario tra elezioni locali e nazionali?

La risposta sta nella misura dell’impatto del proprio voto percepita dall’elettore arabo. Nelle elezioni locali, il voto tribale o settoriale ha molta influenza, spesso decisiva, su tutto: dall’assegnazione di posti di lavoro ai bandi per l’offerta ai vari benefit che un’autorità locale può elargire. Al contrario, nelle elezioni per la Knesset il voto arabo non esercita alcuna influenza. Quando i leader dei partiti arabi dichiarano in anticipo che in ogni caso non entreranno a far parte di nessuna futura possibile coalizione di governo, recidono alla base la passione per la politica parlamentare che vorrebbero promuovere. Senza alcuna possibilità che il suo voto determini la condotta del governo nazionale, l’elettore arabo non vede motivo per partecipare alle elezioni. A ciò si aggiunga il fatto che i partiti d’opposizione sionisti respingono a priori l’eventualità di creare un governo che dipenda in modo determinante dal sostegno dei partiti arabi. L’elettore arabo si sente quindi doppiamente abbandonato dal sistema politico: dai partiti d’opposizione e dai suoi stessi rappresentanti arabi.


A questo proposito, l’indagine di cui di diceva – il cui senso generale non può essere ignorato, pur con tutte le avvertenze con cui si devono maneggiare i sondaggi – rivela un immenso divario tra le posizioni del pubblico arabo israeliano e quelle presentate dai parlamentari arabi alla Knesset. L’indagine – che ha scandagliato questioni come i rapporti arabo-ebraici, la cooperazione civile e politica e il riconoscimento reciproco – mostra che quasi la metà dei cittadini arabi d’Israele (47%) prenderebbe in seria considerazione la possibilità di votare per un partito ebraico se quel partito rispecchiasse le sue posizioni.

Ancora più clamoroso il risultato relativo alla definizione di sé che danno i cittadini arabi d’Israele. Si scopre che, contrariamente a quanto vanno affermando i politici e parlamentari arabi, nella società araba è in atto un profondo processo di identificazione con Israele. Il 46% degli intervistati si definisce senza mezzi termini “arabo israeliano”; il 22% si definisce semplicemente “arabo”; il 19% opta per “palestinese israeliano” e solo il 14% si definisce “palestinese” tout-court. In altri termini, il 65% degli intervistati ha usato il termine “israeliano” per definirsi.

Non basta. Contrariamente a quanto sostengono i loro rappresentanti politici, una vasta maggioranza del pubblico arabo israeliano (l’87%) desidererebbe vedersi coinvolto nel sistema politico e nel suo ramo esecutivo, e si dice molto a favore del fatto che i suoi rappresentanti entrino a far parte del governo.

Contrariamente alle convinzioni più diffuse, risulta che i cittadini arabi israeliani si sentono tali, e desiderano ardentemente partecipare alla determinazione dell’agenda politica e sociale del paese. Ma l’ostacolo con cui devono fare i conti è la mancanza di leader e partiti che riconoscano questa volontà e siano pronti a raccogliere la sfida.
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Ixrael paradixo de łebertà par arabi, musulmani e creistiani

Messaggioda Berto » mer dic 25, 2019 10:06 pm

In tutto il medio oriente i cristiani collassano. Tranne in un posto: Israele
1 Gennaio 2019

https://www.ilfoglio.it/un-foglio-inter ... rh3_zIBWtY

La maggior parte dei cristiani in Israele non festeggerà questa settimana perché sono greco-ortodossi e il loro Natale cade il 7 gennaio. Ma questo è comunque un buon momento per fare il punto sullo stato della libertà di religione in questa regione” scrive il Jerusalem Post. “All’inizio di questo mese, il capo della chiesa d’Inghilterra ha scritto sul Sunday Telegraph che milioni di cristiani in medio oriente sono ai limiti di una ‘imminente estinzione’. ‘Nel luogo di nascita della nostra fede, la nostra la comunità rischia l’estinzione’, ha scritto l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, definendo quella attuale ‘la situazione peggiore dopo le invasioni mongole del XIII secolo’. In Egitto i cristiani vengono tormentati dalle istituzioni di governo, cosa che li spinge a emigrare in quantità record. I cristiani libanesi temono il crescente potere nel loro paese degli islamisti sciiti Hezbollah, unito all’afflusso di profughi siriani. Anche i cristiani turchi subiscono l’oppressione del loro governo. E in Iraq, la popolazione cristiana è stata quasi spazzata via, mentre quelli rimasti cercano faticosamente di ricostruire le propria vita. La popolazione cristiana palestinese è in costante diminuzione. Da tempo i cristiani sono in fuga dalle aree controllate dai palestinesi a causa dei sistematici abusi che subiscono. Impossibile dimenticare l’irruzione a mano armata che terroristi affiliati all’allora capo dell’Olp, Yasser Arafat, fecero nella chiesa della Natività di Betlemme nel 2002, saccheggiandola e tenendo in ostaggio i monaci. L’anno scorso i cristiani erano solo il 2 per cento della popolazione palestinese di Cisgiordania e striscia di Gaza, meno della metà di quanti erano una generazione fa. Nel 1950 a Betlemme, la città natale di Gesù, l’86 per cento dei residenti era cristiano. Nel 2017 erano scesi al 12 per cento. A Gaza, c’erano 6.000 cristiani quando Hamas ne prese il controllo nel 2007, ma nel 2016 se ne contavano solo 1.100. Hamas ha assassinato cristiani palestinesi a causa della loro fede e ha requisito a scopi militari la chiesa Battista di Gaza perché è uno degli edifici più alti della città.

Nonostante tutto questo, il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) continua a sostenere di essere un difensore dei cristiani, e la dirigenza palestinese nel suo complesso ritiene di avere titolo per controllare i luoghi santi cristiani nel momento stesso in cui insiste a negare la storia di quei luoghi. Ai palestinesi piace sostenere che ‘Gesù era palestinese’, anche se era ebreo (e ovviamente non aveva nulla a che fare né con gli arabi né con l’islam, e nemmeno con il termine Palestina imposto dai Romani cento anni dopo di lui ndr). Incuranti dell’importanza che riveste il Tempio di Gerusalemme nella narrazione del Nuovo Testamento, molti palestinesi e molte autorità palestinesi negano che a Gerusalemme vi sia mai stato un Tempio ebraico. Questo grottesco negazionismo impera anche oggi, ma il caso forse più famoso rimane quello che vide protagonista lo stesso Arafat quando cercò di sostenere con l’allora presidente americano Bill Clinton che il legame storico degli ebrei con Gerusalemme è tutta una menzogna. Clinton rispose ad Arafat che si sbagliava: da cristiano, disse, so bene che lì c’era il Tempio ebraico.

Nel frattempo, in Israele la popolazione cristiana è rimasta per lo più stabile intorno al 2 per cento, crescendo in cifra assoluta insieme alla crescita generale della popolazione. In Israele i cristiani sono liberi di professare la loro fede senza vessazioni né pressioni da parte delle autorità o dei loro concittadini. L’ultima controversia con le chiese di Gerusalemme illustra perfettamente la differenza abissale che c’è tra Israele e i suoi vicini mediorientali. Il nodo del diverbio riguarda la gestione di terreni di proprietà della chiesa greco-ortodossa sui cui risiedono privati cittadini israeliani. I residenti di Gerusalemme sono preoccupati che la vendita di quei terreni da parte della chiesa a soggetti terzi possa mettere a repentaglio le case si loro proprietà, che su quei terreni si trovano, mentre dal canto suo la chiesa vuole poter sfruttare i suoi vasti appezzamenti per ricavarne fondi di cui dice d’avere molto bisogno. Un contenzioso immobiliare, dunque, che non ha nulla a che fare con supposte limitazioni alla libertà di culto dei cristiani e che non comporta alcun impatto né danno per la stragrande maggioranza dei cristiani in Israele, anche se dicendo questo non si intende minimizzare la controversia che merita d’essere risolta. In ogni caso, proprio sabato sera il presidente Reuven Rivlin è intervenuto a favore delle chiese e attualmente non sono in corso i cambiamenti normativi da esse paventati.

È tale la libertà religiosa in Israele che da tempo si registra un graduale aumento dei cristiani israeliani che, per patriottismo e per apprezzamento del loro paese, si arruolano volontari nelle Forze di Difesa sebbene non siano obbligati a farlo. Domenica scorsa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato alcuni di questi soldati per augurare loro buone feste.

All’avvicinarsi del Natale non si può che apprezzare ancora una volta il fatto di vivere in un paese dove sono garantite queste libertà e augurarsi, in tempi così cupi per i cristiani in tutto il medio oriente, che le loro condizioni migliorino anche nel resto della regione”.
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