Israele una buona democrazia e una grande civiltà

Israele una buona democrazia e una grande civiltà

Messaggioda Berto » mer giu 12, 2019 10:36 pm

Israele, una democrazia che merita rispetto
29 Aprile 2019

https://www.ilfoglio.it/un-foglio-inter ... biv1EV1kP8

“Caro Mondo, questa settimana in Medio Oriente accade una cosa incredibile” scrive Michael Dickson. “Tienilo presente, perché i tuoi mass-media potrebbero non raccontarla in questo modo. Milioni di cittadini, uomini e donne, indipendentemente da sesso, etnia o religione, vanno alle urne. Queste elezioni autentiche e totalmente libere si svolgono in una società democratica, sotto il controllo di un sistema di informazione indipendente, aperto e senza limitazioni. Verranno fatte scelte libere, la voce dei cittadini verrà ascoltata e il governo cambierà di conseguenza. La cosa sorprendente è che tutto questo non sarà per nulla sorprendente, poiché queste elezioni si tengono qui in Israele esattamente come si sono tenute sin dal momento in cui venne istituito lo stato ebraico settant’anni fa. Cerca Israele sulla carta geografica, zooma all’indietro e vedrai quanto questo fatto è unico e speciale. Nonostante le sanguinose convulsioni della “primavera araba”, Israele rimane un’isola diversa dai suoi vicini, come è sempre stato: è ancora l’unica vera democrazia in Medio Oriente, e una democrazia solida.

A nord di Israele, il governo libanese è pregiudicato da Hezbollah, l’organizzazione terroristica al servizio dell’Iran che fa parte del governo al potere, mentre la Siria va avanti con l’atroce massacro di centinaia di migliaia di suoi cittadini, e la società chiusa iraniana, che ha appena celebrato quarant’anni dalla rivoluzione islamista, ha prodotto una serie di elezioni palesemente truccate. A est di Israele, un regno giordano dove si tengono elezioni solo parzialmente libere e che sente sul collo il fiato delle rivoluzioni arabe scivolate nell’islamismo. A sud, un Egitto non democratico dove i cristiani temono per la propria vita e ogni critica viene soffocata. E non si dimentichi il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il cui mandato di quattro anni è scaduto più di dieci anni fa e non si vedono elezioni all’orizzonte. Né Gaza i cui abitanti, nonostante le recenti proteste contro il dominio dittatoriale, continuano a vivere sotto il pugno di ferro di Hamas che schiaccia ogni dissenso. Ora zooma di nuovo su Israele, l’unico paese ebraico al mondo, nel quale ogni cittadino esercita la facoltà di dire la propria su chi sta al governo. Giustamente Israele non si paragona ai paesi confinanti della regione, ma alle democrazie liberali che hanno un paio di secoli di esperienza democratica alle spalle. Non ci saranno foto commoventi di israeliani che gioiscono per il loro diritto di votare: qui in Israele è un diritto che diamo per scontato. Caro Mondo, questa settimana accade una cosa straordinaria in Israele. Come per tutti i risultati di elezioni vere, potrai gradire o non gradire i risultati. Ma Israele è un esempio eccezionale di autogoverno democratico: dovresti celebrarlo o rispettarlo”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » mar ago 06, 2019 10:24 pm

???


Tremare davanti alla democrazia
Vivian Bercovici
6 Agosto 2019
Traduzione in italiano di Angelita La Spada

http://www.linformale.eu/tremare-davant ... BrOsigW13o

Il 17 marzo 1999, Aryeh Deri fu dichiarato colpevole da un tribunale di Gerusalemme di cinque reati, tra cui, frode, corruzione e abuso di fiducia. Fu condannato a quattro anni di reclusione.

Giovane e carismatico politico immigrato da bambino in Israele dal Marocco, Deri era sefardita, ultra-ortodosso e determinato a guidare una rivoluzione politica. La questione fondamentale per la quale si è battuto e che è diventata il suo cavallo di battaglia era che gli ebrei di origine mediorientale e nordafricana potessero partecipare equamente alla formulazione della politica statale. Niente più status di cittadini di seconda classe. Niente più accondiscendenza da parte della forza religiosa dominante: gli ebrei ashkenaziti.

Il fatto che fosse un sefardita diplomatosi in una yeshivah – una scuola rabbinica – parte integrante del sistema educativo haredi era un’anomalia (poiché gli ebrei haredim sono di origine lituana). Il termine “haredi” (significa “colui che trema” davanti alla parola di Dio) è oggi più ampiamente utilizzato per descrivere gli israeliani ultra-ortodossi che condividono una speciale pedagogia e stile di vita. (Sono differenti dai chassidim, che incoraggiano uno spiritualismo e un misticismo più terreno nell’osservanza religiosa.)

Ogni aspetto della vita quotidiana degli haredim è fortemente regolato. I maschi e le femmine sono separati in ogni attività sin dalla tenera età. Ogni ragazzino, indipendentemente dalle sua capacità intellettuali, dovrebbe sedersi e imparare la Torah, spesso fino a dodici ore al giorno. L’attività fisica non è considerata né incoraggiata. E nemmeno i programmi di base statali come lo studio dell’inglese, della matematica e delle scienze, perché vengono ritenuti dannosi per il miglioramento dell’apprendimento della religione ebraica. Le ragazze sono considerate essere intellettualmente inferiori e altresì di condizione inferiore, pertanto, può andar bene per loro sprecare il tempo su argomenti mondani. E lo fanno.

Nella società haredi, si diploma circa il 50 per cento delle giovani donne, mentre solo il 14 per cento dei loro colleghi maschi si laurea. Questa disparità è motivo di orgoglio nella comunità haredi, in quanto conferisce agli uomini la libertà di dedicarsi a tempo pieno allo studio, con molti di loro che continuano a farlo fino a 30-40 anni. Se le donne haredim hanno spesso più di otto figli, il 75 per cento lavora fuori casa (rispetto al 50 per cento degli uomini) e fa praticamente tutto il necessario per mandare avanti una famiglia. Queste “superdonne” permettono ai loro coniugi di studiare la Torah a tempo pieno. Questo corso di studio implica anche che siano esentati automaticamente dal servizio di leva nell’IDF, le Forze di difesa israeliane.

Prima del 1948, la stragrande maggioranza degli immigrati nella Palestina sotto Mandato britannico (e nell’Impero ottomano prima della Prima guerra mondiale) provenivano dall’Europa orientale e alimentavano varianti delle ideologie di sinistra, collettiviste e secolariste. Le istituzioni create nell’era prestatale divennero le fondamenta dello Stato di Israele, riflettendo il pregiudizio secolare europeo dei primi coloni.

Nella regione, c’era sempre stata una piccola presenza ultra-ortodossa, antecedente al più moderno interesse volto a riunire gli esiliati ebrei che si erano dispersi due millenni prima. Il sogno sionista, intonato ogni anno al tavolo di Pesach per celebrare “il prossimo anno a Gerusalemme”, è stato alimentato dal sempre più feroce antisemitismo in Europa che culminò nella Shoah.

Dopo lo sterminio, tra i nuovi arrivati nella Palestina sotto Mandato britannico c’era un piccolo numero di ultra-ortodossi la cui popolazione antecedente alla guerra era stata particolarmente devastata. In Europa, haredim e chassidim tendevano a essere più poveri rispetto agli altri ebrei, meno integrati e indossavano abiti tradizionali, il che ne faceva i primi obiettivi e facili bersagli per i nazisti e i loro collaboratori.

Anche i più induriti dei “nuovi ebrei” secolarizzati della Palestina furono commossi dalle vicende degli ultra-ortodossi e dalla loro devozione allo studio dell’ebraismo. Al leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, sembrava giusto coltivare un ristretto gruppo di studiosi della Torah per preservare e portare avanti la tradizione religiosa ebraica e, pragmaticamente, per evitare di esacerbare il conflitto intra-ebraico. Ben Gurion temeva che se non avesse presentato un fronte unito (almeno tra gli ebrei) al resto del mondo, il dissenso interno sarebbe stato usato come scusa per negare il sostegno internazionale al nascente Stato di Israele.

Quando il leader della piccola comunità haredi, Rabbi Avrohom Yeshaya Karelitz (noto con lo pseudonimo di “Chazan Ish”), presentò una sorprendente richiesta, Ben Gurion inavvertitamente gettò le basi di quella che oggi è diventata in Israele la questione più controversa e spinosa.

Ben Gurion decise di esentare dal servizio militare gli studenti delle yeshivot immersi a tempo pieno nello studio della Torah, in cambio dell’impegno da parte di Chazan Ish di sostenere lo Stato – o meglio di non opporsi pubblicamente. (La sua creazione fu osteggiata da altri ebrei ortodossi, i quali ritenevano che lo Stato non dovesse nascere fino all’arrivo del Messia e che qualsiasi Stato ebraico avrebbe dovuto essere governato conformemente alle disposizioni della Torah.) All’epoca, c’erano solo 400 studenti che studiavano professionalmente la Torah. Ben Gurion, tra gli altri, era certo che dopo alcuni anni di vita pienamente emancipata nello Stato moderno, questi giovani uomini si sarebbero liberati della cultura vincolante del loro vecchio paese, avrebbero indossato sandali e pantaloncini, preso una zappa e partecipato appieno allo stato rinato.

L’esenzione che Ben Gurion accordò ai 400 giovani nel 1948 doveva pertanto essere intesa come una misura temporanea. Ma ora, sette decenni dopo, ci sono più di 130 mila uomini che studiano professionalmente la Torah – un risultato che nessuno nei prima anni aveva previsto.

Come ha scritto di recente Asaf Malchi, un ricercatore del programma ultra-ortodosso presso l’Israel Democracy Institute: “Dopo circa un decennio [dal 1948], lo stesso Ben Gurion iniziò a esprimere dubbi sull’esenzione, e sulla mancanza di equità in merito a un accordo che operava una differenza tra gli studenti delle yeshivot ‘che si sacrificano per lo studio della Torah’ e altri giovani ebrei che sacrificano letteralmente la loro vita in difesa dello Stato”.

Tuttavia, l’intesa è prevalsa (più o meno) fino al 1977, quando il neo governo eletto guidato da Menachem Begin cancellò il sistema delle quote ed estese l’esenzione dal servizio militare a un’ampia classe di individui, sul presupposto che, come talvolta si dice, “lo studio della Torah è la loro occupazione”. I fondi necessari per sostenere un sistema di istruzione parallelo in rapida crescita sono aumentati nel corso dei decenni.

Agli studenti delle yeshivot era inoltre proibito lavorare dalla legge, onorando in tal modo la Torah e consentendo loro di dedicarsi al suo studio a tempo pieno. Oltre a radicare la povertà e ad isolare la comunità haredi, questa generosità nazionale ha anche provocato il risentimento in ebollizione di una maggioranza di israeliani, i cui figli hanno continuato a prestare il servizio militare.

Quando Deri fu condannato nel 1999, il rabbino Ovadia Yosef, il leader spirituale della comunità sefardita in Israele, dichiarò: “È innocente”. Nel fare ciò, Rav Yosef minò l’autorità e il rispetto del sistema giudiziario, esprimendo a voce alta ciò che molti nella sua comunità credevano fosse vero: che gli europei elitari, laici e ortodossi “li” rifiutavano e deridevano a causa delle loro origini intellettuali primitive e inferiori.

Il procedimento giudiziario contro Deri fu iniquo. Non fece altro che perpetuare la discriminazione ashkenazita contro gli ebrei sefarditi. Il sistema, egli fece notare, fu manovrato.

Rav Yosef, leader riverito, fondò il partito politico Shas nel 1984, con il mandato di sfidare le politiche e gli atteggiamenti che istituzionalizzarono l’inferiorità sefardita ed emarginavano la sua influenza e il suo potenziale effetto sull’intera società. La sua visione, unita all’efficacia politica di Deri, rivoluzionò la politica israeliana.

C’è più di un fondo di verità nei risentimenti della popolazione non ashkenazita di Israele, che oggi costituisce la maggioranza della popolazione ebraica nel paese. La maggior parte delle prime ondate migratorie nel territorio che è oggi l’Israele moderno arrivarono a partire dal 1880 da Russia, Polonia e da altri paesi dell’Europa centrale e orientale. Erano motivate a sfuggire alla miseria, all’oppressione e ai pogrom micidiali. Stavano inoltre disperatamente cercando di scrollarsi di dosso il giogo della conformità imposto dall’osservanza religiosa. In Europa, anche gli ebrei “assimilati” erano denigrati e considerati “diversi”, il che indusse Theodor Herzl, lo studioso viennese patrizio e il leader filosofico del sionismo moderno, a concludere che solo in uno Stato ebraico gli ebrei potevano essere “normali”. Avrebbero smesso di essere “l’altro”.

Ciò che Herzl chiaramente non contemplò era un afflusso di ebrei sefarditi e mizrahim provenienti dal Nord Africa, dalla Turchia e dal Medio Oriente, che arrivarono dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Complessivamente, erano meno istruiti e più tradizionalisti rispetto agli ashkenaziti. Nessun illuminismo aveva ancora rivoluzionato i loro paesi d’origine. La leadership israeliana ipotizzò che i nuovi arrivati sarebbero scivolati nel paradigma dell’impresa sionista di sinistra, incontestabilmente e con gratitudine.

Molti sefarditi vennero relegati in frammentate città in fase di sviluppo”, dentro quartieri simili a baraccopoli ed ebbero una vita di basse aspettative. La crema della società – gli ashkenaziti – dominava Israele attraverso il controllo dei potenti sindacati, del sistema dei kibbutz, l’esercito e le principali istituzioni economiche e sociali, incluso il governo.

In linea di massima, i sefarditi ultra-ortodossi erano meno rigorosi e rigidi nell’esercizio della pratica religiosa. Il loro approccio morbido era ripugnante per gli haredim, che non nascondevano il loro disprezzo, mettendo in discussione la legittimità di molte tradizioni sefardite.

E poi arrivò Deri: sefardita, audace e determinato a sedersi “al” tavolo. Fu celebrato come il volto nuovo degli ultra-ortodossi, promettendo un futuro certo e promettente. Pervase nei sefarditi orgoglio e aspettative al di sopra della posizione da loro ricoperta nella scala sociale. D’ora in poi il “sistema” li avrebbe inclusi e rappresentati, status che non spettava più soltanto agli ebrei elitari dell’Europa.

Come spiega Gilad Malach dell’Israel Democracy Institute: “La comunità ultra-ortodossa si fida dei propri leader, e non della Corte [un’appendice dello Stato]. La loro è una cultura di enclave. La cosa più importante è l’enclave stessa”.

Il che spiega il motivo per il quale, quando venne scarcerato e in seguito al divieto impostogli di non svolgere per sette anni attività politica, Deri trovò accoglienza in Rav Yosef e, contro le aspettative, incoronato nuovamente leader del partito Shas (acronimo per Shomrei Sfarad, “Guardie sefardite”, N.d.T.).

Procedette spedito fino al gennaio 2013, quando il neo partito Yesh Atid, fondato dal giornalista Yair Lapid, ottenne nelle elezioni 19 dei 120 seggi della Knesset, conseguendo un risultato straordinario. Lapid chiese l’integrazione degli haredim in ogni ambito della vita civile, in particolare l’esercito e la forza lavoro. Il suo messaggio risuonò.

Due anni dopo, il partito di Lapid si ridusse ad avere 11 seggi alla Knesset. In vista delle elezioni del 9 aprile di quest’anno, il fondatore di Yesh Atid ha unito le proprie forze a quelle del Partito Blu e Bianco dell’ex capo di Stato maggiore dell’IDF, Benny Gantz, per presentare un’alternativa centrista unificata alla coalizione guidata dal Likud e sostenuta dagli haredim che sembrava pronta per la vittoria.

La mattina del 10 aprile, sono arrivati i risultati elettorali: il Likud era in testa con 35 seggi, più altri 30 seggi di vari partiti di destra, sufficienti per poter contare su un numero di deputati (65) tali da permettere la formazione di una maggioranza parlamentare.

Lo Shas di Deri ha ottenuto 8 seggi alla Knesset. Il suo omologo ashkenazita, l’Ebraismo Unito della Torah (UTJ), ha conquistato sette seggi sotto la guida del rabbino Yakov Litzman. Shas è ora un importante mediatore di potere tra i politici ultra-ortodossi, superando gli ashkenaziti che un tempo erano potenti.

Insieme, Shas e UTJ sono una formidabile forza politica, che controlla il voto ultra-ortodosso in Israele – una coorte in rapida ascesa che è bloccata in un conflitto con lo Stato moderno.

Per legge, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva sei settimane di tempo per negoziare i termini con i suoi potenziali partner di coalizione, cosa che non sembrava avere fretta di fare. Aprile e maggio sono uno speciale periodo dell’anno in Israele. Il calendario è scandito da una serie di festività e solenni cerimonie commemorative, tra cui le giornate che commemorano le vittime della Shoah e le vittime israeliane degli attacchi terroristici nonché quelle cadute nei combattimenti. Netanyahu sembrava maggiormente focalizzato sugli aspetti cerimoniali della posizione da lui ricoperta che sul pugno di ferro per i negoziati necessari alla creazione della coalizione. Era altresì distratto dalle sue questioni legali personali.

Inoltre, il premier sembrava non prendere sul serio la posizione di Avigdor Lieberman, il suo ex ministro e ora suo nemico giurato (come lo sono molti ex deputati del Likud). Lo Shah e l’UTJ avevano immediatamente garantito il loro sostegno, così come l’Unione dei Partiti di Destra. Lieberman è a capo del partito Yisrael Beitenu, che controlla cinque seggi. Senza il suo appoggio, la coalizione di Netanyahu avrebbe ottenuto 60 seggi, uno al di sotto della maggioranza.

Originario della Moldavia, Lieberman è un laico la cui base è composta da immigrati dell’ex Unione Sovietica. I suoi sostenitori tendono a essere di destra, ma laici e poco sensibili ai diritti di cui godono gli haredim.

Durante la campagna elettorale e il periodo dei negoziati, Lieberman è stato chiaro e coerente. Avrebbe sostenuto la coalizione del Likud solo se il “disegno di legge” da lui negoziato quando era ministro della Difesa (2016-2018) con il Likud e i leader politici haredim fosse stato approvato, senza alcuna modifica. La bozza di legge, infatti, imporrebbe quote di arruolamento molto modeste per i giovani haredim. Ma il progetto di legge è stato delineato per inviare un segnale agli ultra-ortodossi e alla nazione che lo status quo non poteva continuare e non sarebbe continuato a oltranza.

Netanyahu e gli haredim hanno sopravvalutato la loro posizione negoziale, sottovalutando fatalmente la risoluzione di Lieberman. Fino a 48 ore prima della scadenza del periodo di negoziazione, trasudavano sicurezza di sé e fiducia che Lieberman avrebbe capitolato e aderito a ciò da loro definito come un “compromesso” in merito al progetto di legge.

Il loro “compromesso” proposto, tuttavia, era tutt’altro. Prevedeva che il disegno di legge, nella sua attuale forma, andasse alla Knesset per una prima lettura. Il che significava che sarebbe stato presentato formalmente come progetto di legge. Dopo la prima lettura, in genere seguono audizioni, discussioni e modifiche, prima dell’approvazione del disegno di legge come legge.

I termini del “compromesso” erano davvero un inganno subdolo. Dopo la prima lettura, qualsiasi progetto di legge può essere accantonato, e non vedere mai la luce. L’idea, a quanto pare, era quella di consentire a Lieberman di dire al suo elettorato che si era aggiudicato il diritto di presentare il disegno di legge alla Knesset. Allo stesso tempo, gli haredim avrebbero potuto dire all’elettorato che non lo avrebbero fatto approvare. E Bibi avrebbe avuto la sua coalizione. A cose fatte, ovviamene, ci si aspettava che i cittadini se ne sarebbero dimenticati.

Lieberman non era d’accordo. Il suo nuovo mantra era: “Noi sosteniamo uno Stato ebraico e non uno halachico (la legge della Torah)”. Mentre il scadenza si avvicinava, Netanyahu sembrava agitarsi. Stando alle notizie, la sera prima aveva incontrato il leader del Partito laburista, Avi Gabbay, per offrirgli una lista di posizioni di alto profilo da ricoprire nel governo in cambio del suo appoggio. Litzman e Deri hanno duramente criticato apertamente Lieberman per la sua intransigenza e per la riluttanza al “compromesso”.

Improvvisamente, gli esperti e gli analisti che avevano assicurato alla nazione che Lieberman era solo enfatico e che si sarebbe piegato all’ultimo minuto, stavano elogiando la sua risoluta determinazione e la sua posizione di principio.

Intorno alle 23,45 del 30 maggio, un cupo Netanyahu ha fatto il suo ingresso alla Knesset in vista dello storico voto senza precedenti per dissolvere la Knesset prima ancora di formare un governo di coalizione. Era infuriato con Lieberman per aver costretto i cittadini israeliani a finanziare e affrontare immotivatamente nuove elezioni, attribuendo il fiasco esclusivamente all’intransigenza di Lieberman. Subito dopo il voto di scioglimento, Netanyahu ha sferrato quello che per lui era l’ultimo insulto. Ha definito Lieberman “di sinistra”, asserendo che era determinato a sabotare qualsiasi governo di destra. Tenuto conto dell’ultima carta giocata da Bibi, che era quella di chiedere al leader laburista Avi Gabbay di unirsi alla sua coalizione, l’accusa è stata decisamente più che paradossale.

Dopo lo scioglimento della Knesset, Litzman ha detto poche parole, ma Deri era apoplettico. Si è scagliato contro Liberman per aver tentato di “ricattare” i partiti ultra-ortodossi, modificando e intensificando costantemente le sue “richieste deliranti” per appoggiare la coalizione. Curiosamente, però, Deri non ha fornito particolari riguardo alle gravi affermazioni di Lieberman.

Nel frattempo, Lieberman si è tenuto pronto, seguendo la propaganda elettorale. All’indomani dello scioglimento e della programmazione di nuove elezioni a settembre, i sondaggi indicavano che avrebbe ottenuto nove seggi anziché cinque. Molti ora ipotizzano che potrebbe avere il sostegno a due cifre alle elezioni di settembre. Come ha osservato un conoscente marocchino a seguito dello showdown: “Lieberman rappresenta ormai molto più di cinque mandati. Rappresenta la maggioranza su una delle questioni più importanti in questo paese”.

La settimana dopo, vari organi di informazione hanno riportato che l’Ebraismo Unito della Torah (UTJ) aveva richiesto una legislazione che consentisse di tenere eventi pubblici in luoghi in cui la segregazione di genere sarebbe stata imposta per legge. Netanyahu ha negato che questo ciò venisse preso in seria considerazione, minimizzandolo dicendo che era solo una posizione negoziale. La sua credibilità su tali questioni, tuttavia, è stata seriamente compromessa.

Parlando all’ora del tè del tardo pomeriggio di dieci giorni prima dello scioglimento della Knesset, Lapid ha espresso profonda preoccupazione per il modo in cui Netanyahu stava assecondando gli haredim e altri, definendolo “un diretto attacco contro l’anima della nazione”. A quel punto, è rimasta una forte aspettativa che sarebbe prevalsa una coalizione di centro-destra e una speranza molto più fioca che si concretizzasse un accordo dell’ultimo minuto, in cui il Likud si sarebbe unito al Partito Blu e Bianco di Lapid in quello che sarebbe un governo di unità. Ma Lapid in quel momento aveva ammonito che l’ambizione di Netanyahu lo aveva indotto a fare e a promettere cose che andavano ben al di là dei suoi “limiti, delle cose in cui credeva”.

Ha detto di essere preoccupato per l’erosione delle norme democratiche fondamentali, che non sono così importanti per gli haredim come lo sono per la maggioranza degli israeliani. Lapid temeva che per garantire l’appoggio politico da parte degli haredim Netanyahu fosse pronto a sgretolare le principali istituzioni democratiche, come la magistratura indipendente o il servizio militare.

“I politici haredim ritengono che il paese imponga loro le cose”, mi ha detto Lapid, “come un organismo che fornisce servizi gratuiti rispetto a qualcosa che abbiamo in comune”.

Nel dire questo, Lapid descriveva una comune prospettiva haredi espressa in modo autorevole dall’imprenditore di Gerusalemme Eli Palay. A capo di una azienda editoriale di successo per la comunità haredi, Palay spiega il suo duplice amore per la società haredi e l’identità israeliana come incentivo per la creazione avvenuta sei anni fa dell’Haredi Public Policy Institute, finalizzato a spiegare agli altri la cultura e lo stile di vita degli haredim e a rappresentare il loro punto di vista nei dibattiti di politica pubblica.

Ma per quanto concerne il servizio militare, la sua posizione è inflessibile: lo considera come una forma di ingegneria sociale e di coercizione, e non una questione di sicurezza.

“Non crediamo nell’idea di dover servire lo Stato [in questo modo]”, egli spiega. “Noi non ci crediamo. È una questione di ‘uguaglianza’, questa idea di servire lo Stato. Cosa siamo, comunisti?”

Palay è sprezzante nei confronti di quello che considera un attacco secolare allo stile di vita haredi. Egli ritiene che Lapid e gli altri usino la questione del servizio militare come una “scusa” per continuare a trattare gli haredim come “cittadini di seconda classe”.

La democrazie e il significato dei valori statali condivisi sono molto meno importanti nella cultura haredi che nelle moderne comunità ortodosse, in quelle tradizionali o secolari. Credono che l’apprendimento della Torah dovrebbe avere la precedenza sugli impegni democratici condivisi. Come ha di recente dichiarato senza mezzi termini una donna haredi nel corso di una conversazione: “L’esercito non è ciò che preserva questo paese, è la preghiera e lo studio degli studiosi della Torah. Gli haredim sono la soluzione al problema. È impossibile spiegare il valore dell’apprendimento della Torah a qualcuno che non glielo attribuisce”.

E qui risiede la più semplice espressione dell’impasse e della formidabile sfida che devono affrontare i leader politici israeliani: indurre un segmento della popolazione estraniato e potente a partecipare appieno alle responsabilità e al privilegio di vivere in una democrazia.

Gli israeliani che non sono haredim vedono il presente con significativa trepidazione, non importa loro il futuro. Gli ebrei haredim costituiscono il 12 per cento della popolazione e si prevede che questa percentuale aumenti fino a raggiungere il 15 per cento entro il 2027. L’onere da porre sul resto della popolazione non è solo iniquo, ma è anche finanziariamente ed eticamente insostenibile. Gli haredim sembrano intenzionati a utilizzare il potere loro conferito dalla struttura e dalle pecche della democrazia israeliana per continuare lungo questa crescente rotta di collisione con la maggioranza della società israeliana – un conflitto intra-ebraico di una portata forse senza eguali dopo la distruzione del Secondo Tempio.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » mer ago 07, 2019 9:01 am

CARTHAGO DELENDA EST
Niram Ferretti
6 agosto 2019

Benny Gantz mostra improvvisamente gli artigli e fa la faccia truce. Insieme agli altri membri della colazione Blue e Bianca, si reca ai confini di Gaza e afferma perentorio.

“La prossima volta che succederà qualcosa qui faremo in modo che sia l'ultimo giro. Il mostro obbiettivo sarà il rovesciamento di Hamas, uccidere tutti i leader di Hamas e entrare con le forze di terra e restarci tutto il tempo che vogliamo. Non accetteremo il cessate il fuoco, provocheremo la disfatta militare di Hamas".

Nemmeno S. George Patton. Viene anche in mente la celebre battuta pronunciata da Robert Duval in "Apocalypse Now", "Amo "l'odore del napalm la mattina".

Notare che al suo fianco c'è l'ex Ministro della Difesa Moshe Yaalon, il quale, durante l'operazione Margine Protettivo del 2014, l'ultimo conflitto su larga scala di Israele con Hamas, frenava Avigdor Lieberman che voleva ciò che Gantz propone oggi.

Il problema è che nessuno pensa realmente che a Israele convenga riprendere il governo di Gaza dopo quattordici anni che l'ha abbandonata. Una guerra protratta all'interno dell'enclave islamica provocherebbe decine di morti tra i soldati israeliani per non parlare dell'esecrazione internazionale. Davvero c'è chi crede che un futuro governo guidato da Ganz si spinga in una avventura di questo tipo?

Netanyahu ha preferito transare con i terroristi, e anche questa non è una strategia che possa produrre frutti se non obbligare Israele a subire una protratta serie di ricatti. Ma le parole roboanti di Ganz non suonano credibili, e il primo a saperlo è lui stesso.

Israele non può riprendersi Gaza, anche se è vero che l'attuale strategia, o meglio gli attuali tatticismi messi in atto da Netanyahu non risolvono nulla ma differiscono nel tempo una eventuale soluzione.

Ma quale soluzione? Non certo quella prospettata da Ganz. L'assassinio mirato dei capi di Hamas può essere sicuramente un deterrente, così come una maggiore incisività nell'azione militare. Ma l'assalto via terra per "restarci tutto il tempo che vogliamo" è pura spacconeria elettorale che può galvanizzare solo gli allocchi.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » sab ago 10, 2019 9:11 pm

La Mata Hari del Mossad
10 agosto 2019
Francesco Bergamo

http://www.italiaisraeletoday.it/la-mat ... 4zkRJb5Pak

Secondo John le Carré “I servizi segreti sono un indicatore della salute politica di una nazione e l’unica espressione vera del suo subconscio”. Potrebbe bastare quanto dice il noto romanziere, ma che cosa rende nello specifico il Mossad così speciale, invidiato e ammirato in tutto il mondo? È una agenzia talmente avanti con i tempi, che una ex agente può rilasciare una intervista quando altre agenzie intelligence non rispondono nemmeno alle telefonate e alle mail. È una domanda da porsi, perché una possibile risposta potrebbe essere che un eccellente servizio segreto non è tale solo perché ha più soldi di altri, ma soprattutto perché i suoi agenti hanno delle motivazioni più profonde e solide.
Yola Reitman, è stata agente operativa, del Mossad dal 1981 al 1984 in Sudan. Partecipò all’Operation Brothers che consentì a mettere in salvo 12.000 ebrei etiopi.

Yola, premesso che per fare questo lavoro ci vuole una eccellente capacità di recitazione ininterrotta per anni, ci racconta la tua storia? Durante l’intera missione gran parte di noi fingeva di essere qualcun altro, giorno e notte, giorno dopo giorno. Dopo un po’ dimentichi la tua vera identità e ti senti completamente l’altra. Cresci nel tuo ruolo. Prima di questa missione, non ho recitato sul palco, né altrove. Ho lavorato come assistente di volo per El Al. La compagnia aerea israeliana.

Prima di entrare nel Mossad, come ti immaginavi fosse fare l’agente operativo sotto copertura? Prima di entrare nel Mossad ero avida lettrice dei libri di John le Carré e di taluni altri. Ho letto libri sulle operazioni di intelligence molto conosciute della Seconda Guerra Mondiale e i miei film preferiti erano film di spionaggio d’azione. Devo ammettere che anche le storie poliziesche catturavano la mia immaginazione. In Israele, abbiamo un conflitto in corso con i nostri vicini e le questioni militari, le storie di spionaggio e le azioni eroiche sono moltissime e una presenza costante. Mi ero fatta, attraverso la lettura, un’idea, ma la realtà ha superato ogni immaginazione.

Che cosa facevi prima di essere reclutata e come è iniziata la tua carriera come agente operativo? Prima di essere reclutata, lavoravo come responsabile del servizio di volo, ero anche proprietaria di uno yacht, ero una sub e ovviamente parlavo diverse lingue. Questo è stato il motivo per cui sono stata considerata un candidato ideale per il reclutamento. Ho dovuto mostrare, ovviamente, anche altre abilità.


Quanti anni avevi? Avevo 30 anni, allora.

Quali sono state le motivazioni più profonde che ti hanno spinta ad accettare l’incarico? La mia motivazione era la storia della mia gente e la storia della mia famiglia: vivere nello stato ebraico, dopo che quasi tutta la mia famiglia era morta nella guerra, dovendo difendere la nostra vita da sempre. E soprattutto voler fare qualcosa di significativo. Ho avuto quella illusione di salvare il mondo, fin dall’infanzia.

Come donna, quali sono state le difficoltà più grandi da affrontare? A quel tempo, per me, la difficoltà maggiore era quella di essere accettata come gli uomini. Quando sei una donna le persone tendono a proteggerti di più, come se dovessi affrontare un pericolo più grave.Ho dovuto davvero dimostrare che non c’era differenza. D’altra parte, come donna, avevo vantaggi e abilità che gli uomini non possedevano.

Come hai gestito la paura? Non lasci che interferisca con le tue azioni quotidiane. Sei attenta, cauta, ma certamente non impaurita.

Al resort quale era il tuo ruolo di facciata e quello reale? Il mio ruolo nel resort era quello di gestire l’hotel, in ogni aspetto, per farlo sembrare autentico. Trascorrevo il tempo tra le operazioni di salvataggio, nel resort (che era anche il nostro quartier generale) e l’organizzazione della logistica, con camion e attrezzature locali. Mantenevo anche contatti con figure chiave locali, importanti per rifornirci di carburante, informazioni, ecc.
Ho dovuto infine occuparmi della nostra comunicazione segreta ed ero responsabile del nostro budget.

Come hai gestito contemporaneamente gli affetti e il lavoro? Affetto e lavoro. Puoi farcela se hai la capacità di liberare la mente e concentrarti sul momento. Sono stata in grado di porre la mia vita personale a distanza e dimenticare completamente, per un po’, le persone a me care.

A livello personale, partecipare all’operazione Brothers che contributo ha portato al tuo carattere e alla tua personalità? Che cosa è migliorato e che cosa è peggiorato? Un’esperienza come questa è un’occasione per mettersi alla prova in varie situazioni e aree diverse. Penso che in molti modi io sia migliorata. Ho dovuto affinare i miei sensi, praticare la mia intraprendenza e rafforzare la sicurezza di sé. Sono diventata più matura e affidabile. D’altra parte, il gusto dell’avventura e dell’eccitazione ha contribuito a rafforzare la mia incoscienza. Sono avventurosa ancora oggi e molto irrequieta. Forse anche questi erano i tratti che mi rendevano tanto adatta alla missione.

Quando eri sola nella tua stanza, quale rituale ti ha permesso di mantenere l’equilibrio psicologico e il legame con la tua identità d’origine? Che cosa ti ha permesso di non impazzire per la tensione? Sola nella stanza, in effetti avrei potuto tornare ad essere me stessa. Ero così immersa nel mio ruolo che il problema non ha gravato. Mi è davvero piaciuto fingere di essere qualcun altro. Ho tenuto la mente occupata con libri e studi e, in ogni caso, avevo vicino a me il mio partner, l’altro istruttore di immersioni, che faceva parte del team. Quando eravamo soli lì, eravamo noi contro il mondo, un patto.

In base alla tua esperienza, in quanto donna, quali sono i confini psicologici che non bisogna mai oltrepassare? Ci sono confini psicologici che non dovresti attraversare, ma non sono diversi per un uomo. Una cosa importante che devi ricordare in una situazione del genere è che tutti quelli intorno a te, che ovviamente non fanno parte della tua squadra, sono in realtà nemici, anche quando senti una forte amicizia. Non puoi confidare la tua vera identità o il più piccolo segreto a nessuno, indipendentemente da quanto ti piaccia. La tua vita e la vita della tua squadra dipendono dalla tua capacità di tenere le persone lontane dalla tua vita interiore.

Quanto deve adattarsi e sottostare alla cultura locale una donna emancipata che opera sotto copertura? Quanto è pesante? Il mio ruolo e il mio titolo in Sudan mi hanno tenuto in una posizione in cui potevo essere molto libera, molto dominante e con la stima della gente del posto. Vivevo lontano dalla città, lontano dalla folla, quindi indipendente. La cultura locale non era qualcosa a cui dovevo sottomettermi. Al contrario, la gente delle tribù locali mi considerava una specie di donna saggia, sebbene fossi giovane, e veniva da me per medicine e consigli, portandomi regali.

Le donne per natura sono più attente ai particolari dell’uomo. Questa peculiare capacità ti ha aiutato a non commettere errori e a contrastare il controspionaggio del Sudan? In effetti la Sicurezza del Sudan ha tenuto d’occhio il nostro gruppo, spesso interrogandoci, cercando di capire cosa stavamo facendo. Il fatto che io fossi una donna li rendeva più curiosi, ma anche più indulgenti in un certo senso. Le porte si aprivano più facilmente per me, importanti dignitari mi resero amicizia. L’intero gruppo di persone sembrava normale con una figura femminile simile a loro. Questo tipo di amicizia si è rivelata importante quando sono stata avvertita segretamente di un raid contro di noi in programma. Quando accadde eravamo preparati.

In una società sempre più tecnologicamente avanzata, il mondo Humint, visto dalla parte delle donne, sarà sempre più importante o verrà ridimensionato a vantaggio degli uomini? Penso che oggi, chiunque abbia capacità tecnologiche potrà avere successo nelle operazioni future, che si tratti di un uomo o di una donna. Il cyber non può sostituire completamente Humint e c’è ancora un ruolo fondamentale per le persone capaci di entrambi i sessi. Il mondo vede sempre più donne penetrare nelle cosiddette aree maschili e per le donne sarà completamente naturale assumere qualsiasi ruolo. In realtà sta già accadendo nel Mossad.

Che consigli ti senti di dare alle donne, anche italiane, che volessero intraprendere questa professione? Il consiglio che posso dare a qualsiasi donna, italiana e non, è che non dovrebbero mai pensare che ci sia una professione non adatta a una donna, se si desidera perseguirla. Se posseggono le qualità richieste, per quanto riguarda il personaggio e il tipo attività, dovrebbero andare e farlo. Sei più felice quando fai quello che desideri, indipendentemente dalla tradizione, dai costumi o dall’educazione.

Ultima domanda… se James Bond beve Vodka-Martini, che cosa beve Yola Reitman? In realtà adoro la Vodka Double Espresso con ghiaccio.


https://www.aish.com/jw/s/Operation-Bro ... Sudan.html
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » mar set 17, 2019 7:01 am

IL CRIMINE IN ISRAELE
Shabat shalom


Esiste il crimine nel nostro, come in tutti i paesi del mondo, ma è un fenomeno relativamente trascurabile. Questo non perché
siamo virtuosi ma perché ci conviene esserlo.

Ogni palazzo, locale, pubblico e moltissimi privati, sono dotati di telecamere; essendo le foto della maggioranza degli israeliani, digitalizzate, è facilissimo per la polizia individuare i responsabili di un atto criminale; ricordiamoci poi che essendo israele circondato per tre lati da paesi non proprio amici, e da un lato dal mare, è praticamente impossibile fuggirne.

Nelle città quasi ogni palazzo ha un uomo addetto alla sicurezza, idem in scuole ospedali ed uffici pubblici.
La presenza degli uomini della sicurezza sono un’ulteriore deterrente per le azioni criminali e se nonostante tutto si avesse il coraggio di delinquere si andrebbe incontro ad un processo a breve ed una pena certa.

Israele non è uno stato poliziesco o militarizzato. La polizia si vede raramente in giro ma arriva sul luogo del crimine in pochi minuti. I soldati che si vedono in giro non hanno il compito di mantenere l’ordine ma sono semplici soldati di leva. ( escluso a Gaza e in Cisgiordania).

Le pene detentive non sono draconiane, e sono simili a quelle dei paesi europei più avanzati, ma sono certe.

La percentuale di crimini che restano impuniti è bassissima, come è facile immaginare.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » mar set 17, 2019 7:01 am

L’affondo finale di Netanyahu alle elezioni in Israele
Gwynne Dyer
16 settembre 2019

https://www.internazionale.it/opinione/ ... ni-israele

L’opera di Benjamin Netanyahu è quasi compiuta. Se vincerà le elezioni del 17 settembre e formerà l’ennesimo governo, il primo ministro più longevo della storia di Israele avrà assestato un colpo mortale alla “soluzione dei due stati” per il conflitto israelo-palestinese, nata con gli accordi di pace di Oslo del 1993. Hamas dovrebbe ringraziarlo per i suoi ripetuti servigi.

Netanyahu e Hamas sono sempre stati quelli che i nostri amici marxisti chiamavano “alleati da un obiettivo comune”. Il primo ministro israeliano e l’organizzazione palestinese nutrono un profondo odio reciproco, ma condividono uno scopo: scongiurare la creazione di uno stato palestinese semindipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza prospettata dagli accordi di Oslo.

A gestire la trattativa del 1993 era stata la sinistra israeliana, nella persona di Yitzak Rabin, eroe di guerra che voleva di cogliere l’occasione per siglare un accordo di pace permanente. Il suo interlocutore arabo era Yasser Arafat, terrorista diventato statista che guidava l’organizzazione laica Fatah, principale gruppo palestinese. Anche Arafat era disposto a trovare un compromesso per la pace.

Radicalizzare la popolazione
Naturalmente entrambi i leader dovevano affrontare una dura resistenza interna. I più ostili nei confronti di Arafat erano i fanatici islamisti del partito Hamas, mentre Rabin doveva temere soprattutto la destra ultranazionalista israeliana, di cui facevano parte le formazioni religiose ortodosse e gran parte dei coloni israeliani nei territori occupati.

Gli accordi di Oslo hanno cominciato a sgretolarsi quando Rabin è stato assassinato da un estremista di destra israeliano, nel 1995. In quel momento si presumeva che Shimon Peres, ministro degli esteri del governo Rabin e premio Nobel per la pace insieme a Rabin e ad Arafat, avrebbe vinto le elezioni cavalcando l’ondata emotiva alimentata dall’omicidio. Ma la situazione era cambiata radicalmente tre mesi prima dell’avvio della campagna elettorale del 1996, quando tre attentati suicidi organizzati da Hamas avevano provocato la morte di 58 israeliani.

Dal 2009, quando Netanyahu è tornato alla guida di Israele, l’idea di uno stato palestinese è rimasta sempre un’utopia

L’obiettivo di Hamas era quello di radicalizzare gli israeliani e spingerli verso i nazionalisti nemici degli accordi di Oslo, guidati da un certo Benjamin Netanyahu. Il piano ha funzionato perfettamente. Netanyahu ha formato il suo primo governo, e per cinque anni non si sono verificati altri attentati di quella portata.

Netanyahu non era in combutta con Hamas, ma da ex soldato professionista aveva sicuramente capito la strategia dell’organizzazione. Da primo ministro ha fatto tutto quello che Hamas sperava, congelando gli impegni presi da Israele a Oslo fino al 1999, quando ha perso il potere.

Tutto questo accadeva dieci anni prima che Netanyahu tornasse al governo, ma ormai la nuova strada era stata intrapresa. Negli anni successivi la soluzione dei due stati è stata riproposta soltanto per un breve momento. Dal 2009, quando Netanyahu è tornato alla guida di Israele, l’idea di uno stato palestinese è rimasta sempre un’utopia.

Piccola posta in gioco
A questo punto non esiste più il rischio che la proposta possa riaffiorare, nemmeno se Netanyahu dovesse perdere le elezioni. La soluzione dei due stati è morta e sepolta. Probabilmente Hamas preferirebbe comunque Netanyahu a qualsiasi altro primo ministro israeliano, ma dal punto di vista dell’organizzazione palestinese la missione può dirsi compiuta.

Ma allora qual è la posta in gioco delle elezioni in Israele? Non un granché, a dirla tutta.

Alle elezioni dell’aprile scorso il partito di Netanyahu, il Likud, ha ottenuto la maggioranza insieme ai suoi consueti partner di governo (l’estrema destra e i partiti religiosi), ma non è riuscito a formare una coalizione. Un partito che era stato decisivo per formare la coalizione precedente, infatti, ha preteso la cancellazione dell’esenzione automatica dal servizio militare per i numerosi uomini ortodossi che studiano per anni nei seminari.

Netanyahu non avrebbe potuto fare questa concessione senza perdere il sostegno dei partiti religiosi, così ha deciso di indire nuove elezioni. Il piano potrebbe funzionare: secondo l’ultimo sondaggio consentito prima delle elezioni, il blocco di destra dovrebbe ottenere una solida maggioranza di 66 seggi sui 120 complessivi del Knesset.

Netanyahu continua a vincere spaventando gli israeliani e promettendo che espanderà il territorio nazionale

È possibile che il Kahol lavan, partito di centrodestra guidato dall’ex comandante delle forze armate Benny Gantz, ottenga più seggi rispetto al Likud e di conseguenza anche il diritto ad avviare per primo le consultazioni per la formazione di un nuovo governo, ma è anche probabile che il tentativo fallisca, perché secondo i sondaggi la coalizione di partiti che fa capo a Gantz, l’alleanza Blu e bianco (i colori della bandiera israeliana) dovrebbe fermarsi a 54 seggi.

Dunque possiamo presumere che dal 17 settembre Netanyahu sarà nuovamente il primo ministro israeliano, e questo nonostante sia accusato di corruzione e nelle prossime settimane sia atteso dalle udienze preliminari. Netanyahu nega tutte le imputazioni e non sarebbe costretto a dimettersi fino a un’eventuale condanna definitiva in appello che potrebbe arrivare tra diversi anni.

Ma come è possibile che Netanyahu continui a vincere? Oltre alle disavventure legali, il primo ministro ha ottenuto risultati poco entusiasmanti sul fronte interno (la maggior parte degli israeliani si considera in ristrettezze economiche), senza contare che dopo 13 anni la gente tende a stancarsi di vedere sempre la stessa faccia.

La risposta è semplice: Netanyahu continua a vincere spaventando gli israeliani e promettendo di espandere il territorio nazionale. Nello specifico, in questo momento si presenta come l’unico individuo capace di preservare l’alleanza con gli Stati Uniti contro la presunta minaccia mortale rappresentata dall’Iran, dichiara che la minoranza araba d’Israele potrebbe “manipolare” le elezioni (semplicemente andando a votare) e promette che annetterà la valle del Giordano e la costa settentrionale del mar Nero (un terzo della Cisgiordania) subito dopo il voto. Netanyahu è mister Sicurezza. “Re Bibi” conosce tutti i trucchi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » mer set 18, 2019 6:39 pm

Risultati elezioni Israele: un rebus di difficile soluzione
Ugo Volli
18 settembre 2019

https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 1535867527

https://www.progettodreyfus.com/elezion ... 2QcSoUO7Tg

Le elezioni israeliane – le seconde in sei mesi, dopo che i risultati di quelle di Aprile non avevano permesso la formazione di un governo – si sono concluse in maniera sostanzialmente analoga alle precedenti. Non vi sono dunque vincitori.I due grandi partiti sono alla pari (32-32). Bibi Netanyahu non è riuscito a ottenere una maggioranza senza Lieberman, che non vuole parteciparvi benché si proclami nazionalista, in odio a lui e in opposizione ai religiosi.

Ma neppure Gantz ha una maggioranza, perché non è possibile sommare ai seggi veri del centrosinistra (43), che sono nettamente meno di quelli del centrodestra (54), quelli della lista araba (12), che è infeudata ai movimenti palestinisti e perfino legata ai terroristi di Hamas. Né tantomeno è possibile unire questi a quelli di Lieberman (9), come servirebbe per avere la maggioranza. I partiti arabi sono sempre rimasti fuori dalle maggioranze di governo in Israele, per loro scelta dato che sono contrari allo stato ebraico, e per tacito accordo fra gli altri partiti che li hanno sempre considerati antisistema. Furono però inclusi e anche determinanti nell’approvazione dei trattati di Oslo, coi risultati negativi che si sono visti. Dato che un’operazione militare a Gaza e una guerra con Hezbollah sono possibilità molto concrete per il prossimo futuro, è chiaro che non potrebbero né vorrebbero partecipare a un governo che le sostenesse. Ipotizzare un blocco di centrosinistra con loro è peggio che un errore, un rischio gravissimo per il paese.

Un governo di unità nazionale con l’unione dei due grandi gruppi e magari l’appoggio di Lieberman non è possibile allo stato, perché il Likud lo farebbe solo con la presidenza di Netanyahu e il raggruppamento di Gantz si è unito sulla base dal progetto di rimuoverlo, come vuol fare anche Lieberman.

A questo punto, dopo la liturgia delle consultazioni, i risultati possibili sono solo tre. La prima è di tornare ancora alle elezioni. A nessuno piace, ma non è uno scandalo, la Spagna ha appena convocato le quarte elezioni in due anni. Certo che Israele ha di fronte sfide molto più gravi della Spagna, ma ormai vive in regime di governo prorogato da quasi un anno e non vi è stato vuoto di potere o paralisi per questo.

La seconda opzione è che Gantz riesca a fare un governo di sinistra con gli arabi, magari solo in appoggio esterno; sarebbe un governo molto debole e pericoloso per Israele, continuamente sotto il ricatto di gruppi politici ostili allo stato ebraico. La terza ipotesi è che vi sia un cambiamento interno ai grandi partiti, che i bianco-azzurri, che sono una federazione di quattro gruppi, si dividano e qualcuno vada a destra, il che appare piuttosto improbabile, dato che vorrebbe dire sconfessare tutto il progetto politico di quest’ultimo anno e piegarsi a Netanyahu.

Oppure potrebbe accadere che il Likud sconfessi Netanyahu, in cambio per esempio della posizione di premier per qualche suo membro e che si formi un governo di centro, che lasci all’opposizione arabi, estrema sinistra, destra e religiosi. Anche quest’ultimo sarebbe un risultato che comporta un danno per Israele, che si troverebbe a fare a meno del suo leader più prestigioso, il solo che tratti da pari a pari con Putin e Trump. Ma ci sarebbe comunque un governo capace di reggere.

Nessuno può dire quale di questa soluzioni prevarrà, anche perché oltre ai seggi alla Knesset bisogna tener conto di due fattori, entrambi contrari a Netanyahu: il ruolo importante del presidente della repubblica Rivlin, che è sì del Likud, ma personalmente nemico di Netanyahu, e l’azione del sistema giudiziario che l’ha preso di mira e potrebbe arrivare fra un mese a un’incriminazione e fra un anno a un processo.

Bisognerà attendere dunque la consultazioni di Rivlin, l’assegnazione dell’incarico al politico più indicato dai partiti (che potrebbe essere Gantz se gli arabi lo indicheranno, Netanyahu altrimenti), probabilmente entro fine mese, quando inizia il ciclo delle feste ebraiche; poi sei settimane a sua disposizione per tentare di costituire una maggioranza, presumibilmente fino a metà novembre; se non ci riuscirà ci saranno altre sei settimane, più o meno fino ai primi giorni del 2020, per un secondo candidato scelto da Rivlin (ragionevolmente l’altro fra Gantz e Netanyahu che non era stato designato al primo turno). Se anch’esso fallisse, si tornerebbe alle elezioni, verso aprile. Quella israeliana insomma è una democrazia piena di freni e di problemi, come in tutte le società avanzate. Ma una democrazia sana, libera, partecipata, trasparente. Non potrebbe esserci maggiore differenza rispetto all’opacità, alla violenza e all’autocrazia di tutte le società che la circondano in Medio Oriente.




Netanyahu non vince, ma è ancora vivo. Che succede in Israele
Michael Sfaradi
18 settembre 20\9

https://www.nicolaporro.it/netanyahu-no ... IuN4MtaSNM

La risposta uscita dalle urne israeliane della consultazione elettorale di ieri è lo specchio preciso della situazione reale della società da almeno una decina d’anni, situazione che chi vive in Israele affronta giorno per giorno. L’elettorato fisso di centro destra, lo zoccolo duro fedele al Premier Netanyahu, non ha smentito se stesso ed ha riconfermato il Likud come partito rappresentativo della destra democratica e una delle maggiori forze politiche israeliane. Il partito di Lieberman, formato in prevalenza dalla popolazione di origine russa, ha visto premiata l’intransigenza del suo leader che non solo ha fatto di tutto per far cadere il vecchio governo, ma, dopo le elezioni di aprile 2019, è stato anche in grado di far saltare gli equilibri e riportare gli israeliani alle urne nel giro di pochi mesi.

Lieberman vorrebbe trasformare Israele, che nasce come stato ebraico, laico, ma con forte senso di appartenenza al popolo che lo ha creato e alle sue tradizioni millenarie, in una nazione dove il senso di tutto ciò che ha caratterizzato Israele dalla sua fondazione venga stravolto. È chiaro che anche se ora può godere di un successo iniziale dovuto a un malessere sociale, perché si sa che il sociale e il politico da sempre camminano a braccetto, alla lunga si scontrerà con i più tradizionalisti che vedono nella totale laicizzazione dello Stato la fine di Israele come Nazione Ebraica faro dell’ebraismo mondiale. Visto quello che succede nel mondo la recrudescenza dell’antisemitismo che sta toccando i record che si registrarono alla vigilia della seconda guerra mondiale, il tempismo per mettere in cantiere certe politiche è sicuramente sbagliato e Liberman, a meno di grandi stravolgimenti, lo capirà presto a sue spese.

D’altro canto i risultati delle urne hanno fortemente ridimensionato il potere dei partiti religiosi che non sono più l’ago della bilancia e, necessariamente, dovranno fare un passo indietro limitando le loro richieste che negli ultimi anni sono state oggettivamente esagerate. I cittadini arabo israeliani, che sono il venti per cento della popolazione totale di Israele, sono riusciti a far diventare la loro lista, nelle passate elezioni hanno corso più liste di rappresentanti arabo israeliani, la terza forza del paese. Ciò nonostante, vista la vicinanza e fratellanza che larghi strati della popolazione araba ha palesemente manifestato con le organizzazioni palestinesi Fatah e Hamas, da sempre in guerra con Israele, sfiorando e a volte superando il limite del tradimento, questa lista difficilmente potrà svolgere un importante ruolo politico all’interno del parlamento democratico di una nazione che, nonostante garantisca alla popolazione arabo israeliana una libertà e un benessere economico senza eguali in Medioriente, in troppi vorrebbero distruggere.


NETANYAHU, LA FORZA E LA PAURA
Tramonto di un capo: Israele non lo vuole più ma non sa fame a meno
Con la forza e la paura ha diviso un Paese eccezionale
di Aldo Cazzullo
19 settembre 2019

https://www.corriere.it/esteri/19_sette ... a2e0.shtml

“Siede con voi in cabina di pilotaggio il popolo di Israele. Generazioni di ebrei vi guardano e si attendono che ognuno di voi faccia il proprio dovere». Le parole con cui il maggiore Yosef Salat, comandante della prima squadriglia spedita al Cairo a bombardare l'aviazione egiziana all'alba della guerra dei Sei Giorni, sono una delle citazioni ricorrenti nel discorso pubblico di Bibi Netanyahu. La sua famiglia del resto non ha mai superato il lutto per la morte di Yoni, suo fratello, capo del commando che liberò gli ostaggi di Entebbe. La storia e il futuro di Israele, nella visione del suo leader più longevo, si può concentrare in questa idea: l'eccezionalità dello «Stato degli ebrei», per usare l'espressione a lui cara. E a fiaccarlo senza riuscire a sconfiggerlo — nelle elezioni dell'altro ieri come in quelle dello scorso aprile — non è stata la sinistra, ridotta ai minimi termini: è stato un generale, Benny Gantz. Il quale offre ai compatrioti la promessa forse più impossibile per un aspirante premier di Israele: la normalità.

«Forse, ma solo forse, l'era di Netanyahu è arrivata alla fine», titola il sito del quotidiano Haaretz. Infatti è presto per dire come finirà, chi riuscirà a formare un governo (a Bibi mancano cinque seggi). L'unica vera democrazia del Medio Oriente è più che mai frammentata tra partitini e leaderini che tra loro si detestano: non solo Avigdor Lieberman, capo dei russi di Israele, rifiuta di allearsi con Netanyahu; Ayelet Shaked, l'ex ministra della Giustizia che guida il partito dei coloni, ha sostenuto alla vigilia che il piano di Trump prevede la divisione di Gerusalemme, cosa che non risulta da nessuna parte; se è per questo, lo specialista della sorpresa dell'ultima ora è proprio Bibi, che stavolta ha annunciato in caso di vittoria l'annessione di un terzo della Cisgiordania.

Una cosa si può dire con certezza: Israele non può stare né con Netanyahu, né senza. Metà Paese non vorrebbe più il vecchio leader, che a dicembre sarà incriminato per corruzione; ma l'altra metà si sente ancora rassicurata da lui. Israele non è isolato; gli americani hanno portato l'ambasciata a Gerusalemme, i russi attestati a Damasco non sono ostili, Xi Jinping si mostra amico: perché cambiare? Tutta la politica di Netanyahu si fonda sull'alternanza tra la paura e la forza. Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che prepara l’atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a Sud, Hezbollah a Nord, il regime di Assad a Est. Ma Israele non è mai stata così sicura da quando il premier dialoga con i satrapi del Medio Oriente, da Al Sissi ai sauditi, e stringe accordi con i potenti del mondo.

Va detto però che la strategia e anche il linguaggio di Netanyahu, veicolato sui social dal figlio Yair, non ha solo diviso; ha polarizzato la società. Ha sdoganato un linguaggio aggressivo che non ha molto di eroico. Ha fatto leva sulla diffidenza nei confronti degli arabi, compresi quelli di nazionalità israeliana.
Bibi è stato il primo leader nella storia del Paese a non cercare la pace. Fu il suo predecessore del Likud, Menachem Begin, a fare la pace con l'Egitto di Sadat. Ma la prima volta in cui è stato eletto, nel remoto 1996, lui fece di tutto per non applicare gli accordi di Oslo, il cui fallimento ha travolto la sinistra laburista fondatrice dello Stato. Alla vigilia delle elezioni del 2015 rovesciò i sondaggi negativi proclamando che con il suo governo non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Nell'aprile scorso sopravvisse a uno scandalo che avrebbe azzoppato chiunque, fatto di dettagli boccacceschi — la fornitura vitalizia di champagne alla first lady Sara, solo Dom Pérignon rose, e i sigari per lui, rigorosamente Cohiba Siglo V, i preferiti di Castro — e di un'accusa sostanziale: aver trattato con alcuni editori leggi di favore in cambio di appoggio. A dire il vero la stampa israeliana è spesso stata molto critica; e se si applicassero sempre questi criteri — come ha detto al Corriere il fratello Iddo Netanyahu — metà dei politici mondiali sarebbero in galera. Resta il fatto che Bibi per la seconda volta in un anno ha quasi vinto le elezioni; quindi non le ha vinte. E oggi non può dire che il meglio deve ancora arrivare.

Tre ore dopo il discorso del maggiore Salat, in quel lontano estate del 1967, l'aviazione egiziana non esisteva più. Emigrati in America con il padre, i tre fratelli Netanyahu scelsero di tornare per il servizio militare, tutti e tre nella stessa unità di élite. Prima di attaccare i terroristi a Entebbe, dopo quattromila chilometri di volo radente per sfuggire ai radar, Yoni disse solo: «Ricordatevi che siete soldati migliori di loro». Suo fratello Bibi ha tentato di trasformare quell'energia in una tensione permanente, emotiva più che morale, quasi nevrotica, da cui Israele — certo non solo per colpa sua — non si è liberata neppure questo 17 settembre. Con una costante, pur nella divisione: alla pace con i palestinesi, mai così isolati e negletti, ormai non crede più quasi nessuno. Lo schema «due popoli due Stati» è lettera morta. Gerusalemme, la città delle tre religioni, la capitale contesa, è oggi una meta turistica dove ogni mese apre un ristorante fusion, mentre a mezz'ora di auto nei Territori occupati si vive con il mitra in mano.
Perché in Israele, a lungo andare, persino l'eccezionalità diventa normale.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » lun set 23, 2019 7:44 pm

Ho inviato questa lettera al prof. Romano Prodi dopo aver letto l’articolo a sua firma che trovate dopo la mia.
Sono curioso di vedere se mi risponderà, magari confermando la disponibilità ad un incontro; vi terrò informati.
Emanuel Segre Amar
Presidente Gruppo Sionistico Piemontese

23 settembre 2019

https://www.facebook.com/emanuel.segrea ... 5889228170


Gentile Professore,
ho letto con molta attenzione l’articolo pubblicato con la sua firma sul Messaggero del 22 u.s.. Spero che non me ne vorrà se le faccio giungere alcune osservazioni, assicurandole comunque che sono a sua disposizione per un colloquio qualora volesse approfondire alcuni argomenti.
- Lei scrive di un “indebolimento della lista di Netanyahu”, ma sarebbe stato più corretto affermare che, a causa degli incrementi di seggi di molte liste minori, entrambe le liste maggiori hanno visto ridursi il rispettivo numero di seggi.
- Lei scrive che “nessuno dei due principali raggruppamenti è disposto ad allearsi con i palestinesi”, mentre incontri con gli stessi sono avvenuti sia prima che dopo il giorno delle votazioni, e, lei mi insegna, in questi incontri sono spesso presi accordi che poi si preferisce non rendere pubblici. Considerata la delicatezza della questione, lei vorrà convenire che è meglio non esprimersi in merito, come proprio le recenti dichiarazioni del leader arabo dimostrano. Quanto al termine “palestinesi”, io preferisco usare il più corretto “arabi-palestinesi” perché, storicamente, in quelle terre venivano chiamati palestinesi gli abitanti di religione ebraica, mentre venivano chiamati arabi quelli di religione musulmana o cristiana.
- Lei definisce “potere egemonico” quello di Netanyahu, ma le faccio osservare (senza essere personalmente un sostenitore del premier uscente) che, al contrario, Netanyahu si è ripetutamente rimesso alla volontà popolare; proprio noi italiani dobbiamo essere molto attenti prima di muovere ad altri leader simili rimproveri.
- Lei scrive di una volontà di Netanyahu di “annettere la West Bank, cioè le tradizionali regioni di Giudea e Samaria”; non può sfuggirle, professore, che, dopo la firma degli accordi di Oslo, Israele ha il controllo militare ed amministrativo della zona C. Netanyahu non ha mai espresso l’intenzione di annettersi Giudea e Samaria, e ben pochi sono gli israeliani che pensano oggi ad una annessione di tutte quelle terre, pur se furono inizialmente tutte promesse agli ebrei (accordi di Sanremo, 1920, confermati dalla Società delle Nazioni, 1922). Di zona C si deve parlare oggi, e non di Giudea e Samaria.
- Non mi è affatto chiaro a che cosa lei alluda, professore, quando scrive che Gantz dovrebbe “rallentare la costruzione del muro”; quello che lei chiama “muro”, ma che, in realtà, per circa il 95% della sua lunghezza è un reticolato (si presenta come “muro” solo nei punti nei quali, per la vicinanza di case o di strade, è troppo facile sparare contro i cittadini israeliani), è già stato ultimato da anni, e nessuno sta pensando di allungarlo, dal momento che la deterrenza che ne ha suggerito la costruzione funziona piuttosto bene.
- “Difficile è il ritorno alla strategia di due stati, dopo i falliti tentativi di Barak e di Olmert”, scrive più oltre, ma, professore, i tentativi per arrivare “ai due stati” sono stati fatti fin dall’epoca del mandato britannico, e sono sempre falliti tutti per il costante rifiuto arabo; non sarebbe il caso di riflettere sulle ragioni di questi rifiuti prima di continuare con una politica evidentemente destinata al fallimento, e ciò non per colpa di questo o di quel governo israeliano?
- Professore, lei si augura che, con un eventuale governo Gantz, si possa arrivare ad avere “un rapporto meno conflittuale”, ma le faccio osservare che proprio Netanyahu, più di tanti suoi predecessori, ha sempre cercato in tutti i modi di non avere “conflitti” con gli arabi-palestinesi.
Come vede, gentile Professore, gli argomenti che ho sollevato con questa mia sono numerosi, e mi permetto, quindi, di chiederle un incontro per poter approfondire i vari temi che rendono, al momento, impossibile, vedere una soluzione per un conflitto iniziato ben prima della nascita dello Stato di Israele.
Rimango in attesa di una sua cortese risposta e colgo l’occasione per inviarle cordiali saluti



Romano Prodi sul Messaggero

Forse solo Israele offre un quadro politico più complicato di quello Italiano: le ultime elezioni lo confermano.
Il parlamento israeliano (Knesset) si compone di 120 membri e, per formare una maggioranza, occorrono evidentemente 61 voti. Nelle elezioni dell'aprile scorso la coalizione di destra guidata dal primo ministro Bibi Netanyahu non è riuscita ad ottenere il numero dei voti necessari per governare ma nessuna maggioranza alternativa è uscita fuori dalle urne.

Martedì scorso, a distanza quindi di pochi mesi, si sono ripetute le elezioni ma i risultati rendono ugualmente complicata la situazione, anche se segnano un indubbio indebolimento dell'attuale Primo ministro. Il partito di Netanyahu è infatti passato da 35 a 31 seggi e, anche contando i suoi possibili alleati, può arrivare solo a 55 parlamentari. Non molto più facile è però il cammino del suo principale avversario, il generale Benny Gantz, il cui partito (chiamato bianco-blu dai colori della bandiera israeliana) conta 33 seggi ma ha uguali difficoltà ad arrivare alla maggioranza, anche per la fiera opposizione degli ultraortodossi che hanno riportato un notevole successo.
Essi odiano i parlamentari di Gantz che si oppongono a concedere quanto da loro richiesto riguardo all'esenzione dal servizio militare, all'adozione di programmi scolastici speciali e al rigoroso rispetto del sabato.
La soluzione è ulteriormente complicata dal fatto che la minoranza palestinese (che costituisce oltre il 20% dei cittadini di Israele) è andata a votare in misura superiore al previsto e conta ora 13 seggi in parlamento. Dato che, almeno fino ad ora, nessuno dei possibili raggruppamenti è disposto ad allearsi con i palestinesi, le difficoltà che si oppongono alla formazione di una maggioranza di governo non possono che aumentare.
Quando si creano situazioni così complicate di solito si ricorre alla formazione di una grande coalizione nella quale gli esponenti dei maggiori partiti si alternano nel ricoprire la carica di primo ministro. Netanyahu si è affrettato a proporre questa soluzione anche per presentarsi in posizione più autorevole di fronte al Procuratore generale che, ai primi di ottobre, dovrà decidere se inviarlo a processo, in conseguenza delle accuse di corruzione alle quali deve rispondere. Gantz si è naturalmente affrettato a respingere la proposta della grande coalizione, dato che conta di essere invitato dal Presidente della Repubblica a formare il nuovo governo, anche se la trattativa si presenta lunga e difficile. A questo punto è naturalmente doveroso riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze di un passaggio di potere da Netanyahu a Gantz. La più certa e importante è la fine del lungo potere egemonico di Netanyahu, continuamente in lotta con la minoranza palestinese, dato il suo proposito di annettere allo Stato di Israele la West Bank, cioè le tradizionali regioni della Giudea e della Samaria. Allo stesso modo questo cambiamento dovrebbe almeno rallentare la costruzione del muro che non solo separa gli israeliani dai palestinesi, ma divide in modo del tutto crudele e inaccettabile i palestinesi stessi fra di loro.
Molto più difficile è il ritorno ad una strategia di creazione di due Stati: uno palestinese e uno israeliano entrambi indipendenti e sovrani. Questo progetto è sempre più avversato dalla maggioranza degli israeliani e, dopo i tentativi falliti da Ehud Barak e Ehud Olmert, ha poche speranze di essere messo in atto in tempi prevedibili anche in caso di un cambiamento della coalizione di governo. Coalizione nella quale è per ora escluso che i palestinesi possano farne parte, nonostante il loro progresso elettorale e il fatto che si siano presentati alle elezioni con una lista unitaria, mettendo in secondo piano le divisioni che avevano ulteriormente diminuito la loro pur scarsa influenza politica.
Dai risultati delle elezioni non ci si attende perciò alcun radicale cambiamento ma almeno un alleggerimento delle tensioni e rapporti di convivenza meno conflittuali rispetto a quelli che il governo Netanyahu aveva sistematicamente perseguito, con una forte accelerazione negli ultimi anni, dopo che Trump aveva sostituito Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
Nelle prossime settimane assisteremo quindi a una lunga e raffinata disputa fra Netanyahu, che cercherà di costruire una grande coalizione e Gantz, che farà ogni sforzo per attrarre intorno a sé un numero sufficiente di partiti minori in modo da formare un governo alternativo. Qualsiasi sia il risultato di questa disputa resta indubbio che il dominio di Netanyahu è tramontato, ma è altrettanto certo che una pace condivisa fra ebrei e palestinesi è ancora lontana, anche se si rafforza la probabilità di arrivare a rapporti di convivenza meno duri e conflittuali. La situazione è tuttavia ancora così intricata che non si escludono nemmeno nuove elezioni.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » lun set 23, 2019 9:41 pm

Israele, si rischia il terzo voto. Lieberman: "Né con Netanyahu né con Gantz"
Israele: veti incrociati, stallo per nuovo governo
23 settembre 2019

http://www.affaritaliani.it/politica/ge ... refresh_ce

Non sono mancate le sorprese nella prima giornata di consultazioni del presidente israeliano, Reuven Rivlin, per il conferimento dell'incarico per il nuovo governo. Rivlin ha incontrato le prime cinque formazioni che, in ordine decrescente, hanno conquistato più seggi alle elezioni politiche di martedì: il Kachol Lavan (Blu e Bianco) di Benni Gantz, il Likud di Benjamin Netanyahu, la Lista Unita dei partiti arabi, lo Shas degli ebrei ortodossi e il partito russofono di destra Ysrael Beitenu di Avigdor Lieberman, l'uomo che è dietro le ultime due elezioni anticipate celebrate. Rivlin, le cui consultazioni sono state trasmesse in diretta Tv e in streaming su internet, sin dall'inizio è stato chiaro: il Paese vuole un governo stabile, ha detto, facendo intendere che preferisce un governo di coalizione nel quale siedano e si alternino i due partiti di maggioranza relativa, il Blu e Bianco e il Likud che, insieme, già superano, di quattro voti (il Likud dovrebbe raggiungere 32 voti alla conta finale) la maggioranza di 61 voti.
Per il presidente, l'idea di una terza elezione è "disgustosa". Il problema, in questo contesto, ha un nome e cognome: Benjamin Netanyahu. Durante le consultazioni, il partito Blu e Bianco non ha respinto l'idea di un governo di coalizione con il Likud, ma la condizione necessaria è l'assenza di Netanyahu. Difficile che il Likud accetti: un primo no è stato comunicato a Rivlin chiaramente dai parlamentari del partito di destra, che domani si riuniranno. Il presidente, in entrambi i colloqui, si è anche reso disponibile a favorire un incontro tra i due rivali Gantz e Netanyahu, che nel 2014 erano uno capo di stato maggiore e l'altro premier e le cui politiche non sono così distanti. Un accordo in extremis potrebbe essere trovato se Netanyahu facesse un passo indietro, in quel caso potrebbe subentrargli Gideon Saar, ex ministro dell'Interno.

A sparigliare le carte ci hanno pensato due delle altre tre formazioni ascoltate da Rivlin. Già nel pomeriggio, si è capito che quello che è considerato l'ago della bilancia non avrebbe deciso per nessuna delle parti. Lieberman è colui le cui dimissioni portarono alla scioglimento della Knesset a novembre dell'anno scorso e alle successive elezioni, e la cui decisione di non entrare nell'esecutivo con Netanyahu ha portato alle recenti elezioni. Nel pomeriggio il capo del partito russofono di destra ha detto che non avrebbe raccomandato nessuno dei due candidati più accreditati al presidente Rivlin. L'altra sorpresa l'hanno riservata i partiti arabi. Per la prima volta dal 1992, da quando indicarono Rabin come primo ministro, hanno suggerito al presidente di dare l'incarico a Gantz, pur restando all'opposizione. La loro decisione, hanno detto alla stampa e in alcuni tweet i diversi leader dei quattro partiti, nasce dalla volonta' di far finire l'era Netanyahu. Anche se Gantz non e' la loro "tazza di the", hanno scritto, in ogni caso vogliono che l'uomo che hanno associato al demonio biblico, non rappresenti più il Paese. La decisione degli arabi, che non hanno mai partecipato a un governo, non è stata semplice e i membri del partito Balad sono ancora riluttanti, soprattutto per il ruolo avuto da Gantz contro Gaza nel 2014 e le sue idee di destra. Proprio l'endorsement degli arabi allontana Lieberman dalla coalizione di governo a guida Blu e Bianco che, con 55 voti, non riesce ad ottenere la maggioranza. Domani il presidente Rivlin incontreràà gli altri partiti e ha già annunciato che potrebbe prendersi ancora altro tempo per le consultazioni.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Ixrael na bona democrasia e na granda çeveltà

Messaggioda Berto » mer set 25, 2019 6:18 am

???

In Israele il dopo Netayahu è già iniziato. Parla Yossi Klein Halevi
Shalom

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 8819070401

L'èra post Netanyahu è iniziata. È stato un processo lento, che ha preso la rincorsa all'improvviso quando il premier israeliano, in carica dal 2009, "ha cominciato a confondere il benessere del suo popolo con il proprio benessere", dice Yossi Klein Halevi, scrittore, intellettuale e condirettore dello Shalom Hartman Institute di Gerusalemme. Il 17 settembre gli israeliani sono tornati a votare, per la seconda volta in un anno, e di nuovo, come alle elezioni di aprile, Netanyahu e Benny Gantz si sono ritrovati faccia a faccia, o meglio, questa volta è stato l'ex capo di stato maggiore, leader del partito Blu e bianco, a ottenere la maggioranza relativa dei seggi, 33 contro i 31 del Likud. I due leader hanno tentato varie alleanze, cercato amici, più o meno affini, la lista dei partiti arabi, che dal 1992 non aveva sostenuto nessun candidato come primo ministro, ha fatto sapere che sostiene Gantz, una svolta. Israele va verso un governo di unità nazionale che tenga insieme i due leader Netanyahu e Gantz, "una soluzione stabile per il paese - dice Klein al Foglio - ma resta un problema: chi ricoprirà per primo il ruolo di premier?".
I colloqui vanno avanti, il presidente Reuven Rivlin ha invitato i due leader per nuovi colloqui, ma per avere la decisione definitiva forse ci sarà da attendere fino alla prossima settimana. "Il sistema istituzionale israeliano ammette la possibilità di avere premier a rotazione e questa sarà la soluzione, due anni l'uno, due anni l'altro.
Ma chi sarà il primo? Nessuno dei dei due si fida dell'altro, Gantz teme che se Netanyahu avrà la carica all'inizio farà in tempo a governare per due anni e poi porterà il paese a nuove elezioni. Netanyahu invece teme che se la legislatura inizierà con Benny Gantz primo ministro, allora il leader di Blu e bianco farà di tutto per farlo incriminare. Israele ha avuto diversi governi di unità nazionale, anche in momenti cruciali della sua storia, e sono stati positivi, e in questo caso è la miglior soluzione".
La democrazia israeliana ha dimostrato di essere forte e pronta alle evoluzioni ed è stata questa la mancanza più grande di Benjamin Netanyahu: "La stessa tenacia con cui ha protetto Israele è ora assorbita dalla sua guerra alla sopravvivenza politica, ormai non è più possibile distinguere quello che fa per proteggere la nazione da ciò che fa per tenersi lontano dalle incriminazioni. È rimasto incastrato, è inciampato nella tentazione che i governanti hanno spesso: quella di considerarsi indispensabili". Il paese tuttavia non può negare l'importanza della sua figura, quest'estate è diventato il premier più longevo della storia israeliana, ha superato David Ben-Gurion, Menachem Begin e Yitzchak Rabin, "ha incarnato il modello della volontà ebraica di sopravvivere, ma ora sembra che Israele debba imparare a proteggersi da lui". Netanyahu ha reso il paese più sicuro, con lui l'economia è cresciuta, è diventato centrale sulla scena internazionale. Con il tempo sono arrivati gli errori e gli errori si sono accumulati. "Ha fatto errori anche all'interno del suo partito, non è stato in grado di costruire una rete di amici, di confidenti, e ora anche il sostegno del suo partito inizia a venirgli meno. Alcuni stretti collaboratori, basti pensare ad Avigdor Liberman, ora sono i più determinati a farlo cadere e da chi è rimasto Benjamin Netanyahu ha preteso un giuramento di lealtà personale". Se è difficile immaginare come sarà Israele in questa nuova èra appena iniziata, è quasi impossibile immaginare il Likud dopo di lui, "al suo interno ci sono leader di partito, mancano però leader nazionali".
Israele sembra non riesca a considerare nemmeno Gantz un leader nazionale. "Non ha l'esperienza di Netanyahu e poi c'è un certo scetticismo nei confronti dei generali che entrano in politica, è stato capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, è un personaggio importante, ma quando un soldato vuole fare il politico, poi fatica sempre a togliersi l'uniforme e a pensare da capo di governo. Lo abbiamo già sperimentato". Ma c'è anche una questione di sicurezza, nonostante il grado militare, Gantz non dà le stesse garanzie di protezione di Netanyahu. "Se ci sarà un'escalation delle tensioni con l'Iran, ad esempio, Netanyahu ha la forza e la statura per ordinare un'azione militare, non è detto che per Gantz sarà lo stesso. Le domande e le paure relative alla sicurezza sono molte e sono tutte legittime: chi altri, se non Netanyahu può proteggerci da tutti i vicini che vorrebbero fare agli israeliani quello che fanno con i loro popoli?".
Ma Israele ha comunque bisogno della sua trasformazione "politica e morale" e mentre leader in grado di assicurarla ancora non si vedono, il governo di unità nazionale rappresenta una soluzione. Se il dopo Netanyahu può essere un sollievo per la politica interna del paese, non è altrettanto certo che lo sarà dal punto di vista internazionale, "Israele potrebbe riavvicinarsi all'Europa occidentale, questo è importante, dopo lo strano rapporto che Netanyahu ha instaurato con i paesi di Visegrád. Ma è la posizione in medio oriente che preoccupa". Israele è quindi pronto per iniziare una nuova fase, senza dimenticarsi di tutto quello che Benjamin Netanyahu ha dato alla nazione. Rimane una domanda, importante e che sembra, al momento, senza nomi e senza risposte: di che tipo di leader ha bisogno ora il paese? "Di un leader che tratti le nostre istituzioni democratiche come beni preziosi e non come ostacoli. Di un leader che capisca il valore della moralità, essenziale per il benessere e la sicurezza del nostro paese", ci dice Yossi Klein Halevi. Micol Flammini
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

PrecedenteProssimo

Torna a Ebraismo

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite

cron