El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 2:51 pm

CONFLITTO PALESTINESE-ISRAELIANO

le ragioni di uno e dell'altro

LE BATTAGLIE INCONCLUDENTI DI UNA GUERRA METAFISICA

http://cronologia.leonardo.it/storia/mo ... rae015.htm

Prof. Giovanni De Sio Cesari
( ww.giovannidesio.it

INDICE:
guerre immotivate - conflitto delle ragioni - la vittoria impossibile - battaglie inutili - l’oggetto del contendere - il conflitto religioso - domande senza risposta - prospettive


GUERRE IMMOTIVATE

Nella storia abbiamo tanti conflitti: le guerre vengono decise in battaglie più o meno grandi: ci sono vincitori e vinti. A volte i conflitti sono totali: chi perde si arrende al vincitore e aspetta semplicemente le sue decisioni: ad esempio, la Germania nel Seconda Guerra Mondiale. Più spesso invece il conflitto è limitato a particolari questioni: chi perde lascia al vincitore l’oggetto del contendere per evitare danni maggiori, il vincitore si mostra in genere moderato per non rischiare nuovamente l’incerta fortuna delle armi: ad esempio nel 1905 la Russia, sconfitta dal Giappone rinunciò alla sua influenza sulla Manciuria e il Giappone si accontentò di un risultato più che altro simbolico.

Ma il conflitto che oppone Arabi-Palestinesi ed Israeliani pare avere caratteri del tutto peculiari: le parti si affrontano in guerre e guerriglie che si succedono incessantemente: il conflitto a tratti sembra sopito per poi riaccendersi nuovamente. Soprattutto però pare che non importa chi vinca e chi perda: si aspetta semplicemente la prossima battaglia. Il conflitto continua implacabile passa da una generazione all’altra, siamo ormai alla terza generazione, i soldati di oggi combattono la stessa guerra dei loro nonni.

Le catastrofi (nakba, come dicono gli arabi) si succedono alle catastrofi: il popolo arabo-palestinese vive spesso ai limiti della sopravvivenza, nell’inferno di Gaza o nei campi miserabili nel Libano, gli Israeliani d’altra parte non riescono a trovare una situazioni di pace, di sicurezza, di normalità.

Tutto il mondo d’altra parte è preoccupato per le inevitabili conseguenze del conflitto in un’area instabile e ricca di risorse petrolifere come il Medio Oriente e propone incessantemente piani di pace che regolarmente restano nel lungo libro delle buone intenzioni.

Eppure la cosa che pare ancora più incredibile è che la soluzione è chiaramente sotto gli occhi di tutti: occorre semplicemente stabilire due stati autonomi e sovrani.
Il paradosso, quindi, è che esiste una guerra che continua sempre, comunque finiscano le battaglie, per un motivo che in realtà non esiste perchè la soluzione è obbligata è inevitabile.

Il fine di questo lavoro è cercare di analizzare i motivi di una situazione cosi insolita, cosi tragicamente insolita.

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... rael29.jpg


CONFLITTO DELLE RAGIONI

Il conflitto è nato dal fatto che un numero ingente di ebrei si trasferì in Palestina, prima a piccoli gruppi e poi in modo più compatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, stabilendosi in una terra abitata da Arabi, mussulmani e cristiani, con piccolissime minoranze di Ebrei e, quindi, nel '47 riuscì a far nascere che in quei luoghi un proprio stato autonomo.

Il conflitto palestinese nasce pertanto da un fatto che non ha precedenti storici in tempi moderni e quindi mancano delle regole generalmente riconosciute che possono ragionevolmente essere applicate.
Si riscontra comunemente nei conflitti che ciascuno ha sempre (o quasi sempre le sue ragioni) e dal suo punto di vista sente di aver ragione: ma nel conflitto palestinese vi è una reale impossibilità di trovare un qualsiasi criterio che possa servire di base per dirimere la questione.

Indubbiamente l’arrivo degli ebrei in massa in Palestina si configura come una invasione immotivata: non si può pretendere di occupare una terra perché in quella vi abitavano quasi duemila anni prima i propri antenati. Gli Arabi si fermano a questo punto: gli Israeliani sono invasori da ricacciare, gli Arabi hanno ricevuto una ingiustizia storica e la comunità internazionale dovrebbe ristabilire il diritto leso: lo stato di Israele non dovrebbe esistere: punto e basta: questa sarebbe la verità, ultima e definitiva, della questione.

Tuttavia, paradossalmente, lo stesso ragionamento viene fatto dagli Israeliani: lo stato di Israele esiste, è un fatto ormai consolidato: quindi ha diritto ad esistere: la comunità internazionale infatti riconosce questo diritto.
A questo contrapposizione di base seguono un serie di altre posizioni che sembrano, e sono, ambedue sostenibili.
Vediamone alcune a livello esemplificativo e non esaustivo.

Lo stato di Israele è nato da un atto di forza; no, trae la sua legalità da un atto della comunità internazione (da una risoluzione dell’ONU).
Gli Arabi-Palestinesi sono stati cacciati dalle terre di Israele: non è vero, sono andati via volontariamente, quelli che sono restati godono di una libertà impensabile negli altri stati arabi
Gli Arabi-Palestinesi comunque dovrebbero poter tornare nelle terre di origine: un numero più o meno pari di ebrei sono stati cacciati dagli stati arabi perdendo tutte le loro sostanze: si tratta quindi di uno scambio di popolazioni più o meno alla pari.
Il popolo palestinese è stato spogliato della sua terra: non è mai esistito un popolo palestinese (ne tanto meno uno stato palestinese ) ma solo Arabi (???) che hanno un territorio immenso.

Non si tratta di una disputa territoriale come ad esempio per l’Istria fra l’Italia e Jugoslavia: non ci sono due stati preesistenti che vengono in contrasto per una certo parte del territorio.
Non si può nemmeno invocare il principio della nazionalità degli abitanti come per il Kossovo abitato al 90 % da Albanesi, poichè è proprio la immigrazione ebraica a essere contestata.

Non si può palare di colonialismo, come pure spesso si è fatto: non esiste una madre patria che amministra un territorio lontano storicamente distinto come nel caso dell’ impero coloniale inglese.
Formalmente lo stato d’Israele può considerarsi uno stato "razzista" in quanto accetta come cittadini quelli che appartengono a una certa etnia (legge del ritorno): non ha però i caratteri propri di uno stato razzista come ad esempio il vecchio Sud Africa .

Nemmeno possiamo parlare di stato confessionale: una gran parte dei suoi cittadini non segue affatto la religione tradizionale ebraica .

Si tratta di un caso unico e diremmo irripetibile: irrisolvibile pertanto con le leggi internazionali generalmente riconosciute .



LA VITTORIA IMPOSSIBILE

Un' insieme di fattori rende impossibile la soluzione militare del conflitto. Innanzi tutto non si tratta di due contendenti che lottano da soli ma il mondo intero, in qualche modo, partecipa e rende impossibile a ciascuna della parti una vittoria definitiva.
Nello sconfinato mondo arabo e mussulmano, i Palestinese trovano sempre dei sostenitori per tanti motivi anche vari e contrastanti: un fiume di danaro si riserva sui Palestinesi e con esso un flusso ininterrotto di armi e soprattutto un imponente flusso di benedizioni religiose. di conforti fraterni e appoggi ideologici.

Nel passato il blocco sovietico fece proprio la causa dei Palestinesi nel tentativo di conquistare l’appoggio degli Arabi nel conflitto planetario che li opponeva agli Americani e al mondo capitalistico. Il crollo del comunismo ha privato i Palestinesi di quell’aiuto ma, nel contempo, anche di una certa moderazione che comunque i Sovietici riuscivano a imporre in funzione della loro politica generale.
Le correnti di estrema sinistra, i gruppuscoli residuali ma sempre vivi e attivi del vecchio comunismo vero e puro, hanno ereditato l’appoggio incondizionato ai Palestinesi: essi non hanno alcuna possibilità concreta di intervenire e pur tuttavia lasciano sperare ai Palestinesi che i popoli dell’Occidente siano con loro e quindi anche i governi, prima o dopo abbandonino gli Israeliani .

Gli stati europei hanno una politica molto debole: da una parte sostengono Israele nel suo diritto all’esistenza, dall’altra tuttavia cercano di avere buoni rapporti con i Palestinesi perchè non intendono perdere l’amicizia e soprattutto i buoni rapporti commerciali con gli Arabi in generale. A questo si aggiunge che non esiste una politica estera comune degli stati europei in Medio Oriente come in ogni altro campo, d'altronde, e quindi ogni stato ha una sua politica particolare, spesso in concorrenza con quella del vicino. Tuttavia proprio per questo gli europei vengono visti come i meno schierati : da qui la richiesta ad esempio di truppe di interposizione come in Libano.

I maggiori attori restano però gli Americani, naturalmente, gli unici che hanno effettivamente i mezzi economici e militari per intervenire e che inoltre possono pure influenzare i governi occidentali. Gli Americani sono schierati chiaramente a favore di Israele: pur tuttavia hanno interessi in tutto il Medio Oriente, molti alleati fra gli stati arabi e soprattutto temono una incremento di quelle correnti integraliste che tanto li preoccupano, uno esplodere della situazione delle conseguenze imprevedibili.

Da un parte quindi gli Americani aiutano effettivamente e sostanzialmente gli Israeliani ma d’altra parte sono intervenuti nelle guerre arabo-israliane del 56, del 68 e del 73 per fermare l’avanzata israeliana oltre certi limiti e premono continuamente su Israele perchè la repressione contro i Palestinesi non superi certi limiti.
Dal punto di vista puramente militare, attualmente, Israele potrebbe distruggere la resistenza Palestinese facilmente: potrebbe rispondere al lancio dei razzi Kassam con attacchi aerei devastanti come quelli avvenuti nella Seconda Guerra Mondiale, potrebbe rispondere a ogni attacco suicida con deportazioni di massa e rappresaglie indiscriminate. Ma questo scatenerebbe una reazione araba incontrollabile e non sarebbe permesso dagli Americani, oltre che dalla comunità internazionale.

n pratica gli Americani mettono Israele in grado di resistere agli avversari ma impediscono loro di vincere e nello stesso tempo analogamente si dichiarano contro il terrorismo palestinese ma impediscono che esso sia effettivamente debellato.
D’altra parte anche se gli Arabi un giorno vincessero effettivamente sul piano militare tuttavia la sopravvivenza di Israele sarebbe garantita dagli Occidentali.
In pratica chiunque vinca le battaglie non è importante: perché nessuno può vincere la guerra .
Alla fine di ogni battaglia tutti gridano di aver vinto: in realtà è vero perchè nessuno ha perso veramente.



BATTAGLIE INUTILI

I primi 25 anni di conflitto sono stati caratterizzate da quattro guerre cosi dette tradizionali, con eserciti regolari schierati in ordine in battaglie. Nel 1948 in realtà ci fu anche un intervento della popolazione direttamente, nella seconda guerra del 56 l’intervento anglo-francese impedì che le parti si scontrassero effettivamente: la terza del 67 ( dei Sei Giorni) fu quella decisiva in cui dopo una lunga preparazione, gli Israeliani sconfissero rovinosamente e senza appello tutti gli stati arabi entrati in guerra: la situazione attuale, come è noto, è nata da quella guerra.


La lenta espansione di Israele

Nel 73, nella guerra del Kippur, gli Egiziani riuscirono a sorprendere gli Israeliani a ad ottenere dei successi iniziali: poi ci fu la controffensiva Israeliana che portò l’esercito ad attraversare il canale di Suez ma le operazioni furono bloccate dal’intervento internazionale e quindi ciascuna della parti potè cantare vittoria: gli Israeliani sostengono che avrebbero vinto se non fossero stati fermati, e gli Egiziani che vincevano, fino a che non furono fermati.
Dopo il 73 però l’Egitto trattò una pace separata con Israele e da allora nessun esercito arabo ha mostrato nè la intenzione, nè la capacità di affrontare in campo aperto Israele.

A questo punto ci si sarebbe aspettato che il conflitto fosse terminato: ma questo non avvenne, anzi esso divenne sempre più irrisolvibile.
Infatti la causa palestinese, abbandonato in concreto dagli stati arabi venne ripresa dal FNL che organizzò una resistenza senza limiti di tempo.
Non avendo eserciti adeguati, carri e aerei la Resistenza non poteva che ricorrere al terrorismo; negli anni Settanta e Ottanta questo si diresse su interessi e cittadini Israeliani all’estero coinvolgendo comunque le nazioni occidentali considerate oggettivamente alleate di Israele.

In Giordania, in Libano sorsero conflitti sanguinosi con altri arabi. Israele invase ripetutamente il Libano senza riuscire comunque a stroncare la resistenza palestinese. All’indomani della Prima Guerra del Golfo sembravano che ci si fosse finalmente avviati finalmente a una pace di compromesso con gli accordi di Campo David ma, dopo il loro fallimento, la situazione si fece ancora più difficile.
Abbiamo avuto cosi la cosi detta “seconda intifada” che è sfociata in realtà in una lunga serie di attentati, soprattutto suicidi, che hanno colpito indiscriminatamente la popolazione israeliana, una ennesima invasione del Libano, la spaccatura all’interno degli stessi palestinesi sfociata in una specie di divisione in due territori, Gaza e West Bank, ciascuna delle quali governata da opposte fazioni.

Tuttavia è chiaro che gli attentati, sia quelli del passato che quelli recenti o il lancio di missili Kassam non possono sconfiggere gli Israeliani: certo gli ebrei non andranno via dalla Palestina per questo: la pratica del terrorismo può essere utile per indurre uno stato a ritirarsi da territori che non rappresentano un interesse vitale, come ad esempio può essere avvenuto in Viet-nam e in Afganistan ma certamente non costringerà mai gli Ebrei a evacuare la Palestina.
Si tratta quindi una tattica che mantiene vivo il conflitto ma che non porta certamente alla vittoria.

Ma anche gli Israeliani non riescono, dopo oltre trenta anni, a vincere la loro lotta contro il terrorismo.
Israele risponde in modo violento e deciso per dimostrare che comunque il terrorismo non paga, che non può ottenere la vittoria e che la conseguenza dei loro atti è soprattutto quella di infliggere maggiore sofferenze proprio a quei Palestinesi che esso proclama di voler difendere .
Invade cosi il Libano, di fronte alla “seconda intifada” ha stretto in una morsa la popolazione palestinese, a Gaza opera una specie di assedio lesinando i rifornimenti.
Si vuole che i Palestinesi si convincano della dannosità del terrorismo, che abbandonino la guerra contro Israele e ne accettino la esistenza. Ma occorre esaminare se effettivamente tale politica possa raggiunge gli scopi prefissi.

La Palestina (come anche il Libano), in realtà, non è una entità con un governo autorevole e responsabile, in grado di governare e imporre effettivamente la propria volontà. La popolazione, la gente comune non è in grado, anche se lo volesse, di impedire atti di terrorismo. Viene quindi punita per qualcosa che non è in grado di impedire. L’effetto sperato dagli Israeliani è che alla fine essi si rendano conto che l’unico modo per uscire da questa angosciosa situazione è quella di combattere essi stessi il terrorismo e i terroristi.
Ma in realtà questa reazione psicologica non avviene affatto.

Infatti il palestinese oppresso, in miseria, che vede morire i suoi figli non addossa affatto la colpa ai “terroristi” ma agli Israeliani: non considera affatto l’azione israeliana come effetto di quella dei “terroristi” ma anzi fa il collegamento inverso: l’azione terroristica è vista come vendetta di quanto ha subito. Non è l’attentato suicida o il lancio di Kassam che ha causato l’attacco di Israele ma, al contrario, essi sono la reazione all’attacco israeliano. La politica israeliana finisce con il raggiungere il risultato opposto a quello sperato.
Ambedue quindi le tattiche, il terrorismo e la rappresaglia, non conseguono risultati ma è anche vero che le parti non hanno alternative da un punto di vista militare.

Un effetto insolito di questa guerra è l’inversione del fenomeno della conta delle vittime: nelle guerre, in generale, si gonfiano le cifre dei caduti del nemico e si minimizzano le proprie : i Palestinesi invece, al contrario, enfatizzano le proprie perdite: ogni caduto palestinese sembra essere una vittoria perche esalta sempre più il furore e l’odio dei Palestinesi e la commozione presso l’opinione pubblica internazionale.


L’OGGETTO DEL CONTENDERE


Se consideriamo in se l’oggetto della contesa sulla Palestina in realtà noi ci troviamo di fronte a un fatto abbastanza limitato: Il territorio di Israele è di circa 20.000 Km2 : considerando che per circa la metà si tratta del deserto del Negev praticamente si tratta di un territorio che più o meno equivale a quello di una nostra regione di media grandezza, come le Marche per fare un esempio.
I profughi arabi che furono costretti ad emigrare furono intorno ai 700 mila. diciamo più o meno il doppio di quelli italiani dall’Istria: per altro non esisteva al momento della costituzione di Israele uno stato arabo.

Furono probabilmente queste considerazioni che nel 1947 spinsero sia gli stati occidentali che quelli del blocco sovietico a riconoscere all’ONU la formazione di Israele. Potè sembrare al momento una questione in fondo marginale rispetto ai grandi sconvolgimenti che la II Guerra Mondiale aveva portato: si pensi che i profughi furono decine di milioni , che interi stati vennero ridefiniti, che regioni da sempre parti di uno stato entrarono nei confini di altri stati.
Assegnare a un popolo senza terra che aveva subito la più terribile persecuzione mai avvenuta nella storia una piccola striscia di territorio sembrò un fatto, diremmo, di ordinaria amministrazione, una crisi che sarebbe presto rientrata, senza troppe conseguenze.

In realtà tutti gli sconvolgimenti territoriali sono stati accettati, decine di milioni di profughi assorbiti, anche gli immensi imperi coloniali europei si sono dissolti senza troppo gravi drammi ma la questione palestinese rimane lì, irrisolta e sempre più irrisolvibile, è divenuta nel tempo una specie di focolaio da cui scaturiscono crisi su crisi che minacciano la stabilità non solo del Medio Oriente ma anche di tutto il mondo.

Dal punto di vista israeliano è evidente che essi non possono lasciare quel territorio e tornare nelle patrie di origine: sono costretti dalle circostanze a lottare strenuamente per difendersi: circondati dall’ostilità implacabile di uno sconfinato mare di genti nemiche hanno come priorità assoluta, più di ogni altro popolo, la difesa.

Da parte araba le motivazioni di una implacabile ostinazioni sono molto più complesse. Innanzi tutto bisogna considerare l’orgoglio o meglio la frustrazione degli arabi.
Da secoli gli Arabi vengono regolarmente sconfitti in campo aperto dagli Occidentali con irrisoria facilità.

L’ultima volta che un esercito mussulmano è riuscito a contrastare uno europeo è stato sotto le mura di Vienna nel 1683: poi è stato tutto un susseguirsi di disfatte umilianti: dalla spedizione di Napoleone in Egitto che con poche migliaia di soldati debellò l’aristocrazia dei Mammellucchi che detenevano da 400 anni il potere in Egitto, alla battaglia Navarrino in cui la flotta araba fu affondata tutta dalle navi europee, alla battaglia di Khartum in cui i dervisci caddero in massa di fronte alle truppe inglesi, fino alla Guerre del Golfo in cui la madre di tutte le battaglie si è trasformata nella madre di tutte le sconfitte: per due volte un esercito americano ha disfatto completamente uno iracheno praticamente senza avere perdite.

La questione palestinese diviene allora un fatto simbolico: se un piccolo stato tiene in scacco l’intero mondo arabo vuol dire che in effetti esso è solo la espressione di un complotto a livello mondiale contro la rinascita del mondo arabo: la lotta contro Israele non è quella per recuperare un piccola fetta di territorio ma quella di liberarsi dal dominio delle potenze occidentali che vorrebbero mantenere il loro dominio nella regione.



Il CONFLITTO RELIGIOSO


Negli ultimi decenni, dopo il fallimento delle politiche modernizzatrici dei governi arabi, il fondamentalismo islamico ha ripreso forte vigore: la Questione Palestinese è divenuta un questione religiosa: bisogna liberare al Qoods ( la “santa” come viene chiamata Gerusalemme). Il luogo sacro dal quale Muhammed volò in cielo, come una prima necessaria tappa di un risveglio generale della Umma (comunità dei fedeli in Allah) che deve purificarsi dalle influenze occidentali (cioè degli infedeli) per riprendere il suo glorioso cammino di conquista del mondo alla vera fede in Dio.

Si comprende che posto in questi termini la questione palestinese diviene irrisolvibile: ogni compromesso diventa un ignobile e sacrilego tradimento.
La Palestina assume per il mondo islamico lo stesso valore che essa aveva per l’Europa medioevale: tutta la cristianità concordava nella necessita di liberare il Santo Sepolcro: ogni imperatore, re e principe dichiarava che il suo scopo supremo era di partire per la crociata: combatterla effettivamente poi era altra cosa.
Perfino Carlo VIII, nell’invadere il regno di Napoli nel 1495, si giustificò con la pretesa che fosse solo il primo passo per la riconquista dei Luoghi Santi.
Analogamente nell’ambito islamico ogni rais, ogni leader piccolo e grande, ogni capo di banda terroristica mette avanti il problema palestinese per crearsi una facile popolarità perché tutto il modo arabo, in un modo o nell’altro, sente quella questione come una ferita aperta che non si rimargina.
In realtà, concretamente, nessun paese arabo, dopo la pace separata dell’Egitto, ha mai affrontato Israele e non pare che ne abbia la minima intenzione o possibilità: tuttavia si può giustificare qualunque azione dichiarando che la propria meta finale è sempre la distruzione di Israele.

Dal punto di vista israeliano abbiamo un processo speculare simile. Un problema fondamentale per il conseguimento della pace è la presenza delle così dette colonie nei territori occupati: in realtà dal punto di vista politico ed economico non si vede nessuna necessità della loro esistenza. Le “colonie” creano una situazione insostenibile: per difendere questi insediamenti occorre militarizzare tutto il territorio, costringere i palestinese in situazione simili a grandi campi di concentramento, sono soprattutto una ipoteca irrisolvibile sulla formazione di uno stato autonomo palestinese.
La loro giustificazione però è di carattere religioso: infatti i fondamentalisti religiosi ebraici sono la quasi totalità dei loro abitanti. Si parte anche qui da una pretesa promessa che Dio avrebbe fatto agli Ebrei di dare ad essi la terra dove “scorre latte e miele”, per sempre.

I territori "occupati", quindi, appartengono a Israele per diritto divino: si concede al massimo che gli Arabi possono anche abitarci ma le terre appartengono agli Ebrei. Gli ebrei che credono fermamente in questo diritto divino si trasferiscono incuranti di ogni pericolo, di ogni difficoltà come coloro che credono di fare la volontà di Dio che va seguita a costo di ogni sacrificio.

Due fedi fra di loro inconciliabili vengono in urto: non è possibile nessuna mediazione perchè ogni mediazione significherebbe venire meno alla propria fede.
Il problema politico è divenuto un problema metafisico.



DOMANDE SENZA RISPOSTE


Come prima abbiamo notato, a un osservatore esterno e imparziale le linee della pace sono evidenti e irrefutabili: non importa niente come si possano assegnare torti e ragioni: l’unica soluzione è la divisione della Palestina in due stati, sovrani e indipendenti. La comunità internazionale, l’opinione pubblica mondiale fa una sola domanda veramente importante a Palestinesi e Israeliani.
Ai primi chiedono se vogliono riconoscere realmente e definitivamente lo stato di Israele, e quindi che la fine dell’occupazione israeliana NON sia solo il primo passo per la distruzione di Israele stessa.

Ai secondi, chiede se essi vogliono effettivamente la costituzione di uno stato palestinese e quindi sono disposti a smantellare le colonie nella West Bank che, di fatto, lo impediscono
Ma la risposta che ottengono è equivoca.

Innanzitutto i pareri si dividono in ciascun campo: Se HAMAS continua a mantenere nel suo programma la cancellazione pura e semplice di Israele, Abi Mazen e al fatah (una parte, almeno) riconosce il diritto ad esistere ad Israele.
Nel campo israeliano una parte pare decisa a promuovere la nascita di una Palestina indipendente ma un’altra parte sostiene strenuamente gli insediamenti, il diritto ad abitare in quei territori e non si sognerebbe mai di viverci sotto la autorità araba (come fanno invece gli Arabi di Israele).
I moderati di ciascuno delle parti poi temono che nel campo opposto prevalgano gli estremisti, che non ci si possa fidare dei moderati stessi.
Ciascuna della parti poi, sia arabi che israeliani hanno specifici problemi ad accettare la pace di compromesso.

Gli israeliani pensano che non possono fidarsi dei Palestinesi: quanto anche questi solennemente si impegnassero a riconoscere Israele chi potrebbe poi garantire che in uno stato indipendente di Palestina non prevalessero poi gli elementi più estremisti che disconoscerebbero proprio quegli impegni. Israele è una piccola nazione che esiste solo per la forza delle proprie armi: e su quella forza basa la sua sicurezza.

I Palestinesi hanno anche essi problemi specifici: i loro dirigenti hanno promesso che avrebbero spazzato via gli Israeliani: quel popolo vi ha creduto, fermamente creduto si è sacrificato e continua a sacrificarsi oltre ogni ragionevole limite, generazione dopo generazione, nella speranza indistruttibile che alla fine essi prevarranno che Israele sparirà come un brutto sogno. Da tre generazione ogni palestinese apprende questa verità suprema fin dalla tenera età e vive per quel giorno, il giorno della vittoria che è certa e indubitabile, che Dio stesso non negherà certo ai suoi fedeli.

Dire ad essi che invece bisogna fare la pace con Israele significa in sostanza dire che tre generazioni si sono sacrificate inutilmente, che tutto è stato vano perchè in effetti debbono accontentarsi di quello che hanno sempre rifiutato, anzi di molto di meno. Se avessero accettato la spartizione decisa dall’ONU Israele sarebbe una piccola enclave senza importanza, se avessero accettato il risultato della guerra dei Sei Giorni e avessero riconosciuto Israele avrebbero un loro stato da 40 anni senza gli insediamenti ebraici: non è facile riconoscere che ci si è sbagliato, che una immensa infinta mole di sacrifici e sofferenza è stata inutile.
Avviene allora che chi mostra ai Palestinesi l’unica strada per uscire dalla situazione di incubo in cui si trovano venga considerato un traditore, un responsabile di quella situazione e chi invece, come Hamas, al contrario prolunga indefinitivamente quella situazione senza mostrare alcuna via di uscita effettivamente percorribile, divenga popolare: non propone nessuna soluzione che non sia la semplice continuazione di un calvario infinito che dura da tre generazioni: che importa, Dio provvederà, Allah Akbar ( Dio è grande) , inch’Allah ( come vuole Dio ).



PROSPETTIVE


Ci si domanda allora quale possa essere la soluzione del conflitto. In realtà tutti hanno un piano di di soluzione perché, come abbiamo ripetutamente notato, la soluzione è ben nota , unica e obbligata: il problema è come arrivarci .

Se gli Israeliani pongono come presupposto dei negoziati la cessazione di ogni atto di terrorismo, quelli che non vogliono il negoziato lo faranno immediatamente fallire con un attentato: vi saranno sempre dei gruppi contrari al negoziato e i moderati (le autorità) non sono in grado di controllarli.
Occorrerebbe invece che la cessazione del terrorismo fosse posta come fine del negoziato, non come presupposto. Se effettivamente si costituisse uno stato palestinese con un governo effettivamente in grado di governare e controllare il territorio allora sarebbe nella logica delle cose che assumesse anche la responsabilità dei propri cittadini. Esso potrebbe effettivamente e autorevolmente controllare il terrorismo.
D‘altra parte se la situazione umana degli abitanti migliorasse sensibilmente certamente il prestigio del governo moderato crescerebbe e diminuirebbe in parallelo quello degli estremisti.
In altri termini se il palestinese comune vedesse la sua vita migliorare realmente con la pace diventerebbe favorevole alla pace stessa (cioè agli accordi con gli Israeliani) ma fino a che egli si sentirà oppresso e attaccato dagli Israeliani non crederà mai che la pace con essi potrebbe portare qualcosa di buono.

La strada del negoziato a oltranza richiederebbe coraggio e determinazione da parte di Israele ma sarebbe l’unica risolutrice del conflitto, più che di qualunque inconcludente vittoria militare. Ma richiederebbe coraggio soprattutto volontà di pace: e non tutti gli Israeliani vogliono effettivamente la pace. Non bisogna dimenticare che anche una parte non trascurabile degli Israeliani non accetta affatto la costituzione di uno stato palestinese e ritiene che tutta la Palestina spetti comunque agli ebrei per diritto divino: i radicali non sono solo fra gli arabi.
Israele è profondamente convinta di avere una superiorità militare e che su essa debba poggiare la propria sicurezza: la sua posizione di forza la rende abbastanza tiepida nei negoziati che dovrebbero interessare di più i Palestinesi: e come se dicessero: queste sono le nostre condizioni: se non le accettate, peggio per voi.

Bisognerebbe però rendersi conto da parte Israeliana che essi costituiscono solo un piccolo staterello di pochi milioni di abitanti e hanno di fronte un mondo arabo mussulmano sconfinato. La prevalenza militare israeliana è un fatto contingente che non può durare all’infinito. La Cina con lo sviluppo economico sta diventando una grande potenza, l’India segue a ruota, il mondo arabo invece resta ancora nel sottosviluppo e soprattutto nel disordine e nelle faide interne.
Ma un giorno potrà pur accadere e che esso finalmente segua le strade del risveglio, come la Cina e l 'India: allora in quel momento, se Israele sarà ancor un nemico, sarà spazzata via: meglio allora arrivare alla pace ora, quando è ancora possibile.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 3:57 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 8:29 pm

Le bugie di Saeb Erekat - Come la propaganda palestinese deforma la verità e mina gli sforzi di pace
26 novembre 2015

http://www.progettodreyfus.com/le-bugie-di-saeb-erekat

Se Saeb Erekat non esistesse bisognerebbe inventarlo. Quest'uomo, nel corso degli ultimi anni, è riuscito nell'eccezionale impresa di svolgere allo stesso tempo il ruolo di capo negoziatore per palestinesi nel processo di pace con Israele e quello di capo della propaganda anti-israeliana per Yasser Arafat e Mahmoud Abbas. Con il tempo le sue bugie sono diventate sempre più grandi e hanno contribuito in maniera determinante al fallimento di ogni iniziativa diplomatica dei palestinesi. A lui si deve la decisione dell'Autorità Nazionale Palestinese di abbandonare i negoziati per proseguire esclusivamente con mosse unilaterali nelle principali istituzioni internazionali.

Nel Marzo 2014 Erekat ha presentato un documento chiamato Study Number 15 ad Abbas che poi lo ha portato con sé alla Casa Bianca per l'incontro con Obama in cui sono definitivamente naufragati i tentativi di pacificazione con Israele. In questo testo, oltre a rifiutare qualsiasi mutuo riconoscimento con Israele e ogni possibile compromesso sulla sicurezza richiesto dallo Stato ebraico, venivano anticipate quelle che poi saranno le scelte intraprese da Abbas nei mesi seguenti come l'accesso a diverse organizzazioni internazionali e la formazione di un governo di unità nazionale con Hamas.

Ora Erekat è tornato a diffondere la sua propaganda: il suo dipartimento a Ramallah a inizio Novembre ha distribuito ai media un documento chiamato "Punti chiave da ricordare quando si scrive della Palestina occupata". E' utile smontare punto per punto questo testo per capire la mentalità di Erekat e svelare come la leadership palestinese sia ancora ben lontana dall'accettare le premesse necessarie alla pace. Senza contare poi come questo mostri una certa maniacale attenzione per la copertura mediatica. Per analizzare questo documento proponiamo la traduzione di un articolo, diffuso in diversi media israeliani, scritto da Eran Lerman, ex deputato per la politica estera e gli affari internazionali presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano.

1. "Israele occupa lo Stato di Palestina"

L'Autorità Nazionale Palestinese non è mai stata una nazione e non era sua la terra conquistata nel 1967. Per questo può diventare uno Stato solo attraverso un accordo negoziato. Ha ragione Erekat quando afferma che "non è un conflitto fra pari", se lo fosse stato dopo le ripetute aggressioni subite dal 1948 in poi oggi Israele non esisterebbe. Il fatto che Israele si trovi ora in West Bank potrà sembrargli spiacevole ma è una mera conseguenza della guerra difensiva del 1967. Un negoziato diventa quindi necessario ed il fatto che i palestinesi lo abbiano più volte rigettato rende falsa l'affermazione secondo cui "Israele nega sistematicamente l'inalienabile diritto all'indipendenza". Così come è falso dire che "Israele ha dislocato la popolazione palestinese per rimpiazzarla con coloni", lo testimonia l'ultima decisione della Corte Suprema israeliana che ha ordinato la demolizione di una Sinagoga costruita su terra considerata di proprietà palestinese. Inoltre se i palestinesi devono essere considerati come "indigeni" non è chiaro perché non debbano essere considerati tali anche gli ebrei: questo tentativo di dipingere il sionismo come un movimento colonialista, quando invece è un movimento nazionale legittimo, rende difficile qualsiasi compromesso per la pace.

2. "Il tema principale è l'occupazione israeliana"

Forse in questo modo Erekat cerca di sviare l'attenzione dal fatto che la mentalità dei palestinesi oggi è quella di mandare giovani adolescenti nelle strade con l'obiettivo di compiere attentati terroristici. Per Erekat "la colonizzazione e l'occupazione illegale sono la causa delle continue rivolte dei palestinesi che vivono da decenni sotto un regime di Apartheid".

In questa frase ci sono ben 4 bugie:

- Gli ebrei si stanziano nella terra dei loro padri, il termine colonizzazione vorrebbe accostare Israele al colonialismo europeo che nulla aveva a che fare con terre già abitate dai loro antenati.
- Quella che Erekat chiama occupazione è una condizione che deriva puramente dalla sconfitta dei paesi Arabi che avevano aggredito Israele.
- Non si tratta di rivolte ma di campagne terroristiche mosse dai dirigenti di ANP come quella del 2000-2004, la Seconda Intifada. Lo stesso Abbas nel 2002 ha ammesso che la "militarizzazione delle rivolte" fu un grave errore.
- Si può definire Apartheid un regime in cui arabi musulmani ricoprono cariche importanti nella giustizia, nella diplomazia e nella politica?

L'Apartheid, ovunque viene praticato, è destinato a sparire. Con questa menzogna si alimenta solo una falsa speranza nella popolazione palestinese cioè che Israele prima o poi sparirà.
E ancora: "Sebbene i portavoce israeliani abbiano dichiarato che il problema principale sono l'incitamento e le bugie su al-Aqsa, la cosa importante è che Israele continua a negare sistematicamente i diritti dei palestinesi". Sembra quasi un'ammissione che effettivamente l'incitamento alla violenza c'è ma in ogni caso Erekat cerca limpidamente di cambiare argomento. Per Erekat "i leader israeliani incitano alla violenza contro i palestinesi", qui la bugia è assurda vista la natura unilaterale degli atti violenti di questi giorni.

3. "Il riconoscimento di Israele da parte dei palestinesi è stato accolto con ulteriore colonizzazione"

Il compromesso con cui l'OLP ha riconosciuto Israele con i confini pre-'67 non può essere considerato un riconoscimento pieno. A questo non si è mai accompagnata una proposta che ponesse fine del tutto al conflitto e i palestinesi non hanno mai recesso dal "diritto al ritorno" che in pratica eliminerebbe Israele. Gli Accordi di Oslo chiariscono che i confini, la sovranità e gli insediamenti sono tutti argomenti che vanno risolti attraverso un negoziato sullo status definitivo. Lamentarsi e ripetere accuse contro Israele non cambia il fatto che i canali diplomatici lo Stato ebraico li ha sempre tenuti aperti. Lo testimoniano le tre offerte di pace israeliane che sono state rifiutate. Inoltre si cerca di gonfiare e confondere i numeri degli insediamenti nella West Bank inserendovi anche gli israeliani che vivono a Gerusalemme.

4. "Per Israele la politica ufficiale è la colonizzazione non la soluzione a due Stati"

Riportare citazioni di politici in campagna elettorale o opinioni personali di persone importanti non cambia il fatto che Israele si è impegnato con la comunità internazionale. Ciò che conta sono i discorsi di Netanyahu a Bar-Ilan, al Congresso degli Stati Uniti, all'incontro con la Mogherini dopo le elezioni e all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In tutte queste occasioni Israele si è impegnato nella soluzione a due Stati. Dire che "Israele respinge la soluzione a due Stati" è un'ingiuria. E' stato Abbas a dire no al piano Kerry e per come si sono evolute le cose in Giudea e Samaria un compromesso praticabile non è stato compromesso. Inoltre parlare di "pace e sicurezza per i palestinesi" è assurdo visto che sono gli israeliani ad essere colpiti su base giornaliera.

5. "Gerusalemme Est è parte integrante dello Stato occupato di Palestina"

Dato che lo Stato di Palestina è al momento più finzione che realtà l'intera frase non ha senso. Nessuno può contraddire la realtà di una Gerusalemme ormai unificata grazie all'atto emanato nel 1967 subito dopo la liberazione della città dal dominio della Giordania. Da quel momento Gerusalemme ha attirato sempre più palestinesi perché Israele l'ha gestita con successo. Chiedere di lacerare una città è una follia che danneggerebbe chiunque vi abita. "360 000 palestinesi vivono a Gerusalemme" e infatti sono una minoranza nella città così come lo sono stati per 150 anni, molto prima dell'avvento del sionismo. Sfacciatamente i palestinesi cercano di falsificare l'identità e la storia di Gerusalemme nonostante queste siano note a chiunque abbia letto una Bibbia. Si cerca così di obliterare l'indistruttibile legame fra Gerusalemme e gli ebrei che dura da più di duemila anni.

6. "Gli insediamenti israeliani a Gerusalemme Est occupata sono illegali allo stesso modo di quelli nel resto dello Stato occupato di Palestina"

Non c'è bisogno di ripetere ciò che è stato affermato nel punto precedente. Va comunque ricordato che nel 1993 i palestinesi hanno accettato di riconoscere la natura unica di Gerusalemme e di trattare la questione separatamente. Inoltre Erekat elenca una serie di quartieri come Ramot e la Collina Francese definendoli insediamenti nonostante questi siano parte di Israele in qualsiasi configurazione possibile.

7. "Il compound di al-Aqsa è sotto occupazione israeliana come il resto di Gerusalemme Est"

Subdolamente Erekat ignora non solo che Israele rispetta lo status quo, come ha ribadito nonostante le provocazioni, denigra anche il ruolo costruttivo della Giordania nel mantenere l'ordine nel sito sacro. "Le interferenze con le istituzioni degli occupati da parte della potenza occupante sono severamente proibite dal diritto internazionale" rammenta Erekat. Questa invenzione è molto elegante: le autorità israeliane agiscono all'interno del diritto quando con molta cautela cercano di evitare che tali istituzioni siano usate per il terrorismo e la violenza! Se un predicatore pagato dall'ANP incita alla violenza contro gli ebrei in stile nazista nella moschea è compito del governo porre fine a questa violazione. Un'altra bugia sfacciata: "Israele ha effettivamente interferito con lo status quo e lo ha cambiato per i siti di preghiera cristiani e musulmani a Gerusalemme Est occupata". Esattamente al contrario Israele ha scrupolosamente rispettato le pratiche religiose esistenti a Gerusalemme. A meno che Erekat non si riferisca alle istituzioni politiche dell'OLP, chiuse per ovvie ragioni dopo l'ondata di violenze del 2001-2002 istigate da Arafat.

8. "Israele ha effettivamente cambiato lo status quo di al-Aqsa"

La vergognosa campagna di bugie di Erekat è apparentemente rivolta verso giornalisti che non si preoccupano di controllare ciò che gli viene propinato. Nessun rispetto viene dato al retaggio e al patrimonio ebraico del Monte del Tempio. Così come non viene dato al fatto che il Waqf ha deliberatamente distrutto le prove archeologiche delle antiche sinagoghe ebraiche. Le bugie si riferiscono ad alcuni atti che Israele avrebbe compito negli anni e che sono facilmente rintracciabili: "l'attacco terroristico del 1969" fu compiuto da un cristiano australiano; nel 2000 Sharon non "assalì la Spianata", fu semplicemente una visita; gli "scavi illegali" sono da attribuire esclusivamente al Waqf; le "tombe distrutte" furono rimosse perché posizionate illegalmente come provocazione, non avevano niente a che fare con il Monte del Tempio. Per quanto riguarda le occasionali limitazioni all'ingresso imposte da Israele sono strettamente temporanee e designate per prevenire le violenze in base alle informazioni ben dimostrate dalle intenzioni dei giovani provocatori. A meno che Erekat non voglia considerare anche gli attacchi contro i turisti o i lanci di pietre verso chi prega al Muro del Pianto come legittime pratiche della tradizione islamica. Infine "il piazzamento di telecamere è un'ulteriore violazione dello status quo". Qui si cerca di delegittimare e distruggere lo sforzo comune di Israele, Giordania e Stati Uniti per istituire la trasparenza riguardo alle attività sul Monte del Tempio. Chiaramente l'ANP ha qualcosa da nascondere, perché altrimenti opporsi alle telecamere? Cosa hanno da temere se le loro intenzioni sono sincere?

9. "Il popolo palestinese ha diritto alla protezione internazionale"

Nel chiedere protezione Erekat omette l'origine degli ultimi tre round di violenze generati da Hamas a Gaza. C'è da chiedersi cosa ne pensano i popoli indifesi di Siria, Iraq, Libia, Yemen e Congo rispetto alla necessità di protezione internazionale e di come possa essere considerata così relativa. Il problema non è che qualche male informato reporter occidentale possa essere portato a pensare che sia giusto avanzare una richiesta del genere in nome dello sfortunato e innocente popolo palestinese, persone che apparentemente non avrebbero mai fatto del male nemmeno a una mosca. Il problema è che a Ramallah sono convinti veramente che il mondo gli debba un intervento! Finché persistono tali illusioni le speranze di un compromesso pratico che porterebbe alla pace con Israele saranno sempre scarse.

10. "Il diritto internazionale, le risoluzioni ONU e gli accordi sono fatti per essere implementati non negoziati"

Qui la non comprensione dei testi base, mischiata con l'avversione per il compromesso negoziato, è addirittura arrogante. Si tratta di una sfida verso la comunità internazionale, verso tutti quelli, dal Segretario Generale ONU Ban Ki Moon in giù, che hanno chiesto ad Abbas di tornare al tavolo dei negoziati. Per avere un negoziato significativo la parte palestinese deve affrontare la realtà: la necessità di un compromesso ragionevole, l'arrangiamento di un robusto sistema di sicurezza ed il mutuo riconoscimento dei due movimenti nazionali. Nessuno di questi temi è stato chiesto come precondizione da Israele, al contrario sono soggetti al negoziato. Dall'altra parte Erekat compila una lista di precondizioni mascherate da "obblighi" come la cessazione degli insediamenti. Da quando è diventato un obbligo? L'ultima volta che sono stati fermati per dieci mesi Abbas rifiutò di trattare. Un'altra precondizione, il rilascio dei prigionieri (palestinesi condannati per omicidio) fa parte di un accordo che i palestinesi hanno rotto prendendo decisioni unilaterali. Lo stesso vale per la richiesta di riaprire le istituzioni politiche a Gerusalemme Est. Anche la famosa risoluzione ONU numero 242 del 1967 viene distorta. Le parole "territori" e non "I TERRITORI", così come "confini sicuri e riconosciuti", suggeriscono chiaramente il bisogno di negoziare i nuovi confini. Gli stessi Accordi di Oslo firmati dall'OLP dicono che qualsiasi processo politico dovrebbe portare a un ragionevole accordo fra Israele e i palestinesi, non quindi a una soluzione imposta che accolga ogni richiesta palestinese. Erekat conclude condannando la "cultura dell'impunità israeliana". Come ha recentemente fatto notare il senatore statunitense Charles Schumer il mondo oggi sarebbe molto diverso se i palestinesi, che ci hanno donato la pratica dei dirottamenti aerei negli anni '60 e '70 e che hanno profanato le olimpiadi di Monaco nel 1972 con un massacro, non fossero stati perdonati e loro crimini dimenticati. Sarebbe quantomeno doveroso che i propagandisti come Saeb Erekat non insistessero troppo con la falsa accusa di impunità verso Israele.
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 9:16 pm

I pałestinexi xlameghi rasisti contro i pałestinexi cristiani

viewtopic.php?f=188&t=2057

https://www.facebook.com/groups/rasixmo ... 1641281602
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 9:44 pm

Mizrahi e Aschenaziti: conflitti sociali in Israele
Di Anat Hila Levi, il 31 marzo 2015

http://www.qelsi.it/rubriche/anat-hila- ... e%E2%80%8F


“Il nonno era un avvocato in Toscana e come ebreo non poteva lavorare. Emigrato in Egitto, là era diventato un giudice e così sono nata là, da padre farmacista. Nel 1957, durante i bombardamenti sul Cairo, siamo scappati sotto il dominio di Nasser, uscendo con passaporti senza nazionalità, con poca roba perché non potevamo portare nulla, solo i nostri vestiti. Così tutti i nostri beni sono rimasti là”.
Questa è una delle migliaia di storie di ebrei che sono scappati dai paesi arabi negli anni ‘50 dopo una lunga serie di episodi di massacri e maltrattamenti.
Ora in Medio Oriente la terra sta bollendo sotto i piedi dei cristiani, possiamo dire che stanno subendo esattamente quello che hanno subito gli ebrei dei paesi arabi dagli anni ’30 del secolo passato. Alimentato dalla lega araba, piano piano ha cominciato a crescere l’antisemitismo contro.

Con la propaganda fascista e il nazismo in Germania, anche in Egitto hanno cominciato a perseguitare male gli ebrei. I fratelli musulmani non consideravano gli ebrei come veri egiziani e cominciarono i pogrom e i massacri contro di loro. La situazione andò peggiorando man mano che si alzava il livello di scontro tra arabi e il nuovo stato di Israele. Con la salita al potere di Nasser si arrivò alla cacciata degli ebrei dall’Egitto nel 1956: una parte salì in Israele, alcuni vennero in Italia, tutti senza beni, sequestrati dal governo egiziano.

Così anche in Libia con il fascismo cominciavano i pogrom con uccisioni di ebrei e roghi delle loro abitazioni. Salirono in Israele alla fine del 1953 quasi tutti, ma alcuni andarono in Italia, senza i beni confiscati dal governo libico.

In Libano, come negli altri paesi arabi, dopo la nascita dello stato d’Israele gli ebrei furono perseguitati ed emigrarono.
E così via nel resto dei paesi arabi, tale che un milione di ebrei salirono in Israele, uno stato in crescita negli anni ’50 che vide arrivare in massa i correligionari che abbandonavano i paesi arabi in cui non potevano più vivere.

Gran parte delle risorse furono spese per accogliere i nuovi arrivi e per la sicurezza dello stato. Grazie anche agli aiuti e denaro che arrivavano da fuori, il livello della vita, l’agricoltura e l’industria si elevarono.

La popolazione israeliana era caratterizzata da due gruppi di ebrei, uno costituito da cittadini arrivati dall’Europa (Aschenaziti) e dall’America, istruiti o in possesso di un’arte, che vivevano in città o in Kibbutz, l’altro costituito dai nuovi arrivi, perlopiù dal nord Africa, che vivevano nella periferia e nei paesi sperduti del nord e del sud, con poca istruzione, scarsa pratica di lavoro o disoccupati.

I loro usi e costumi erano diversi dalla popolazione precedente. Gli ebrei dei paesi arabi, cosiddetti Mizrahi (magrebini) erano più religiosi, con famiglia numerosa, con influenza della cultura araba, commercianti e rabbini.
I governanti volevano che dimenticassero il loro passato, le abitudini e le tradizioni. Li vedevano come di livello inferiore rispetto a coloro che avevano una cultura europea.

Si voleva creare un nuovo ebreo, un nuovo israeliano che dimenticasse i costumi e le abitudini passati per adottare quelli europei come usavano gli Aschenaziti.
Queste famiglie arrivate dai paesi arabi erano originariamente benestanti, ma ora avevano lasciato tutto, i padri non potevano praticare i lavori che conoscevano e si ritrovavano in ristrettezze economiche con una famiglia numerosa, tale che i figli abbandonavano gli studi per aiutare a mantenere la famiglia. Molti vivevano in miseria nelle periferie, con i giovani a rischio criminalità, senza che i governanti fossero di aiuto.

Mentre gli ebrei Aschenaziti crescevano economicamente e andavano ad occupare i posti di potere, quelli Mizrahi rimasero in un livello economico ed educativo inferiori, sentendosi discriminati e abbandonati.

Fra i due gruppi crescevano i pregiudizi, le discriminazioni, le incomprensioni. Non volevano mescolarsi tra loro. I dirigenti, i professori e in generale i leaders, erano tutti Aschenaziti e per gli altri non c’era posto.
La rabbia degli ebrei sefarditi doveva uscire in qualche modo ed il modo più forte era la politica.
Negli anni ’70 crebbe un movimento dei giovani magrebini nel quartiere povero Musrara a Gerusalemme, dove Charlie Biton (nato in Marocco a Casablanca ed emigrato a due anni con la famiglia nel 1949 in Israele) fondò “Panterio Sechorim” (pantere nere).
Il primo che diede loro appoggio fu Menachem Begin, leader della destra israeliana, il Likud, che ascoltò il loro dolore, la loro rabbia e le loro urla.

Vorrei raccontare la storia dell’ex ministro David Levi, anche lui nato in Marocco a Rabat, salito nel 1957 in Israele e andato vivere nel nord d’Israele. Padre di sette figli, lavorava come muratore, iniziò l’attività sindacale e poi politica. Nel 1969 entrò nel parlamento israeliano e cosi man mano ebbe vari incarichi anche come ministro nel governo israeliano. Non era facile perché tanti lo deridevano per la sua mancanza di studi e le sue origini, ma lui fu molto attivo nell’aiutare lo sviluppo economico, l’istruzione e la crescita delle periferie, in particolare dei giovani di famiglia originaria del nord Africa. Ora anche la figlia Orli è parlamentare.
Quella rabbia e quelle frustrazioni sono emerse nelle votazioni.
Il 17 Maggio del 1997 si svolsero le elezioni per il nono parlamento (la Knesset). Per la prima volta il Likud, partito di destra, ottenne la vittoria, superando il partito di sinistra che fino a quel momento aveva la maggioranza e per quasi trent’anni aveva guidato il paese con gli Aschenaziti protagonisti della scena politica israeliana. Ora quel tempo volgeva al termine.
Il sionismo sembrava aver fallito il tentativo di creare un’unica etnia, ma i deboli Mizrahi cominciavano a far sentire la loro voce.

Cominciando a verificarsi matrimoni misti fra Aschenaziti e sefarditi, aiuti adeguati nella periferia e nei posti dove vivevano i Mizrahi, la voglia di emergere si faceva strada pur con difficoltà. I figli e i nipoti di quegli immigrati dai paesi arabi cominciavano a prendere posto nelle università e nei luoghi dirigenziali.
Anche in quest’ultime votazioni vinte dal Likud di Benjamin Netanyahu, un ruolo importante hanno avuto i voti Mizrahi.
Tra tutti un posto di rilievo merita Moshe Kahlon (nella foto), un politico di famiglia tripolina di sette figli, venuto da un villaggio di basso tenore socio-economico. Diventato ministro del Likud per le telecomunicazioni. Nelle ultime elezioni ha corso con la sua formazione “Kulanu” (Tutti noi), che ha ottenuto nove seggi al parlamento israeliano: la Knesset.
È lui il vero vincitore in queste votazioni.
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2016 9:51 pm

Quel bell’appartamento, con un vicino sociopatico
Un’allegoria mediorientale
Di Daniel Robert Krygier

http://www.israele.net/quel-bellapparta ... ociopatico

Vi interessa il mio appartamento? E’ piccolo ma molto bello, e con una splendida vista sul mar Mediterraneo.
Tuttavia, è mio dovere mettervi in guardia circa il mio vicino. Per dirla tutta, è mentalmente instabile: al suo confronto, Jack lo Squartatore sembra Madre Teresa di Calcutta.
Spesso e volentieri dà fuori di matto, maneggia regolarmente esplosivi e razzi, e si scaglia contro di noi brandendo coltelli e gridando “Allahu Akbar”.
Come favola della buonanotte, legge ai suoi bambini storie molto violente e sanguinarie, oppure antiche fiabe oscure intitolate Mein Kampf e Protocolli dei Savi di Sion. Ai suoi figli insegna che la mia famiglia è malvagia, che discende direttamente da scimmie e maiali e che deve essere sterminata.
Ogni volta che gli impedisco di fare del male a mia moglie e ai miei figli, va in giro strillando che l’ho aggredito, e regolarmente vengo denunciato per aver causato disordini nel palazzo. Non manca chi invoca varie forme di boicottaggio contro la mia famiglia.
“Il mio vicino sociopatico” (poster palestinese che inneggia alle aggressioni anti-israeliane)
L’assemblea condominiale è del parere che, se soltanto io gli cedessi metà del mio appartamento, il mio vicino di casa si metterebbe il cuore in pace. Ma ogni volta che lo invito a tavola per provare a parlare e sistemare le cose mettendo fine a questa situazione assurda e pericolosa, lui mi accusa di avergli rubato il mio appartamento, anche se non è vero.
Siete ancora interessati? No? Anch’io non lo sarei.
Ma si dà il caso che io amo il mio appartamento, e che non ne ho un altro. Così, per il momento, dovrò continuare a tenere porte e finestre sbarrate, dovrò continuare ad armarmi e a stare all’erta, nell’attesa che il mio vicino sociopatico guarisca dalla sua malattia. Cercate di capire: il mio stesso nome deriva da questo appartamento, che appartiene alla mia famiglia da generazioni e generazioni. Il mio nome è Israele.
(Da: Times of Israel, 30.12.15)
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 2:51 pm

La coscienza dei soldati israeliani
Far parte dell'esercito è fondamentale per l'identità nazionale israeliana. L'obiezione di coscienza è illegale: pena il carcere
di Silvia Di Cesare
(Reuters/Yannis Behrakis)

http://www.tpi.it/mondo/israele/la-cosc ... israeliani

Max Steinberg, 24 anni, era nato a Los Angeles. Di origini ebraiche, domenica 20 luglio è morto nella Striscia di Gaza con in testa il berretto marrone della 1° Brigata di fanteria Golani dell’esercito israeliano.

Uriel Ferera, 19 anni, è nato in Argentina. Ebreo ortodosso, vive a Beersheba in Israele. L’8 giugno è stato incarcerato per 20 giorni dopo essersi rifiutato di prestare servizio militare. È la terza volta che Uriel viene arrestato perché obiettore di coscienza.

Steinberg non aveva mai voluto mettere piede nello stato di Israele prima del 2012, secondo quanto raccontato dalla madre. In quell’anno fu convinto dai suoi genitori a partecipare a uno dei viaggi in Palestina della Taglid-Birthright. L’associazione, fondata nel 1999 da due ebrei americani, Charles Bronfman e Michael Steinhardt, nasce con la volontà - si legge nel sito - di “rinforzare l’identità ebraica e la solidarietà con Israele” offrendo a giovani ragazzi ebrei un viaggio di dieci giorni in Terra Santa.

Kiera Feldman, americana cresciuta con un’educazione ebraica, è una dei 400mila ragazzi dai 18 ai 26 anni che, insieme a Max Steinberg, hanno preso parte ai viaggi del Birthright. Accompagnata da giovani israeliani e soldati dell’Idf (esercito israeliano), Leah ha visitato lo Stato israeliano, bombardata costantemente da informazioni sulla religione ebraica e sulla storia del sionismo.

Come per i tre quarti dei ragazzi della Taglid-Birthright, a Max quest’esperienza cambiò la vita: anche lui in quei dieci giorni di viaggio aveva vissuto il "momento", quell’attimo in cui i partecipanti si rendono conto di quanto per loro sia importante Israele, la loro identità ebraica e la causa sionista. Tornato a casa decise di trasferirsi in Israele e di arruolarsi nell’esercito. “Margine protettivo”, l'operazione di guerra lanciata lo scorso 8 luglio da Israele nella Striscia di Gaza, era la sua prima operazione sul fronte.

Dagli 800 ai 1,000 ragazzi o ragazze straniere l’anno si arruolano nell’esercito israeliano. Circa 4.600 soldati stranieri sarebbero oggi presenti nell’Idf, 2mila dei quali provengono dagli Stati Uniti. Gli ebrei non israeliani che decidono di arruolarsi possono partecipare a diversi programmi di volontariato chiamati Mahal. Di una durata tra i 18 e i 21 mesi, i Mahal preparano i volontari a entrare nelle unità di combattimento dell’Idf attraverso un lungo addestramento militare.

In Israele tutti i cittadini sono obbligati per legge a prestare servizio militare, tre anni per gli uomini e due per le donne. In Israele l’obiezione di coscienza è illegale e la pena è il carcere. Nonostante questo, esiste in Israele una minoranza rumorosa di obiettori di coscienza: i refusnik.

Sono due i punti fondamentali che spingono queste persone, per la maggior parte ragazzi, a non prestare servizio miliare per l’Idf: il rifiuto dell’occupazione e di ciò che l’esercito commette contro i palestinesi, insieme all'ostilità verso l’influenza che l’esercito ha nella società israeliana.

Gli ultimi anni di liceo sono il momento in cui i giovani israeliani ricevono il telegramma di convocazione dall’esercito. Cinquanta ragazzi di diverse scuole hanno risposto a questo telegramma con una lettera rivolta al primo ministro Benjamin Netanyahu, in cui spiegano i motivi che li spingono a rifiutarsi di prestare servizio militare.

Si chiamano Shministim e la loro è una tradizione che va avanti dal 1970, anno in cui i primi liceali inviarono una lettera di protesta all’allora presidentessa israeliana Golda Meir. Uriel Ferera è uno di loro.

“Non posso partecipare all’antidemocratica occupazione dei territori palestinesi portata avanti dai militari”, racconta Uriel in un video diffuso su YouTube. “Ogni forma di servizio militare contribuisce alla conservazione dello status quo, per questo la mia coscienza non mi permette di prendere parte a questo sistema”.

Arruolarsi nell’esercito, però, è un elemento fondamentale dell’identità nazionale israeliana. Per questo la scelta portata avanti dai refusnik non viene apprezzata dalla maggioranza della popolazione e le sue conseguenze non sono soltanto legali.

L’allontanamento dalla propria famiglia e l’espulsione dalla scuola sono altre difficoltà che gli obiettori devono affrontare, come rileva lo studio dall’antropologa Erica Weiss dell’Università di Tel Aviv. Dalle possibilità lavorative ai legami interpersonali, in primis familiari, essere obiettori di coscienza in Israele significa mettere in crisi la propria vita e il proprio futuro.



Israele, quando la scuola fa propaganda
09 ott 2015
di Valeria Cagnazzo

http://nena-news.it/libri-israele-quand ... propaganda

La Palestina nei testi scolastici di Israele, Nurit Peled-Elhanan
Nel suo libro la docente e attivista israeliana Nurit Peled-Elhanan svela il contenuto propagandistico e nazionalista dei testi scolastici adottati nello Stato ebraico, per indagare le radici dell’odio e della paura nei confronti dell'”altro”.


Roma, 9 ottobre 2015, Nena News - È appena arrivato nelle librerie italiane il lavoro della docente ed attivista israeliana Nurit Peled-Elhanan: “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione”, edito da GruppoAbele e tradotto da Cristina Alziati.

Il testo, pubblicato per la prima volta nel 2012 nel Regno Unito, rappresenta un’ “inchiesta socio-semiotica”, come lo definisce la stessa autrice, professoressa di Scienze dell’Educazione Linguistica presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, che, attraverso uno studio analitico dei principali libri attualmente in uso nelle scuole di Israele, indaga dall’interno il sistema educativo del Paese, e svela, come suggerisce il sottotitolo, il contenuto propagandistico e nazionalista dei testi che plasma la mentalità delle nuove generazioni sin dalla tenera età.

Compiuti i diciott’anni, i giovani israeliani di ambo i sessi sono chiamati a prestare il servizio militare obbligatorio. La legge non prevede il diritto all’obiezione di coscienza e, ad eccezione dei casi di esenzione per gli ultraortodossi, contestati peraltro dal resto della società civile, chi rifiuta di entrare nell’esercito è accusato di tradimento ed etichettato come “refusnik”. La preparazione che porta il ragazzo a trasformarsi in soldato comincia negli asili israeliani, tra i bambini di tre anni: i militari si recano spesso nelle scuole per tenervi incontri più o meno formali, contribuendo già in questo modo alla creazione, nell’immaginario degli studenti, del mito del buon soldato fedele alla Nazione. Questo tipo di formazione viene poi portato avanti principalmente attraverso i loro materiali di studio. Il lavoro della Peled è una disamina di diciassette libri di testo scolastici israeliani, dieci di storia, sei di geografia e uno di educazione civica, pubblicati tra il 1996 e il 2009, nel periodo post-Oslo, che dimostra efficacemente come, attraverso le narrazioni storiche, le cartine geografiche, le immagini, i messaggi espliciti e quelli subliminali, il sistema educativo israeliano costruisce negli allievi sentimenti di identità nazionale, di appartenenza razziale e di odio e paura nei confronti dell’ “altro” e del “nemico” perfettamente rispecchianti le politiche dello Stato.

Dall’indagine semiotica condotta dall’autrice attraverso le tre materie scolastiche, che attinge dai campi della linguistica e della psicologia, della politica e della sociologia, emerge l’univoca strutturazione di due immagini nitide e staticamente cristallizzate, destinate ad imprimersi nella mente dello studente, vittima, secondo Peled-Elhanan, di un autentico “lavaggio del cervello”, e ad influenzare irrimediabilmente le sue future scelte politiche e morali e la sua visione del mondo: l’immagine del popolo ebraico e dello Stato di Israele, e quella dell’arabo, del nemico oltre il confine, del Palestinese, o, meglio, per usare due definizioni che spesso ricorrono nei testi esaminati e che non lasciano spazio a sfumature geopolitiche o storiche, quella dell’”ebreo” e quella del “non ebreo”.

Il “non ebreo”, vale a dire il Palestinese, può essere presentato nelle scuole su due piani: o la sua identità è mistificata e demonizzata, o semplicemente egli non esiste affatto. Gli arabi sono, innanzitutto, rappresentati principalmente attraverso immagini e caricature che, rimarcando antichi stereotipi, li dipingono come contadini o pastori nomadi, in sella a cammelli o seduti sotto a una tenda, restii ad ogni forma di progresso e civilizzazione e membri di una società chiusa e analfabeta che opprime le donne e non conosce leggi. A volte, le foto possono ritrarre arabi col volto coperto intenti a lanciare pietre in operazioni di guerriglia. Nel migliore dei casi, li si ritrae come profughi in strade senza nome. “Nessuno dei libri”, si legge, “contiene fotografie di esseri umani palestinesi, e tutti li rappresentano in icone razziste o immagini classificatorie avvilenti come terroristi, rifugiati o contadini primitivi”. Impressiona anche come, accanto a tali forme di disumanizzazione dello straniero, in base al principio classico secondo il quale ciò che non viene nominato non esiste, nei testi si operi a privare il popolo palestinese della sua attuale identità politica e culturale fino ad oscurarne addirittura la presenza storica e geografica. Raramente, infatti, si parla di “Palestina” o “Palestinesi”: si legge, piuttosto, di “non ebrei”, “arabi”, o di “problema palestinese”. Quello dei Palestinesi, infatti, è descritto spesso come un problema demografico del quale la società israeliana, a causa del disinteressamento dei Paesi arabi, si è dovuta far carico: una rivisitazione storica operata da parte dello stesso popolo che, come nota l’autrice, appena sessant’anni fa era definito come “il problema ebraico” in Europa. Non nominare il nemico che minaccia e dal quale si deve difendere il proprio Paese e non dargli un volto contribuisce, tra l’altro, ad insinuare un odio latente aggravato dalla sua stessa vaghezza: se il timore è il sentimento che si prova verso un pericolo di cui si conosce la natura e l’entità, la paura è una fobia basata sulla sua totale ignoranza e che può più facilmente, per questo, generare atteggiamenti di razzismo, di violenza e sfociare in atti di estremismo.

Quanto all’ “ebreo”, è interessante come la storia e la geopolitica siano tradotte in una memoria e in una geografia essenzialmente sioniste spesso del tutto decontestualizzate, per infondere nel giovane studente o nel bambino un senso di appartenenza alquanto distorto ma difficilmente eradicabile. Nel secondo capitolo, ad esempio, “La Geografia dell’Ostilità e dell’Esclusione”, si analizza il sistematico uso delle denominazioni territoriali di Samaria e Giudea in luogo di West Bank, e l’omissione dei confini geografici con i territori palestinesi; l’intera area è indicata come zona israeliana, spesso non esplicitamente (talvolta il disegno di un Israeliano è collocato all’interno delle frontiere, quello dell’arabo arretrato resta fuori), per insegnare agli studenti a “vedersi come i padroni della Terra di Israele/Palestina, a controllarne la popolazione, (…) e a fare tutto il necessario per incrementare la dominazione ebraica e il suo “sviluppo”, che significa di fatto la sua espansione”. Quanto alla narrazione della storia, essa è quanto mai parziale: si sofferma sui pogrom e sull’Olocausto, e sulla salvezza rappresentata per gli ebrei dal progetto sionista, ma nulla si dice, ad esempio, della storia degli ebrei negli altri Stati, come in quelli arabi, dove a lungo la convivenza tra comunità ebraica ed araba è stata pacifica e armoniosa, con il risultato che anche gli eredi degli ebrei provenienti da quei Paesi, studiando sui testi in uso in Israele, siano convinti di aver subito l’Olocausto. L’ebreo, inoltre, è sempre autoctono, persino il colono arrivato dalla Russia da pochi anni è immortalato come un antico abitante dello Stato. Le guerre e i massacri non sempre sono omessi, talvolta vengono piuttosto legittimati dal loro scopo. L’argomento principale per giustificarli sembra essere il fatto che, per quanto deprecabili, hanno portato dei vantaggi allo Stato di Israele, e qualsiasi altra Nazione, nelle stesse circostanze, si sarebbe ugualmente vista costretta a commetterli. Nei testi in cui viene citato, il massacro di Deir Yassin (1948) è, per esempio, così legittimato: “Il massacro di Palestinesi amichevoli portò alla fuga di altri Palestinesi che rese possibile la creazione di un coerente Stato ebraico”.

Sempre per quanto riguarda la costruzione della personalità dell’ “ebreo” futuro soldato, l’autrice fa riferimento a varie canzoncine, per i bambini più piccoli, che glorificano la figura dell’eroe e del militare in battaglia. La guerra, l’occupazione e la vita nell’esercito sono anch’esse palesemente mistificate. Le foto dei soldati ai check-point in Cisgiordania, ad esempio, ritraggono i militari intenti a prendere il caffè e a chiacchierare tra loro tranquillamente, in uno scenario deserto, in cui i Palestinesi non compaiono mai né si vedono mai allusioni alla loro presenza sul territorio. Del resto, se da un lato il servizio di leva viene presentato come un’esperienza per niente spiacevole, dall’altro i testi non mancano di farsi strumento di minaccia ed intimidazione per chi non volesse prestarsi al suo dovere e pensasse di “tradire” la patria: in uno dei libri analizzati, a fondo pagina in un capitolo, a monito dei traditori è usata la storia di Mordechai Vanunu, tecnico nucleare israeliano che nel 1986 rivelò un piano segreto di armamento nucleare israeliano al Sunday Times, e fu per questo condannato a 18 anni di carcere con l’accusa di tradimento e di spionaggio. La punizione per chi tradisce, suggeriscono i libri ai bambini, è sempre severa e inappellabile.

La memoria storica priva di passato, la politica decontestualizzata, l’appartenenza territoriale slegata dai confini geografici e l’odio verso un nemico innominato e disumanizzato, che emergono dall’analisi dei testi scolastici realizzata in questo saggio, sembrano essere le basi di una società che recentemente pare stia ulteriormente radicalizzando le sue ideologie. I giovani formati sui libri documentati da Nurit Peled-Elhanan sono gli stessi che nell’estate del 2014, durante l’operazione Protective Edge su Gaza, si servivano di mezzi sconosciuti ai loro genitori, selfies e tweets, per esprimere pericolosi incitamenti all’odio e alla violenza, per chiedere “Morte agli Arabi” (anche in questo caso termine usato in sostituzione di “Palestinesi”), per incoraggiare anche attraverso fotografie in pose provocanti i membri dell’Idf, l’esercito israeliano, a fare strage del nemico. Non stupisce l’allarme lanciato dalla scrittrice sull’esacerbarsi della retorica del razzismo e della paura nei testi proposti alle nuove generazioni: per quanto ne siano disponibili centinaia, la scelta dell’insegnante è comunque limitata, in quanto tutti passano, per ottenere il permesso per la pubblicazione, sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione, che ne valuta scrupolosamente anche le scelte linguistiche. L’educazione è riflesso della politica nazionale. Issawi Freij, esponente di Meretz, propose nel 2013 addirittura l’introduzione, nell’orario scolastico, di un’ora di lezione di educazione contro l’odio razziale, ma il Parlamento respinse il disegno di legge, il cui scopo, così recitava, era di “eliminare le visioni razziste e sradicare il fenomeno della violenza razzista tra gli alunni e i cittadini israeliani” . D’altronde, l’attuale ministro dell’Istruzione in Israele, Naftali Bennet, non manca di farsi vedere accompagnato in pubblico dai più famosi esponenti dell’estrema destra israeliana e delle comunità di coloni radicali, e non ha esitato ad affermare: “Io ho ucciso tanti arabi nella mia vita e non c’è alcun problema al riguardo”.

L’inchiesta in “La Palestina nei testi scolastici di Israele”, anche alla luce del presente quadro politico e degli atti di violenza compiuti in questi giorni in un clima di tensione crescente, non lascia molto adito a dubbi in merito all’origine delle ideologie facilmente propugnate dai giovani e spiega chiaramente in che maniera il seme della propaganda sia gettato precocemente nella mente dei più piccoli e sia destinato a maturare in odio. E non accorda di certo al lettore la possibilità di nutrire facili speranze riguardo al futuro. Nena News


Sensa el so exerçeto, fato de soldà ebrei ebrei no ghe saria pì Ixrael! Viva Ixrael e i so soldà.
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 9:46 pm

???

http://ita.anarchopedia.org/refusnik
Il termine refusniks (ebreo סרבנים - sarvanîm -, da sarav : «ha rifiutato») si riferisce in particolare agli obiettori di coscienza israeliani che rifiutano il servizio militare (obbligatorio per uomini e donne). Alcuni di questi soldati si rifiutano semplicemente di combattere nei territori occupati o di ubbidire a determinati ordini. Quello dei refusnik è un movimento di disobbedienza civile, sempre più diffuso in Israele nonostante ciò comporti l'arresto e il dover scontare una pena detentiva.
Il termine era inizialmente riferito, durante la guerra fredda, alle persone cui venivano rifiutati certi diritti umani, in particolare quello di emigrare. In seguito, il suo uso si è esteso ad indicare le persone che fanno obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare, riferendosi in particolare agli israeliani e alle israeliane (in Israele il servizio militare è obbligatorio per uomini e donne) che non vogliono svolgere il servizio militare (durata: 3 anni) o che si rifiutano di ubbidire ad alcuni ordini.
Questo movimento è comparso nel 1979 con Gadi Algazi, il primo obiettore di coscienza a rifiutarsi di svolgere il suo servizio militare nei territori occupati. Itzik Shabbat, è invece il primo refusnik della guerra del Libano del 2006.

http://ita.anarchopedia.org/Anarchici_contro_il_Muro



Gaza, i refusnik israeliani, voci che gridano nel deserto
di Roberta Zunini | 23 luglio 2014
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07 ... to/1070214

Avrebbe potuto continuare i suoi allenamenti nell’acqua fresca di una piscina per vincere ancora il campionato di pallanuoto, ma Bar Rahav, il ventunenne capitano del Kiryat Tiv’on e membro della nazionale israeliana, ha preferito vestire la mimetica e raggiungere i suoi coetanei nell’arsura di Gaza. Non ha sfruttato la possibilità di essere esonerato per meriti sportivi perché riteneva un dovere morale raggiungere i suoi coetanei mandati a combattere per la sicurezza del Paese.
Essendo ancora un cadetto, è morto mentre stava seguendo l’addestramento per diventare un ufficiale del Genio militare israeliano, colpito insieme al suo contingente da un missile sparato da un autocarro nell’area di Ramat Yishai. Bar Rahav però sarà sepolto con i gradi di sottotenente. Un riconoscimento al suo coraggio, al suo senso civico, al suo spirito di squadra, sebbene tutti avrebbero compreso un rifiuto dato che uno sportivo del suo calibro serve comunque il Paese.
Anzi, lo può fare nel modo migliore , attraverso la disciplina finalizzata a una vittoria senza morte. Con una competizione costruttiva si mostra il volto sano del sentimento di identità, dell’orgoglio di appartenere al proprio Paese, rendendolo un esempio positivo agli occhi del mondo.
La guerra illumina invece l’altra faccia di Israele, quella di chi lo governa pensando alla prossima vittoria elettorale, al potere, e non a costruire un futuro giusto e sicuro sulla lunga distanza per la propria comunità.
???

Quella dei coloni, degli ultranazionalisti che pensano solo a nutrire la propria visione autistica dell’esistenza. ???
La guerra è una trappola dentro cui i tanti israeliani che ne hanno orrore sono finiti e finiscono, costretti a scambiare per autodifesa ciò che invece non è altro che il risultato dell’incapacità, egoismo e chiusura mentale di chi li governa.
???
Così anche i cittadini giusti e responsabili di Israele, i giovani come il giovanissimo Rahav, si trovano costretti a scegliere tra l’orrore di dover uccidere anche persone innocenti e il senso di colpa che proverebbero se non andassero a condividere la stessa sorte dei loro concittadini.
Quando i missili del nemico iniziano ad arrivare, è già troppo tardi. E bisogna scegliere. Chi non sceglierebbe di difendere la propria “famiglia” che magari non ha mai votato per chi siede al governo e ha sempre pensato che anche i palestinesi abbiano diritto a uno Stato dove vivere in pace?
Lo pensava anche Uri Grossman, il figlio dello scrittore e intellettuale David, una delle coscienze critiche di Israele, un sionista che ha sempre riconosciuto i diritti dei palestinesi e non manca di partecipare ogni venerdì alle manifestazioni contro gli sfratti illegali dei profughi del ’48 a Gerusalemme Est, espulsioni che consentono ai coloni di invadere quella che dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese.
Uri, anche lui ventunenne, è morto dentro un carrarmato colpito da un missile di Hezbollah durante l’ultima guerra con il Libano. Anche il figlio quarantenne di Avraham Yeoshua, che da anni predica nel deserto il dialogo diretto con Hamas, il compromesso con il “nemico” per il bene dei civili di entrambe le parti, sta combattendo a Gaza. Il padre, dome tutti i padri, ora vive nell’ansia per la sua sorte. Ma quando è il momento bisogna andare. Ci sono però giovani uomini come Yeremy Liban, un ebreo francese che ha deciso di rifiutare questa logica.
A 17 anni aveva lasciato la Francia per andare in Israele a fare il servizio militare. “Credevo di difendere il Paese dei miei avi ma negli anni ho capito che avevo sbagliato. Cosa stiamo difendendo con le armi? L’industria bellica, non la nostra incolumità e nemmeno quella dei figli che avrò. Se oggi mi richiamassero per andare a combattere, preferirei subire un processo e stare in galera tutta la vita piuttosto che ammazzare un bambino, un essere umano. Rifiuto la logica delle armi, della violenza. Questa non è autodifesa, è un massacro causato dalla malafede dei nostri politici e da una fede cieca”.
Come Yeremy ce ne sono altri. Che in questi giorni hanno manifestato in piazza Rabin a Tel Aviv e sono stati picchiati, come Barak Cohen, dagli ultranazionalisti, arrivati poco dopo l’inizio delle manifestazioni, sotto gli occhi rivolti altrove della polizia. Ci sono artisti noti, in primis Noa, che stanno subendo discriminazioni di ogni genere per aver espresso il loro dissenso. Non sorprende che oggi sia stata cancellato il tour italiano della cantante israeliana per l’ostracismo di parte della comunità ebraica*. La settimana scorsa Noa aveva accusato il premier Bibi Netanyahu di “non volere la pace, mentre il presidente palestinese Abu Mazen la ricerca”.
Ma ci sono soprattutto i refusnik, i ragazzi e le ragazze che si rifiutano di fare il servizio militare, che non prevede esoneri, se non per malattia mentale e incompatibilità fisica. Una scelta che comporta il carcere, almeno 80 giorni e l’impossibilità di lavorare nel settore pubblico. “In questi 13 anni di vita in Israele ho visto crescere la polarizzazione sociale. Il problema è che coloro che vogliono la morte degli arabi, sono coloro che amano le armi, le usano, e presto, molto presto, le useranno anche contro di noi, che la pensiamo diversamente”, conclude amaramente Yeremy, un cittadino qualunque, ma fondamentale per farci continuare a credere che in Israele oggi ci siano persone che soffrono nel vedere questa mattanza. E non esultano dal confine.
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » mer gen 06, 2016 1:09 pm

“Lo shock quando arrivi in Israele è constatare quanto sia cosmopolita, laica e tollerante”
gennaio 4, 2016

http://middleeastnews.report/lo-shock-q ... tollerante

Nicky Larkin si indignava per il “genocidio dei palestinesi”. Ma tutto è cambiato quando ha visitato Israele per girare un documentario.

Con i capelli rossi rasati, un avambraccio tatuato, pelle bianca lentigginosa e una pinta di birra (anche se Goldstar, non Guinness), il regista Nicky Larkin sembra essere lo stereotipo del perfetto irlandese. Eppure, uno sguardo da vicino al suo tatuaggio, inciso in cirillico è il mantra post-Olocausto “Mai più.”

Si definisce un sionista e affettuosamente “un Ebreo onorario” tra i suoi nuovi amici israeliani, Larkin è arrivato nel paese nel marzo 2011 per girare un pezzo sperimentale, non-narrativo su Israele. Scatenato dall’ Operazione Piombo Fuso e dai titoli dei media irlandesi circa l’aggressione di Israele, era determinato a verificare la situazione di persona.

Come con la maggior parte della persone in Irlanda, le sue simpatie erano per i palestinesi – quelli che riescono sempre a farsi passare per vittime del conflitto arabo-israeliano. Eppure, durante il suo viaggio, che lo ha portato a visitare la Cisgiordania e il resto del paese, il suo atteggiamento e i pregiudizi su Israele iniziavano a cambiare

L’unica ebrea conosciuta da Larkin era una studentessa di belle arti incontrata in metropolitana quando viveva a Londra

“Lo shock quando arrivi in Israele è constare quanto sia cosmopolita, laica e tollerante” dice.

Ricorda un paio di fatti che gli hanno fatto vedere il conflitto in una nuova luce, hanno segnato un punto di svolta nel suo percorso intellettuale.

Il primo è stato uno scambio di battute con un soldato israeliano. Larkin era a Hebron montava la sua macchina fotografica quando un soldato armato di M16 su un tetto ha urlato verso di lui, chiedendogli cosa stesse facendo. Larkin gli spiegato che era un regista irlandese, così si è finiti per parlare di birra.Tra i due uomini, è nata un’amicizia tra una discussione sulla birra e il soldato che confidava a Larkin che non era un bel posto dove prestare servizio

“E ‘stato così surreale”, . “Improvvisamente parlavamo di birra come si fa con gli amici.”

In un’altra occasione, in Cisgiordania, ha incontrato Hind Khoury, un ex delegato generale dell’OLP in Francia. Dopo aver ascoltato innumerevoli palestinesi – Khoury incluso – persistono nell’elogio della resistenza non violenta, fu scioccato nello scoprire che Khoury categoricamente si rifiutatava di condannare le azioni dei kamikaze palestinesi.

“Ho continuato pressandolo su questo fatto su questo ricorda. “Chiesti , ‘Mi stai dicendo che va bene che un 17enne faccia saltare in aria un altro da 17 anni?’ Ho avuto una risposta molto irata – mi ha destabilizzato. Continuavo a pensare, questa è follia.

Si sente questo mantra di ‘resistenza non violenta’ più e più volte, ma in qualsiasi posto in [Cisgiordania] nelle città e in ogni spazio disponibile ci sono tutte queste immagini dei martiri con i loro nomi, compleanni e il luogo in cui si sono fatti esplodere. ”

Ricorda seduto in un caffè di Tel Aviv, la mattina che Hamas ha sparato un missile anti-carro a uno scuolabus nei pressi del Kibbutz Sa’ad, uccidendo un bambino. Quella settimana ha segnato anche un drammatico aumento dei missili lanciati da Gaza, e la successiva risposta dell’IDF nel tentativo di fermare gli attacchi.

«Non sapevo nulla dell’aumento dei razzi lanciati da hamas”. “C’è stato un senso di panico in Israele. Ricordo di aver pensato che se mi fossi trovato a Dublino o Belfast o Londra, non avrei mai sentito parlare dei razzi o del ragazzo ucciso – avrei solo sentito parlare degli israeliani cattivi che entravano e che bombardavano i poveri abitanti di Gaza. E all’improvviso ho visto attraverso gli occhi di Israele. E ‘stato un enorme momento di chiarezza “.

In precedenza, ammette, aveva la visione distorta data dai media irlandesi nel 2008-09 delle incursioni a Gaza. Presentavano poco più che le statistiche, e tutto sembrava chiaro: 1.200 palestinesi morti contro solo 13 israeliani. “Restavo disgustato da quello che leggevo,”.

“E ‘stato dipinto come un massacro. Ho pensato, questo non è una guerra , questo è un genocidio. ”

Ma dopo il suo arrivo in Israele, ben presto le sue certezze sono crollato. Ha trovato la macchina della propaganda palestinese ben oliata, e che lo ha lasciato con un profondo senso di cinismo.

“In un primo momento, è stato difficile intervistare gli israeliani- erano cauti e non si fidavano di noi, probabilmente perché eravamo irlandesi. Con i palestinesi, è stato il contrario – erano n fila per parlare con noi. Ognuno di loro aveva una storia, e ripestavano, ‘Siamo tutti amici.’ Spesso mi sono trovato in imbarazzo davanti tutta quella propaganda solo per scoprire che cosa realmente accadeva. ”

Un Venerdì in particolare, era a Gerusalemm. La preghiera del venerdì era appena terminate nella moschea, e tutti gli anziani tornavano a casa, i più giovani Hanno indossato la kefiah e aspettavano Larkin che finisse di montare la sua macchina fotografica e hanno iniziato a lanciare pietre contro auto di passaggio.Osserva che tutto è stato preparato con teatralità, ed era evidente che se non fosse stato lì a filmare, non sarebbe successo niente.

“Erano tutti intorno a me, io ero irritato, poi uno di loro ha catturato la mia attenzione e mi ha chiesto se avessi ripresi tutto”

Il regista ha le sue teorie sul perché gli irlandesi sono così disposti a credere ad ogni parola negativa della stampa e dei media irlandesi su Israele.

“La generazione dei miei genitori non sa nulla di Israele”, ha detto. “Le notizie sulla stampa sono quelle interne. Ma verso la fine degli anni ’90, dopo decenni di guerra [con la Gran Bretagna], ha lasciato un’intera generazione di giovani irlandesi con un desiderio per la guerra. Questi giovani avevano la visione romantiche della sinistra sulla causa irlandese. Gli irlandesi sono nati per combattere, hanno sangue guerriero in . Sapevano che l’IRA ha fatto affari con l’OLP, e molti di loro simpatizzavano con i palestinesi, hanno adottato la loro causa. Il movimento repubblicano ha fatto rotta verso il movimento palestinese. ”

rimprovera i suoi colleghi irlandesi hanno una visione unidimensionali del conflitto arabo-israeliano. “Sono confuso su chi siano i vinti . Non si rendono conto che se si è pro- Palestina non significa necessariamente essere anti-Israele “.

Larkin celebra il fatto che Israele è l’unico posto al mondo dove si può essere sia sionista ed essere in un partito di sinistra.

“Non mi piacciono le categorie – io sono di sinistra mi sono trovato d’accordo anche le destre – ma credo fermamente che gli ebrei hanno diritto a una patria,” dice. “E credo che può esistere solo se vi è una maggioranza ebraica.”

Quando gli viene chiesto di spiegare il suo tatuaggio, scrolla le spalle con disinvoltura. «Stavo per farlo in ebraico, ma poi ha pensato che poteva essere una cattiva idea. Ma non si tratta solo di ebrei, è rilevante per tutti. Spazzando via mezza nazione non può accadere di nuovo. La cosa che mi affascina è che è così recente, ma abbiamo lasciato che accadesse – questo frulla nella mia mente “.

Nel marzo 2012, un anno dopo la sua prima visita in Israele,nell’editoriale del Sunday Independent, dal titolo “Israele è un rifugio, ma un rifugio sotto assedio.” Si legge “Ho odiato Israele .Credevo che la sinistra avesse sempre ragione. Non più.Ora io detesto i terroristi palestinesi. ”

Con oltre un milione di lettori, l’Independent è il più letto d’Irlanda e, secondo il regista, il suo articolo è diventato virale nel giro di pochi giorni, con più di 12.000 condivisioni sui social media

Nell’articolo, prende di miria il BDS Irlandese (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) condanna il boicottaggio dei prodotti israeliani nei supermercati irlandesi, spigando che danneggia anche i contadini palestinesi. Ha aspramente attaccato gli attivisti che sostengono di essere i sostenitori della libertà di parola, ma che linciano automaticamente chi difende Israele.

L’articolo ha scatenato dure prese di posizioni e attacchi verso Larkin – in particolare un collega nel mondo dell’arte. Per un paio di mesi dopo la sua pubblicazione, era depresso e aveva paura anche di aprire la sua posta elettronica.

Ha ricevuto minacce di morte e che aveva le mani sporche di sangue dei bambini palestinesi

Poi è arrivata la prima a Dublino del suo documentario su Israele, Forty Shades of Grey. destinato a far capire che ci sono molti punti di vista in ogni conflitto.) L’indignazione è proseguita con l’uscita del film, che da allora è stato proiettato nelle università e nei festival cinematografici di tutto il mondo.

L’Irish Arts ha finanziato il documentario, ma Larkin sostiene che è stato solo perché ha fatto domanda per i fondi presentendolo come un prodotto pro-palestinese.

“Da quando hanno visto il film [ pro-Israele], non vogliono più finanziarmi,” dice. “Il film li ha scioccato. Io sono l’unico che non ha più finanziamenti”

Tuttavia, nonostante la schiacciante condanna, ammette che ha anche ricevuto un sacco di sostegno.

“La gente ha rispetto per quello che faccio. Il problema era per lo più a livello privato, nelle e-mail e e cose simili. Mi rende triste che le persone hanno paura di parlare pubblicamente, ma i bulli che sono solidali con i [palestinese] hanno creato un clima dove non si può mostrare il sostegno ad Israele – hanno anche una pagina Web dove monitorano i miei movimenti “Qualcosa però sta cambiando. Il proprietario di un pub di Dublino dopo aver letto il suo articolo ha cambiato opinione sullo stato ebraico ha appeso una bandiera israeliana fuori dal pub in onore della festa dell’indipendenza di Israele.

“Vedere la bandiera irlandese fuori dal pub con la bandiera israeliana vicina mi ha resto molto orgoglioso un giorno speciale deella mia vita”, dice Larkin. “La gente sta lentamente cambiando le loro opinioni . Sono stato il primo ad attaccare il mito e le informazioni dei mass media. Penso di aver contribuito a cambiare il modo di vedere le cose in Irlanda. Questo non vuol dire che tutti in Irlanda diventeranno sionisti, ma almeno le persone si fanno qualche domanda invece di prendere tutto per buono”

Alla domanda su come i suoi genitori hanno reagito a tutto il polverone che il suo articolo e il film hanno generato, scuote la testa e ride.

“Pensano che sia molto divertente,”

“Hanno detto, ‘Oh, guarda lo scribacchino sta causando tutti questi problemi.’ Hanno letto l’articolo solo perché ha causato tante polemiche.”

Il suo messaggio alla comunità dell’arte è di sollecitare gli artisti ad avere una mentalità aperta abbastanza per sfidare i loro preconcetti e consentire un cambiamento del cuore, se il caso lo richiede. Incoraggia ulteriormente i critici di Israele a visitare il paese prima di prendere posizione

E verso dove va Israele? “La maggior parte dei palestinesi – almeno quelli in Cisgiordania – vogliono essere riconosciuti, vogliono uno stato, e vogliono la pace “, . “Il novanta per cento delle persone su entrambi i lati vuole la pace.”

E dove, secondo te sono le sfide? “Penso che la costruzione degli insediamenti sia un grave problema. Deve smettere. Ma il problema principale come la vedo io è Hamas. Almeno Fatah riconosce il diritto di Israele ad esistere. Se siete veramente filo-palestinese, hai avuto modo di capire che Hamas deve andarsene . Non dovete essere amici, ma non c’è bisogno di uccidersi a vicenda, ”

Alla domanda se si augura che le due parti raggiungeranno una riconciliazione in un prossimo futuro, lampeggia un ghigno malizioso.

“Beh, se confrontiamo gli irlandesi ai Palestinesi, allora siete tutti Fottuti. Ci sono voluti 800 anni prima di avere la pace – voi ragazzi avete una lunga strada da percorrere, fino a raggiungerla. Quindi sì, non è così ottimista. ”
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Re: El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo

Messaggioda Berto » dom gen 17, 2016 10:54 pm

???

Le occasioni di pace perse in Israele
di Ugo Tramballi17 gennaio 2016

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti ... d=AC8InrBC

Quattro o cinque attentati e due o tre morti al giorno, qualche lancio saltuario di razzi, una sfiducia sempre più difficile da scalfire. Eppure, con tutto ciò che accade in Medio Oriente e in Europa è comprensibile che il conflitto fra israeliani e palestinesi sembri irrilevante. Ma è saggio? «No. Una nuova generazione, la maggioranza dei palestinesi fra i 15 e i 25 anni, è arrabbiata. Non hanno fiducia nella loro leadership: l’80% pensa che l’Autorità palestinese sia corrotta. Sono arrabbiati con i paesi arabi che non hanno tempo per occuparsi di loro, e lo sono con gli israeliani che non offrono possibilità di cambiamento. Quando la frustrazione è a questi livelli, cresce la violenza. E con la violenza l’impossibilità di una soluzione».

Dennis Ross, 66 anni, è stato il negoziatore americano par excellence del processo di pace fra israeliani e palestinesi: conferenza di Madrid, Oslo, Camp David, Taba, Annapolis e tutti gli altri luoghi dove la speranza è balenata e tramontata. Quasi 30 anni al servizio di cinque presidenti, soprattutto di Bill Clinton. In attesa di vedere se l’anno prossimo vincerà Hillary e sarà richiamato in servizio, Ross ha pubblicato Doomed to Succeed: the Us-Israel relationship from Truman to Obama (Farrar, Strauss and Giroux, New York, 2015). Condannati a riuscire senza avercela fatta dopo tutti questi anni: il sospetto che una seria parte di colpa sia del mediatore americano e delle sue relazioni con Israele, è legittimo.

«Nei suoi primi quattro anni l’amministrazione Bush non tentò alcuna trattativa e la seconda Intifada, la peggiore, esplose», risponde Denis Ross. «Ma nessuno si è offerto di prendere il nostro posto: non la Ue né la Russia. Perché nessuno può influenzare gli israeliani quanto noi. Certo che abbiamo relazioni speciali con Israele, ma non significa che non abbiamo avuto cura di entrambe le parti. Se i palestinesi avessero accettato le nostre proposte ora avrebbero uno stato e una capitale, Gerusalemme».

Lei dunque crede nella definizione di honest brooker, di mediatore equidistante, sulla quale in Europa hanno qualche dubbio?
Credo in quella di mediatore efficace. Quando George Mitchell negoziò la pace nell’Irlanda del Nord, i protestanti lo accusarono di stare con i cattolici; i serbi dicevano che Richard Holbrooke stava con i musulmani nella trattativa sulla Bosnia. Ma la chiave è tenere conto delle richieste delle due parti in conflitto.

Appunto. Nel libro lei cita Bob Gates, ex direttore della Cia, che ricorda la frustrazione di tutti i presidenti, impossibilitati ad agire perché Israele è sempre stato un problema di politica interna.
Le considerazioni domestiche influiscono sulle decisioni di ogni governo? Si. Sono mai stati determinanti rispetto alle nostre decisioni per promuovere la pace? No. Ogni volta che un presidente deve fare una scelta che riguarda l’interesse nazionale, la persegue anche se una lobby si oppone. Pensi all’accordo con l’Iran.

Però contro quell’accordo il Congresso sobillato da Netanyahu, ha sfiorato una secessione contro Obama.
Il presidente non è forse riuscito a farlo passare? È esattamente ciò che dico: il governo definisce le politiche. È vero, il Congresso è molto più pro Israele. Perché è la gente che sostiene Israele: è una democrazia e attorno c’è una regione devastata dai conflitti.

Allora perché questo conflitto è così persistente?
Perché non c’è una parte che ha ragione e una torto. La mia opinione è che i principali responsabili della sua durata siano i palestinesi. Negli ultimi 20 anni abbiamo offerto almeno tre occasioni per risolverlo: nel 2000 con Clinton e io ne fui il principale ideatore; nel 2008 quando Ehud Olmert avanzò proposte che andavano oltre i parametri di Clinton; nel 2013 quando fu Obama a presentare le sue, offrendo più di quello che aveva concordato con Netanyahu. Ma i palestinesi hanno sempre rifiutato: per loro conta preservare il loro status di vittime. Solo l’ex premier Salam Fayyad creò le strutture di uno stato che gli israeliani non avrebbero potuto ignorare. Ma i palestinesi l’hanno rimosso.

Non le sembra di essere troppo tollerante con le responsabilità d’Israele?
Come ho detto, questo non è uno scontro fra un colpevole e una vittima. Anche Israele non fa quello che dovrebbe fare: per esempio non ha mai aiutato abbastanza Fayyad. Anche adesso dovrebbero impegnarsi a dare un segno per dimostrare che vogliono ancora la soluzione dei due stati, avere una politica degli insediamenti che guardi a quell’obiettivo.

È ancora possibile quella soluzione?
Se rimanesse solo l’ipotesi di uno stato per due popoli, sarebbe la fine del sogno palestinese per l’indipendenza nazionale. E sarebbe un disastro per gli israeliani. Uno stato bi-nazionale è la garanzia per un conflitto senza fine. Guardi cosa sta accadendo nella regione: ovunque ci sia un paese con più di un’identità dentro le sue frontiere, quel paese è in guerra con se stesso.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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