Shelach Lechà
(Numeri 13,1 - 15,41) Giunti finalmente in prossimità della Terra promessa, Mosè invia dodici uomini, uno per tribù, a esplorare il paese di Canaan. Al ritorno gli esploratori riferiscono che il paese è ricchissimo, i suoi frutti splendidi, ma i suoi giganteschi abitanti così forti da risultare praticamente invincibili. Solo due degli esploratori, Giosuè, e Calev, ricordando che tutto è possibile con l'aiuto divino, cercano di rassicurare il popolo che però, atterrito, si dispera. Dio, di fronte a questa nuova prova di sfiducia, vorrebbe distruggerlo. Le parole di Mosè riescono a distogliere dal Suo proposito Dio, che però condanna il popolo a restare quaranta anni nel deserto. La Parashà termina con i versetti che sono stati stabiliti come terzo brano dello Shemà'.
Dalle parole che Mosè nel Deuteronomio rivolge al popolo, risulta chiaramente che fu il popolo stesso che gli chiese di mandare degli esploratori a visitare il paese di Canaan: “E voi vi avvicinaste a me tutti quanti, e diceste: `Mandiamo degli uomini avanti a noi che esplorino il paese e ci riferiscano qualcosa del cammino per il quale dobbiamo salire...’” (Deut. 1,22-23).
Mosè gradì la richiesta e, con il consenso divino, scelse dodici rappresentanti del popolo, uno per tribù, e diede loro disposizioni dettagliate su quanto dovevano fare: esplorare il paese, accertarsi della forza della popolazione che lo abitava, di come erano fortificate le città e, soprattutto, di rendersi conto della fertilità del suolo e portarne qualche frutto.
I dodici esploratori tornarono dopo quaranta giorni, ma il loro rapporto gettò il popolo nello scoraggiamento, anzi nella disperazione: “Il paese è molto fertile, riferirono infatti, ma è abitato da popolazioni di giganti: è un paese che divora i propri abitanti!” (13,32).
Solo Calev, della tribù di Giuda, e Giosuè, della tribù di Efraim, protestarono contro il modo in cui i loro compagni avevano descritto le difficoltà che avrebbero dovuto superare, modo che dimostrava la loro mancanza di fiducia nel Signore.
Giosuè e Calev cercarono di convincere il popolo che l'aiuto divino, che non era mai venuto meno, che li aveva sempre sostenuti fino ad allora, non sarebbe certo mancato in futuro. Ma il loro intervento fu inutile: i figli di Israele, preda della paura, si ribellarono: preferivano tornare alla schiavitù d'Egitto, piuttosto che affrontare le difficoltà per conquistare la libertà.
È straordinariamente interessante, e deludente, questa reazione degli esploratori e del popolo d'Israele dinanzi ad un'impresa, indubbiamente difficile, ma certamente voluta e quindi protetta dal Signore.
Il marchio della schiavitù aveva indubbiamente lasciato la sua impronta sul popolo.
Un popolo di schiavi non diviene improvvisamente un popolo di fieri combattenti: la paura traspare delle parole degli esploratori: “Tutta la gente che vi abbiamo veduta è gente d'alta statura. E vi abbiamo visto i giganti, figli di 'Anak...” (13,33), e dalla reazione del popolo: “Allora tutta la radunanza alzò la voce, diede in alte grida; e il popolo pianse tutta quella notte”.
La paura dà corpo alle ombre, moltiplica le difficoltà fino a farle apparire insormontabili, persino soprannaturali: è probabile infatti che la popolazione di Canaan, tranquilla e ben nutrita, fosse più robusta della popolazione ebraica che usciva da oltre un anno di permanenza nel deserto, ma solo il terrore poteva farla apparire addirittura gigantesca, discendente da Anak, il mitico gigante.
La bellezza del paese, la ricchezza dei suoi prodotti, “è davvero un paese in cui scorre il latte e miele” (13,27), diventano così fattori assolutamente trascurabili dinanzi alla paura che fa loro gridare: “Fossimo pur morti nel paese d'Egitto; e fossimo pur morti nel deserto! Perché il Signore ci conduce in quel paese ove cadremo per la spada?” (14,2-3).
La distribuzione geografica dei popoli nella terra di Canaan, descritta all'inizio della relazione degli esploratori: “Gli Amalekiti abitano la parte meridionale del paese, i Chittei, i Gebusei e gli Emorei la regione montuosa, i Cananei abitano presso il mare e lungo il Giordano”; nonché le vicende storiche che li videro protagonisti, presentano una straordinaria analogia con un episodio recentissimo.
Quando l'O.N.U., nel 1947, votò per la spartizione della Palestina, i popoli arabi minacciarono di morte e di distruzione gli ebrei se avessero tentato di proclamare il loro Stato indipendente: i Libanesi e i Siriani si trovavano nella parte settentrionale del paese, nella zona montuosa, i Giordani lungo il corso del Giordano, gli Egiziani nella parte meridionale.
Erano giganti, e le difficoltà di una guerra parevano insormontabili: e ci pare calzante il paragone riportato proprio dagli esploratori: “Vi abbiamo visto i giganti, figli di 'Anak, appetto ai quali ci pareva di essere delle locuste. E come locuste essi ci vedevano”.
Noi eravamo un popolo che usciva dal “deserto” dei popoli stranieri, da duemila anni di schiavitù, di avvilimento, di persecuzioni. I lager nazisti erano una ferita viva e sanguinante.
Ma se ci fossimo lasciati prendere dal terrore e dalla disperazione di fronte ai “giganti” che ci circondavano, oggi non ci sarebbe uno Stato di Israele.
Abbiamo avuto fiducia in Dio e nella fermezza delle nostre intenzioni, nella volontà ferrea di riavere, dopo duemila anni, uno Stato tutto nostro, la Terra che Dio aveva promesso ai nostri progenitori.
Un coraggio che gli ebrei del deserto non ebbero. E Dio, che avrebbe voluto distruggerli per questa ennesima prova di sfiducia, si lasciò convincere a risparmiarli dalla difesa di Mosè. Ma li condannò a una permanenza di quaranta anni nel deserto: il tempo necessario perché la vecchia generazione, la generazione che aveva formato la propria mentalità alla scuola della schiavitù scomparisse, e nella nuova terra entrasse la nuova generazione; quella che era maturata all'insegna della libertà.
La Torà, narrandoci questo episodio, mette in risalto non soltanto ciò che accade quando non si ha fiducia in se stessi e nel Signore: essa ci mette in guardia anche contro il pericolo dello scoraggiamento e della rinuncia. Se non si ha il coraggio di intraprendere nulla di utile, di degno, di meritorio; se si vedono ovunque impedimenti e ostacoli; se abbiamo la tendenza a vedere splendido solo ciò che appartiene agli altri senza tener conto dei doni che ci sono stati riservati; se si preferisce tornare in “Egitto”, simbolo dell'inazione e della schiavitù, chinando il capo e sottomettendoci di nuovo a un giogo morale e spirituale, piuttosto che marciare avanti, lottare per raggiungere Gerusalemme, simbolo della luce dello spirito e dell'insegnamento divino, siamo destinati a rimanere schiavi per sempre.
Quando, troppo tardi, i figli di Israele si resero conto della colpa commessa rifiutando di muovere alla conquista di Canaan, e vollero muoversi da soli, furono sgominati dai loro nemici, “poiché l'Arca dell'Alleanza e Mosè non avevano lasciato l'accampamento” (14,44), non li avevano accompagnati nell'impresa.
Particolarmente suggestivo è l'insegnamento che i nostri Maestri hanno tratto da un particolare di questo episodio.
Quando gli esploratori si recarono nella terra di Canaan, Calev, l'esploratore che insieme a Giosuè si era battuto per convincere il popolo ebraico che con l'aiuto del Signore l'impresa era possibile, si recò a visitare Chevron, la città in cui si trova la grotta di Machpelà dove sono sepolti i Patriarchi.
Egli voleva così rendere omaggio ai progenitori del popolo; ma, ancor più, voleva trarre da quel luogo forza e coraggio per condurre a termine l'arduo compito che si era assunto.
Affermano i nostri Maestri: fu proprio come risultato di questa visita che egli riuscì a sfuggire alla disperazione da cui invece si lasciarono prendere i suoi compagni.
Ritto presso la grotta di Machpelà, riandò col pensiero alla promessa che l'Eterno aveva fatto ai Patriarchi, e tale ricordo rafforzò in lui la certezza che qualsiasi timore era ingiustificato.
L'insegnamento che si trae da questa interpretazione è chiaro: soltanto se abbiamo rispetto per il nostro passato saremo saldi e sicuri come Calev; soltanto se siamo spiritualmente vicini ai monumenti che sono testimonianza imperitura del nostro più antico patrimonio morale e culturale, soltanto se meditiamo sulle aspirazioni dei nostri Patriarchi, sulle lotte da loro sostenute, sulla loro incrollabile fedeltà alla morale dall'Eterno insegnataci, avremo l'entusiasmo indispensabile a rafforzare la nostra fiducia nel futuro.
È nostro dovere avere cura del passato per essere in condizione di avere cura del futuro.
Un popolo è paragonabile a un albero; come un albero esso ha origine da un piccolo seme che, dopo aver gettato solide radici, cresce e diventa sempre più grande. Il tronco, se è solido, ramifica in diverse direzioni: tutti i suoi rami dipendono però, per il loro nutrimento, da un'unica radice.
Se si recide un ramo dal tronco, le sue foglie appassiscono e muoiono. E se dobbiamo aver cura dei rami, è nostro assoluto dovere aver particolare cura della radice!
Un popolo che non avesse interesse alla sua storia, che dimenticasse il suo patrimonio spirituale e che vivesse soltanto nel presente, non avrebbe un futuro.
Dobbiamo rispettare il nostro passato, sapere che esso è la fonte da cui traiamo speranza e sostegno.
Ma non dobbiamo limitarci a visitare materialmente le tombe dei Patriarchi. Come Calev, anche noi dobbiamo rivolgere il nostro pensiero a loro in particolare nei momenti di crisi, di esitazione, di dubbio, quando i problemi e le difficoltà della vita quotidiana ci abbatterebbero, quando gli assilli ci porterebbero alla disperazione.
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Un accenno vogliamo fare al passo finale della Parashà che costituisce il terzo brano dello Shemà', quello che impone l'obbligo dello tzitzith agli angoli delle vesti.
Lo tzitzith era costituito da una frangia composta di sei fili bianchi e due azzurri. I fili azzurri dovevano essere tinti con una tintura speciale tratta dal `chillazon', una conchiglia conosciuta dai Fenici e che oggi si è estinta.
Nelle frange dello tzitzith sono posti dei nodi che nella mistica rappresentano il Nome divino, perciò è dovere dell'ebreo mettere lo tzitzith negli angoli di ogni suo abito, per portare sempre con sé, simbolicamente, il nome di Dio e mai dimenticare la componente divina che Dio gli ha trasmesso con il suo soffio vitale.
Suggestiva è una spiegazione midrashica che si riallaccia al simbolismo dei colori bianco e azzurro.
Questi colori, secondo la tradizione, sono i colori preferiti dal Signore: l'azzurro rappresenta il Trono divino dal quale gli uomini sono giudicati per i loro peccati, il bianco rappresenta l'amore e la misericordia di Dio.
Nello tzitzith i fili azzurri si intrecciano ai fili bianchi per sottolineare che il rigore della giustizia di Dio viene mitigato dal Suo amore e dalla Sua misericordia; e il rapporto fra il bianco e l'azzurro, fra l'amore, la misericordia e la giustizia è di sei a due
© Elia Kopciowski, Invito alla lettura della Torà.
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