El fantomatego mito del dirito roman

Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » dom gen 05, 2014 10:18 am

Corusion ente la vecia Roma
http://www.storiain.net/arret/num100/artic7.asp

Ke ghe sipia calcosa de vero?

Molti credono che durante il periodo repubblicano nell'Urbe regnasse la virtù.
Al contrario. I primi testi storici, comparsi attorno al 200 a.C., rivelano che...

NELL'ANTICA ROMA LA CORRUZIONE NACQUE CON IL LATTE DELLA LUPA di FERRUCCIO GATTUSO

Un minimo di corruzione, sosteneva Winston Churchill, serve da benefico olio lubrificante per il marchingegno della democrazia.

Il grande statista britannico sapeva distillare, con sapiente alternanza, la retorica per i momenti duri e il cinismo per quelli meno duri. Indubbiamente, e fuori da ogni luogo comune, si può ben dire che un minimo di corruzione - in uno stato che non sia totalitario e controllore maniacale delle vite dei cittadini - sia fisiologico. La natura umana non cambia certo per editto governativo.
La corruzione, soprattutto quella politica, risale alle origini dell'umanità, e trovò terreno fertile in Roma antica.
E per Roma antica intendiamo sia quella repubblicana, sia quella imperiale.
Questo per smontare la retorica tradizionale che voleva l'Urbe dei primi giorni di gloria opposta - per virtù, morigeratezza e onore - alla Roma degli ultimi anni repubblicani e a quella degli imperatori detentori del potere assoluto. Un mito, questo, che ebbe fortuna mediatica, se così si può dire, negli stessi giorni di Roma antica (ad esempio, sotto Cesare Augusto), così come nei nostri e, inutile dirlo, in quelli del Ventennio fascista, che di Roma e del suo mito fecero una leva retorica per il consolidamento del potere.

Molti conoscono - sempre per quella potente fonte di convinzioni che è il luogo comune - la corruzione del Basso Impero romano, quella degli ultimi giorni prima del tramonto nel V secolo d.C.: fu, quella corruzione, alla base del crollo di Roma e del suo dominio.

Pochi, invece, conoscono la corruzione che nella Roma repubblicana allignò nelle caste privilegiate, quelle dei generali dotati di straordinario potere personale, quelle dei senatori e via dicendo.

E ancora meno si conosce della corruzione nella Roma precedente al III secolo a.C.: non perché essa non esistesse, ma semplicemente perché mancano testi e testimonianze anche indirette sul fenomeno. Quando infatti giungiamo alla prima produzione letteraria, intorno al 200 a.C., ecco spuntare riferimenti alla corruzione e al malcostume, sia in ambito privato, sia in quello pubblico. Si viene a conoscere delle speculazioni dei grossisti, dell'evasione fiscale (anche in quei giorni non mancava un'affilata satira sull'argomento, a cominciare dalla penna infallibile di Plauto), riferimenti all'arroganza del potere politico, malversazione. Insomma, Roma non ha mai avuto un periodo mitico nel quale le tonache dei potenti splendevano candide tra i marmi del Palazzo.
Persino Catone "il censore", voce impettita e retorica delle virtù dell'Urbe che fu - forse non tutti lo sanno -subì la bellezza di 44 processi per corruzione.
Certo, l'accusa di corruzione era una delle armi che gli avversari politici si rivolgevano più spesso contro, pur di annientarsi a vicenda, ma è difficile credere che, su 44 capi di imputazione, Catone non c'entrasse proprio nulla. Soprattutto considerando che, per scalare i gradini del potere, ogni romano "illustre" doveva finanziarsi in modo vergognoso, indebitandosi (gli usurai in Roma non mancavano certo) e firmando ignobili compromessi e clientele.


Con il passaggio dalla repubblica all'Impero, la corruzione si adattò alle nuove forme di organizzazione del potere:

a dire il vero, i primi cesari cercarono di arginare il malcostume, con un controllo più accentratore nelle proprie mani. I vari magistrati, nel periodo precedente ad Augusto, godevano di non pochi privilegi e di libertà d'azione che, con i nuovi reggitori dello Stato, non erano più possibili. Tiberio, ad esempio, fu uno degli imperatori più intransigenti verso la corruzione politica e, in genere, pubblica.
Questo non gli impediva certo di vivere di corruzione morale negli ozi di Capri, nuotando insieme a giovincelli ubbidienti e piacenti, nella sua piscina con la vista sul mare.

La corruzione in Roma antica - è bene dirlo - era almeno dieci volte superiore rispetto alla nostra attuale:
questo non impedì all'Urbe di estendere il proprio dominio sul mondo.
La Città Eterna (???) affiancava alla prepotenza e alla corruzione i più solidi sistemi giuridici, una forma assolutamente unica di imperium, rispettosa delle tradizioni locali, e infine un prestigio culturale e intellettuale che non avevano eguali.
La più ampia forma di corruzione avveniva lontano dal centro del mondo, in quelle provincie romane dove i governatori facevano il bello e il cattivo tempo, dove le leggi venivano applicate in modo elastico e dove le clientele fiorivano senza pudore. C'è da dire che i governatori si trovavano quasi "costretti" a racimolare denaro sporco e a rubare denaro pubblico per potersi finanziare i passaggi di carriera politici successivi: le campagne elettorali chiedevano un impiego di denaro impressionante.


Ecco così che il governatorato nelle provincie

si rivelava un passaggio fondamentale nel cursus honorum di qualsiasi personaggio influente a Roma.
Un altro fattore che portò a un aumento della corruzione fu - come sempre - la crescita della burocrazia pubblica: se nei primi due secoli dell'Impero essa era ancora contenuta, successivamente assunse dimensioni elefantiache. Gli sforzi degli imperatori si rivelarono vani; i potentati personali resistettero anche al controllo occhiuto del divino reggitore di Roma. Concussione e peculato erano all'ordine del giorno, sia durante la repubblica, sia durante l'Impero. I più strenui avversari di questo tipi di reato furono, a distanza di tempo, due personaggi celeberrimi come Caio Gracco e Giulio cesare. Molti processi pubblici precedenti agli interventi legislatori di questi due personaggi si rivelavano teatro di scandalose assoluzioni: la Corte divenne, dopo le leggi di Caio Gracco e di Cesare, più imparziale.


Potentati personali

La nobiltà romana lottò, per tutta la storia secolare, per mantenere il maggior numero di potere nelle proprie mani.
La casta aristocratica cercò sempre di escludere, dal cerchio dei privilegi, le altre classi, i cavalieri prima, i plebei poi.
Per di più, se l'eccessiva burocrazia aveva generato corruzione pubblica endemica nell'Impero, con il coinvolgimento di oscuri funzionari e, insomma dei cosiddetti "pesci piccoli", l'assoluta mancanza di burocrazia nei primi secoli della Repubblica aveva allo stesso modo portato al fiorire di corruzione figlia del potere di pochi "pesci grossi".
I vari magistrati e i pochi funzionari detenevano un potere amplissimo e discrezionale.
Non solo: spesso i magistrati si avvalevano della collaborazione di persone fidate come gli schiavi e i liberti (ex schiavi). Lo stesso ordine pubblico era affidato, clamorosamente, ai singoli nobili, che così creavano formazioni "paramilitari", diremmo oggi, che mantenevano il controllo nelle strade.
Durante la Repubblica, quindi, l'organizzazione sociale risentiva di questa suddivisione "mafiosa" tra boss locali.
È ovvio che, con la nascita della figura accentratrice dell'imperatore, i nobili perdono potere a favore dei notabili e dei funzionari "di corte.
La corruzione resta, semplicemente passa di mano. D'altronde, sia nella Repubblica sia nell'Impero, l'esibizione di clientele era apprezzata socialmente. Il potente camminava spesso nel Foro seguito da un codazzo di clientes: più lungo era il corteo, più ammirato e riverito era il personaggio alla sua guida: questa esibizione aveva persino un nome, l'adsectatio. Il "patrono" - così veniva chiamato - tutelava i suoi clienti in giudizio, con aiuti economici, con interventi in sede politica, raccomandazioni.


I clientes facevano da scorta armata, intervenivano a loro volta con aiuti economici, votavano secondo commissione.

I grandi scrittori romani, soprattutto quelli di ambito conservatore, hanno sempre dipinto questo fenomeno sociale come naturale e tutt'altro che criticabile: lo stesso tacito chiama "parte sana" del popolo quella che segue le grandi famiglie aristocratiche. Per la parte di popolo che non è disposta a ubbidire ai potenti è pronta l'etichetta di "plebe sordida" e potenzialmente agitatrice. Anche Cicerone, storico sostenitore degli aristocratici, ha parole d'elogio verso l'istituto della clientela. Per trovare critiche al fenomeno bisogna leggere Plauto che - nei suoi "Menecmi" - scrive in versi la sua indignazione ("Quanto è folle e dannoso questo costume che abbiamo, e che più di tutti hanno coloro che stanno più in alto! Tutti vogliono avere molti clienti, ma non stanno a guardare se sono buoni o malvagi [...]"). Oppure Sallustio, che nelle sue "Epistole a Cesare" non manca di lamentare come i poveri abbiano perso libertà politica vendendosi ai pochi, singoli potenti ("Ma quando cacciati a poco a poco dai campi la disoccupazione e la povertà ridussero gli umili cittadini a non avere più una dimora sicura, cominciarono a chiedere l'aiuto altrui, a vendere la propria libertà insieme con lo stato. Così a poco a poco il popolo, che era padrone e comandava a tutte le genti, si disperse e in luogo del dominio comune ciascuno procurò a se stesso una servitù personale")


Elezioni poco limpide

I brogli elettorali furono uno degli elementi più vistosi della corruzione in Roma antica. La vita pubblica romana era attraversata da continue campagne elettorali, le quali come detto richiedevano immani finanziamenti. Ad essi provvedevano i ladrocini nei governatorati e il supporto clientelare. Quando però si giungeva al redde rationem elettorale, molti potenti non intendevano rischiare sul responso pubblico. I brogli servivano a "correggere" l'esito delle competizioni. Per avere un voto sicuro, i potenti potevano variare: dall'elargizione di denaro a pioggia per comprare voti, alla realizzazioni di favori ai potenziali elettori, alle intimidazioni fisiche, alla corruzione di coloro che erano addetti allo spoglio dei voti. E infine, alla procrastinazione "ad arte" nelle votazioni. In quest'ultimo caso, l'esempio più celebre è quello di Cicerone, che fece in modo di ritardare legalmente il voto ai danni di Lucio Sergio Catilina, il cui supporto elettorale era costituito da votanti non abbienti e non cittadini, la cui permanenza nell'Urbe si rivelava dispendiosa.
Non c'è dubbio, inoltre, che l'introduzione del voto segreto nella seconda metà del II secolo a.C. contribuì all'espansione della corruzione elettorale. Anche l'aumento del numero di elettori portò a un aumento della corruzione: non mancavano infatti coloro che promettevano per denaro il proprio voto, facendone motivo di commercio e "asta pubblica". Chi offriva di più si beccava il voto. Una forma diffusa di condizionamento del voto erano le coitiones, gli accordi tra candidati per la distribuzione di voti, e le sodalitates, la costituzione di gruppi di elettori influenti (le nostre lobbies) che curavano la propaganda elettorale a favore di determinati candidati.

I candidati più ricchi cercavano altresì di impressionare il pubblico votante con varie ostentazioni propagandistiche, come l'ambitus, praticamente l'arruolamento porta a porta, o l'esibizione dei propri indumenti, come la bianchezza della propria veste. Tra i personaggi che più ricorsero alla corruzione elettorale ci furono Giulio cesare, il suo rivale Pompeo Magno e - ebbene si - l'integerrimo, o così si voleva, Catone. Quest'ultimo disse sempre che, quando aveva corrotto, fu sempre per il "supremo interesse dello Stato".


Arricchimenti "pubblici"

L'erario romano veniva depredato in molti modi. Tra questi anche il "bottino di guerra": comandanti e generali romani all'estero consideravano i territori conquistati come "cosa loro". Denaro e spoglie varie degli sconfitti servivano ad accrescere il proprio potere, ma anche a placare le esigenze dei propri soldati. Pompeo e Cesare trassero dalle conquiste in Asia e Gallia immensi profitti, inimmaginabili oggi. Si dice che il bottino gallico di Cesare equivalesse a più di duemila miliardi di vecchie lire. Ci furono, naturalmente, alcuni processi contro gli abusi di potere nelle provincie: la Legge Calpurina del 149 a.C., molto prima dei due generali citati quindi, aveva cercato di istituire una corte permanente per i reati di concussione, ma gli effetti furono ininfluenti. Come al solito, a pagare erano i "pesci piccoli". Anche le misure adottate da Caio Gracco e la battaglia ciceroniana contro le malversazioni di Verre in Sicilia (descritte nelle "Verrine") non produssero reali cambiamenti.
Con cesare e soprattutto con Augusto i controlli del potere sull'operato dei governatori si fecero più rigorosi, anche grazie alla privazione ai pubblicani (gli esattori delle tasse) di molta discrezionalità personale. Tra i celebri accusati di corruzione lontano da Roma ci fu anche il glorioso condottiero Scipione l'Africano, che però seppe difendersi egregiamente di fronte al Senato. Anche se, sdegnato, si ritirò nella villa di Literno, e vi morì, lontano dalle insidie dell'Urbe.


Di corruzione si parla anche nei confronti di Sulpicio Galba, che nel 149 a.C.
aveva letteralmente depredato territori in Spagna, massacrando la popolazione lusitana, vendendo i sopravvissuti come schiavi e intascando il tutto. Galba fu beneficiato di una scandalosa assoluzione, dopo la quale si cercò di istituire giurie che fossero composte non da senatori, tradizionalmente compiacenti verso i potenti, ma di cavalieri. Alcune leggi (come la Legge Calpurnia voluta dal tribuno Lucio Calpurnia Pisone) pretendevano semplicemente la restituzione del maltolto, altre (come quella graccana) chiedevano la restituzione di una somma raddoppiata. Quest'ultimo provvedimento poteva portare alla rovina del condannato. Negli anni a venire, come dimostrano le scandalose assoluzioni avvenute sotto la dittatura di Sila, il malcostume comunque persistette.
L'esempio più lampante della corruzione di un governatore, lo abbiamo detto, fu quello di Verre, denunciato nelle "Verrine" di Cicerone: al governatore si imputarono estorsioni, rapine, vessazioni , furti e intimidazioni di ogni genere. I siciliani furono letteralmente dissanguati di almeno 40 milioni di sesterzi, ma ci sono fonti che parlano di 100 milioni di sesterzi. La forma più efficiente di estorsione sotto il potere di Verre era quella dell'accordo sotto banco con gli appaltatori (i decumani) incaricati di riscuotere la decima del frumento, che era poi il tributo che la Sicilia doveva a Roma. Il grano che avanzava finiva nelle mani del governatore, che lo vendeva a beneficio del proprio portafoglio.


Un altro sistema usato da Verre era quello di intervenire nelle amministrazioni locali sicule: chi voleva essere eletto doveva pagare a Verre una tangente.

Sotto l'Impero le cose cambiarono: la corruzione non raggiunge più i livelli dei tempi di Verre. La severità di Tiberio fu esemplare, e anche quella di Nerone (spinto dal consigliere fidato Seneca): sotto Nerone i governatori furono inibiti anche nell'allestimento di giochi e spettacoli vari, per evitare che il finanziamento di essi fosse addebitato ai sudditi. Frequenti, nella categoria delle corruzioni pubbliche, le frodi dei publicani, titolari di lucrosi appalti statali. Notizie di tangenti si hanno sin dal 215 a.C., in piena seconda guerra punica. L'esempio è quello di Marco Postumio di Pyrgi, titolare di contratti di fornitura per l'esercito, il quale faceva affondare di proposito vecchie navi, dopo averle caricate di merci di poco valore, per richiedere allo stato l'indennizzo di un valore molto superiore.
L'esempio più celebre della corruzione della nobiltà romana da parte di denaro straniero fu invece quella del "caso Giugurta", reso noto dalla penna di Sallustio: alla morte di Massinissa, antico e fedele alleato di Roma, il regno africano di Numidia passò nelle mani di Giugurta e di altri due figli del re, Aderbale e Iempsale. I tre si combatterono il potere assoluto, cercando i favori di Roma. Chi avrebbe strappato al Senato dell'Urbe l'alleanza in grado di portare con sé la vittoria? Giugurta mandò a Roma ambasciatori che, con immense quantità di oro, cercarono di comprare i senatori il cui compito era esattamente decidere sulla questione africana.


EL DIRITO E LA JUSTISA ROMANI

Infine, la corruzione della Giustizia fu uno dei fenomeni di malcostume a Roma: non esisteva una magistratura permanente, separata dalla politica.

Non esisteva nemmeno un vero codice di leggi paragonabile a quello a noi contemporaneo, e la discrezionalità era quindi ampia. Il diritto romano classico, sul quale si sono formate generazioni di giuristi fino ai tempi nostri, è una elaborazione tardo-imperiale. Nei tempi più antichi la giustizia era amministrata da privati. Nell'epoca repubblicana il pretore, il magistrato pubblico incaricato dell'amministrazione giudiziaria, affidava i giudizi a un giudice scelto dalle parti o da egli stesso designato. Facilmente corruttibile o reso bersaglio di intimidazioni varie, anche fisiche. Sempre Plauto, nei suoi "Menecmi", accenna alla corruzione della Giustizia: i giudici "giocano ai dadi con grande impegno, accuratamente profumati, attorniati da meretrici. Quando sono le tre del pomeriggio fanno chiamare un servo perché vada al comizio a informarsi su quanto è avvenuto al Foro, chi ha parlato a favore, chi ha parlato contro, quante tribù hanno approvato, quante hanno votato contro. Quindi vanno al comizio per non avere noie in seguito alla loro assenza. [...]"


La corruzione della Giustizia durò a lungo,

se ancora sotto l'imperatore Domiziano si sa di misure drastiche prese dal divino Cesare per reprimere il fenomeno. Svetonio infatti nelle "Vite dei Cesari" racconta di come Domiziano "colpì con nota di infamia i giudici venali insieme con i loro coadiutori nel consiglio".
L'ampliamento della burocrazia romana sotto l'Impero portò invece a un altro fenomeno: quello della raccomandazione (commendatio). La caccia al posto era l'attività principale dei rampolli dell'aristocrazia senatoriale e dei giovani rampanti delle classi emergenti. Per ottenerlo era necessario godere di influenti raccomandazioni, nelle quali non è possibile trovare traccia delle qualità specifiche che il candidato poteva vantare per occupare degnamente la posizione cui aspirava, ma solo l'esaltazione di generiche virtù e soprattutto della fedeltà del raccomandato. Ma questo è forse il minore dei mali, e nell'Italia di oggi, sembra un vizio assolutamente radicato. "Mi manda Picone" resta il motto dell'italica gente. Con o senza toga.

BIBLIOGRAFIA
La corruzione politica nell'antica Roma, di Luciano Perelli, pp.322 - Supersaggi Rizzoli, 1994
La corruzione e il declino di Roma, di Ramsay MacMullen - Il Mulino, pp. 449, 1991
Vita dei Cesari, di Svetonio, pp.382 - Garzanti, 1977


La corruzione nell’antica Roma di Silvia Mollo
http://www.istitutocalvino.it/pubbl/sci ... mvirt3.pdf
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Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » gio feb 13, 2014 9:05 pm

Łe fonti del dirito
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... YtbWs/edit
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Preistoria e storia del diritto, fonti varie
viewtopic.php?f=205&t=2521

Preghiere de l'omo e comande divine
viewtopic.php?f=24&t=483
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Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » lun mag 12, 2014 3:55 pm

Ençeveltà tałega, straji, połedega, caste, corusion

viewforum.php?f=22
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Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » dom dic 07, 2014 3:22 am

Mafia, appalti e tangenti: 37 arresti a Roma. Indagato Alemanno, in carcere anche ex Nar

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... el-mal.jpg

http://www.lastampa.it/2014/12/02/itali ... agina.html

Maxi-operazione di carabinieri e Finanza. Il ministro Alfano: «L’inchiesta è solida». A capo della cosca Massimo Carmianti, il “Nero” di “Romanzo criminale”. Sequestrati beni per 200 milioni di euro. Nei guai politici locali e consiglieri regionali

Un collaudato e redditizio patto di ferro tra mafia e politica a Roma, non a caso definito dagli inquirenti «Mafia capitale». L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per associazione mafiosa e, per lo stesso reato, in manette è finito, tra gli altri, l’ex terrorista nero Massimo Carminati, «il Nero» di Romanzo Criminale (personaggio di spicco nella banda della Magliana è accusato anche dell’omicidio Pecorelli) interpretato al cinema da Riccardo Scamarcio. Saltano subito all’occhio questi due nomi nella maxi operazione della Procura e dei carabinieri del Ros di Roma, con Massimo Carminati ritenuto al vertice dell’associazione mafiosa. La prima, in assoluto, di connotazione esclusivamente romana.


I NOMI ECCELLENTI

Nel complesso gli arrestati sono 37, tra cui anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini, oltre a una serie di «eccellenti» indagati. Ma l’aspetto più inquietante è la scoperta di un sistema mafioso per l’aggiudicazione di appalti pubblici con il coinvolgimento di funzionari e politici del Comune di Roma e della Regione Lazio. I Ros hanno perquisito il Campidoglio, la Regione e diverse abitazioni private tra cui quella dell’ex sindaco Alemanno. Hanno ricevuto un avviso di garanzia anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell’Assemblea capitolina Mirko Coratti.


COME AGIVA LA “CUPOLA” DELLA CAPITALE

È stato, insomma, individuato un sodalizio mafioso da anni radicato nella capitale con diffuse infiltrazioni nel mondo imprenditoriale per ottenere appalti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate, anche per quanto riguarda i campi nomadi e i centri di accoglienza per gli immigrati. I reati ipotizzati sono associazione di stampo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati ancora. L’indagine è coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall’aggiunto Michele Prestipino e dai sostituto Paolo Ielo e Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli. Contestualmente all’operazione «Mafia capitale», la Guardia di Finanza sta procedendo al sequestro di beni per oltre 200 milioni di euro, in applicazione di un decreto firmato dal Tribunale di Roma.


IL CAPO ERA CARMINATI

Intercettazioni telefoniche, pedinamenti e una proficua e altamente professionale attività investigativa ha consentito di smascherare uno scandalo tra mafia e politica di dimensioni inimmaginabili. Che risale, peraltro, a molti anni fa. Si legge infatti nell’ordinanza del gip Flavia Costantini: «E’ difficile stabilire esattamente il tipo di collegamento tra l’odierna organizzazione mafiosa riconducibile a Massimo Carminati e il substrato criminale romano degli anni ottanta, nel quale essa certamente affonda le sue radici. Esistono indiscutibili corrispondenze sul piano soggettivo e sul piano oggettivo». E ancora: «Sul piano soggettivo Mafia Capitale si è strutturata prevalentemente attorno alla figura di Massimo Carminati, il quale ha mantenuto e mantiene stretti legami con soggetti che hanno fatto parte della Banda della Magliana o che comunque le gravitavano intorno».


PIGNATONE: “OMERTA’ E ASSOGGETTAMENTO”

Mafia e politica che hanno fruttato fior di quattrini. Tutto grazie - come si legge nell’ordinanza - «al riferimento alla forza di intimidazione del vincolo associativo deve intendersi che l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione, sino ad estendere intorno a sè un alone permanente di intimidazione diffusa, tale che si mantenga vivo anche a prescindere da singoli atti di intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato». L’inchiesta Mafia Capitale del procuratore Giuseppe Pignatone viene ben riassunta dal gip nell’ordinanza: «Le indagini svolte hanno consentito di acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza di una organizzazione criminale di stampo mafioso operante nel territorio della città di Roma, la quale si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano per commettere delitti e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di appalti e servizi pubblici».


L’EX SINDACO: “DIMOSTRERO’ LA MIA ESTRANEITA’”

In un comunicato Gianni Alemanno si difende e respinge le accuse: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». «Sono sicuro - conclude - che il lavoro della Magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti».


ALFANO: “INCHIESTA SOLIDA”

«Ho grande stima e considerazione per il procuratore capo di Roma che ha grande spessore competenza equilibrio, quindi sono convinto della solidità dell’inchiesta» commenta il ministro dell’Interno Angelino Alfano a «Di martedì» su La7 aggiungendo: «Su persone che conosco, come Alemanno, mi auguro riesca a dimostrare la sua estraneità così come ha detto». «Se l’inchiesta è fondata - ha aggiunto Alfano - ci sono cialtroni che non smettono di rubare; inutile fare le leggi se si continua a rubare, non si deve rubare!», ha tuonato il ministro.

Ecco l’elenco degli ordini di custodia cautelare emessi dal gip di Roma Flavia Costantini.

In carcere:

Massimo CARMINATI
Riccardo BRUGIA
Roberto LACOPO
Matteo CALVIO
Fabio GAUDENZI
Raffaele BRACCI
Cristiano GUARNERA
Giuseppe IETTO
Agostino GAGLIANONE
Salvatore BUZZI
Fabrizio Franco TESTA
Carlo PUCCI
Riccardo MANCINI
Franco PANZIRONI
Sandro COLTELLACCI
Nadia CERRITO
Giovanni FISCON
Claudio CALDARELLI
Carlo Maria GUARANY
Emanuela BUGITTI
Alessandra GARRONE
Paolo DI NINNO
Pierina CHIARAVALLE
Giuseppe MOGLIANI
Giovanni LACOPO
Claudio TURELLA
Emilio GAMMUTO
Giovanni DE CARLO
Luca ODEVAINE



Ai domiciliari:

Patrizia CARACUZZI
Emanuela SALVATORI
Sergio MENICHELLI
Franco CANCELLI
Marco PLACIDI
Raniero LUCCI
Rossana CALISTRI
Mario SCHINA


Rifiutata dal gip Costantini la richiesta della procura di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che rimangono tuttavia indagati.
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Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » dom mar 22, 2015 12:08 pm

2450 a.C. - Egitto - INSEGNAMENTI di PTAHHOTEP
Quello che segue è uno dei testi più antichi scritti dall'umanità.
Il suo autore è il gran visir d'Egitto Ptahhotep, ministro del Faraone Djeret-Isesi, della V dinastia.
Si ritiene che l'autore avesse 110 anni quando decise di tramandare per iscritto la sua saggezza, e sembra che l'età di 110 anni avesse un significato particolare per gli egiziani.

http://cronologia.leonardo.it/antica49.htm
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Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » gio giu 18, 2015 8:24 pm

https://www.facebook.com/groups/Medioev ... 382778197/

LE ORIGINI MEDIEVALI DEL DIRITTO COMUNE

L'operazione dottrinale volta a fare del “riscoperto” diritto giustinianeo il diritto dell'imperatore medievale e in questa veste a configurarlo come l'universale ius commune della respublica christiana è posta in essere in compiuti termini teorici dalla scienza giuridica bolognese.
L'idea di una società cristiana legata non solo da una fede, ma anche da una legge comune, trova dunque la sua teorizzazione giuridica nelle riflessione della dottrina romanistica bolognese. Dal IX secolo in poi si pongono le scarne premesse ideologiche e di fatto della teorica bolognese sullo ius commune. La spinta dinamica del mito di Roma domina mundi agì in modo penetrante nella coscienza giuridica altomedievale: essa si tradusse non solo nell'idea che la respublica dei credenti in Cristo si unificasse sotto la guida del pontefice e la molteplicità degli ordinamenti politici sotto l'unico potere dell'imperatore consacrato a Roma, ma anche nella aspirazione a far convergere la contrastante pluralità delle leggi dei vari popoli che si trovavano a convivere sul comune territorio dell'impero verso l'universale diritto di Roma.


La recezione delle norme romane, nei testi canonistici, come lex saeculi della chiesa, ha concorso insieme ad altri fattori economico-culturali ad avviare il diritto romano ad essere idealmente celebrato come diritto generale.

A Pavia, capitale del Regnum Italiae, i giuristi che conoscevano già bene i testi romani e romano-canonici, si volsero ad integrare, correggere e interpretare le norme germaniche. È proprio in questa sede che per la prima volta il diritto romano viene ufficialmente qualificato come lex omnium generalis, cioè come legge territoriale, con generale valore sussidiario in caso di assenza o di lacunosità della norma germanica.

Dalla roccaforte stessa del germanesimo, Pavia, la voce di più maestri di diritto si levava ad indicare in quella romana la lex generalis. Tuttavia, non è ancora possibile riscontrare alcuna saldatura teorica generale fra l'ideologia della renovatio imperii e la conseguente esigenza paradigmatica di una renovatio del diritto romano come legge universale dell'impero restaurato.
E' unicamente con l'opera dei maestri bolognesi che l'idea culturale di Roma diventa produttiva nel mondo del diritto. Nelle Quaestiones de iuris subtitulatibus del XII secolo, il glossatore Piacentino si richiama direttamente all'autorità divina come fondamento della indiscussa legittimità delle norme dell'impero: queste sono per eccellenza i precetti romani, le leggi emanate dai Cesari e dai loro successori per il proprio impero. Dall'unità dell'ordinamento giuridico non può che discendere l'unità del diritto; e poiché l'imperium romano cristiano è idealmente, per volere stesso di Dio, il definitivo ordinamento politico-temporale della comunità umana, l'unum ius non può essere che il diritto di quell'ordinamento, cioè il diritto romano. Al tempo delle Quaestiones, l'impero appariva ormai come un mosaico di ordinamenti giuridici particolari, come un insieme di piccole e grandi entità politiche tutte animate dalla naturale pretesa di un'indipendenza che andava dalla semplice autonomia a quella che in tempi moderni si sarebbe chiamata sovranità. Ciuscun ordinamento tendeva a reggersi con proprie consuetudini, proprie costituzioni, propri statuti, cioè con un diritto nuovo ed originale non di rado in contrasto con i principi romani, ma adeguato alla viva realtà delle peculiari esigenze locali.
La concreta struttura politico-sociale dell'impero post-feudale era caratterizzata dunque da una pluralità di ordinamenti giuridici di fatto più o meno indipendenti, con un conseguente fenomeno di particolarismo nel mondo delle fonti del diritto.
La società dei secoli XI e XII cominciava a vivere quella rigogliosa e robusta età di rinnovamento economico, sociale e culturale che si suole significativamente chiamare “rinascimento medievale”. Questa età di rinnovamento andava ricostituendosi secondo tendenze e ideali lontani da quelli del dissociato e atomistico mondo del feudo, costruendo istituzioni politiche originalmente corrispondenti al fiorire di un'economia libera e di una cultura critica tipicamente “cittadine”.
Il prepotente esplodere del rinascimento giuridico, il nascere cioè della grande scuola di diritto di Bologna e, con essa, di quella scienza giuridica occidentale fondata sul diritto romano che avrebbe dominato l'Europa per tutta l'età moderna. A Bologna però si profila un problema: la dottrina giuridica, come avrebbe conciliato il perseguimento dell'unum ius in un unum imperium, se questo impero era caratterizzato dalla pluralità degli ordinamenti giuridici creatisi di forza entro l'impero stesso?
Qualsiasi sforzo volto a paralizzare o a dichiarare priva di validità questa abbondante e anomala normativa sarebbe stato vano e utopistico, in quanto opposto ai tempi e alla vita stessa. Le nuove forze politiche nell'impero rivendicavano uno specifico titolo a disciplinare i propri rapporti interni , di diritto pubblico e di diritto privato. Queste norme erano nate come superamento, in ogni singolo territorio, del sistema della personalità del diritto. Era piuttosto con esse e non con le leggi personali che l'unum ius doveva ora misurarsi. L'idea principale, nello scioglimento di questo radicale contrasto, è rappresentata dall'espressione ius commune, che denominò la tipica concezione che la scienza giuridica medievale gradualmente si costruì per conciliare entro un quadro logico e razionalmente comprensivo il diritto romano dell'ordinamento universale e i vari diritti degli ordinamenti particolari. Tale espressione indicò il diritto romano imperiale come elemento di un sistema organizzato di fonti giuridiche coesistenti nel quale esso si coordinasse secondo certe regole ai diritti locali e particolari. Il concetto di ius commune costituisce l'indispensabile strumento per comprendere un dato storico di immensa portata nelle vicende della civiltà occidentale: come la scienza giuridica italiana, industriandosi a legittimare l'antico diritto romano quale diritto vigente dell'impero e a coordinarlo poi con le fonti locali, con stupefacente lavorio di interpretazione, ne abbia tratto in effetti un diritto del presente, suscettibile di essere poi variamente recepito e assimilato come patrimonio proprio delle nazioni del continente europeo. Si può così capire, allora, come il diritto romano, tornato a rivivere dopo sei secoli nel 'rinascimento giuridico' medievale e fatto oggetto di un profondo processo ricreativo da una impareggiabile giurisprudenza, abbia informato le categorie della moderna scienza del diritto e alimenti e sostanzi ancor oggi gli strati più profondi del pensiero giuridico occidentale. Il quadro del contrasto fra lo “ius proprium” degli ordinamenti particolari e l'”unum ius” dell'impero era dunque tracciato con chiarezza. Ma unum ius non vuol dire “diritto unico”, vuol dire “diritto unico dell'impero” ma non “diritto unico nell'impero”. Per il Calasso, l'unum ius rappresenta lo ius commune, vale a dire quell'unità da cui la molteplicità di questi diritti deriva, secondo il principio della filosofia tomistica “omnis multitudo derivatur ab uno”. Nel linguaggio del giurista medievale, commune diventa invece il diritto romano, cioè il diritto dell'impero universale: emanato in vista delle comuni e generali esigenze della respublica christiana, esso ha come propri destinatari tutti i vari popoli organizzati nei singoli ordinamenti particolari, che nell'impero, come in tutte le sue parti, si ricompongono in unità. In questo quadro teorico l'impero e il suo diritto (ius commune) divengono un “tutto”, una unità in cui si collegano, in sistematico rapporto di subordinazione, i molteplici ordinamenti particolari partecipanti di quell'unità, ciascuno con il suo diritto (ius proprium). In siffatta prospettiva lo ius commune è collocato dai giuriti in posizione di tassativa preminenza gerarchica.
Preparato ed impostato nel secolo XII, il regime del diritto comune si consolida ed assume pieno assetto pratico e dottrinale nei due secoli seguenti. A partire dal Duecento il concetto di ius commune è dunque al centro della speculazione attraverso cui la giurisprudenza medievale si sforza di raggiungere una conclusa formulazione giuridica dei due massimi problemi politici del tempo:

la questione dei rapporti fra impero e Chiesa e della reciproca rilevanza dei due ordinamenti normativi, civile e canonico;
la questione della specifica configurazione pubblicistica dei regni e delle civitates autonome rispetto all'impero, nonché il problema della giustificazione teorica e dei limiti di validità pratica dello ius proprium.

La giurisprudenza civilistica riuscì gradualmente a formulare il postulato della ordinatio ad unum delle due potestà supreme, sovrane e indipendenti, aventi ciascuna una propria iurisdictio, canonica e civile. L'ordinatio ad un unico fine delle due iurisdictiones primarie e universali, presuppone un loro stretto legame e un'intima unione fra norme canoniche e norme imperiali, costituenti insieme lo ius commune. Questa indissolubile coordinazione, quest'idea di una superiore conciliazione (specialis coniunctio), fu resa dai giuristi medievali mediante la celebre espressione utrumque ius. Tale formula indicava il rapporto essenziale fra le due sfere giuridiche universali, un rapporto fra due mondi distinti, ma allo stesso tempo coniuncti: lo ius commune si sostanziava così in entrambi i diritti.

I giuristi qualificarono come legittimamente autonomi e indipendenti anche i grandi comuni cittadini nati nell'impero: qualsiasi universitas superiorem non recognoscens era da riguardarsi come sibi princeps, come avente titolo ad esercitare entro i propri confini gli stessi poteri dei monarchi e dell'imperatore. Il problema per eccellenza diveniva quello di legittimare i comuni come fonte del diritto ...


Copmento:

Alberto Pento

È buona cosa ricordare che il diritto non è un'invenzione dei romani o di Roma, poiché il diritto è insito nella vita stessa e relativamente a l'ambito umano esso nasce con l'uomo medesimo; Roma non è la Patria del diritto. E nemmeno possiamo confondere il diritto che vige in un impero co quello proprio di una democrazia vera.
Affinchè anche in area italica si possa evolvere verso una società veramente democratica come in Svizzera e realizzare una condizionde di vera responsabilità e sovranità piena degli uomini-cittadini e delle loro comunità, secondo mè è necessario liberarci del falso mito romano e di Roma come fonte primaria e superiore di civiltà, di cultura, di diritto e di spiritualità.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El fantomatego mito del dirito roman

Messaggioda Berto » mar set 08, 2015 8:49 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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