USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

Messaggioda Berto » lun nov 29, 2021 10:36 pm

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Biden e l'economia



Perché la legge dei Democratici sulla spesa pubblica è un tale casino?
Byron York’s Daily Memo
9 novembre 2021

https://osservatorerepubblicano.com/202 ... le-casino/

Il POLITICO Playbook di fine ottobre riportava la citazione d un funzionario della Casa Bianca che diceva che i negoziati sulla legge democratica per la spesa sociale e climatica da 3,5 trilioni di dollari siano una “altalena a 9 posti“. Ma perché?

Perché i Democratici stanno cercando di infilare tutte le loro priorità – la spesa per il welfare, il programma Pre-K universale, gli aumenti delle tasse, l’espansione di Medicare, i college comunitari gratuito, i farmaci da prescrizione, i congedi sanitari e familiari, le energie rinnovabili ed altre misure per contrastare il cambiamento climatico, e molto altro ancora – in un’unica enorme legge.

Ognuna di queste priorità ha dei “campioni” a Capitol Hill. Per ognuna, ci sono dei legislatori che pensano che la questione X sia la più importante del mondo e che debba essere completamente finanziata nella legge. Ma le dimensioni complessive del disegno di legge si stanno riducendo mentre gli oppositori Democratici, i Senatori Joe Manchin e Kyrsten Sinema, chiedono che il costo totale sia inferiore.

Questo significa che i Democratici stanno combattendo tra loro per proteggere ognuno le proprie priorità. “Ogni tentativo di sollevare la priorità di una fazione del partito finisce per mandare in frantumi il progetto di un’altra fazione”, dice POLITICO.

Ma perché i Democratici si comportano in questo modo? Dopo che prima il Senato e poi la Camera sono riusciti a far passare una legge bipartisan sulle infrastrutture, perché i Democratici hanno deciso di mettere l’intera agenda di Biden in una sola legge? Perché non farlo nel modo giusto e considerare le priorità in disegni di legge separati che potrebbero ricevere un dibattito più completo?

Perché i Democratici non hanno i voti per farlo nel modo giusto. Hanno una minuscola maggioranza alla Camera. E non hanno alcuna maggioranza al Senato, che è in parità, 50 a 50, costringendo i Democratici a fare affidamento sul voto di Kamala Harris per rompere il pareggio.

All’inizio della sua esperienza nello Studio Ovale, Joe Biden ha ascoltato molti Democratici che lo esortavano a fare le cose in grande. Lo esortavano ad approvare una legislazione massiccia sul modello del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e della Great Society di Lyndon B. Johnson. L’unico problema è che Biden non ha i voti per farlo. I suoi due illustri predecessori avevano enormi maggioranze al Congresso quando approvarono quelle leggi. Biden non ce l’ha.

Così ora, l’unico modo in cui i Democratici possono aggirare l’ostruzionismo per far passare una misura faziosa con un pareggio di 50 a 50, più lo spareggio della Harris, è usare il processo di Riconciliazione del Bilancio. Ma non possono farlo tutti i giorni. Così hanno gettato tutto quello che volevano in un unico gigantesco disegno di legge di Riconciliazione – avrebbero voluto metterci qualcosa di più, come la riforma dell’immigrazione, se il Senato lo avesse permesso. Poi, secondo la teoria, potranno passare un’unica grande legge anche con un pareggio di 50 a 50, con la Harris che farà la differenza.

Ma prima, dovrebbero avere tutti e i 50 senatori Democratici a bordo di questa legge, che non è stata ancora scritta. Non possono permettersi di perderne neanche uno. E questo dà un enorme potere, non solo a Manchin e a Sinema, ma a qualsiasi democratico che resisterà alla richiesta di includere o di escludere qualcosa dalla legge.

Così ora il disegno di legge si sta rimpicciolendo. Le ultime stime sono che potrebbe arrivare intorno ai 1,9 trilioni di dollari, che è ancora una cifra enorme – troppo grande – ma molto meno dei 3,5 trilioni di dollari precedentemente previsti, che era ancora molto meno rispetto al pacchetto originario da 6 o 7 trilioni di dollari che l’ala progressista del partito voleva inizialmente.

E così il processo è diventato una “altalena a 9 posti“.

Se volete saltare alla fine della storia, i Democratici alla fine approveranno qualcosa. Sarà grande – troppo grande – secondo ogni ragionevole stima, ma sarà ben al di sotto delle ambizioni del Partito che fu di Roosevelt e di Johnson. Non sarà a causa degli intrighi di Joe Manchin o Kyrsten Sinema. Sarà perché le ambizioni dei Democratici hanno superato di gran lunga i loro numeri. E nessuna quantità di grandi discorsi e di attenzione servile dei media cambierà questo fatto.





I dati non mentono: la “Bidenflazione” è reale
Washington Examiner
22 novembre 2021

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La “Bidenflation” (in inglese) – che potremmo chiamare “Bidenflazione” in italiano – sta stabilendo nuovi record. Secondo i nuovi dati dell’indice dei prezzi al consumo, l’inflazione ha raggiunto il 6,2% su base annua, il suo ritmo di crescita più veloce in 31 anni. L’inflazione nel solo mese di ottobre è aumentata dello 0,9%, rispetto al già allarmante 0,4% di settembre e allo 0,3% di agosto. Bisogna andare indietro fino alla presidenza di Bush padre per trovare qualcosa di simile – e sappiamo tutti cosa è successo a George H.W. Bush nelle elezioni dell’anno successivo.

Per contrastare la giustificabile paura del pubblico per l’inflazione che sta divorando la loro ricchezza, la Casa Bianca ha… Beh, messo la testa sotto la sabbia, negando che l’inflazione sia un problema. Ma i negazionismi stanno diventando meno credibili ad ogni nuovo rilascio dei dati mensili.

Anche se l’amministrazione Biden ha rilasciato una lettera firmata da 17 economisti, affermando che la sua attuale agenda “allevierebbe le pressioni inflazionistiche nel lungo termine“, ma quegli economisti stanno parlando di un futuro lontano – tra un decennio o più, ovviamente, dopo che i progetti di spesa di oggi saranno stati completati ed avranno migliorando, almeno nelle intenzioni, l’efficienza e la produttività dell’economia.

Joe Biden è andato dunque in giro citando erroneamente questi economisti. Ma quando a questi è stato chiesto dell’affermazione atta da Biden secondo cui la sua agenda avrebbe “ridotto l’inflazione” già da subito, questi economisti gli offerto il pollice verso.

“Se intende dire che l’inflazione scenderà nel periodo successivo all’approvazione dei progetti di legge, questo non sarà un risvolto immediato, questi effetti sono lenti”, ha detto Peter Diamond del MIT.

“Non so cosa significhi ‘ridurrebbe l’inflazione'”, ha detto Sir Angus Deaton della Princeton University. “Certamente non nei prossimi mesi”.

Gli opinionisti pro-Biden nei media non sono rimasti ignari del pericolo. Sono evidentemente così preoccupati che l’inflazione danneggi il loro capo Joe Biden ed il loro partito alle prossime elezioni che stanno cercando di fingere che i numeri non siano reali – oppure, in ogni caso, che non contino nulla.

Alcuni di loro hanno persino sostenuto che dovremmo dare il benvenuto all’inflazione, anche se poi giureranno, su e giù, che non stiamo avendo alcun picco di inflazione, quindi di cosa stiamo parlando?

Ma Paul Krugman, probabilmente il più importante sostenitore dell’aumento dell’inflazione nelle ultime settimane, ha imparato da matricola al college che l’inflazione si verifica quando troppo denaro viene sostenuto da troppo poco valore in termini di offerta di beni e servizi reali. Questo suona molto simile a ciò che sta accadendo ora – un picco della spesa pubblica dei governi in reazione alla pandemia di Coronavirus, seguito da scaffali dei negozi vuoti o camerieri che mancano ovunque i consumatori vadano.

Anche se hanno ovviamente torto a mentire, gli amici di Joe nei media hanno ragione ad avere paura ed hanno ragione a trovare scuse per il loro partito politico preferito. In termini storici, l’inflazione è uno dei più grandi pericoli politici di cui poco si parla per qualsiasi leader o maggioranza parlamentare in carica.

Come fa notare Michael Barone nel suo ultimo editoriale per il Washington Examiner, i picchi di di inflazione nei dopoguerra hanno spinto gli elettori a buttare i Democratici fuori dalle stanze del potere sia dopo la Prima Guerra Mondiale e di nuovo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel caotico periodo inflazionistico della fine degli anni ’70, gli elettori arrabbiati scaricarono il repubblicano Gerald Ford dopo neanche un mandato e poi buttarono fuori Jimmy Carter dopo un solo mandato. Quest’ultima elezione fu uno dei grandi “bagni di sangue” dell’era moderna, poiché i Repubblicani, che erano fuori dalle stanze del potere, guadagnarono 12 seggi al Senato ed il controllo del Senato degli Stati Uniti per la prima volta dal 1955.

Joe Biden ed il suo partito sono già sulla buona strada per una sconfitta nelle elezioni di midterm del 2022, se le elezioni di questo mese sono state un’indicazione. E mentre l’inflazione continua a sfuggire al controllo, Biden affronta una serie di scelte complicate, perché questa inflazione pone una sfida diretta alla sua agenda. La sua legge “Build Back Better“, non importa quale cosa fuorviante la Casa Bianca dica dopo, sarà enormemente inflazionistica e probabilmente gli farà ancora più male se dovesse passare. Ma tra l’inflazione già in corso ed il fallimento di Biden come leader di partito nel far passare la sua stessa agenda, lo sta già mettendo di fronte alle recriminazioni degli elettori, in entrambi i casi.

Biden farebbe bene ad affrontare il problema di petto e a togliere queste cose di mezzo, ore che è il più lontano possibile delle elezioni. Dovrebbe abbandonare immediatamente il progetto di legge “Build Back Better” al Congresso – non ha comunque alcuna possibilità di passare, quindi non sarà una grande perdita – e stabilire un piano per lavorare con la Federal Reserve per eradicare l’inflazione dall’economia.

Farà molto male – fece molto male al partito di Ronald Reagan nel 1982 – ma è nell’interesse di Biden far finire il dolore il più velocemente possibile. I Democratici stanno già affrontando un 2022 elettoralmente abbastanza brutto, tra i fallimenti di Biden in politica estera ed interna, la controversia sull’influenza razzista nei programmi scolastici e la rabbia per le inutili ed interminabili restrizioni contro il COVID-19.

Non hanno bisogno di questa scimmia dell’inflazione sulla schiena in aggiunta a tutto il resto.



Joe Manchin si oppone al Build Back Better Act da 4,91 trilioni di dollari, uccidendo di fatto la legge
Breitbart News
19 dicembre 2021

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Il senatore Joe Manchin ha detto domenica che si opporrà al Build Back Better Act da 4,91 trilioni di dollari, uccidendo di fatto la “mastodontica” legislazione.

“Non posso votare per continuare con questo provvedimento legislativo. … Non posso farlo“, ha detto il senatore Democratico Joe Manchin a Fox News Sunday.

Joe Manchin, il Democratico–moderato della Virginia Occidentale, serviva come voto decisivo per i Democratici per passare la legge attraverso il Senato.

I Democratici hanno sperato di usare la riconciliazione del bilancio per far passare la legislazione, in quanto ciò avrebbe permesso di approvare la legge ricorrendo alla maggioranza semplice nella camera alta del Congresso. Tuttavia, dal momento che i Democratici non hanno una vera e propria maggioranza al Senato – devono affidarsi al voto di Kamala Harris per rompere un pareggio – sarebbe stato necessario il voto favorevole anche dei due senatori del loro gruppo che sono invece rimasti incerti: Joe Manchin e la collega Kyrsten Sinema.

“Questo è un No a questa legislazione”, ha detto Manchin.

“Questo disegno di legge è un pezzo mastodontico di legislazione“, ha detto Manchin del Build Back Better Act.

Breitbart News ha scritto una guida a tutte le disposizioni del Build Back Better Act approvato dalla Camera.

Joe Biden aveva paragonato questa legislazione ai programmi di spesa storici degli Stati uniti, il “New Deal” di Franklin D. Roosevelt e la “Great Society” di Lyndon Johnson.

“Ci ho provato, davvero“, ha aggiunto.

L’opposizione di Manchin al Build Back Better segue la dichiarazione che Joe Biden ha annunciato, nella quale diceva che avrebbe ritardato l’approvazione della legge per non essere riuscito a trovare ancora un accordo con Manchin.

Manchin ha avuto notevoli preoccupazioni con questa legislazione, in particolare il conto ufficiale da 1,7 trilioni di dollari della legge.

Joe Manchin ha espresso significative preoccupazioni per l’alto costo della legge. Ha detto che il rapporto del Congressional Budget Office (CBO) – secondo cui la legge costerà in realtà 4,9 trilioni di dollari ed aggiungerebbe altri 3 trilioni di dollari al debito pubblico qualora molti dei programmi di spesa sociale previsti fossero stati permanentemente estesi – è “preoccupante“.

Manchin ha detto anche che ha avuto delle preoccupazioni con la disposizione del credito d’imposta per i figli (CTC) espanso nel disegno di legge, che era destinato invece a scadere il 31 dicembre. La disposizione era stata creata attraverso il “piano di salvataggio americano da 1.900 miliardi di dollari” dei Democratici approva a febbraio.



Democratici, Media, Hollywood e Never Trump impazziscono dopo che Joe Manchin dice ‘No’ a ‘Build Back Better’.
Breitbart News
19 dicembre 2021

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La rivista di estrema sinistra Rolling Stone ha pubblicato un articolo intitolato: “Joe Manchin ha appena strappato il cuore dell’Agenda Biden“. Ha proseguito spiegando che: “Build Back Better era il fulcro dei piani di politica interna di Biden“. Ora è improbabile che passi al Senato.

Tra gli scontenti ci sono anche esperti del mondo ‘Never Trump‘ come Jennifer Rubin del Washington Post e David Brooks del New York Times. La Rubin si è lamentata che Joe Manchin probabilmente si opporrà anche agli sforzi dei Democratici di riformare le elezioni facendo passare la cosiddetta legislazione sui “diritti di voto” che istituirà pratiche in stile californiano come la “raccolta delle schede” a livello nazionale:

Oltre a protestare per i quasi 2 trilioni di dollari del disegno di legge – con il costo reale stimato molto più in alto, dato che è improbabile che il Congresso cancelli presto i nuovi programmi di assistenza sociale – Joe Manchin ha aggiunto che il suo partito ha cercato di utilizzare le esili maggioranze al Congresso per attuare una trasformazione radicale senza avere un chiaro mandato da parte degli elettori per farlo: “I miei colleghi democratici a Washington sono determinati a rimodellare drammaticamente la nostra società in un modo che lascia il nostro paese ancora più vulnerabile alle minacce che affrontiamo”, ha detto.

Altri critici includono celebrità, opinionisti e Democratici eletti, che hanno riversato il loro disprezzo su Manchin – ma anche su Joe Biden:
Ilhan Omar: le scuse di Manchin sono “complete stronzate” – non ci si può fidare di lui

La rappresentante Ilhan Omar, Democratica-socialista del Minnesota, ha detto domenica alla MSNBC che le “scuse” del Sen. Joe Manchin basate sull’inflazione e sulle preoccupazioni per la pandemia sono delle “complete stronzate” dopo che Manchin ha annunciato che non avrebbe votato per il Build Back Better Act del presidente Joe Biden.

A Fox News Sunday, Joe Manchin ha detto: “Abbiamo il debito di cui stiamo portando, 29 trilioni di dollari. Abbiamo anche i disordini geopolitici che abbiamo. Abbiamo il COVID, la nuova variante del COVID. E questo sta portando di nuovo scompiglio. La gente è preoccupata. Voglio dire che sono con la mia famiglia. So che tutti sono preoccupati. Quindi, quando queste cose ti arrivano addosso nel modo in cui sono ora, mi sono sempre detto questo: se non posso andare a casa e spiegarlo alla mia gente del West Virginia, allora non posso votarlo”.

La Omar ha aggiunto: “Voglio dire, sapevamo tutti che non ci si può fidare del senatore Manchin. Le scuse che ha appena fatto, penso, sono delle complete stronzate. È davvero scoraggiante sentirlo dire che ha cercato di venire incontro alla gente del West Virginia, perché questa è una completa bugia. La gente della Virginia Occidentale trarrebbe grande beneficio dal fatto che le loro famiglie abbiano accesso alle cure a lungo termine per gli anziani e dalle cure per le persone con disabilità. Beneficerebbero dell’espansione dei crediti d’imposta per i figli. Trarranno beneficio dall’avere accesso al programma Pre-K. Ci sono così tante cose di cui, sapete, la gente del West Virginia ha disperatamente bisogno. E sappiamo che lui non sta lavorando a favore dei loro interessi, e sono davvero completamente delusa e disgustata dal suo ragionamento”.
Bernie Sanders: Dobbiamo costringere Manchin a votare – “Non ha il coraggio di opporsi” agli interessi speciali.

Il senatore Socialista del Vermont, Bernie Sanders, ha detto domenica a “State of the Union” della CNN che il senatore Joe Manchin non ha il coraggio di opporsi agli interessi speciali dopo che Manchin ha annunciato che non avrebbe votato per il “Build Back Better Act” di Joe Biden.

Sanders ha detto: “Avrà un sacco di spiegazioni da dare alla gente del West Virginia per dirgli che non ha il coraggio di affrontare le aziende farmaceutiche per abbassare il costo dei farmaci da prescrizione, perché non è pronto ad espandere l’assistenza sanitaria a domicilio. Il West Virginia è uno degli stati più poveri di questo paese. Gli anziani ed i disabili che vorrebbero rimanere a casa sono costretti a entrare nelle case di cura. Deve dire alla gente del West Virginia perché non vuole espandere Medicare per coprire le cure dentali, dell’udito e degli occhi”.

Ha aggiunto: “Speravo di avere almeno 50 Democratici a bordo che avessero il coraggio di stare dalla parte delle famiglie lavoratrici e di sfidare i lobbisti ed i potenti interessi speciali. Nessun Repubblicano, non un solo Repubblicano nel Senato degli Stati Uniti o alla Camera per quella materia, è pronto a resistere alle aziende farmaceutiche, alle compagnie di assicurazione o ai ricchi. Speravo di avere 50 Democratici. Se questo è il caso, allora spero che porteremo una legge forte al piano del Senato il più presto possibile e lasceremo che il signor Manchin spieghi alla gente del West Virginia perché non ha il coraggio di opporsi ai potenti interessi speciali”.



Gli Americani continuano a fuggire dagli stati governati dai Democratici

Chuck DeVore
10 gennaio 2022

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Il vicepresidente della Texas Public Policy Foundation, Chuck Devore, discute il motivo per cui la gente si stia trasferendo negli stati repubblicani come il Texas e la Florida.

Possiamo finalmente dirlo senza temere smentita: i rifugiati che scappano dalla California rafforzano le file dei Repubblicani in Texas. Il nostro amico Chuck DeVore, vicepresidente della Texas Public Policy Foundation, in una recente intervista a Fox News ha sottolineato come la migrazione interna dalla California verso Texas stia in realtà aiutando i candidati del Partito Repubblicano a farsi eleggere.

“Le motivazioni di questa migrazione, in corso da più di vent’anni, sono note: la tassazione e le regolamentazioni sono la causa principale. Ma dalla crisi del COVID-19 in poi c’è un nuovo fenomeno: sempre meno persone si stanno trasferendo in California. Una riduzione del 38% causata principalmente dalle draconiane misure anti-COVID che non stanno portando alcun beneficio alla popolazione nel ridurre la diffusione del virus stesso.”

Il conduttore di Fox & Friends ha chiesto se queste migrazioni interne preoccupassero molto i residenti locali, soprattutto per il timore che i nuovi arrivati continuassero a votare per le stesse politiche dalle quali erano stati costretti a fuggire. “Il Texas diventerà la nuova California” insomma?

“Una domanda molto interessante, è un tema che trattiamo molto alla Texas Public Policy Foundation (TPPF), ci sono diversi sondaggi a disposizione, ad esempio per la corsa al senato del 2018 tra Ted Cruz e Beto O’ Rurke, la CNN ha pubblicato un exit poll, che ha spiegato come tra gli elettori nati in Texas il vantaggio di Beto fosse di circa di 3 punti percentuali, mentre per quanto riguardava gli elettori che si erano trasferiti in Texas, Ted Cruz ha invece ottenuto un vantaggio di 15 punti percentuali. Anche secondo i nostri sondaggi interni alla TPPF i nuovi arrivati dagli altri stati dell’Unione hanno tendenze maggiormente conservatrici rispetto ai residenti storici dello Stato del Texas, specialmente quelli provenienti dalla regione delle Montagne Rocciose (ovvero New Mexico, Utah, Colorado, Wyoming ed Idaho). Gli immigrati che si situano politicamente più a Sinistra sono da annoverarsi tra gli arrivi internazionali, principalmente dall’America Latina e dall’Asia.”

Guarda il video dell’intervista su Fox News (clicca qui)

Per maggiori informazioni riguardo al sondaggio della CNN menzionato da Chuck DeVore nell’intervista (clicca qui per leggere un approfondimento di The Hill e clicca qui per consultare i dati).

La grafica di riferimento del sondaggio della CNN la trovate qui sotto: Il 58% dei rispondenti al sondaggio era nato in Texas ed aveva votato nel 2018 con il 51% per Beto O’ Rurke e con il 48% per Ted Cruz, mentre il 42% dei rispondenti che si era invece trasferito negli ultimi anni in Texas aveva votato al 57% per Ted Cruz e al 42% per Beto O’ Rurke.

Chuck DeVore è un politico statunitense che ha servito come membro repubblicano della California State Assembly dal 2004 al 2010 rappresentando il 70° distretto, che comprende porzioni della Orange County. DeVore è stato vicepresidente della commissione per le entrate e le tasse dell’Assemblea californiana e vicepresidente della commissione per gli affari dei veterani. Ha anche fatto parte del Comitato per il bilancio ed è stato membro del Comitato congiunto sulla verifica legislativa. Dopo aver perso nel 2010 la candidatura repubblicana per il Senato degli Stati Uniti, nel 2011 DeVore si è trasferito in Texas per lavorare per la Texas Public Policy Foundation, dove ora è vicepresidente delle iniziative nazionali.




L’agenda legislativa di Joe Biden, cioè l’agenda dei liberal-progressisti, è morta!
Byron York’s Daily Memo
11 febbraio 2022

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Quello che rimane dell’agenda di e Joe Biden è morto in silenzio, domenica 6 febbraio, a malapena notato dai media ossessionati dall’Ucraina, da Joe Rogan e dal perché Stacey Abrams non abbia indossato una mascherina in una foto diventata virale su Twitter.

Il momento preciso della morte è arrivato alle 9:13 a.m. EST, quando il senatore democratico Joe Manchin è apparso nel programma State of the Union della CNN. Il conduttore Jake Tapper ha chiesto notizie riguardo al Build Back Better Act, il massiccio programma di spesa spesso indicato come il “fulcro” dell’agenda Biden, che si è arenato al Senato alla fine dello scorso anno dopo che lo stesso Manchin si era rifiutato di approvarlo. (Anche la collega democratica senatrice Kyrsten Sinema aveva posto delle riserve).

“Build Back Better – è morto?” ha chiesto Tapper. “C’è qualche possibilità che ritorni con il suo sostegno?

“Beh, il Build Back Better, come è stato presentato negli ultimi sette, otto, nove mesi – quel disegno di legge non esisterà più, Ok?” ha risposto Joe Manchin. Per un momento, Manchin ha lasciato la porta aperta alla possibilità di considerare “pezzi” della legislazione, ma poi ha dato il colpo di grazia: “I Democratici non possono far approvare la legge passando per il Senato“, ha detto Manchin, eliminando gli ostacoli per accorciare il processo di approvazione della commissione ed impedire ai Repubblicani di prendervi parte.

“La mia più grande preoccupazione, e la mia più grande opposizione – è che il disegno di legge non è passato attraverso questo processo”, ha detto Manchin. I Repubblicani “dovrebbero avere almeno l’opportunità di dare il loro contributo. Avrebbe dovuto passare attraverso il comitato. Questi sono cambiamenti importanti. Cambierà la società per come la conosciamo. E per questi cambiamenti, ci dovrebbe essere almeno un’udienza. Ci dovrebbe essere una revisione. E poi avremo un prodotto migliore, sia che i vostri amici dall’altra parte lo votino o meno. Ma devono poter dare il loro contributo”.

Questo è tutto. I Democratici non controllano la maggioranza dei seggi al Senato. L’unico maniera in cui speravano di ottenere il Build Back Better attraverso un Senato 50 a 50 era quella di bypassare quello che viene chiamato “regular order” e spingerlo avanti senza alcun diritto di replica da parte dei Repubblicani. Ma una volta che Joe Manchin non ha accettato di prendere parte a questo gioco, il destino del Build Back Better Act è stato segnato.

Il Regular Order nel contesto del Congresso degli Stati Uniti si riferisce all’applicazione semi-rigida o rigorosa delle procedure di deliberazione nelle commissioni parlamentari o nelle sottocommissioni, comprese le opportunità di tenere udienze col pubblico e/o lo svolgimento di votazioni plurime. Tali processi sono progettati per promuovere delle forme di decisione basate sul consenso più largo possibile, in particolare in termini di promozione del compromesso con i punti di vista della minoranza parlamentare. Questa procedura ordinaria può però essere in qualche modo aggirata organizzando delle task-force che la leadership della maggioranza gestisce direttamente, tentando di ridurre la capacità di proporre emendamenti da parte dell’opposizione e/o accorciando la durata della discussione di un provvedimento.

È difficile ingigantire le già enormi ambizioni che i Democratici riponevano in questa legislazione. Sì, avevano già approvato una legge da 1,9 trilioni di dollari per i “ristori-COVID” che finanziava molto di più dei semplici ristori. E Sì, avevano già approvato una legge “bipartisan” sulle infrastrutture da 1,2 miliardi di dollari che finanziava sia le solite cose come le strade e i ponti ma che estendeva anche la definizione tradizionale di cosa sia una “infrastruttura”.

Ma Build Back Better avrebbe realizzato i sogni progressisti che avevano animato molti attivisti Democratici durante la campagna presidenziale del 2020. Un’analisi del New York Times dello scorso settembre aveva detto che la legge avrebbe toccato “praticamente la vita di ogni singolo americano, dal concepimento fino all’infermità avanzata“. Ed in effetti, avrebbe fatto proprio questo, attraverso l’espansione di Medicaid, il congedo medico e familiare retribuito, dei sussidi per l’assistenza all’infanzia, per il c.d. pre-K (il programma per la scuola materna, n.d.r.) universale, l’alimentazione scolastica, i college comunitari gratuiti e garantito, l’espansione dei crediti d’imposta per i figli, le misure climatiche, la formazione dei lavoratori, l’espansione di Medicare con inclusa la copertura assicurativa per andare dal dentista, dall’otorino e anche dall’oculista, l’assistenza sanitaria a domicilio ed altro ancora – tutto finanziato con tasse più alte e/o con il ricorso all’indebitamento dello Stato.

La legge, amavano dire i Democratici, sarebbe stata “trasformativa“. Ma di nuovo: I Democratici non controllano la maggioranza dei seggi al Senato. Con l’opposizione dei Repubblicani, uniti, hanno proposto di farla approvare attraverso ogni sorta di manovra pur di spingere Build Back Better attraverso il Senato senza un ampio sostegno bipartisan. Ma, alla fine, Joe Manchin ed altri hanno messo in dubbio che gli elettori volessero veramente così tanto che le loro vite venissero “trasformate” attraverso una serie di giochi parlamentari.

Così il progetto di legge si è arenato a dicembre. Dopo il suo crollo, il 20 dicembre, il leader della maggioranza Chuck Schumer ha scritto una rabbiosa lettera al “caro collega” in cui incolpava Joe Manchin per la situazione e in cui giurava di costringere ogni senatore a votare, “in ogni sua parte”, la legge all’inizio del 2022.

“I senatori dovrebbero essere consapevoli che il Senato prenderà in considerazione il Build Back Better Act, molto presto, già nel nuovo anno, in modo che ogni membro di questa Camera abbia l’opportunità di rendere nota la propria posizione nell’aula del Senato, non solo in televisione”, aveva scritto Chuck Schumer, in un chiaro riferimento alla passione di Joe Manchin per le telecamere. “Continueremo a votare finché non otterremo qualcosa“.

Sembrava dura, ma alla fine pure Chuck Schumer ha fatto marcia indietro. Il nuovo anno è arrivato, e se ne sta già andando senza un voto del Senato sul Build Back Better Act. Non c’è ancora stato, né ci sarà nelle settimane e nei mesi a venire. Quando questo è diventato dolorosamente chiaro, Chuck Schumer ha rivolto la sua attenzione al tentativo di usare di nuovo le manovre parlamentari per far approvare una legge proposta dai Democratici sulle procedure di voto ed ha fallito anche in quello. Il motivo: mi dispiace essere un disco rotto, ma i Democratici non controllano la maggioranza dei seggi al Senato.

Poi è arrivata la dichiarazione di Joe Manchin. Build Back Better è finito, e con esso il “pezzo forte” dell’agenda di Biden.

Ora, questo è un anno di elezioni, e Joe Biden ha deciso di viaggiare per il paese cercando di convincere la gente che ha già fatto grandi cose per loro. “Uscirò più spesso da questo posto”, ha detto Biden nella sua conferenza stampa del 19 gennaio, riferendosi alla Casa Bianca e a Washington. “Ho intenzione di uscire e di parlare con il pubblico. Farò degli incontri pubblici. Mi interfaccerò con loro. Farò il punto su quello che abbiamo già fatto, sul perché è importante, e su quello che faremo se – cosa succederà se sosterranno quello che voglio fare”.

Quando un politico, ostacolato dal Congresso, dice che si rivolgerà al pubblico ed enfatizzerà ciò che ha realizzato, questo è un buon segno che non farà più nulla. E naturalmente, se i Democratici perderanno il controllo sia della Camera che del Senato a novembre, non ci sarà più alcuna agenda legislativa di Biden. Potrà fare dei progressi solo qualora i Democratici siano disposti a lavorare con i Repubblicani, ma non altrimenti. Per andare da solo, i Democratici dovranno mantenere la loro maggioranza alla Camera e vincere effettivamente la maggioranza dei seggi al Senato.

Ma questo dipende dal futuro. Ora, per un breve momento, Joe Manchin ha emesso la dichiarazione di morte su ciò che resta dell’agenda di Biden. C’erano sogni audaci e progressisti. C’erano promesse di azione. C’erano speranze di “trasformazione”. E ora sono morti, morti, morti.



La recessione di Joe Biden

Byron York’s Daily Memo
1 agosto 2022

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Il Dipartimento del Commercio ha recentemente annunciato che l’economia si è contratta dello 0,9% nel secondo trimestre del 2022. Ciò avviene dopo che lo scorso aprile era stata annunciata una contrazione dell’economia dell’1,6% nel primo trimestre di quest’anno. Ora, gli Stati Uniti hanno registrato due trimestri consecutivi di crescita economica negativa, che è la definizione comunemente accettata per indicare che ci si trova in recessione. Quindi è ufficiale: Gli Stati Uniti sono in recessione.

Ma… non è ufficiale. Negando gli standard adottati da lungo tempo, l’amministrazione Biden non vuole ammettere che l’economia è in recessione. Per giorni prima dell’annuncio del Dipartimento del Commercio, gli alti funzionari dell’amministrazione hanno sostenuto che “due trimestri di crescita negativa non equivalgono necessariamente ad una recessione” e che in questo caso, sebbene una situazione del genere sia estremamente rara, l’economia abbia sperimentato effettivamente due trimestri di “contrazione” ma non è assolutamnete in recessione.

Gli alleati e i sostenitori dell’amministrazione stanno accettando questa argomentazione. “Alcuni media liberal stanno iniziando ad allinearsi con la tesi dell’amministrazione Biden di ridefinire il concetto di recessione“, ha riferito Fox News la scorsa settimana. “C’è stata una forte spinta da parte della Casa Bianca a dichiarare preventivamente che, anche se l’economia degli Stati Uniti si è ridotta per due trimestri consecutivi, ciò non significhi necessariamente che l’economia si trovi in recessione”. Per citare un esempio, la sera prima della pubblicazione del rapporto, POLITICO ha descritto i dati governativi in arrivo come “la prima lettura, forse imprecisa e sicuramente da rivedere, della performance economica degli Stati Uniti nel secondo trimestre di questo anno economico profondamente strano”.

Ma perché Joe Biden e i suoi collaboratori si sono spinti a tanto avanti pur di negare che gli Stati Uniti si trovino in recessione? Forse il posto migliore per cercare una risposta è la media dei sondaggi di RealClearPolitics.

L’indice di gradimento di Biden si attesta ora attorno al 37% nella media di RealClearPolitics. Ricordate quando l’indice di gradimento di Biden sembrava bloccato nella parte bassa dei 40? È rimasto lì per circa sei mesi, ma verso maggio di quest’anno, i numeri sono scesi al di sotto della barriera del 40% ed ora sembrano avvicinarsi alla zona mediana del 30%. Secondo il sito di analisi FiveThirtyEight, questo è “il peggior dato di qualsiasi presidente eletto a questo punto della sua presidenza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale“.

Perché Biden è sceso così in basso? Soprattutto per l’economia. Un numero enorme di persone ritiene che il Paese stia andando nella direzione sbagliata e la maggior parte cita l’economia come la ragione per cui le cose sono andate male. Sempre da FiveThirtyEight: “Molti fattori stanno guidando questo sentimento generale di insoddisfazione tra gli americani, ma l’inflazione è probabilmente la ragione più grande. L’inflazione, che è al punto più alto dall’inizio degli anni ’80, è sempre stata al primo posto tra i problemi che preoccupano gli americani. […] Nell’ultimo sondaggio FiveThirtyEight/Ipsos, il 62% degli americani ci ha detto come l’inflazione, o l’aumento dei prezzi, sia uno dei problemi più importanti per il Paese, molto più di qualsiasi altro argomento che abbiamo chiesto”.

Le cose vanno male ora, ma potrebbero sempre peggiorare. Ed è per questo che la Casa Bianca ha mostrato puro terrore di fronte alla prospettiva di una recessione che si aggiunge all’inflazione.

Riuscite ad immaginare cosa accadrà ora all’indice di gradimento di Biden se gli elettori dovessero incolparlo anche di aver fatto precipitare la nazione in recessione, oltre che di aver fatto aumentare i prezzi? Quando i sondaggisti chiedono di Biden, la sua gestione dell’economia è già la più bassa tra le varie misure della performance lavorativa. Per esempio, nell’ultimo sondaggio della Quinnipiac University, solo il 28% degli intervistati approva il modo in cui Biden sta gestendo l’economia, contro il 65% che lo disapprova. Un 28 a 65 è una notizia piuttosto brutta se si è seduti nello Studio Ovale.

Così la Casa Bianca ha semplicemente reagito ad una notizia ancora più negativa. “Anche se il numero [della crescita del PIL] è negativo, non siamo in recessione“, ha detto il Segretario al Tesoro Janet Yellen a Meet the Press. “E vorrei, insomma, avvertire che non dovremmo definirla una recessione”.

La Casa Bianca continuerà quindi a sostenere che l’economia odierna abbia qualcosa di unico per cui la misura tradizionale dei due trimestri consecutivi di crescita negativa non si applica più alla definizione di recessione.

Se ciò fosse vero, sarebbe la prima volta in 75 anni. “È raro che si verifichino due trimestri consecutivi di PIL negativo senza che si verifichi una recessione”, ha osservato recentemente il Washington Post. “Infatti, la professoressa Tara Sinclair della George Washington University ha dichiarato che l’unica volta che sia mai stata registrata sembra essere stata nel 1947″.

È una tesi piuttosto debole, ma è tutto ciò che ha in mano la Casa Bianca. “Non siamo in recessione”, ha detto Joe Biden. “Il tasso di occupazione è ancora uno dei più bassi della storia, al 3,6%. Ci troviamo ancora con persone che investono. La mia speranza è che si passi da una crescita rapida a una crescita costante. E quindi vedremo una certa riduzione. Ma non credo che arriveremo – se Dio vuole – non credo che assisteremo ad una recessione”.

I cittadini americani dovrebbero sperare che Joe Biden abbia ragione. Ma tutti temono che si sbagli.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

Messaggioda Berto » lun nov 29, 2021 10:37 pm

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Messaggioda Berto » lun nov 29, 2021 10:37 pm

17)
Biden e il clima




G20 E CLIMA
I commentatori dei vari TG ne danno notizia con aria mesta: pare che il G20 si concluderà con un sostanziale nulla di fatto in tema di clima.
Giovanni Bernardini
31 ottobre 2021

https://www.facebook.com/giovanni.berna ... 8017427402

La cosa francamente non mi stupisce. Certo, è probabile che alla fine dopo lunghe e faticose discussioni i “grandi della terra” partoriscano un documento ricco di improbabili promesse ma privo di impegni concreti, vincolanti e verificabili. Se poi consideriamo che gli impegni “concreti e vincolanti” che si prendono in riunioni faraoniche e costosissime coi il G20 nove volte su dieci restano sulla carta è fin troppo facile concludere che in realtà sul tema del clima nessun obiettivo sarà raggiunto.
Perché dovrebbe essere diversamente? I “grandi della terra” avranno anche la testa piena di ideologia, ma non sono completamente stupidi. Alle farneticazioni di Greta Thunberg possono credere sul serio personaggi come Letta e Bersani, Grillo e Di Battista, chi ha un minimo, solo un minimo, di sale in zucca sa benissimo che se DAVVERO si azzerassero le emissioni di CO2 entro il 2030, per di più senza un deciso impegno sul nucleare, ci sarebbero centinaia di milioni di disoccupati, crisi economie, fame, moltissimi morti, probabilmente rivolte, insomma, la catastrofe, ma non quella annunciata dalla piccola Greta. Una catastrofe vera, non il grazioso oggetto di film, spot pubblicitari, talk show televisivi.
E così i “grandi”, fra una cena ed una foto di gruppo, parlano tanto di clima, fanno molte concessioni alla ideologia dominante, ma di impegni concreti ne prendono pochi.
E solo i malati di ideologia possono dolersene.


Il fallimento del cop26 (e di Greta)
Riccardo Pelliccetti
6 novembre 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1636183165

Ebbene sì, questa volta hanno ragione i giovani, almeno in parte. «Questa non è più una conferenza sul clima, è un festival del greenwashing per i Paesi ricchi», ha denunciato la pasionaria Greta Thunberg, usando un termine azzeccato, cioè lavarsi la coscienza col verde. Come darle torto. D'altronde, al Cop26 di Glasgow c'è stato un grande bla bla, ma pochi fatti concreti. Qualcosa si muove, inutile negarlo, ma appare poco rispetto all'emergenza che il pianeta si trova ad affrontare. Per uno degli obiettivi più qualificanti («consegnare il carbone alla storia») non è stato raggiunto un accordo globale. Al summit scozzese sul clima sono stati circa 40 i Paesi che hanno preso questo storico impegno ma, ahinoi, i principali utilizzatori di combustibili fossili, cioè Cina e Stati Uniti (ma anche India, Russia e Australia) si sono chiamati fuori. I toni entusiasti del ministro britannico per gli Affari e l'Energia, Kwasi Kwarteng, («la fine del carbone è in vista») non hanno un riscontro concreto, se non in piccola parte. L'obiettivo del tetto di 1,5 gradi di riscaldamento globale non è di fatto raggiungibile se i maggiori Paesi inquinatori non firmeranno l'accordo. Come pure le zero emissioni entro il 2050.

D'accordo, piccoli passi, come è stato anche per la deforestazione. Non si può pretendere che il mondo cambi da un giorno all'altro, ma almeno l'impegno a farlo in tempi ragionevoli sarebbe già qualcosa. Ma anche il vertice scozzese è stato un fallimento, inutile nascondersi. E, ieri, nella giornata dedicata ai giovani, sono stati proprio loro a urlare la propria insoddisfazione. A Glasgow sono infatti scesi in piazza, come fanno ogni venerdì in ogni parte del mondo, giorno dedicato al consueto sciopero del clima di Fridays for Future. L'invocata «giustizia climatica» e le accuse ai governi mondiali, però, non risolvono il problema. E, manifestare ogni settimana, se da un lato tiene desta l'attenzione sul tema, dall'altro non pare che produca effetti tangibili. D'altra parte, sono molti i Paesi che si sono dati una mossa, la consapevolezza dell'emergenza è concreta, ma non è pensabile azzerare le economie, con relative ricadute su occupazione e Pil, in tempi brevi. La transizione ecologica è ai primi passi e serve anche una svolta culturale. A Glasgow, il ministro Roberto Cingolani ha lanciato la proposta di cominciare dalla scuola. Non è una cattiva idea. Un programma pilota per educare e aggiornare gli insegnanti perché, ha detto, «non c'è una preparazione sufficiente ad affrontare le questioni legate alla transizione ecologica e ai cambiamenti climatici». Un altro piccolo passo.


Tutti da verificare gli impegni presi da Washington e Pechino. Guterres: "Aumento temperatura entro 1,5 gradi? Impossibile"
La fragile intesa sul clima tra Cina e Usa. Allarme dell'Onu: "Siamo in fin di vita"
Diana Alfieri
12 Novembre 2021 - 06:00

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1636720941

Non contiene grandi promesse di iniziative l'intesa raggiunta in extremis tra Pechino e Washington alla Cop 26 di Glasgow per contrastare il cambiamento climatico, ma dimostra che i due Paesi «possono lavorare insieme sulle grandi questioni internazionali e raggiungere grandi cose». Nonostante l'entusiasmo del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, sulla possibilità che «Cina e Stati Uniti possano cooperare su questioni di rilevanza globale», il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres non vede una chiusura positiva per i lavori della Conferenza mondiale sul clima e ritiene «in fin di vita» l'obiettivo di mantenere l'aumento medio della temperatura del pianeta entro gli 1,5 gradi. Gli States e la Cina hanno annunciato il raddoppio degli sforzi congiunti per abbattere i gas serra, invocando una «azione climatica più forte» sulle linee guida di Parigi, ma per Guterres i negoziati che si concludono oggi in Scozia «molto probabilmente» non produrranno gli impegni di riduzione del carbonio necessari per impedire al pianeta di riscaldarsi oltre la soglia stabilita. È comunque stato fatto un passo importante in nome della «cooperazione» tra i due Paesi. E c'è già in programma un vertice virtuale, il 15 novembre, tra Joe Biden e Xi Jinping, dove il presidente Usa e quello cinese affronteranno anche le questioni climatiche.

«Il tempo sta finendo», sostiene il vice presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, nella conferenza stampa della delegazione Ue. Concetto ribadito dal Papa: «Il tempo sta per scadere - dice il Pontefice - Gli impegni presi sono promettenti ma non si sprechi l'occasione». Per Timmermans la direzione intrapresa è quella giusta, ma il mondo è ancora troppo lontano dall'obiettivo degli 1,5 gradi nonostante «la vasta maggioranza dei Paesi sostenga quel traguardo». La prima bozza di accordo diffusa dall'Onu è stata dichiarata inadeguata da molti e ieri, a 24 ore dalla chiusura del vertice, erano ancora in corso negoziati per arrivare ad un accordo e per convincere i Paesi partecipanti a rafforzare gli impegni. Benché il segretario generale delle Nazioni Unite consideri incoraggianti gli annunci fatti a Glasgow su foreste, metano, tecnologia pulita, non li ritiene comunque sufficienti. «Le promesse - dice Guterres - suonano vane quando l'industria dei combustibili fossili riceve ancora trilioni di sussidi».

Per quanto riguarda l'Italia, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha annunciato l'adesione all'alleanza Boga (Beyond oil and gas alliance) per la graduale eliminazione di petrolio e gas. «L'Italia è avanti e abbiamo le idee chiare: grande piano per le rinnovabili con 70mld di watt per i prossimi 9 anni per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita», ha detto il ministro.



Usa, sì di Biden alle trivelle: maxi asta per il golfo del Messico dopo la Cop26
4-5 minuti

17 novembre 2021Sono trascorsi pochissimi giorni dalla fine della Cop26 a Glasgow in cui Joe Biden aveva promesso che gli Usa "guideranno con l'esempio" la lotta contro i cambiamenti climatici. Un periodo sufficiente, però, all'amministrazione Usa per fare un'inversione di rotta e lanciare un'asta record di licenze per le trivellazioni di gas e petrolio nel golfo del Messico, area già devastata da ripetute perdite di greggio.

Si tratta di un'area di circa 352 mila kmq, estesa quanto due volte la Florida, con riserve stimate sino a 1,1 miliardi di barili di greggio e 4,2 tonnellate cubiche di metano.

Uno schiaffo agli ambientalisti, che questa volta denunciano l'ipocrita tradimento degli impegni presi dal presidente americano davanti al mondo, oltre che nel suo paese.

Mai più sussidi
In campagna elettorale Biden aveva attaccato Big Oil promettendo che con lui alla Casa Bianca non ci sarebbero stati più sussidi per l'industria dell'energia fossile né trivellazioni nelle acque e nelle terre federali. L'asta, la più grande vendita singola dal 2017, mina ora la credibilità green del presidente e renderà più difficile evitare i catastrofici impatti delle emissioni globali.

Delusione green
"Capitando all'indomani del summit sul clima è solamente sconcertante. Difficile immaginare una cosa più ipocrita e pericolosa da fare per questa amministrazione", accusa Kristen Monsell, avvocato del Center for Biological Diversity. "Un'enorme bomba climatica", rincara Earthjustice, uno dei gruppi ecologisti che ha presentato ricorso, affermando che manca un'adeguata valutazione di impatto ambientale.

Altri detrattori sostengono che il governo Biden abbia dispensato permessi di trivellazione ad un ritmo di oltre 300 al giorno dalla sua inaugurazione, superiore a quello della presidenza Trump. La scorsa settimana l'amministrazione ha proposto un altro round di aste nel 2022 in Montana, Wyoming, Colorado e altri stati dell'ovest.

Critiche e delusioni anche nel partito di Biden
"Questa amministrazione è andata in Scozia e ha detto al mondo che la leadership dell'America sul clima è tornata, e ora consegna migliaia di kmq di acque pubbliche del golfo del Messico alle compagnie petrolifere", lamenta Raul Grijalva, presidente (Dem) della Commissione della Camera sulle risorse naturali. "Quest'asta è un passo nella direzione sbagliata", aggiunge.

La difesa di Biden
Il governo Biden si difende spiegando di essere stato costretto a bandire l'asta dopo che un giudice federale, accogliendo il ricorso di una decina di stati repubblicani, ha bocciato la moratoria delle vendite di licenze decretata dal presidente in attesa di una revisione complessiva. Ma esperti legali come Max Sarinsky, senior attorney alla New York University School of Law, affermano che la decisione della corte, di per sé, non impedisce all'amministrazione di fermare o ritardare l'asta o di ridimensionarla, pur rischiando altri ricorsi.

Fioccano le richieste
Finora sono arrivare offerte su 307 lotti per un totale di quasi 7000 kmq. occorreranno anni alle major petrolifere per sviluppare i giacimenti e cominciare a pompare il petrolio, probabilmente dopo il 2030. Proprio quando il mondo dovrebbe essere sulla strada di tagliare ulteriormente le emissioni dei gas serra per evitare la catastrofe climatica.



Tutti da verificare gli impegni presi da Washington e Pechino. Guterres: "Aumento temperatura entro 1,5 gradi? Impossibile"
La fragile intesa sul clima tra Cina e Usa. Allarme dell'Onu: "Siamo in fin di vita"
Diana Alfieri
12 Novembre 2021 - 06:00

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1636720941

Non contiene grandi promesse di iniziative l'intesa raggiunta in extremis tra Pechino e Washington alla Cop 26 di Glasgow per contrastare il cambiamento climatico, ma dimostra che i due Paesi «possono lavorare insieme sulle grandi questioni internazionali e raggiungere grandi cose». Nonostante l'entusiasmo del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, sulla possibilità che «Cina e Stati Uniti possano cooperare su questioni di rilevanza globale», il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres non vede una chiusura positiva per i lavori della Conferenza mondiale sul clima e ritiene «in fin di vita» l'obiettivo di mantenere l'aumento medio della temperatura del pianeta entro gli 1,5 gradi. Gli States e la Cina hanno annunciato il raddoppio degli sforzi congiunti per abbattere i gas serra, invocando una «azione climatica più forte» sulle linee guida di Parigi, ma per Guterres i negoziati che si concludono oggi in Scozia «molto probabilmente» non produrranno gli impegni di riduzione del carbonio necessari per impedire al pianeta di riscaldarsi oltre la soglia stabilita. È comunque stato fatto un passo importante in nome della «cooperazione» tra i due Paesi. E c'è già in programma un vertice virtuale, il 15 novembre, tra Joe Biden e Xi Jinping, dove il presidente Usa e quello cinese affronteranno anche le questioni climatiche.

«Il tempo sta finendo», sostiene il vice presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, nella conferenza stampa della delegazione Ue. Concetto ribadito dal Papa: «Il tempo sta per scadere - dice il Pontefice - Gli impegni presi sono promettenti ma non si sprechi l'occasione». Per Timmermans la direzione intrapresa è quella giusta, ma il mondo è ancora troppo lontano dall'obiettivo degli 1,5 gradi nonostante «la vasta maggioranza dei Paesi sostenga quel traguardo». La prima bozza di accordo diffusa dall'Onu è stata dichiarata inadeguata da molti e ieri, a 24 ore dalla chiusura del vertice, erano ancora in corso negoziati per arrivare ad un accordo e per convincere i Paesi partecipanti a rafforzare gli impegni. Benché il segretario generale delle Nazioni Unite consideri incoraggianti gli annunci fatti a Glasgow su foreste, metano, tecnologia pulita, non li ritiene comunque sufficienti. «Le promesse - dice Guterres - suonano vane quando l'industria dei combustibili fossili riceve ancora trilioni di sussidi».

Per quanto riguarda l'Italia, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha annunciato l'adesione all'alleanza Boga (Beyond oil and gas alliance) per la graduale eliminazione di petrolio e gas. «L'Italia è avanti e abbiamo le idee chiare: grande piano per le rinnovabili con 70mld di watt per i prossimi 9 anni per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita», ha detto il ministro.



Usa, sì di Biden alle trivelle: maxi asta per il golfo del Messico dopo la Cop26
17 novembre 2021

https://www.rainews.it/dl/rainews/artic ... 15aa6.html

Sono trascorsi pochissimi giorni dalla fine della Cop26 a Glasgow in cui Joe Biden aveva promesso che gli Usa "guideranno con l'esempio" la lotta contro i cambiamenti climatici. Un periodo sufficiente, però, all'amministrazione Usa per fare un'inversione di rotta e lanciare un'asta record di licenze per le trivellazioni di gas e petrolio nel golfo del Messico, area già devastata da ripetute perdite di greggio.

Si tratta di un'area di circa 352 mila kmq, estesa quanto due volte la Florida, con riserve stimate sino a 1,1 miliardi di barili di greggio e 4,2 miliardi di tonnellate cubiche di metano.

Uno schiaffo agli ambientalisti, che questa volta denunciano l'ipocrita tradimento degli impegni presi dal presidente americano davanti al mondo, oltre che nel suo paese.

Mai più sussidi
In campagna elettorale Biden aveva attaccato Big Oil promettendo che con lui alla Casa Bianca non ci sarebbero stati più sussidi per l'industria dell'energia fossile né trivellazioni nelle acque e nelle terre federali. L'asta, la più grande vendita singola dal 2017, mina ora la credibilità green del presidente e renderà più difficile evitare i catastrofici impatti delle emissioni globali.

Delusione green
"Capitando all'indomani del summit sul clima è solamente sconcertante. Difficile immaginare una cosa più ipocrita e pericolosa da fare per questa amministrazione", accusa Kristen Monsell, avvocato del Center for Biological Diversity. "Un'enorme bomba climatica", rincara Earthjustice, uno dei gruppi ecologisti che ha presentato ricorso, affermando che manca un'adeguata valutazione di impatto ambientale.

Altri detrattori sostengono che il governo Biden abbia dispensato permessi di trivellazione ad un ritmo di oltre 300 al giorno dalla sua inaugurazione, superiore a quello della presidenza Trump. La scorsa settimana l'amministrazione ha proposto un altro round di aste nel 2022 in Montana, Wyoming, Colorado e altri stati dell'ovest.

Critiche e delusioni anche nel partito di Biden
"Questa amministrazione è andata in Scozia e ha detto al mondo che la leadership dell'America sul clima è tornata, e ora consegna migliaia di kmq di acque pubbliche del golfo del Messico alle compagnie petrolifere", lamenta Raul Grijalva, presidente (Dem) della Commissione della Camera sulle risorse naturali. "Quest'asta è un passo nella direzione sbagliata", aggiunge.

La difesa di Biden
Il governo Biden si difende spiegando di essere stato costretto a bandire l'asta dopo che un giudice federale, accogliendo il ricorso di una decina di stati repubblicani, ha bocciato la moratoria delle vendite di licenze decretata dal presidente in attesa di una revisione complessiva. Ma esperti legali come Max Sarinsky, senior attorney alla New York University School of Law, affermano che la decisione della corte, di per sé, non impedisce all'amministrazione di fermare o ritardare l'asta o di ridimensionarla, pur rischiando altri ricorsi.

Fioccano le richieste
Finora sono arrivare offerte su 307 lotti per un totale di quasi 7000 kmq. occorreranno anni alle major petrolifere per sviluppare i giacimenti e cominciare a pompare il petrolio, probabilmente dopo il 2030. Proprio quando il mondo dovrebbe essere sulla strada di tagliare ulteriormente le emissioni dei gas serra per evitare la catastrofe climatica.



Troppa Cina. E negli Usa si parla di stop all'auto elettrica
Guido Fontanelli
15 novembre 2021

https://www.panorama.it/economia/cina-a ... a-batterie

L'avanzata cinese nell'industria dell'auto elettrica è sempre più fonte di preoccupazione non solo tra i protagonisti del settore, ma anche a livello politico. Il rischio è che un'industria strategica come quella dell'automotive finisca, con il passaggio all'elettrico, sotto il controllo di un Paese verso il quale l'Occidente nutre un certo timore, per usare un eufemismo. Già in Europa assistiamo allo sbarco di case cinesi sotto le vesti di società europee acquisite, come Volvo o Mg, oppure usando marchi locali meno noti come Polestar, oppure ancora con brand totalmente cinesi come Byd o Nio. Ma accanto a questa ancora marginale presenza sul mercato, che fa leva su prezzi relativamente bassi e una buona tecnologia, c'è la sempre più evidente forza della Cina nella produzione di batterie e nel controllo delle materie prime necessarie per costruire gli accumulatori.

Una delle materie prime fondamentali per le batterie che usano le auto elettriche sono gli ioni di litio. "Le debolezze occidentali nelle catene di approvvigionamento degli ioni di litio rallenteranno l'adozione dei veicoli elettrici e dimostreranno il dominio della Cina sul mercato dei veicoli elettrici", avverte un rapporto di GlobalData, società di dati e analisi. Secondo questo rapporto, la produzione di vetture elettriche è destinata a salire a 12,76 milioni di auto all'anno entro il 2026, di cui oltre la metà proveniente dalla Cina. Daniel Clarke, analista di GlobalData, ha dichiarato al periodico americano Forbes che la Cina deteneva l'80,5% della capacità globale delle batterie agli ioni di litio nel 2020, e anche con i migliori sforzi degli Stati Uniti e dell'Unione europea, Pechino dominerà ancora il mercato con una quota del 61,4% nel 2026.

Il litio rappresenta circa il 7% del costo totale di una batteria che a sua volta è il componente più costoso dell'auto elettrica. A livello naturale il litio è relativamente abbondante e si trova in molti paesi. Attualmente ci sono grandi operatori industriali in Australia, Cile, Argentina, Bolivia, Cina, Brasile, Zimbabwe e Portogallo, che producono litio. Gli esperti però sostengono che ci sono dei colli di bottiglia nei processi di conversione necessari per produrre il litio utilizzabile. Gli impianti impiegano anni per raggiungere la piena produzione e questo, combinato con l'accelerazione della domanda, significa che le forniture rimarranno insufficienti e i prezzi alti.

Oltre al litio, nelle batterie servono anche grafite, manganese, nichel, cobalto. Nel 2018, le società cinesi possedevano metà delle più grandi miniere di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo, fonte della maggior parte della fornitura mondiale di quel metallo.

In un articolo uscito nei giorni scorsi sul New York Times, Steve LeVine, direttore di The Electric, pubblicazione specializzata su batterie e veicoli elettrici, ha ricordato che "nell'ultimo decennio, la Cina ha accumulato la maggior parte della capacità mondiale di elaborare i metalli che fanno funzionare le batterie agli ioni di litio, il cuore della rivoluzione dei veicoli elettrici. È questa capacità che mette la Cina al comando nella corsa per il futuro, mentre l'America rimane sempre più indietro".

LeVine sottolinea che in Cina le società sostenute dallo Stato si sono assicurate una fornitura affidabile dei metalli grezzi e degli elementi necessari per le produzione di batterie per veicoli elettrici. Solo negli ultimi tre anni e mezzo, le aziende cinesi sono state i maggiori acquirenti internazionali di risorse di litio. Secondo LeVine, la Cina possiede ora circa il 90% della capacità globale di elaborare il litio grezzo, circa il 70% del cobalto e il 40% del nichel. La Cina avrebbe anche quasi tutta la capacità di raffinazione del manganese e della grafite. "Gli Stati Uniti possono sperare di recuperare il ritardo?" si chiede LeVine. "Negli ultimi mesi, General Motors , Stellantis e Toyota hanno annunciato piani per costruire enormi fabbriche di batterie in Nord America. Ford ha affermato che, insieme al suo partner sudcoreano, entro il 2025 costruiranno tre impianti di batterie negli Stati Uniti con una capacità sufficiente per equipaggiare un milione di veicoli elettrici all'anno. Ma nessuno sembra sapere esattamente come controllerà la catena di approvvigionamento delle batterie e dove otterrà i materiali necessari, come il cobalto e il manganese".

Un allarme simile è stato lanciato da Ivan Glasenberg, amministratore delegato della società mineraria Glencore: in un'intervista al Financial Times riportata sul sito Energiaoltre ha dichiarato che le case automobilistiche occidentali sarebbero ingenue se pensassero di poter fare sempre affidamento sulla Cina per le forniture di batterie per i veicoli elettrici.

Al contrario, l'industria automobilistica in Europa e negli Stati Uniti rischia di restare indietro rispetto a quella cinese se non si garantirà forniture adeguate di cobalto. Glasenberg sostiene che le aziende cinesi abbiamo colto in fretta la vulnerabilità delle loro filiere e si siano per questo garantite l'accesso a grandi quantità di cobalto nella Repubblica democratica del Congo. "Le aziende occidentali non lo hanno fatto. O non credono che questo sia un problema, oppure pensano che riceveranno sicuramente le batterie dalla Cina", ha detto Glasenberg. "Ma che succede se questa cosa non dovesse accadere e i cinesi dicessero che non esporteranno batterie, ma veicoli elettrici?" Dunque investire nell'approvvigionamento di materie prime è "un'ottima idea" per le case automobilistiche. "Se guardi storicamente, Henry Ford lo fece. Vincolò la sua filiera, sia che si trattasse di piantagioni di gomma o di forniture di ferro in Brasile".

Per evitare che la Cina diventi padrona dell'auto del futuro le case occidentali devono premere l'acceleratore non solo sulla costruzione di fabbriche di batterie, la famose gigafactory, ma devono anche preoccuparsi di controllare l'intera catena di approvvigionamento. Oppure, e sarebbe forse questa la soluzione ideale, la scienza potrebbe mettere a punto batterie di nuova generazione, allo stato solido, che non facciano uso di quei materiali come cobalto o litio dove la Cina ha allungato le sue mani, e che aprano nuovi orizzonti di sviluppo meno impattanti sull'ambiente e sugli equilibri geopolitici. La corsa è iniziata da tempo e i risultati potrebbero arrivare molto presto. Incrociamo le dita.
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USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

Messaggioda Berto » lun nov 29, 2021 10:37 pm

La guerra di Biden all’energia ha reso nuovamente dipendente l’America
Tratto e tradotto da un articolo di Stephen Moore per Fox Business.
Fox News
29 gennaio 2022

https://osservatorerepubblicano.com/202 ... -lamerica/

Una volta, durante un incontro con l’allora candidato alla presidenza Donald Trump all’interno della Trump Tower sulla Fifth Avenue a New York, abbiamo discusso di politica energetica. Dissi a Trump che se ci fossimo dati da fare per produrre delle abbondanti riserve di petrolio, gas e carbone per l’America, gli Stati Uniti avrebbero potuto essere indipendenti dal punto di vista energetico in quattro anni.

Trump mi guardò da dietro la sua scrivania e scosse la testa: “Non voglio che l’America sia solo indipendente dal punto di vista energetico. Voglio che l’America sia dominante dal punto di vista energetico”.

Ci sono poche questioni in cui il presidente Donald Trump e Joe Biden abbiano differito più profondamente nelle proprie rispettive politiche come sulla produzione di energia.

Donald Trump è andato a tutta velocità sulla produzione di combustibili fossili. Ha eliminato le restrizioni alle trivellazioni, specialmente in stati come l’Alaska e sulle terre federali negli stati continentali. Ha dato il via libera ad oleodotti di vitale importanza. Ha bloccato nuovi regolamenti ambientali estremisti che avevano solamente lo scopo di soffocare le nostre forniture di petrolio e di gas. Ha riconosciuto la rivoluzione del petrolio e del gas di scisto come un’opportunità senza precedenti per ridurre la dipendenza dal petrolio straniero.

La politica energetica di Trump è stata una sorprendente storia di successo economico. Nel gennaio del 2021, esattamente un anno fa e l’ultimo mese di Trump in carica, per la prima volta da quasi 50 anni, gli Stati Uniti producevano più petrolio di quanto ne consumassero. Non eravamo più un importatore netto di petrolio dall’Arabia Saudita e dalle nazioni del cartello OPEC. Stavamo anche producendo più petrolio e gas dei russi e degli arabi.

Da quando Joe Biden è entrato in carica, un anno dopo, abbiamo visto un 4% di surplus di produzione interna di petrolio e gas scendere ad un 4% di deficit di petrolio e gas. Siamo passati dall’indipendenza energetica alla dipendenza energetica. Questo perché Biden ha dichiarato guerra all’energia americana.

Ha chiuso gli oleodotti ed ha invertito quasi tutte le politiche pro-trivellazioni di Trump. All’inizio di gennaio, Biden ha fermato le trivellazioni in centinaia di migliaia di siti petroliferi potenzialmente eccellenti in Alaska. È ossessionato dal cambiamento climatico, quindi ama l’energia eolica e solare e le auto elettriche che non consumano la benzina. Ma anche nelle ipotesi più ottimistiche, otterremo comunque la maggior parte della nostra energia elettrica, del carburante per i riscaldamenti e del carburante per i trasporti dai combustibili fossili per almeno i prossimi 25-30 anni.

L’unica domanda è se utilizzeremo i nostri combustibili fossili per tenere le luci accese e le auto in funzione da stati come Texas, Oklahoma, Nord Dakota, Wyoming, Pennsylvania, West Virginia e Ohio, oppure se li otterremo dagli arabi, dai russi, dagli iraniani e dai messicani. Dato che gli Stati Uniti hanno degli standard ambientali molto più severi di queste altre nazioni produttrici di petrolio, qualsiasi mossa per abbassare la produzione statunitense ed importare i combustibili dall’estero andrebbe ad aumentare le emissioni di gas serra. È una pessima politica economica, un pericolo per la nostra sicurezza nazionale e non è nemmeno “verde”.

Il costo economico dell’allontanamento dall’indipendenza energetica è già stimato in circa 1 miliardo di dollari di perdita di produzione economica ogni settimana e di circa 50 miliardi di dollari all’anno in meno.

La cosa peggiore di tutte (e una pietosa ed imbarazzante svolta degli eventi) ora che la produzione di petrolio è scesa a causa degli editti di Joe Biden, questo presidente va dai sauditi e dalle nazioni dell’OPEC e li prega di aumentare la loro produzione. È un occhio nero per l’America. Ci fa sembrare deboli, e ci ha reso più deboli.

I due maggiori vincitori della guerra di Biden all’energia americana sono stati il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin. Questi leader di nazioni che sono chiaramente nemiche degli Stati Uniti non possono credere alla loro fortuna di essersi trovati Joe Biden come presidente. Ha reso l’Europa occidentale e settentrionale dipendente da Putin per le forniture costanti di energia. Nel frattempo, in Cina, Xi dà una pacca sulla testa a Biden e promette che ridurrà i livelli di inquinamento cinese nel mentre costruisce decine di nuove centrali a carbone che bruciano carbone sporco, non pulito.

C’è qualcosa di tutto questo che abbia anche solo un briciolo di senso? Questa strategia mette l’America al primo posto? E a proposito, i numeri dell’indice dei prezzi al consumo sono appena stati rilasciati per il primo anno di mandato di Biden. I prezzi della benzina alla pompa sono aumentati del 52% in 12 mesi.

Grazie, Joe.



Dalla Corte Suprema un duro colpo all'agenda green di Biden
Dalla Corte Suprema arriva il terzo siluro in pochi giorni all’agenda liberal. Dopo armi e aborto, stavolta tocca all’agenda green trovare un autorevole ostacolo nei giudici costituzionali Usa.
Ad essere colpiti sono i superpoteri dell’Epa (Environmental Protection Agency – Agenzia per la protezione ambientale).
30 giugno 2022

https://www.nicolaporro.it/atlanticoquo ... -di-biden/

Limiti ai poteri del governo federale

Anche in questo caso, come già nella decisione di ribaltare la sentenza Roe vs Wade, la Corte non entra nel merito delle politiche, ma rimette i poteri del governo federale al proprio posto.

Dando ragione agli Stati repubblicani e alle compagnie di combustibili fossili, nella sentenza West Virginia vs. Epa, i giudici hanno stabilito 6 contro 3 che l’Epa ha oltrepassato la legislazione sulle emissioni di gas serra, quando nel 2015 ha cercato di limitare le emissioni delle centrali elettriche a carbone.

“Il Congresso non ha conferito all’Epa il potere di elaborare limiti di emissione”.

Un’agenzia federale non può andare oltre i poteri che le sono stati conferiti dal legislatore. Il potere esecutivo non può spingersi fino al punto di imporre da solo nuove normative ambientali.

Il pronunciamento riduce drasticamente l’autorità dell’Epa nel limitare le emissioni di gas serra. Un duro colpo all’agenda green dell’amministrazione Biden. In pratica, infatti, l’Agenzia non può approvare regolamenti così radicali da costringere alla “transizione” interi settori senza una ulteriore deliberazione del Congresso.

“Limitare le emissioni di anidride carbonica a un livello tale da costringere una transizione a livello nazionale dall’uso del carbone per generare elettricità potrebbe essere una ‘soluzione sensata alla crisi del giorno'”, afferma il presidente della Corte John Roberts nel suo parere di maggioranza. “Ma non è plausibile che il Congresso abbia concesso all’Epa l’autorità di adottare da sola un tale schema normativo nella sezione 111 (d). Una decisione di tale portata e conseguenza spetta al Congresso stesso o a un’agenzia che agisce in base ad una chiara delega di quell’organo rappresentativo”.


Stop alla transizione green

Dunque, il governo federale non può, tramite l’Epa, decidere quanta Co2 può essere emessa dalle centrali elettriche. L’autorità di decidere gli standard delle emissioni spetta solo al Congresso. Una sentenza che sia pure indirettamente impone uno stop al piano dell’amministrazione Biden di azzerare le emissioni entro il 2035 e dimezzarle entro un decennio.


La reazione della Casa Bianca

Non l’ha presa bene la Casa Bianca: “Si tratta di un’altra decisione devastante“, ha ammesso un portavoce, aggiungendo che la Corte “mira a far tornare indietro il nostro Paese”.


Il Clean Power Plan di Obama

Il caso nasce dal Clean Power Plan del 2015 dell’amministrazione Obama, che mirava a ridurre le emissioni delle centrali elettriche. Il piano fu bloccato dalla Corte Suprema già nel 2016, fu quindi sostituito dall’amministrazione Trump con il meno estremo Affordable Clean Energy (ACE), a suo volta fermato dai giudici della Corte d’appello del Distretto di Columbia.

Con l’insediamento di Biden, tuttavia, l’Epa aveva dichiarato di non voler ripristinare il Clean Power Plan, ma di voler sviluppare e attuare un proprio piano.

Oggi la Corte ha stabilito che la legge su cui questi piani governativi si basavano, il Clean Air Act, non conferisce all’Epa l’autorità di imporre alle centrali elettriche limiti alle emissioni tali da trasformare il settore, che devono essere fissati dal Congresso.
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USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

Messaggioda Berto » lun nov 29, 2021 10:38 pm

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Messaggioda Berto » mar gen 04, 2022 9:11 pm

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Messaggioda Berto » mar gen 04, 2022 9:11 pm

18)
Biden e la Russia



I servizi segreti Usa guidano la "distensione" con Mosca?
Autore Andrea Muratore
8 novembre 2021

https://it.insideover.com/politica/tele ... rlano.html

Il summit Biden-Putin del giugno scorso potrebbe aver prodotto un primo chiaro risultato distensivo nei rapporti tra Stati Uniti e Russia: la riapertura di una cooperazione di intelligence su dossier strategici di comune interesse e la ricostituzione del “telefono rosso” della Guerra Fredda. Non più tra il Cremlino, ove risiede lo “Zar”, e la Casa Bianca, dimora di Joe Biden, o meglio non solo: a parlarsi a viso aperto adesso sono gli apparati profondi. I custodi delle linee guida strategiche che negli ultimi dieci anni hanno teso inevitabilmente a portare Washington e Mosca a sfidarsi su diversi ambiti: dall’Ucraina alla Siria, dall’energia al cyber.

Dialogo tra apparati

Gli apparati vogliono continuare a sfidarsi ma capendo bene le linee rosse e gli spazi di cooperazione che si possono ritagliare negli ampi campi della rivalità bilaterale. E per questo motivo è da cerchiare in rosso il fatto che il direttore della Cia, William Burns, si sia recato a Mosca nella giornata di giovedì 2 novembre.

Burns ha guidato la quarta e più importante missione statunitense in Russia da luglio in avanti a circa un mese dall’incontro tra il capo dello stato maggiore congiunto statunitense, il generale Mark Milley, con il capo delle forze armate russe, Valery Gerasimov. Il Wall Street Journal aveva rivelato dopo quel vis-a-vis che russi e statunitense si erano ripresi a parlare per pianificare la gestione condivisa delle attività antiterrorismo legate al ritorno dei Talebani in Afghanistan dopo una proposta ufficiale di Putin a Biden formulata a Ginevra. Più di recente, come ricorda Piccole Note, il riconoscimento da parte di Milley di un sistema-mondo ormai tripolare e del ruolo della Russia come concorrente ma anche come potenza legittimata ha segnalato la prospettiva di una svolta nella concezione Usa e di uno smarcamento dagli opposti estremismi del neoconservatorismo e dell’interventismo libeal.

In passato, negli anni delle presidenze di Barack Obama e Donald Trump, la cooperazione fu limitata a casi episodici e mai strutturale. Divenne celebre due anni fa il ringraziamento fatto da Vladimir Putin in persona all’allora presidente Donald Trump per un avvertimento della Cia che ha sventato un attacco terroristico a San Pietroburgo. Ora appare chiaro che in un contesto segnato da una rivalità sistemica sempre più complessa, dal buco nero centroasiatico aperto dalla disfatta afghana degli Usa, dal proliferare di gruppi terroristici come l’Isis-K e dalle nuove, potenziali minacce asimmetriche (come cybercrime e cyberterrorismo) che possono essere base per attacchi false flag Usa e Russia vogliono guardarsi negli occhi e capirsi. Il gancio chiave può essere quello dell’antiterrorismo, uno dei pochi fronti su cui gli 007 russi e americani collaborano di continuo.

Burns, l’ambasciatore del dialogo

E proprio dall’antiterrorismo è partito il dialogo tra Burns e Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, braccio destro di Putin per gli affari securitari. Usa e Russia potranno, con forza, continuare a darsi battaglia sul fronte tecnologico, dibattere sul tema della sicurezza energetica, confrontarsi sul fronte valutario e dei mercati ma non potranno fare a meno di vedere nel terrorismo una minaccia comune. La presenza di comuni partner regionali in Asia (Pakistan e India) e un comune timore di un terrorismo di ritorno dall’Afghanistan vanno di pari passo con quelle che potrebbero essere le conseguenze sistemiche della nuova ondata globale di terrore dall’Iraq alla Siria e alla Libia.

Biden e Putin, e gli apparati con loro, hanno bisogno di tornare a un’ordinaria situazione di prevedibilità. Stabilire le opportune linee rosse, riattivare la volontà di dialogo degli apparati securitari dei due Paesi, rilanciare le opportunità di confronto dopo gli anni di gelo seguiti alla crisi ucraina del 2014 erano gli obiettivi di Biden e Putin nel loro incontro estivo. Ora i servizi, apripista di ogni strategia nazionale, sono al lavoro per concretizzarli. E la scelta di Burns come guida della Cia da parte di Biden faceva presagire, già nei primi mesi dell’amministrazione, una volontà dialogante.

Già vice segretario di stato degli Stati Uniti dal 2011 al 2014, ambasciatore degli Stati Uniti in Giordania dal 1998 al 2001 e ambasciatore degli Stati Uniti in Russia dal 2005 al 2008 il 65enne Burns, che fino alla chiamata di Biden guidava think tank Carnegie Endowment, è il primo diplomatico di carriera a guidare la Cia e è ritenuto un pontiere tra Mosca e Washington. Il suo interlocutore, Patrushev, ha dichiarato di recente alla Rossijskaja Gazeta, che “per contenere la Russia”, l’Occidente stava cercando “di destabilizzare la situazione sociopolitica del Paese, di ispirare e radicalizzare il movimento di protesta, e di erodere i tradizionali valori spirituali e morali russi”, ma proprio per queste sue convinzioni decisamente critiche è ritenuto da Putin l’uomo più adatto per una schietta cooperazione pragmatica con gli Usa.

Non è affatto paradossale che Biden, espressione di quel Partito Democratico ritenuto maggiormente ostile a Putin sul fronte geopolitico, sia stato il fautore del dialogo con lo Zar del Cremlino: la narrazione fallace che vedeva Trump bloccato nella sua volontà di discontinuità frenato da un non meglio precisato “Deep State” deciso a contrastare a tutti i costi il riappacificamento con la Russia è caduta di fronte a una realtà che ha visto Trump riempire la sua amministrazione di vecchi neocon, unilateralisti di destra alla Mike Pompeo e membri della vecchia guardia repubblicana profondamente antirussa. L’abboccamento Usa-Russia avviato a luglio è la versione democratica del “Nixon to China“: l’amministrazione Biden ha parlato mettendo gli uomini giusti al posto giusto e favorendo il dialogo. Non a caso dai centri di potere dello Stato profondo liberal-clintoniano e da testate ad esso vicine come il New York Times sono già partite, complice la rotta afghana, le prime bordate contro una strategia ritenuta problematica. Ma in realtà profondamente pragmatica e realista.

Un confronto necessario

Washington spinge per un dialogo anche per avere notizie di prima mano sulla vicina Repubblica Popolare Cinese. Come riporta Formiche, infatti, “una de-escalation, piaccia o meno, è ritenuta necessaria dall’intelligence Usa alla luce di un fenomeno nuovo, e preoccupante” riguardante la Cina, in un contesto che vede la nazione guidata da Xi Jinping “ripiegare su se stessa e chiudersi al mondo esterno. A Washington, negli ambienti diplomatici, viene chiamata “sindrome bunker”. Le comunicazioni di routine con l’intelligence cinese si sono rarefatte negli ultimi mesi, con il rischio di un aumento esponenziale di incidenti”. Ascoltare Mosca e farsi ascoltare dal Cremlino appare un fattore cruciale in questa fase sia per evitare questa “ciecità” sia per segnalare alla Federazione Russa che per Washington il nemico numero uno, oggi, non è più Mosca, ma bensì il Dragone cinese. Biden si è probabilmente reso conto che contro due nemici politici implacabili non si può combattere e che su un fronte bisogna raffreddare le tensioni. A farsene portavoce, una volta di più, l’intelligence. Anticipatrice e sempre più determinante protagonista dei trend geopolitici globali. Anche quando a essere consolidato è il partito della distensione.




Cyber, Biden mette il turbo. La riforma per frenare Russia e Cina
Formiche.net
Francesco Bechis
26/10/2021

https://formiche.net/2021/10/biden-cybe ... ssia-cina/

Un nuovo Bureau e un inviato speciale del Dipartimento di Stato. Joe Biden è pronto a riformare la cybersecurity americana. Il Wall Street Journal anticipa la mossa per porre un freno alle minacce di Russia e Cina. Dai ransomware al 5G, così la Casa Bianca alza uno scudo

Joe Biden fa sul serio sulla cybersecurity. Da quando ha varcato l’ingresso dell’Ufficio Ovale il presidente americano ha messo in cima all’agenda le riforme per rafforzare la resilienza del governo e delle aziende a stelle e strisce contro gli attacchi cibernetici.

L’ultima riguarda il Dipartimento di Stato guidato da Antony Blinken. Questione di giorni, svela il Wall Street Journal, e la Casa Bianca annuncerà un nuovo dipartimento della diplomazia americana interamente dedicato alle minacce cyber e alle tecnologie emergenti.

La ristrutturazione darà vita a due nuove entità: da una parte un Bureau per il cyberspazio e la politica digitale, guidato da un ambasciatore nominato dal Senato, dall’altra un inviato speciale per le tecnologie critiche ed emergenti. Entrambi i ruoli, per cui ancora non ci sono candidati designati, saranno posti sotto la supervisione del vicesegretario di Stato Wendy Sherman, almeno per il primo anno.

La riforma ha radici profonde: fin dai tempi di Barack Obama alla Casa Bianca la diplomazia americana ha cercato di aggiornare i suoi strumenti per far fronte alla sfida cibernetica e alle intrusioni sempre più frequenti di collettivi hacker all’interno dei software del governo federale. Risponde però a una vera emergenza: alzare l’asticella della sicurezza dopo un anno che ha registrato un picco senza precedenti di attacchi contro le infrastrutture critiche americane.

Non solo ransomware, i virus che prendono in ostaggio i dati per chiedere un riscatto, ma anche intrusioni prolungate nei sistemi operativi di aziende private che hanno messo a rischio intere supply-chain, come nel caso degli attacchi contro le aziende di software Solar Winds e Kaseya. A giugno, durante il vertice di Ginevra, Biden aveva chiesto al presidente russo Vladimir Putin di mettere un freno alle aggressioni cyber dei Servizi segreti russi contro una serie di infrastrutture sensibili.

Quattro mesi dopo la tempesta non è passata. È di questo lunedì l’allarme di Microsoft su una “una vasta campagna” in corso da parte dell’intelligence russa per “ottenere un accesso sistematico e di lungo termine a una varietà di punti della supply-chain” e “stabilire un meccanismo per sorvegliare – ora o in futuro – gli obiettivi di interesse per il governo russo”. Dietro, secondo le indagini del colosso di Redmond, si celerebbe un collettivo “Nobelium”, affiliato all’Svr, gli 007 del Cremlino.

A queste e altre operazioni punta a mettere un freno la nuova struttura del Dipartimento di Stato, che, anticipa il Journal, potrebbe contare su 550 persone, con una divisione concentrata sulla deterrenza cyber, un’altra sulla promozione dei fornitori di tecnologia “affidabili” e una terza dedicata alla promozione della “libertà digitale”, a partire dai diritti umani online.

Di tecnologie critiche, come l’Intelligenza artificiale, i microchip o le biotecnologie, si occuperà invece l’inviato speciale che il governo dovrà nominare a breve. Un diplomatico che seguirà da vicino i lavori del Consiglio Ue-Stati Uniti per la tecnologia e il commercio. L’organo si è riunito per la prima volta lo scorso 30 settembre a Pittsburgh e punta a stilare una road map per un’alleanza digitale fra i due blocchi, con un focus particolare sui rischi per la sicurezza posti dalle aziende tech legate al governo cinese. A questa missione è rivolto il nuovo sistema di controlli sulle tecnologie critiche del Dipartimento degli affari interni (Dhs) che richiama in parte il Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica introdotto in Italia nel 2019.

La riforma di Foggy Bottom è solo l’ultima puntata. Da gennaio, quando ha prestato giuramento, Biden ha dato via a una serie di nomine nella cybersicurezza. Dalla scelta di Anne Neuberger come vice consigliere per la Sicurezza nazionale per il cyber e le tecnologie emergenti alla nomina di Chris Inglis come direttore nazionale per il cyber, due posizioni create ex-novo.



Spazio, missile russo contro satellite. Washington: "Irresponsabili"
Rosalba Castelletti
16 novembre 2021

https://www.repubblica.it/esteri/2021/1 ... 326528015/

Un vecchio satellite sovietico inattivo polverizzato da un test missilistico russo e gli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale - uno degli ultimi rari esempi di cooperazione relativamente pacifica tra russi e americani - costretti a rifugiarsi nelle capsule per timore che uno dei 1.500 frammenti prodotti dall'esplosione potesse colpire la carlinga del centro orbitante: l'ultimo incidente rende sempre più concreto il timore che le "Guerre Stellari", come furono soprannominate negli Anni '80 quando Ronald Reagan lanciò l'iniziativa per la difesa antimissile, diventino la prossima frontiera dello scontro tra Russia e Stati Uniti.



Blinken: "Pronti a intervenire se Mosca aggredisse nuovamente l'Ucraina"

Di Efi Koutsokosta
03/12/2021

https://it.euronews.com/2021/12/03/blin ... 1638572494

La massiccia presenza militare di Mosca al confine con l'Ucraina ha alimentato nuove tensioni tra Nato, Unione europea e Russia. Tra diplomazia e minacce di sanzioni, i ministri degli esteri riuniti in Svezia per il vertice dell'Osce hanno discusso delle soluzioni per evitare il rischio di una nuova escalation. La giornalista di Euronews Efi Koutsokosta ne ha parlato con il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken.

Lei ha detto che ci sono prove di piani russi per invadere l'Ucraina. Quanto siamo vicini a un confronto militare? Non conosciamo le intenzioni del presidente Putin. Non sappiamo se ha preso la decisione di intraprendere una nuova azione aggressiva contro l'Ucraina. Quello che sappiamo è che si sta organizzando per poterlo fare, e con poco preavviso. Questo è molto preoccupante e non solo per noi. È preoccupante per molti partner in tutta Europa. Sono appena stato al vertice della Nato prima di venire qui all'Osce, e questa preoccupazione è diffusa. Per noi è importante avere comunicato molto chiaramente alla Russia che una nuova aggressione contro l'Ucraina sarebbe un errore, con le gravi conseguenze che ne deriverebbero. Abbiamo espresso la nostra convinzione che qualsiasi divergenza si può risolvere meglio con la diplomazia, in particolare attraverso gli accordi di Minsk, che non sono mai stati attuati.

Lei ha appena incontrato il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. È riuscito a capire le sue intenzioni? Ci sono dei segnali che fanno pensare a una de-escalation? Abbiamo avuto una conversazione molto diretta e sincera, come al solito. Nessuna polemica. E' stata una discussione molto professionale. Molto diretta. È importante essere in grado di comunicare direttamente, non semplicemente attraverso la televisione o i comunicati stampa. Volevo parlargli faccia a faccia perché volevo che capisse le nostre preoccupazioni, le conseguenze che deriverebbero da un eventuale aggressione russa, ma anche la nostra convinzione che la migliore strada da percorrere sia la diplomazia, la Russia dovrebbe ritirare le sue forze e impegnarsi in modo significativo per l'attuazione degli accordi di Minsk.

Si può dire ora siete più vicini a una svolta, a una de-escalation? Quello che posso dire è che Lavrov riferirà al presidente Putin. Io, naturalmente, sto facendo lo stesso con il presidente Biden. Mi aspetto che i presidenti ne discutano tra loro e da lì andremo avanti. Ma la cosa più importante è esprimere in modo chiaro e diretto la nostra posizione, quali sono le nostre preoccupazioni, cosa faremo e cosa preferiremmo fare: rinvigorire la diplomazia e risolvere la situazione dei territori occupati in Ucraina.

Ci sono piani concreti per un incontro tra i due presidenti? La mia aspettativa è che si parlino a breve.

Lei ha parlato di gravi conseguenze se la Russia invadesse l'Ucraina. Cosa intende dire? Fino a che punto siete pronti a spingervi? Siete pronti ad andare oltre le sanzioni economiche? Ci sarebbero conseguenze economiche di grande impatto. Penso che le possibili conseguenze siano ben note a Mosca, e spero che il presidente Putin ne tenga conto. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno lavorato per assicurarsi che l'Ucraina abbia i mezzi per difendersi. E naturalmente, in caso di minacce all'alleanza Nato, ci assicureremo di continuare a rafforzare le nostre capacità difensive. Ma ho anche messo l'accento sulla parola difesa. La Nato è un'alleanza difensiva, non aggressiva. Siamo qui per la protezione e la sicurezza dei nostri membri, ma anche per aiutare i partner come l'Ucraina a difendersi se sono a rischio di aggressione. Quindi è su questo che siamo concentrati. Ma ribadisco, la cosa più importante è che la Russia capisca che le azioni hanno conseguenze. E queste conseguenze sono reali. Non sono nell'interesse della Russia, un conflitto non è nell'interesse di nessuno. Lasciatemi aggiungere questo. Il presidente Biden, quando ha parlato con il presidente Putin a Ginevra alcuni mesi fa, ha detto che gli Stati Uniti preferiscono di gran lunga avere una relazione stabile e prevedibile con la Russia. Ma muovendosi nuovamente in modo aggressivo contro l'Ucraina la Russia va in direzione totalmente opposta a quella di una relazione stabile e prevedibile. Non credo che questo sia un bene per nessuno di noi, ma il presidente è stato chiaro: se la Russia sceglie di agire in modo avventato, risponderemo.

Si riferisce solo alle sanzioni? Unione europea e Stati Uniti ne hanno già adottato alcune. Cosa le fa credere che nuove sanzioni convincano Putin a cambiare rotta? Stiamo valutando varie iniziative che avrebbero un impatto molto forte: ci sono azioni che in passato non abbiamo intrapreso. La Russia è consapevole del ventaglio di azioni che potremmo intraprendere nei suoi confronti.

Può essere più preciso su quello che intendete fare?
No, non in pubblico.

La Russia diffida dell'adesione dell'Ucraina alla Nato. Quindi gli Stati Uniti sosterranno l'adesione dell'Ucraina alla Nato?
Fin dalla fondazione della Nato e dal trattato di Washington è stato chiarito che le porte dell'alleanza sarebbero state aperte a chi avesse voluto farne parte avendo i requisiti per farlo. Così nella riunione più recente abbiamo riaffermato che le porte della Nato sono aperte. Ma questo non rappresenta una minaccia per la Russia perché, ancora una volta, sottolineo che la nostra è un'alleanza difensiva. È un'alleanza trasparente. Non è diretta contro la Russia. Non è una minaccia per la Russia. E infatti le uniche azioni aggressive che ci sono state nell'area euro-atlantica negli ultimi anni sono le aggressioni della Russia contro la Georgia e poi contro l'Ucraina. E non abbiamo bisogno di vedere una ripetizione di tutto questo in Ucraina.

Ci sono tensioni crescenti anche lungo i confini dell'Europa, con la Bielorussia in particolare. Bruxelles parla di attacco ibrido: migliaia di migranti vengono spinti con la forza verso Polonia, Lettonia e Lituania. Quindo pensa che la Russia sia davvero la più grande minaccia per l'Europa e l'Occidente? Le sue azioni, quelle intraprese nel recente passato e quelle potenziali, come nel caso dell'Ucraina, rappresentano un problema reale. Non dovrebbe essere così. Considerando poi che stiamo lavorando assieme in aree in cui i nostri interessi si sovrappongono. Per esempio, nella mia ultima conversazione con il ministro degli esteri Lavrov abbiamo parlato dell'Iran e del reciproco interesse nel far si che l'Iran non sviluppi armi nucleari. Nei colloqui di Vienna stiamo lavorando bene insieme ai partner europei e alla Cina . Stiamo lavorando insieme anche nel Caucaso, entrambi abbiamo interessi in Azerbaigian e Armenia. Vogliamo trovare una soluzione duratura alle divergenze sul Nagorno-Karabakh. Quindi penso che è questo che dovremmo fare, lavorare insieme su varie questioni nell'interesse reciproco. Ma azioni come la nuova aggressione all'Ucraina rendono questo molto difficile.



Biden regala a Putin la nuova Yalta che sognava. Ma basterà per allontanare Mosca da Pechino?
9 dicembre 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... a-pechino/

Il presidente Usa apre a negoziati con la Russia (e i principali alleati Nato) sulla sicurezza in Europa orientale: garanzie sulla fine dell’espansione Nato ad est, la richiesta di Mosca

Putin ha messo in campo una minaccia credibile di invasione dell’Ucraina e Biden ha calato le braghe, minacciando sanzioni “mai viste”, ma di fatto facendo intravedere per la prima volta a portata di mano al presidente russo l’obiettivo geopolitico di tutta una vita: fermare l’espansione della Nato ad est. A partire, ovviamente, dall’Ucraina.

Putin è stato abile ad approfittare del momento di debolezza americano. Il via libera di fatto al Nord Stream 2, con la rinuncia alle sanzioni da parte di Washington, poi la disastrosa fuga dall’Afghanistan, sono stati segnali inequivocabili della volontà Usa di districarsi dai teatri di crisi non più in cima alle priorità strategiche, anche al prezzo di lanciare il messaggio di non farsi troppi scrupoli a scaricare amici e alleati.

Le sanzioni “mai viste” minacciate da Biden in caso di invasione russa dell’Ucraina sembrano le armi spuntate di chi non potendo giocare duro, ha deciso di bluffare alla grande. Convincere Berlino a rimangiarsi il progetto Nord Stream 2, con Germania e Ue sempre più dipendenti dal gas russo, come mostrano le ultime settimane di crunch energetico e prezzi alle stelle, o a trasformarlo in arma di pressione su Mosca, sembra davvero arduo.

D’altra parte, Putin si rende conto che non può perdere altro tempo: in Ucraina il processo di occidentalizzazione, delle istituzioni e della società, sta procedendo speditamente. Forse questa è l’ultima occasione per forzare gli eventi e non perdere del tutto la sua presa sul Paese. Una volta ottenute garanzie sullo stop all’espansione della Nato ad est, non avrebbe nemmeno bisogno di invaderla. L’inerzia geopolitica ne risulterebbe invertita e Kiev verrebbe spinta a tornare nella sfera di influenza di Mosca, sufficiente il venir meno della prospettiva di adesione alla Nato e integrazione nell’Europa occidentale.

Come riportano sia il Financial Times che il Wall Street Journal, il giorno dopo la teleconferenza tra i due leader, il presidente Biden ha escluso l’uso unilaterale della forza Usa contro la Russia nel caso di invasione dell’Ucraina, mentre il presidente Putin, pur bollando come una “provocazione” che si parli di invasione, ha spiegato che stava rispondendo ad una minaccia strisciante della Nato e non ha escluso un’invasione né alcuna azione militare (“la Russia ha il diritto di garantire la sua sicurezza, nel medio e nel lungo termine”).

“Ho detto molto chiaramente” a Putin che “se invade l’Ucraina, ci saranno gravi conseguenze… conseguenze economiche mai viste”. “Sono assolutamente certo che abbia compreso il messaggio”. Ma ad una domanda sull’eventuale impiego di truppe Usa in difesa dell’Ucraina, il presidente Usa ha risposto che “non è sul tavolo”. “Abbiamo un obbligo morale e legale nei confronti dei nostri alleati della Nato se dovessero attaccare. Questo obbligo non si estende all’Ucraina. Dipenderebbe anche da ciò che il resto dei Paesi della Nato sarebbe disposto a fare. Ma l’idea che gli Stati Uniti useranno unilateralmente la forza per affrontare la Russia che invade l’Ucraina al momento non esiste”.

Per prevenire il rischio di una invasione dell’Ucraina, Biden spera di annunciare entro venerdì colloqui di alto livello “per discutere il futuro delle preoccupazioni della Russia relative alla Nato” e capire “se possiamo o meno trovare una qualche intesa per abbassare la temperatura lungo il fronte orientale”. Incontri non solo tra Washington e Mosca, ma estesi anche “ad almeno quattro dei nostri principali alleati Nato”. Il presidente Usa non ha precisato quali, ma nelle scorse ore ha parlato con i leader di Regno Unito, Francia, Germania e Italia.

A queste parole si è probabilmente brindato a champagne ieri sera al Cremlino. Qualsiasi accordo che sancisca la fine dell’espansione Nato ad est e limiti la presenza militare Usa in Europa orientale è per Mosca il raggiungimento di un obiettivo strategico di lunghissimo termine.

Non è un mistero, i russi l’hanno esplicitato in continuazione nell’ultimo decennio e anche di recente, alla vigilia della vertice virtuale Biden-Putin: si sentono minacciati da una Nato sempre più vicina ai loro confini e chiedono garanzie legali che escludano ulteriori espansioni ad est (per esempio, con l’ammissione dell’Ucraina) e dispiegamenti di truppe e armamenti che potrebbero essere usati per attaccare la Russia da Paesi vicini.

Che ora un presidente Usa sia pronto ad aprire un dialogo su queste preoccupazioni sembra già un notevole successo diplomatico: “Partiamo dal presupposto che le nostre preoccupazioni questa volta saranno almeno ascoltate”, ha spiegato Putin. “L’infrastruttura Nato si è inevitabilmente avvicinata ai nostri confini, e ora vediamo sistemi di difesa missilistica in Polonia e Romania. Abbiamo tutte le ragioni per credere che lo stesso accadrà se l’Ucraina sarà ammessa nella Nato, ma questa volta in territorio ucraino. Come possiamo non pensarci, sarebbe una inazione criminale da parte nostra, guardare debolmente a ciò che sta accadendo lì”. Putin ha aggiunto che invierà “entro pochi giorni” agli Stati Uniti una bozza di accordo sulla sicurezza.

Se a Mosca si brinda, a Varsavia, Tallinn e Kiev probabilmente si impreca. Il riferimento di Biden a incontri tra gli Stati Uniti, con i suoi alleati Nato (Regno Unito, Francia, Germania e Italia), e Russia per discutere quello che di fatto sarebbe un nuovo ordine per l’Europa orientale risuona come una nuova Yalta, soprattutto nelle capitali di quei Paesi che gli accordi di Yalta li hanno subiti e ora temono che Putin riesca a ottenere garanzie che andranno a incidere in modo rilevante sulla loro sicurezza.

“In nessun caso si dovrebbe permettere che si svolga il dibattito sulle garanzie nel contesto della sicurezza europea”, ha commentato un alto funzionario di uno Stato dell’Europa orientale della Nato al Financial Times. Qualsiasi ipotesi di compromesso con Mosca “deve essere immediatamente tagliata alla radice”, ha aggiunto, osservando che questa opinione sarebbe condivisa da almeno una mezza dozzina di Stati membri dell’Ue.

Il disegno dell’amministrazione Biden è fin troppo chiaro: sacrificare di fatto l’Ucraina per raffreddare il fronte orientale europeo, allontanare Mosca da Pechino e potersi concentrare sulla Cina. Non è una strategia priva di fondamento, ma è estremamente rischiosa, tutt’altro che realista, e non ci pare, al momento, che Washington possa condurla da una posizione di forza come dovrebbe.

“Se gli Stati Uniti esitano, Mosca ne trarrà beneficio e a capitalizzare saranno Iran e Cina”, ha avvertito pochi giorni fa Walter Russell Mead sul Wall Street Journal.

Il mondo, osserva il politologo Usa, non si è conformato alle aspettative dell’amministrazione Biden: la Russia “non è parcheggiata”, l’Iran non sta cooperando e la Cina non si è lasciata né coinvolgere né impressionare.

“Una Ucraina allineata all’Occidente, e in particolare a Paesi antirussi come Polonia e Repubbliche baltiche, è un’umiliazione insopportabile e una minaccia inaccettabile” per Mosca. Ma secondo WRM, “la nuova bellicosità di Putin è un’ammissione del fallimento russo”. Tutto ciò che resta a Mosca per convincere gli ucraini sono la pressione economica e la forza militare. Tuttavia, osserva, “se la situazione politica all’interno dell’Ucraina allarma Putin, il disordine e l’inettitudine dell’Occidente gli danno speranza”. Nel 2014 l’Occidente ha piegato la testa quando Mosca ha annesso la Crimea e lanciato l’offensiva nel Donbass, limitandosi a reagire con sanzioni economiche e l’esclusione della Russia dal G8. Oggi, nota WRM, “gli Stati Uniti sembrano più deboli e l’Europa ancor più divisa rispetto al 2014”. Ecco perché il presidente russo crede di poter giocare anche questa volta una mano vincente, con la forza o senza.

La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato minacciano sanzioni “mai viste”, aiuti militari all’Ucraina, ma non sarebbe la prima volta che Putin costringe i vertici Usa a dichiarazioni roboanti per poi umiliarli, facendole apparire come vuota retorica. L’amministrazione Obama è stata la sua vittima prediletta (basti ricordare le “linee rosse” mai mantenute nei confronti del regime siriano di Assad, sostenuto dalla Russia).

Per questo, suggerisce WRM, “Biden deve prendere una decisione chiara. Se si impegna ad aiutare l’Ucraina a integrarsi con l’Occidente, dovrà convincere Putin che fa sul serio”, schierando “significative forze Nato nel Paese”. Viceversa, “se non pensa che l’Ucraina valga il rischio di una crisi in stile Guerra Fredda con la Russia, deve cercare la ritirata più dignitosa che Putin permetterà”.

Alla luce del summit virtuale di martedì e delle dichiarazioni di ieri, che escludono la prima opzione, l’amministrazione Biden pare incamminarsi sulla seconda strada. Che però, sarebbe la peggiore, conclude WRM, “venendo così presto dopo il disastro afghano e in un momento in cui molti alleati di vecchia data dubitano della parola dell’America”:

“La Russia diventerebbe più potente e più sprezzante nei confronti degli Stati Uniti, mentre Iran e Cina vedranno Biden come un perdente e adegueranno le loro politiche di conseguenza. Da una posizione di forza, gli Stati Uniti possono, e devono, offrire alla Russia vie d’uscita dalla crisi”.

Secondo il politologo Usa, “la Russia ha perso la sua battaglia per il cuore dell’Ucraina. Dopo aver incoraggiato l’Ucraina a schierarsi con l’Occidente per tre decenni, l’unica strada onorevole per l’America è sostenere Kiev”.




Gli Stati Uniti non guadagnerebbero nulla nel confronto con la Russia. Il conduttore di ‘Tucker Carlson Tonight’ affronta la gestione di Joe Biden della politica estera.
Questo articolo è adattato dal commento di apertura di Tucker Carlson dell’edizione del 7 Dicembre 2021 di “Tucker Carlson Tonight”.
9 dicembre 2021

https://osservatorerepubblicano.com/202 ... la-russia/

Ecco a voi qualcosa che tutti dobbiamo cominciare a interiorizzare. Solo perché qualcosa sembri inverosimile o possa sembrare pazzoide o sembri totalmente distruttivo per gli interessi americani fondamentali, non significa che il governo degli Stati Uniti non lo farà. Questa è la lezione principale del momento storico che stiamo vivendo.

Quindi, con questo in mente, non passateci oltre, non importa quanto inverosimile possa sembrare, una guerra vera e proprio con la Russia. Sì, è un’idea folle. Non c’è nulla che potremmo guadagnare da un confronto militare con Vladimir Putin e c’è molto che potremmo perdere, comprese naturalmente molte migliaia di vite americane, ma questo non significa che Joe Biden non lo farà.

Biden è impopolare. È incompetente ed è disperato, ma più di tutto Joe Biden è debole. È una pedina del suo staff e degli ideologi incalliti che lo circondano. La Russia è attualmente coinvolta in una disputa di confine con la vicina Ucraina, e molti degli aiutanti più stretti di Biden stanno spingendo gli Stati Uniti a farsi coinvolgere militarmente.

Ora, tra le molte, molte ironie che qui troviamo è che la crisi ucraina è stata in gran parte creata dagli stessi aiutanti di Joe Biden e da molte persone come loro in tutti i livelli del governo degli Stati Uniti.

Quindi, eccovi la posizione russa. Per la Russia, la questione centrale è la NATO. La NATO è l’alleanza militare del dopoguerra creata nel 1949 per impedire ai sovietici di invadere l’Europa Occidentale, ed ha funzionato abbastanza bene per circa 40 anni. Ma l’Unione Sovietica non esiste più da più da tre decenni. Fa parte della storia ormai, eppure la NATO continua a vivere, più finanziata che mai. È un esercito senza uno scopo.

Quindi, a questo punto, la NATO esiste principalmente per tormentare Vladimir Putin che, nonostante i suoi molti difetti, non ha intenzione di invadere l’Europa Occidentale. Vladimir Putin non vuole il Belgio, vuole solo mantenere sicuro il suo confine occidentale, ecco perché non vuole che l’Ucraina entri nella NATO, e questo, dal suo punto di vista, ha senso. Immaginate come ci sentiremmo se il Messico ed il Canada diventassero stati satelliti della Cina, non ci piacerebbe affatto.

Nel caso della Russia, si tratta di una questione esistenziale. Una presa di potere della NATO in Ucraina comprometterebbe l’accesso della Russia alla sua base navale di Sebastopoli. Questo è il sito della flotta russa nel Mar Nero ed uno degli unici collegamenti del paese alle acque internazionali.

Nelle parole dello studioso russo, Richard Sakwa, se la Russia perdesse la base navale di Sebastopoli, sarebbe, e cito: “La più grande sconfitta geopolitica militare della Russia negli ultimi mille anni“. Quindi per Vladimir Putin è inaccettabile, è un disastro. Non può permettersi che accada, e non lo permetterà.

Ma anche per gli Stati Uniti, e questo è il punto principale della questione, non ci sarebbe alcun beneficio. Gli Stati Uniti non guadagnerebbero proprio nulla dal prendere il controllo dell’Ucraina. Perché dovremmo volerlo fare?

Nella migliore delle ipotesi, staremmo spingendo la Russia – e noi stessi – più a fondo nelle braccia del governo della Cina, e questo sarebbe un disastro per gli Stati Uniti ed un disastro per il mondo. Quindi perché lo stiamo facendo? Perché il governo degli Stati Uniti sta spingendo l’Ucraina ad unirsi alla NATO?

Beh, solo Dio sa perché. Ma lo stiamo facendo, entrambi i partiti lo stanno facendo. I neocon intorno a Joe Biden sono a favore, naturalmente, come lo sono per ogni idea di sinistra e stupida, ma lo è anche l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, un uomo intelligente, lo è il senatore dell’Ohio Rob Portman, lo sono molti Repubblicani. Quindi, questa è una sorta di follia bipartisan.

La domanda è: Joe Biden può tenergli testa? E la risposta è: Suvvia, Biden è sempre stato più un lobbista che un leader. Dice quello che gli viene detto di dire.

Una volta erano le società delle carte di credito del Delaware a scrivere i suoi copioni; ora sono i neocon nel Dipartimento di Stato. È la stessa ideologia.

Biden ha parlato con Vladimir Putin in una videochiamata e, secondo la Casa Bianca, ha informato il leader russo che gli Stati Uniti intendono controllare l’Ucraina a qualunque costo. Il Segretario di Stato – e musicista pop in difficoltà – Antony Blinken ha ripetuto questo messaggio. Ha minacciato di inviare le truppe americane lì.

Ecco il portavoce di Antony Blinken.

NED PRICE, RESPONSABILE DEL DIPARTIMENTO DI STATO: “Se la Russia sceglie di mancare la de-escalation, se la Russia sceglie di andare avanti con qualsiasi piano che possa aver sviluppato per continuare la sua aggressione militare o per aggredire militarmente l’Ucraina, per violare la sovranità dell’Ucraina, la sua indipendenza, la sua integrità territoriale, noi ed i nostri alleati saremmo pronti ad agire. Saremmo pronti ad agire risolutamente.”

Questi sono dei bambini.

L’integrità territoriale dell’Ucraina – questa è la preoccupazione. È di questo che si tratta, ci stanno dicendo, perché se c’è una cosa di cui la Casa Bianca di Biden si preoccupa, sono i confini sicuri, almeno in Europa Orientale, dove i confini non sono “razzisti”.

I confini dell’Ucraina devono essere difesi. Sarebbe immorale aprire quelle frontiere al mondo e permettere, diciamo, a decine di migliaia di disoccupati haitiani di attraversarle. Non possiamo permettercelo. Infatti, invieremo truppe americane in Ucraina per impedire tutto questo.

Le frontiere aperte sono permesse solo in Texas, Arizona e California, e ovunque i potenziali elettori Democratici possano arrivare senza invito dal Terzo Mondo, ma l’Ucraina, No. L’Ucraina ha un diritto dato da Dio all’integrità territoriale e i soldati americani moriranno per difendere questa integrità territoriale. Questa è la nostra posizione ufficiale come paese.

Ora, secondo la CNN, dobbiamo fermare questi attacchi russi ai sacri confini dell’Ucraina perché, se non li fermiamo, quello che potremmo avere qui è ciò che la CNN chiama una “situazione di sicurezza terribile”.

Ora, questa frase sembra provenire dal Sottosegretario di Stato di Joe Biden, Victoria Nuland che, secondo la CNN ha dato un “cupo briefing” ai senatori degli Stati Uniti.

Victoria Nuland è fortemente a favore di una guerra con la Russia. Ciò che è sorprendente è che qualcuno, da qualche parte, la stia ancora ascoltando. Nessuna persona seria potrebbe prendere sul serio Victoria Nuland. È una barzelletta.

Non solo è ovviamente insignificante come persona, chiedete a chiunque la conosca, e non è particolarmente filo-americana, tra l’altro, è stata uno degli architetti del disastro in Iraq. Allora perché Victoria Nuland parla ancora di politica estera? Il tizio che ha progettato Chernobyl costruisce ancora reattori nucleari? Probabilmente No.

Solo a Washington, dove il fallimento viene assolutamente premiato, qualcuno come Victoria Nuland potrebbe ancora esercitare ancora il potere, cosa che lei fa assolutamente. È spaventoso quando ci si pensa.

Victoria Nuland sta guidando la politica americana sull’Ucraina, che naturalmente è giustificata dal nostro più ampio sostegno alla “Democrazia”. Ora, tenetelo a mente mentre sentite tutto questo. Questa è la stessa… la stessa Victoria Nuland che era stata ripresa su un nastro diversi anni fa mentre complottava su come porre fine alla democrazia in Ucraina.

Ecco la Nuland in una registrazione audio trapelata che trama per il rovesciamento del presidente democraticamente eletto dell’Ucraina. Guardate come la Nuland snocciola una lista di potenziali burattini da installare al posto del presidente democraticamente eletto.

VICTORIA NULAND, SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER GLI AFFARI POLITICI DEGLI STATI UNITI: “Penso che Yats sia il tipo che abbia l’esperienza economica, l’esperienza di governo. Lui è il… sapete, quello di cui ha bisogno sono Klitsch e Tyahnybok all’esterno. Ha bisogno di parlare con loro quattro volte alla settimana.”

“Penso solo che Klitsch, entrando, si troverà in quel livello a lavorare per Yatseniuk. Semplicemente non funzionerà.”

GEOFFREY PYATT, EX AMBASCIATORE IN UCRAINA: “Sì, No. Penso che sia… penso che sia giusto. Ok, ma…”

“Non funzionerà“. E gli elettori dell’Ucraina che pensavano di essere partecipi alla Democrazia? No, c’è Victoria Nuland che lavora per rovesciare la Democrazia.

Tenete a mente che se lo faranno lì, lo faranno anche qui.

State sentendo lo stesso scagnozzo del Dipartimento di Stato che ha lavorato per organizzare un colpo di stato in Ucraina dirci che dobbiamo andare in guerra con la Russia per preservare la “Democrazia” in Ucraina. Queste persone non hanno vergogna.

Quindi la domanda è: di cosa si tratta veramente? Naturalmente, non si tratta della Democrazia, per la quale hanno zero rispetto. Beh, in parte, è una sbornia della bufala sullla Russia lunatica che ha assorbito Washington per tre anni. Tutto ciò che riguarda Vladimir Putin è male, quindi, facciamo una guerra con lui. Molte persone lo pensano.

Ma c’è anche una causa più profonda che viene raramente notata.

Per anni, i portatori di interessi ucraini hanno pompato milioni di dollari in lobbying a Washington, D.C. per cambiare la politica estera americana nella regione. Ad un certo punto, come avrete sentito, hanno impiegato il figlio del presidente stesso per spingere il loro punto di vista. Quindi decine di migliaia di dollari al mese per dirci che ‘la Russia è cattiva’ e che ‘dobbiamo stare con l’Ucraina perché c’è la Democrazia’, anche se lavoriamo per rovesciare la Democrazia in Ucraina.

Quindi, con questo in mente, ora che lo sapete, forse non sarete rimasti così sorpresi quando Joe Biden ha deciso che Vladimir Putin non possiede un’anima.

GEORGE STEPHANOPOULOS, CONDUTTORE DELLA ABC NEWS: “Ha detto che sa che non ha un’anima.”

JOE BIDEN: “Beh, gliel’ho detto, Sì. E… e la sua risposta è stata: ci capiamo l’un l’altro.”

“Non stavo facendo il saputello. Ero solo con lui nel suo ufficio, ecco come è successo. È stato quando il presidente Bush ha detto, ‘ho guardato nei suoi occhi e ho visto un’anima’. Ho detto, ho guardato nei tuoi occhi e non credo che tu abbia un’anima, e ho guardato — e lui ha detto, ci capiamo.”

GEORGE STEPHANOPOULOS: “Quindi lei conosce Vladimir Putin e pensa che sia un assassino?”

JOE BIDEN: “Sì. Lo penso.”

Queste persone sono bambini. Di nuovo, bambini che fingono di essere leader.

Vladimir Putin è un assassino, presumibilmente non diverso da ogni altro capo di stato sulla Terra in tutta la storia umana. Ma, onestamente, questa non è la domanda rilevante. L’anima di Vladimir Putin? A chi importa? Possiamo lasciarla al suo parroco, ammesso che ne abbia uno.

L’unica domanda che conta, l’unica domanda è come l’intervento in Ucraina serva agli interessi fondamentali degli Stati Uniti. E, naturalmente, questa è l’unica domanda che nessuno a Washington si sta facendo.

Guardate al piccolo ed obbediente portavoce del Pentagono, un uomo con così poca dignità che dirà qualsiasi cosa gli venga detto di dire, vantarsi di quanto equipaggiamento militare stiamo ora inviando all’Ucraina e, notate, mentre guarderete a questo nastro, che non pensa nemmeno a spiegare perché dovremmo inviare quell’equipaggiamento militare.

REAR ADMIRAL JOHN KIRBY (RET.) PENTAGON PRESS SECRETARY: “Abbiamo fornito milioni di dollari in assistenza letale e non letale all’Ucraina negli ultimi 10 o 11 mesi.”

“Nulla è cambiato riguardo al nostro impegno per assicurarci che l’Ucraina abbia ciò di cui ha bisogno per difendersi.”

Quindi, dite quello che volete su Donald Trump ed il suo account di Twitter, forse vi piaceva, forse sarete rimasti inorriditi dal suo stile ma, in retrospettiva, se c’è una cosa per cui Donald Trump merita eterno credito è aver tenuto degli idioti come quelli nel loro buco per quattro anni. Non ci sono state guerre inutili con Donald Trump.

Non è una cosa da poco nella recente storia americana, infatti, è successo raramente nell’ultimo secolo, ma attraverso una determinazione incrollabile per la quale non ha ottenuto credito, se c’è una cosa per cui merita credito, è questa – Donald Trump l’ha fatta. Ha resistito ancora ed ancora quando i membri del Congresso ed i tizi della Raytheon, quando tutte le parti interessate lo hanno spinto ad andare in guerra qui, lì ed ovunque, Donald Trump ha resistito.

E, a Washington, soprattutto, lo hanno odiato per questo. Alla fine lo hanno messo sotto impeachment per questo.

ADAM SCHIFF: “Come ha detto un testimone durante la nostra inchiesta sull’impeachment, gli Stati Uniti aiutano l’Ucraina ed il suo popolo in modo che possiamo combattere la Russia laggiù e non invece combattere la Russia qui.”

Davvero? Combatteremo la Russia qui, vero, Adam Schiff? Adam Schiff, naturalmente, una persona stupida ed un democratico impenitente.

Ma ciò che è così interessante e che dovrebbe farvi sedere e prestare attenzione è che, improvvisamente, alcuni Repubblicani impenitenti stanno facendo dei discorsi identici.

Il senatore Roger Wicker del Mississippi – non un genio, notoriamente, ma comunque un senatore Repubblicano in carica, è andato a FOX News a dire, ‘potremmo aver bisogno di inviare truppe americane in Ucraina’ e, forse, perché questo non è folle o altro, ‘pensare all’uso di armi nucleari’. Ce l’abbiamo propio in tasca. Le Armi nucleari.

Roger Wicker, un senatore degli Stati Uniti in carica. Nessuno a Washington ha riso di Roger Wicker. Questo è così folle che nessuno sembra consapevole di quanto sia folle. Stanno tutti seduti però ad ascoltare Victoria Nuland che dice loro cosa dobbiamo fare.

Quanto queste cose sono penetrate nella psiche di Washington, D.C.? Bene, ecco un triste passaggio.

Questa è Joni Ernst, che è totalmente affabile, una repubblicana simpatica, una specie di persona “ragionevole” nella maggior parte delle cose del Midwest che però, improvvisamente, parla come una guerrafondaia assetata di sangue, che suona molto come Adam Schiff quando parla di quel vile di Vladimir Putin.

JONI ERNST: “Ha bisogno di dire a Vladimir Putin che non vi permetteremo più di continuare con il gasdotto Nord Stream 2. Abbiamo bisogno che sappia e capisca che difenderemo l’Ucraina e le forniremo assistenza. Deve dirlo molto chiaramente.”

Vladimir Putin è così cattivo che taglieremo il gas naturale all’Europa Occidentale come ritorsione contro di lui a dicembre. Congeleremo la Germania ed il Lussemburgo, e questo insegnerà di certo qualcosa a Vladimir Putin.

Di nuovo, quella che avete appena sentito è una bambina che non ha idea di cosa stia parlando, ma continua a parlare comunque. “Difenderemo l’Ucraina”, dice Joni Ernst. Ricordate che questa è una senatrice dell’Iowa. Quindi, cosa succede se non difenderemo l’Ucraina, Joni Ernst? I bambini di Des Moines cresceranno parlando russo?

Nessuno le ha fatto questa domanda. Non ci ha mai pensato, neanche per un momento, ma tutti stanno leggendo dagli stessi punti di discussione, da Adam Schiff a Roger Wicker a Joni Ernst.

Si scopre che le campagne di lobbying all’estero funzionano piuttosto bene, ed è quello che gli ucraini pagano quando vengono a Washington.

Quindi, in quale direzione sta andando esattamente tutto questo? Cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi?

“Tucker Carlson Tonight” è un talk show americano e programma di attualità condotto dal commentatore paleoconservatore Tucker Carlson. Lo show viene trasmesso in diretta da Washington, D.C., su Fox News Channel alle 8:00 P.M. ET nei giorni feriali. Lo show include tipicamente commenti politici, monologhi, interviste e analisi. Ha debuttato come programma nella lineup di Fox News Channel il 14 novembre del 2016. Nel luglio 2020, “Tucker Carlson Tonight” ha battuto il record di programma con il più alto indice di gradimento nella storia delle notizie via cavo degli Stati Uniti, raccogliendo un’audience media di 4,33 milioni di spettatori.

Tucker Carlson è un conduttore di Fox News. Si è unito alla rete nel 2009 come collaboratore. Sostenitore dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, si dice anche che abbia influenzato alcune decisioni politiche chiave di Trump stesso. Le sue controverse dichiarazioni su razzismo, immigrazione e femminismo hanno portato al boicottaggio degli inserzionisti contro lo show. Fiero oppositore del progressismo politico, è stato definito un “nazionalista” ed un “paleoconservatore”. È un critico dell’immigrazione. Originariamente sostenitore della politica economica libertaria, ha poi criticato l’ideologia come “controllata dalle banche” ed è diventato un “protezionista”. È anche uno scettico sugli interventi militari all’estero degli Stati Uniti.



Biden indeciso e alleati riluttanti: impraticabile una doppia linea dura con Russia e Cina
Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
21 dicembre 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... ia-e-cina/

Il problema ucraino continua a turbare i sonni dell’Occidente e, in particolare, quelli degli Stati Uniti. È opportuno notare, innanzitutto, che Joe Biden deve affrontare una situazione di estrema difficoltà. Il suo “Forum sulla democrazia”, come molti si attendevano, non ha avuto il successo sperato. Gli alleati sono riluttanti a praticare una linea dura, contemporaneamente, con Russia e Cina per molti motivi.

Per quanto riguarda Mosca, gli europei hanno il problema delle forniture energetiche russe che risultano, a questo punto, indispensabili. Pechino invece può far leva sugli intensi rapporti commerciali e sull’export verso la Cina che per molti Paesi europei – Germania in testa – sono altrettanto essenziali.

Ciò significa che una doppia linea dura con Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese è, in buona sostanza, impraticabile. La situazione sarebbe diversa se Biden potesse contare su un Paese unito e disposto a seguire in modo compatto le sue linee di politica estera.

Tutti sanno, tuttavia, che non è affatto così. Una parte consistente dell’opinione pubblica americana è tuttora convinta che le ultime elezioni Usa abbiano privato Trump della vittoria e insediato un presidente che, in realtà, aveva perso nelle urne.

Né si possono trascurare le ultime rivelazioni sul celebre episodio dell’assalto al Campidoglio, con l’ex presidente accusato, senza neppure troppe perifrasi, di aver promosso una sorta di “golpe” poi abortito anche grazie alla resistenza dell’allora vicepresidente Pence e di atri esponenti repubblicani di spicco. L’impressione, comunque, è che le rivelazioni abbiano l’unico scopo di mettere in difficoltà Donald Trump.

A mio avviso, un sano realismo politico dovrebbe consigliare a Biden di non impegnare gli Usa in una doppia battaglia difficile da vincere. E di tentare, invece, di separare Russia e Cina anche facendo leva sulla storica diffidenza che da sempre caratterizza i rapporti sino-russi.

Non a caso Henry Kissinger si chiedeva tempo fa dove stessero andando gli Usa, e se davvero convenisse all’Occidente continuare ad allarmare Mosca allargando sempre più la spinta della Nato verso Oriente.

Il fatto è che è sbagliato porre in termini ultimativi la domanda se l’Ucraina debba stare con l’Occidente o con la Russia. Considerata la storia, questo Stato slavo, per sopravvivere, dovrebbe invece essere un ponte tra le due sponde che oggi sono un po’ meno lontane rispetto ai tempi della Guerra Fredda. E che hanno – o dovrebbero avere – pure interessi comuni: per esempio la lotta contro il radicalismo islamico.

Da un lato la Russia dovrebbe capire che non è possibile ridurre l’Ucraina alla condizione di Stato satellite. Ma americani ed europei devono dal canto loro comprendere che i russi non potranno mai considerare l’Ucraina alla stregua di un qualsiasi Paese straniero per un motivo molto semplice: Kiev è la vera culla della civiltà russa, e alcune delle più importanti battaglie della sua storia sono state combattute proprio sul suolo ucraino. Perfino molti famosi dissidenti dell’era sovietica, da Solzhenitsyn a Brodsky, consideravano l’Ucraina parte integrante della storia russa.

Non solo. Stiamo parlando di un Paese poliglotta dove la componente russofona è presente in modo così vasto da non poterne ignorare l’esistenza, e risulta nettamente maggioritaria nella sua parte orientale. Una politica americana saggia dovrebbe cercare ad ogni costo un modo per far cooperare tra loro le due parti in conflitto, senza spingere perché una prevalga sull’altra.

Della Ue, poi, è meglio non parlare. In effetti non si capisce quale Europa gli ucraini antirussi abbiano in mente. La realtà è che il sogno europeo è stato in larga misura tradito, e l’Unione che abbiamo oggi è ben diversa da quella che avevano in mente i padri fondatori. Ecco perché sarebbe meglio accogliere almeno una parte delle richieste russe. Per esempio fermando l’avanzata della Nato verso Oriente e concedendo una certa autonomia ufficiale al Donbass, autonomia che di fatto esiste già sul terreno. Se davvero – come sembra – l’amministrazione Biden ritiene che la Cina sia l’avversario di gran lunga più pericoloso, questa è l’unica strada per consentire a Usa e Ue di non perdere la partita. E soprattutto, per staccare Putin da Xi Jinping.
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USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

Messaggioda Berto » mar gen 04, 2022 9:11 pm

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Re: USA: Trump e i repubblicani, Biden e i democratici

Messaggioda Berto » mar gen 04, 2022 9:13 pm

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