Istri, Iliri, Xlavi

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Messaggioda Berto » mer gen 08, 2014 7:58 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Istro, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » lun mar 10, 2014 6:43 pm

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Re: Istro, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » lun mar 10, 2014 6:43 pm

Orexeni turco altaeghe de le coulture nomadego-pastorałi

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... tjWE0/edit

Immagine
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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » mar mar 11, 2014 10:42 am

Pensè a l’asourdetà o ensemensa de ła teoria tradisional endouropea ke ła far rivar łi xlavi ente l’Istra e i Balcani longo el VI secoło dapò Cristo e gnanca łi se dimanda ma come:
łi xlavi łi vien fati rivar entel VI secoło d.C. però i nomi de Opitergium-Opterg (Oderso) e de Tergeste (Trieste) atestà miłe ani prima li vien fati rivar da ła voxe xlava terg = marcà ... ma come sarisela rivà sta voxe xlava 1000/1500 ani vanti ke rivase li xlavi?
Tre le xe le robe o la voxe "terg" no la xe lomè xlava ma nca de altri povoli o la xe xlava e la xe stà portà da migranti xlavi ente li ani del bronxo e de li castelàri o li toponemi de Opitergium-Opterg (Oderso) e de Tergeste (Trieste) li ga n'altro senso da coelo de marcà.

Oderso
viewtopic.php?f=151&t=708

Oderso da Veneti Antichi de Proxdoçemi, da UTET, da Dante Olivieri e da Xane Semeran
https://picasaweb.google.com/pilpotis/O ... Prosdocimi
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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » mer set 03, 2014 7:55 pm

Etnicità 32.
Il Caso: La Formazione Dell’Ucraina E Della Russia (Parte 1)


http://www.veneto.antrocom.org/blog/?p=1778


Etnicità 33.
Il Caso: La Formazione Dell’Ucraina E Della Russia (Parte 2).


http://www.veneto.antrocom.org/blog/?p=1780
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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » mer apr 08, 2015 10:38 pm

Istria (Kinome o toponomemo de ara xlava)
viewtopic.php?f=152&t=737
viewforum.php?f=152

Istro, Istria, Dniester, Irtys, ...
Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... /istro.jpg

Donau, Danubio
viewtopic.php?f=45&t=967
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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » gio apr 09, 2015 10:05 pm

Castełàri istriani
viewtopic.php?f=152&t=739
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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » sab lug 11, 2015 9:51 am

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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » lun apr 04, 2016 12:00 pm

???

Alla ricerca degli Slavi

http://www.centrostudilaruna.it/forum/v ... 4470#p4470

Gli Slavi (meglio gli Slavofoni o Slavo-parlanti) rappresentano uno dei più grandi blocchi etnico-linguistici europei: ca. 290 milioni di persone che dichiarano come prima lingua parlata una lingua slava e perciò in numero di parlanti secondi solo al blocco germanico.

Oltre a ciò gli Slavi rappresentano persino un substrato antropico di altri popoli e nazioni che non usano più una lingua slava. Ricordiamo per quest'ultimo aspetto l'Ungheria, la Romania e la Moldavia, per tacere della Grecia e di parte della Turchia anatolica oltre a buona parte della Germania occidentale, fino al Reno, e orientale, fino alla Vistola.

La Germania conserva ancora tantissime tracce di “slavità” in numerosi toponimi e in certe sue tradizioni popolari oltre a racchiudere nei propri territori, oggi definitivamente tedeschi e austriaci, delle minoranze slave non germanizzate.
E da dove sono venute queste popolazioni slavo-parlanti, una volta assicuratici che non sono autoctone nella situazione geografica dove oggi si trovano? È un discorso complesso e difficile da affrontare senza una sufficiente documentazione in vari campi che spaziano dall'archeologia alla genetica. Può tornar utile parlare di origini degli Slavi dal punto di vista storico soltanto se le conclusioni ultime di una ricerca appropriata offrissero dati concreti che permettessero di stabilire una sequela di eventi nell'ambito di una storia medievale europea che anche gli Slavi hanno contribuito a produrre.

A che serve però investigare sulle origini dei popoli in generale? È una questione che ci interessa chiarire giacché è tipica della nostra cultura dove regna una pertinace curiosità in questo senso e non si riesce a immaginare che un gruppo all'interno di altri gruppi umani decida un bel giorno di separarsi dagli altri soltanto “cambiando di lingua, ad esempio. L'opinione comune era ancora al tempo delle invenzioni delle “differenti” nazioni europee nel XIX sec. d.C. che occorresse attribuirsi un etnonimo esclusivo e scegliersi un capostipite per lanciarsi alla conquista del mondo o per imporsi come novità politica. Né tale posizione ideologica è una novità, anzi! L'Impero Romano nella sua piena maturità con due capitali, una sul Tevere in decadenza (più o meno da V sec. d.C.) e una sul Bosforo in piena fioritura, sollevava in ogni incontro/scontro con popolazioni nuove lungo i suoi confini questo genere di problema e lo elevava a fondamento della conquista di genti e territori. È logico che, se si trattava di affrontare la pressione sui confini con le armi, piuttosto che le possibili buone intenzioni era gioco-forza valutare la potenza in armi dell'avversario e quindi l'Impero affidava lo studio della questione di provenienza e origine agli esperti dell'apparato militare imperiale. A questo scopo possedeva e manteneva il sistema giusto di spionaggio internazionale affinché ogni informazione su usi, costumi, “indole” e armamenti degli stranieri venisse registrata e vagliata strategicamente a Costantinopoli in tempo utile per esaminare le contromisure da prendere.


Nel caso specifico siamo nel periodo intorno al VII-VIII sec. d.C. quando l'Impero a causa della peste sin dai tempi di Giustiniano era giunto alla decisione di non rigettare del tutto le invasioni. Gran parte del territorio danubiano si era spopolato e andava quindi ripopolato e rimesso a coltura più che devastato da dispendiose e inutili guerre! In conclusione noi a questi “rapporti dei servizi di sicurezza imperiali” ci dobbiamo riferire per sapere come e perché gli Slavi siano stati classificati con tale nome e come si sia stabilita la loro provenienza che prevedesse chissà le loro mete e gli scopi auspicati all'interno del territorio imperiale. Si partiva in primo luogo dalla lingua che costoro parlavano, salvi i pregiudizi e i preconcetti dell'élite romana verso gli stranieri e il loro “modo” di esprimersi. Nell'Impero infatti si parlava un'unica e civile lingua veicolare, il latino e ogni altro idioma non era che un balbettio da disprezzare e ridicolizzare, a parte naturalmente la lingua della cultura tecnica, il greco, o la lingua delle scritture sacre, l'ebraico.
Se ci portiamo ai tempi dello storico greco Erodoto (ca. 485-425 a.C.), un tale metodo è già in uso giacché alle orecchie di quest'ultimo le lingue delle genti che lui stesso incontrava sulle rive settentrionali del Mar Nero gli risuonavano come dei balbettii infantili e chiamava quei non-greci Barbaroi ossia i balbettanti da cui il latino e l'italiano Barbari. In questa primaria percezione era incluso però un sommario giudizio spregiativo di una quasi animalità e di inciviltà e tale costrutto ideologico era sopravvissuto più o meno inalterato nella prassi amministrativa imperiale romana sin nei tempi di Augusto e di lì nel pieno Medioevo europeo. Quando poi la religione cristiana era diventata “religione di stato” nel IV sec. d.C. quelle antiche posizioni parzialmente xenofobe greche erano state rielaborate e inglobate in uno schema abbastanza chiaro e solido riferito ora alla Bibbia. Si affermava perciò che in principio era esistita una sola stirpe originatasi nel Medio Oriente da un'unica coppia di antenati creata dal dio più potente dell'universo e questa stirpe logicamente parlava pure una sola lingua: l'ebraico. Accrescendosi a tale stirpe lo stesso dio creatore per punizione aveva imposto lingue diverse e così essa si era frammentata in tante altre che si erano sparse per il resto del mondo. La genealogia di tutti gli uomini sulla Terra era quindi ben definita nelle Sacre Scritture in cui ogni nazione/etnia/popolo non poteva che scaturire da uno dei 3 figli di Noè e da uno dei loro tanti epigoni elencati con 72 nomi diversi. Una volta individuato il capostipite giusto nel detto elenco con l'operazione solenne e spettacolare del battesimo al Barbaro era concesso di elevarsi non solo alla dignità di uomo, ma di accedere alla “vera civiltà” che emanava dal Cristianesimo e dall'Impero Romano, suo secolare portatore. E infine, non era proprio la fama di Costantinopoli, città capitale e santa di questa civiltà e la sua ricchezza, ad aver attirato il Barbaro fino ai confini delle terre imperiali?
Tuttavia a ben scorrere l'elenco dei “capostipiti” biblici non se ne trova nemmeno uno a nome Slav, sebbene nella Cronaca Bulgara detta Apocrifa risalente all'XI sec. d.C. e conservatasi in un'unica copia del XVII sec. d.C. si parli di un re che porta appunto il nome Slav mentre fa da guida nella conquista della “patria” bulgara e slava nel bacino del Danubio. Il documento però è sospetto perché fa parte degli scritti religiosi dei Bogomili cioè della setta marchiata di paganesimo e di eresia di oppositori della Chiesa cristiana ufficiale balcanica. Insomma la notizia è priva di valore.
Ma allora chi e perché si è inventato l'etnonimo Slavi e dunque la nuova etnia? Quel che è sicuro è che sin dalle prime decadi del V sec. d.C. con il crollo definitivo dell'Impero Unno varie etnie fino allora soggette a questo stato stavano abbandonando le loro sedi e si stavano spargendo in tutta l'Europa a nord dei Carpazi spingendosi nella conca del Danubio sotto l'egida di intrepidi condottieri e quasi sempre senza rompere i legami interetnici avuti fino a quel momento a servizio degli Unni con gli altri compagni d'armi. Nelle fonti proprio in quelle circostanze sono nominati gli Slavi alla ricerca di sedi nuove insieme con Germani (Vandali orientali) e con Alani, ma niente si dice sui loro tratti distintivi sia linguistici che culturali.
Addirittura, quando si istituì l'Arcidiocesi Metropolitana di Kiev nel XI sec. d.C., gli Slavo-russi furono fatti discendere dagli Sciti di Crimea o Taurosciti senza che fosse chiaro in base a quale criterio storico la Chiesa madre costantinopolitana avesse deciso ciò, sebbene questa stessa istituzione sapesse bene dell'intimo e secolare rapporto fra Slavi e Germani e come potesse sorgere il dubbio che gli Slavi non avessero una pre-storia indipendente legata a una cultura tipica, ma fossero invece un qualche ramo spurio di Germani.
A questo punto è bene passare agli scritti di Jordnand/Jordanes, notaio germano-goto al servizio imperiale di un alto militare pure goto. Jordanes, battezzato e diventato vescovo - si dice - di Crotone o di Ravenna scrisse a Costantinopoli nel VI sec. d.C. la sua monumentale storia dell'etnia gotica, De origine actibusque Getarum, ed è qui che menziona due tribù slavofone l'una detta degli “Sclaveni (lat.) o Sklavenoi/Stlavenoi (gr.)” e l'altra detta degli “Antes (lat.) o Antoi (gr.)” oltre a una terza, ma separata, dei “Venedae”. Queste genti per cause differenti avevano sempre collaborato coi Goti pur assoggettate ai kaghan (capi di stato) degli Avari che erano succeduti agli Unni dopo la morte di Attila.
Sclaveni (lat.) o Sklavenoi/Stlavenoi (gr.) è l'etnonimo nella forma abbreviata Sclavi che si diffonderà maggiormente specie negli scritti prodotti in ambito imperiale e ecclesiastico e che si affermerà in molte lingue europee moderne (in preponderanza cattoliche) come ad esempio nell'italiano Slavo. Al contrario gli Anti sono scomparsi dalla memoria collettiva europea e quanto ai Venedae ne parliamo più avanti.
C'è una relazione fra Slavi e Schiavi? Assolutamente sì ed è ideologica. Il ridimensionamento e la trasformazione intervenuti con le Invasioni Barbariche del IV-V sec. d.C. nei grandi complessi agricoli romani (latifundia) aveva creato l'esigenza di comprare giovani schiavi che lavorasero la terra quasi gratuitamente fra i “barbari di stirpe germanica” per sopperire all'insufficienza dei prigionieri di guerra o di delinquenti e debitori o di ostaggi non riscattati. In latino gli schiavi erano chiamati servi, ma quando col passar del tempo verso il VII sec. d.C. i Germani assursero a pari dignità con gli altri cittadini romani, non fu più alla moda chiamare un Germano, quello che fosse il suo ruolo sociale, usando tale epiteto. Non solo! Gli stessi capitribù germanici erano passati a fare mercato di giovani catturandoli o acquisendoli dalle etnie a loro vicine e probabilmente i servi nei latifundia erano diventati in prevalenza slavi. Così Sclavi da etnonimo passò a identificarsi con un deposito umano di servi della Mitteleuropa e indicò pertanto delle genti con rango un tantino inferiore e l'idea dell'inferiorità slava per questo motivo non soltanto si radicò, ma addirittura passò in eredità intorno al 900 d.C. fin nel mondo mercantile musulmano che pure faceva incetta di schiavi per fornirne alla Spagna musulmana, al-Andalus, o a Baghdad. A Venezia che ne faceva intenso commercio esiste ancora la Riva degli Slavi o Schiavoni dove questi, da veri e propri Gastarbeiter, venivano offerti al mercato dai loro venditori.
Ritorniamo però all'assunto iniziale delle origini slave. Nell'etica del già nominato Jordanes che ne parla all'interno della compagine germanico-gotica imperiale è logicamente inutile fermarsi troppo a lungo sulla questione, una volta che per l'autore l'interesse maggiore sono i Goti, ma neppure la cancelleria imperiale se ne interessa granché. Anzi! A parte la loro origine erano magari gli Slavi a doversi rallegrare di essere trascinati di forza nell'unica storia mitica dell'uomo e cioè quella gloriosa dei Romani che partiva dai loro eponimi Romolo e Remo con la fondazione della prima e vera città del mondo, Roma sul Tevere, e continuava con l'adozione del Cristianesimo. Con questa nuova ideologia l'Impero Romano aveva ricevuto persino il sigillo di missione divina nelle sue azioni di conquista e adesso gli atti politici di Roma rappresentava il fil rouge lungo cui la storia universale si stava svolgendo sotto la guida del dio cristiano.
Malgrado ciò, il contributo di Jordanes è almeno importante per la geografia che fornisce sulla distribuzione delle genti slave e val la pena citare il passo originale (gli adattamenti e la traduzione sono nostri) a riguardo: «Sul lato sinistro dei Carpazi che declina verso nord, iniziando dalle sorgenti del fiume Vistola in enormi estensioni di territorio abita la numerosissima tribù dei Venethae. Sebbene i nomi delle loro genti siano diversi a seconda dei gruppi famigliari e delle loro locazioni nel territorio, i più importanti si chiamano Sclaveni e Antes. Gli Sclaveni abitano non distanti dalla città di Noviotunum (identificata forse con Isaccea in Romania) e dal lago che si chiama Mursiano (località non identificata con certezza) fino al Danaster (Dnestr), senza soluzione di continuità, e nel nord fino alla Vistola. Paludi e foreste circondano le loro città. Gli Antes sono i più potenti fra loro e là dove il Mar Nero fa un arco si sono sistemati fra il Dnestr e il Danaper (Dnepr) dove lo spazio a disposizione è ampio fino a parecchi giorni di viaggio.»
Né Jordanes è l'unico che scriva delle due “supertribù slave”. C'è Prisco di Pani, Procopio di Cesarea o il Pseudo-Maurizio e qualche altro autore ancora che confermano il grado d'interesse per le genti di confine che preoccupavano Roma d'Oriente e d'Occidente e – quando la Curia Romana lo legittimerà nell'800 d.C. – interesseranno persino l'attivo Carlomagno.
Fin qui troppo poco però per poter ricostruire una specificità slava, se non fosse per Procopio di Cesarea, un generale romano contemporaneo di Jordanes che si vanta di aver partecipato a molte guerre contro i Barbari d'Oriente, il quale parlando degli scontri con i Goti e i loro alleati nomina appunto nei suoi scritti Sclavinae e Antae e aggiunge qualche particolare interessante sulla loro cultura pur sempre barbara. Ecco quanto scrive: «Credono in un solo dio, il lanciatore del fulmine e signore unico del mondo. Gli sacrificano tori e animali di varie specie. Ignorano però se questo dio abbia una qualche influenza sul destino e sulla vita umana. Quando temono per la propria vita promettono a questo dio, se li salverà, di sacrificare di più di quello che gli hanno sacrificato finora e si comportano allo stesso modo in caso di malattia sperando nella guarigione. In altre parole comprano così i favori dal dio. Onorano però anche i fiumi, le ninfe e altre divinità e anche a queste sacrificano richiedendo loro oracoli e divinazioni. Vivono, questi Slavi, in villaggi molto lontani l'uno dall'altro composti da povere case (perché di legno!) e non rimangono a lungo nello stesso posto. Quando poi scendono in una campagna di guerra, sono quasi tutti dei fantaccini a piedi forniti di uno scudo e una lancia e non indossano armature. Molti di loro addirittura non posseggono un camicione e neppure un mantello e si coprono i fianchi con un corto perizoma e così vanno contro i nemici a combattere. Entrambe le tribù parlano una sola e comune lingua, seppur barbara ed è pure difficile distinguerli l'uno dall'altro nell'aspetto esterno. Sono tutti di grande statura e di corporatura muscolosa e per quanto riguarda il colore della pelle e dei capelli non si può dire che siano assolutamente chiari e biondi, ma neppure che siano scuri. Al contrario virano più verso il color rosso.» Non solo! Continua: «Il loro modo di vivere è altrettanto rude e primitivo come quello dei Massageti (popolo antico delle steppe di stirpe iranica nominato da Erodoto) e come questi sono sempre sporchi. Eppure non sono gente malvagia o cattiva, ma si comportano così per pura indole semplice ad imitazione dei costumi degli Unni. Gli Sclaveni e gli Anti hanno avuto nell'antichità il nome di Spori (greco per semi sparsi) probabilmente per il fatto di vivere sparsamente nel territorio dove abitano. E per questo motivo occupano uno spazio molto grande la cui maggior parte si trova al di là (sulla riva sinistra) del Danubio.» Che gli Antes fossero più bellicosi degli Sclaveni dal punto di vista militare era una qualità non solo intrinseca della stirpe, ma nelle credenze del tempo era da attribuire anche alla potenza degli dèi pagani protettori! Ma ciò che importanza ha per una storia etnica degli Slavi?
Altre notizie interessanti di Procopio: «Gli Slavi – scrive – non hanno un sovrano che li governi, ma da sempre vivono in regime di democrazia e tutto quanto concerne il bene o il male della comunità è affidato (alle decisioni) di tutti i membri.» E questo ci fa capire come l'amministrazione imperiale si trovava in imbarazzo già a trattare con più capitribù slavi, quando invece un re unico sarebbe stato preferibile. In seguito Costantinopoli, quando gli Slavi abiteranno la Grecia stabilmente, lasciò che si governassero secondo i loro usi “democratici” defilandosi da interventi nelle loro aree dette per tale aspetto Sklavinìe. Per di più gli Slavi, non conoscendo nel loro sistema di gruppo-famiglia-villaggio alcun capo assoluto, assunsero Carlomagno come modello di re tanto da fissarlo nelle loro lingue: russo korol', ceco král, polacco król etc. per dire appunto re, sebbene presso gli Slavo-russi tale istituto restasse comunque una rarità fino al XVI sec. d.C.
Dalla Cronaca dei Franchi di Fredegario (dal 584 al 642) sappiamo inoltre che gli Slavi fossero apprezzati sotto gli Avari in parte come soldati che si sanno muovere fra paludi e foreste e in parte perché in quelle condizioni da bravi agricoltori sono in grado di fornire alimentari per loro stessi e per gli altri commilitoni. Che però gli Slavi fossero dei sudditi sotto gli Avari resta chissà (ma è una nostra speculazione) nella parola che sembra la corruzione del titolo nobiliare slavo di Pan/Župan e che si usa in turco ottomano per chiamare il cameriere: Bana...
Ad ogni modo notizie tanto raccogliticce non portano molto lontano né spiegano i fiumi di inchiostro consumati alla ricerca di un significato per delle supposte radici *Slav- o *Vend- tratte dagli etnonimi detti e sorge un'altra domanda: Serve scervellarsi sull'etimologia dei detti etnonimi? E se poi gli etimi che si propongono sono oscuri o incerti che se ne può dedurre di positivo o di negativo sugli Slavi e sulla loro origine?
Secondo noi l'indagine filologica non ha senso, salvo che non nasconda lo schema classico cristallizzato nel pensiero cristiano in cui tutti gli uomini discendo dalla coppia creata dal dio cristiano e dunque devono avere un capostipite fra quelli registrati nelle Sacre Scritture. La storia personale e del lavoro meticoloso del filologo W. Steller prova (H. Schröcke v. bibl.) come partendo dalle ricerche dell'origine di un'etnia si finisce nell'intento nazionalistico di trovare, sì!, un capostipite, ma da glorificare onde legittimare una dinastia destinata a regnare su una nazione. Insomma la questione etimologica ha creato sentimenti politici discordanti in modo eclatante nel XIX sec. d.C. presso i Russi che dalla supposta inferiorità slava rinfocolata dalla Germania guglielmina si sentivano toccati nella loro identità nazionale più intima. Ci riferiamo stavolta al movimento nazional-liberale cosiddetto degli Slavofili in voga in quegli anni allorché i Russi si dichiararono gli unici e veri rappresentanti della Slavità europea con la loro cultura “imperiale” più importante delle altre e si batterono contro ogni atteggiamento che considerasse non solo i Russi, ma tutti gli altri Slavi “fratelli” inferiori agli altri europei.
Detto ciò è però strano che l'etimologia che si vorrebbe ancora oggi ricostruire dall'etnonimo Sclavo/Slavo non abbia avuto un riscontro altrettanto forte nel mondo intellettuale per l'altro etnonimo Vendi/Venedi, benché questo fosse l'etnonimo preferito dai Germani per le genti slave e miste forse perché si concedeva ai Vendi un un rango etnico superiore rispetto a Sclaveni o Anti visto il ted. Wenden per Venedi/Vendi è restato in auge all'epoca della penetrazione germanica nel nordest d'Europa o Drang nach Osten. A questi problemi politico-etimologici dovevamo accennare poiché - occorre ribadirlo - c'è ancora qualche storico che naviga nel mare della speculazione alla ricerca di significati “originari” di slavo e venedo/vendo et sim. impelagandosi in complicatissimi intrecci glotto-filologici a volte assurdi.
Chiudiamo perciò dicendo che sia come sia ci sono incertezze sulle origini slave, ma soltanto se ci si attiene a certi schemi ormai superati! D'altronde l'esperienza degli ultimi decenni in etnografia e antropologia in tutto il mondo ci ha insegnato che i nomignoli con cui lo straniero è etichettato dall'osservatore eventuale mettono di solito in evidenza i tratti fisici, certi atteggiamenti e, soltanto più raramente, la sua provenienza che... non può essere che mitologica! Un etnonimo-nomignolo fornisce elementi utili allo storico esclusivamente se è issato come vessillo nelle mani di un'élite di una certa gente lanciatasi in un'impresa migratoria e di conquista basando il proprio progetto sul mito dell'eponimo sacro. In tal caso è utile lo sforzo degli specialisti che riescono a ricostruire gli itinerari (culturali o geografici) seguiti per arrivare al punto d'incontro/scontro con altre genti di questo nuovo gruppo di uomini. Poi magari si riscontreranno persino una serie di nomignoli etnici diversi per corruzione linguistica o per stabilire una netta differenza che serva a distinguere i NOI dagli ALTRI e così delimitare il territorio occupato.
Volgiamoci allora ai moderni mezzi di indagine che sono aumentati e si sono raffinati nella tecnica rispetto al passato e forse potremo giungere a conclusioni più affidabili sulla questione della provenienza degli Slavi dal punto di vista “etnico” e non soltanto riuscendo a localizzarli geograficamente nelle loro tappe evolutive, ma sperando pure di definire quando si è prodotta l'identità linguistica (l'unica realmente distintiva) con buona approssimazione.
Un grande apporto è venuto in questi ultimi decenni dalla genetica giacché con l'esame dei resti fossili di DNA dei membri di etnie scomparse si è riuscito ad avere un quadro più circostanziato dei territori e dei tempi di espansione delle genti dai siti di origine. Né la genetica da sola ci offrirebbe informazioni, se non fosse stata preceduta dal lavoro degli archeologi che hanno ritrovato le tracce lasciate dagli uomini sul territorio. L'archeologia nel passato era meno attrezzata di oggi, ma ha comunque iniziato un lavoro di ricerca sull'argomento Slavi e sulla loro diffusione in Europa già nella seconda metà del sec. XIX d.C. e i reperti e gli studi relativi sono tuttora conservati nei musei e nelle biblioteche. Sono ancora sfruttabili, seppur rivedibili al lume delle nuove tecniche di scavo.
Sia come sia un'etnia, se non ha o non crea una propria cultura riconoscibile come diversa dalle altre con le quali viene a contatto, alla fine non esiste per la storia né tanto meno per l'archeologia. La sua realtà infatti è legata alle tracce materiali che lascia nel terreno che, combinate con la tradizione perpetuatasi fra le etnie da essa derivate, se ve ne sono, forniscono elementi distinguibili e esclusivi. Un'etnia inoltre non è un “oggetto” che passa attraverso il tempo immutabile e immutata, ma è fatta di persone che nascono, vivono e muoiono con proprie vite e che in ogni ciclo vitale sono presenti con diverse attività, successi o insuccessi pratici etc. e pertanto ogni generazione che si avvicenda è sempre altra da quella precedente. Se però non ci sono istituzioni o ideologie adeguate che ne fissino il ricordo, sarà difficile riconoscere l'identità culturale ereditata dagli antenati e ci troveremo di fronte a una serie di reperti archeologici interessanti, ma muti. Ecco perché abbiamo parlato di tradizione come un'operazione di ricordo attraverso l'uso di una lingua propria del gruppo e di conseguenza una cultura che tale tradizione trasmette non può prescindere dalla lingua usata per la trasmissione e, se tale lingua dovesse essere abbandonata e sostituita da un'altra anche la cultura cambierebbe. Dunque la lingua parlata dagli Slavi per trasmettere un proprio passato di generazione in generazione non è insignificante e l'esistenza della ventina di lingue sorelle parlate da così lungo tempo in un'area vasta dell'Europa Nordorientale deve avere una spiegazione e un peso storico notevole. Purtroppo la lingua è uno strumento immateriale che cambia e evolve rapidamente e, se manca un sistema fissativo resistente nel tempo (prima dell'arrivo dello scritto e poi di Internet), essa rischia di andar irrimediabilmente perduta. Fortunatamente con l'ausilio dell'archeolinguistica e dei suoi sofisticati programmi informatici si riesce a stimare almeno quanto tempo fa una lingua si è separata dalla koiné più generica del gruppo e persino dove tale passaggio o scomparsa è avvenuta.
D'altra parte non tutti coloro che parlano lingue affini ossia che fanno capo a una “lingua madre” documentata originaria hanno storie e culture simili o cresciute in parallelo e allora perché gli Slavi dovrebbero costituire un blocco etnico più interessante nella storia europea rispetto, diciamo, a quello germanico o celto-italico? Anche questa questione fa parte di quanto andiamo indagando e su cui insisteremo. Al momento diciamo che dai contributi di tutte le scienze “storiche” mentre indietreggiamo nel tempo siamo giustificati a spostare lo sguardo poco a nord delle steppe ucraine giacché è qui che quasi sicuramente è comprovata l'esistenza di gruppi di uomini che parlarono la prima lingua che potremmo chiamare proto-slava.

Le lingue slave appartengono alla famiglia che una “protolingua indoeuropea” generò insieme ad altre e che si diffusero ca. 3000-4000 anni a. C. in varie aree non troppo lontane l'una dall'altra nel continente. Le migrazioni motivate da cause ambientali spinsero gli indoeuropei dapprima verso il bacino danubiano e poi verso le foreste del nord fino al Mar Baltico e, in questa fase ultima, una parte di quei migranti isolati dal resto a nord dei Carpazi si differenziarono dai Balto-slavi di cui facevamo parte sia come cultura che come lingua parlata all'interno della famiglia indoeuropea. Sulla questione indo-europea e sui suoi sottogruppi e sottofamiglie rimandiamo il lettore alla vastissima letteratura prodotta negli ultimi anni, ma in particolare caldeggiamo la lettura del lavoro dall'archeologo e archeolinguista David W. Anthony citato in bibliografia, mentre noi diciamo che, sebbene alcune differenze morfologiche lascino dividere le lingue slave in tre o quattro sottogruppi, la differenziazione culturale è invece più recente e avvenne probabilmente intorno al IX-X sec. d.C.
Le notizie più antiche e più affidabili sul territorio delle steppe, culla delle lingue indoeuropee, sono di fonte greca e risalgono al solito Erodoto ossia a un periodo in cui da qualche millennio tali lingue erano già differenziate. Noi però non abbiamo altro materiale scritto esauriente e dobbiamo perciò servirci delle sue informazioni. Erodoto però si riferisce non tanto alle steppe ucraine quanto al contrario alla Crimea e alle rive del Mar Nero comprese quelle “caucasiche” oltre alle rive meridionali o anatoliche dello stesso mare giacché è lungo queste rive che i greci avevano le loro postazioni e i loro mercati permanenti frequentati dal nostro storico. L'etnia dominante nel racconto greco è costituita dal superethnos degli Sciti con le tribù componenti e siamo avvertiti che esisteva uno stato scitico molto potente che governava. Altri storici più recenti scriveranno che gli Sciti erano ben noti alla Persia per essersi scontrati con Dario I Istaspe alla fine del VI sec. a.C. e dai reperti archeolinguistici possiamo affermare che gli Sciti erano iranofoni come i Persiani stessi.
Saltiamo ancora nel tempo e portiamoci ai primi secoli della nostra era.
Nel I sec. d.C. Plinio il Vecchio raccoglie notizie sui Baltici che, come ci dice pure l'archeologia, sono lì ormai da oltre 1000 anni. L'autore latino è interessato a descrivere i nordici come fornitori di ambra e di pellicce pregiate e dopo la sua morte è Tacito a raccogliere notizie sul Mar Baltico dai Germani e questi ci avverte che gli Aestii (solo in seguito l'etnonimo passerà a indicare gli Ugro-finni Estoni) che lì abitano parlano una lingua simile a quella dei Celti. Di Slavi però nemmeno l'ombra, sebbene Claudio Tolomeo di poco posteriore (II sec. d.C.) parli di Venedi e del Mar Baltico che chiama Golfo dei Venedi (Sinus Venedicus) perché da loro dominato. Già questo ci dice che gli Slavi, ammesso che i Venedi/Vendi del geografo alessandrino siano slavofoni e non germanofoni o celtofoni come sembrano invece a Tacito e a Plinio, avevano un ruolo importante nel nord della Pianura Russa (alla foce della Vistola in particolare) e certamente in concorrenza con i Baltici secoli ancor prima delle menzioni di Jordanes. E la questione si complica giacché è difficile non riconoscere la consonanza fra l'etnonimo Venedi/Vendi del Mar Baltico e i Venetae di Plinio situati a cavallo delle Alpi orientali italiane, sebbene allo stesso tempo identificare Venedi/Vendi/Veneti con gli Slavi sia impossibile dal punto di vista documentale. Lasciamo allora la questione alle ipotesi e alle discussioni da anni in corso e continuiamo il nostro excursus.
Nel periodo del I-II sec. d.C. i popoli rivieraschi del Mar Nero si sono ormai ellenizzati dal punto di vista politico tanto da creare degli stati su modello ellenico dove notiamo i nomi dei re del Regno del Bosforo Cimmerio (distretto dell'odierna Kerč) che suonano Kotis, Reskuporid, Remetalk, Sauromat etc. quasi tutti indoeuropei e di risonanza iranica.
Dalla metà del III sec. d.C. s'intensificano le migrazioni – miste e meticciate dal punto di vista etnico – dalle steppe verso l'Occidente europeo capeggiate da germanofoni e sulle spinte dei nomadi turcofoni. Uno dei popoli migranti sono gli Alani, iranofoni e strettissimi alleati dei Goti, le quali due etnie attraverseranno tutta l'Europa giungendo fino in Tunisia passando prima dallo stretto di Gibilterra. Degli Alani, si noti, oggi restano molte tracce nei toponimi francesi, spagnoli e italiani mentre sono gli Osseti rimasti a dominare il fatidico passo di montagna del Caucaso, la cosiddetta Porta degli Alani o Dar-i Al, attraverso cui eserciti e migranti accedevano nelle steppe ucraine dall'Asia Centrale/Mesopotamia evitando le strade costiere del Mar Nero e del Mar Caspio, sono i loro pochissimi resti viventi nell'area di partenza.
Nei secoli seguenti nelle steppe arriveranno gli Unni, sempre turcofoni, che nelle scorribande verso l'Impero Romano d'Oriente trascineranno ogni etnia alla ricerca di universi abitabili migliori e fra le tante al loro servizio c'è un'evidenza culturale che ci fossero gli Slavi. Difatti dopo varie peripezie alla fine del VII sec. d.C. le diverse etnie quasi tutte indoeuropee messe insieme sotto la bandiera ávara si sono ormai insediate stabilmente nella cosiddetta Mitteleuropa e hanno prodotto delle culture archeologiche abbastanza tipiche che val la pena rivisitare non solo per gli scavi archeologici fatti in passato in cui i più consistenti sono quelli che si vedono nella figura coi nomi di Tušemlja, Koločin, Korčak e Penkovka, ma perché hanno coinvolto pure la moderna ricerca genetica. L'archeologia ha individuato ormai da anni necropoli e luoghi abitati nelle regioni appena nominate dove sono stati raccolti svariati reperti e questi oggetti suggeriscono nell'aspetto ornamentale e nella fattura l'esistenza di un'unica cultura databile più o meno all'inizio del 1° millennio d.C. che potrebbe essere definita “slava” per la “coincidenza” di collocazione geografica. Su questi reperti archeologici moltissimo si è costruito nel passato secolo sugli Slavi, sui Baltici e sulle loro origini specialmente da parte della compianta Marija Gimbutas (lituana emigrata negli USA) che però in parte è stato confutato dai risultati che la genetica di questi anni recentissimi ci ha offre sulla storia più antica delle steppe e dei suoi abitanti.
Si parte dal 1998 quando andò a compimento il progetto di ricerca collettivo detto Genoma Umano che si era prefisso il compito di investigare e identificare in tutti suoi componenti la struttura genetica di Homo sapiens sapiens a livello globale (sincronico) e in collaborazione con l'archeologia anche a livello storico (diacronico).
Moltissime ricerche seguirono ispirate da quel progetto ed è quindi importante accennare a che cos'è un gene e come esso agisce nel corpo umano giacché è a questa struttura biologica che gli antropologi si sono maggiormente dedicati nell'ultimo periodo anche per affrontare problemi puramente storici. Ed ecco la definizione classica di gene (Hartl del 2000): “Termine generico usato per indicare sommariamente l'entità fisica trasmessa nel processo riproduttivo dal genitore alla prole e che influenza la costruzione dei tratti ereditari dell'individuo generato.”
I geni appaiono sotto la forma chimico-biologica di proteine posizionate su catene molecolari lunghissime di DNA. Ogni catena è una doppia stringa di DNA avvolta su se stessa in maniera elicoidale e costituisce ognuna un cromosoma che andrà a far parte del nucleo vitale della cellula. I cromosomi nel nucleo della cellula umana sono ben 46 e portano più o meno 50 mila geni e sono visibili nel nucleo soltanto al momento della riproduzione della cellula che li contiene. I processi di riproduzione cellulare sono noti col nome di mitosi e meiosi. La mitosi serve nel corpo umano solitamente alla crescita o alla riparazione di una sua parte danneggiata con cellule nuove replicate da quelle già esistenti. Dal punto di vista genetico interessa meglio la meiosi in cui i cromosomi che si replicheranno servono a dare origine a un nuovo essere umano e provengono rispettivamente da due individui diversi: maschio e femmina e perciò contengono i famosi cromosomi X e Y. Si parte in questo caso dal nucleo della cellula-madre che contiene per ogni cromosoma ben due catene elicoidali cromosomiche omologhe (ossia 92 invece di 46), salvo la presenza dei cromosomi ora combinati XX o in XY. Le cellule-figlie saranno perciò fornite di cromosomi derivati da un complicatissimo processo di ricombinazioni fra le diverse eliche cromosomiche che si sdoppiano e ricombinano fino a dare la nuova sequenza definitiva di 46 nuovi cromosomi che sarà il patrimonio genetico del nuovo individuo, comprese le mutazioni e gli errori che il DNA nell'autocopiarsi subisce alterando il patrimonio genetico originario. Le mutazioni sono di varia natura e origine e sono classificate come utili all'evoluzione della specie o letali. Nel primo caso rimangono inattive nel genoma personale (o parzialmente attive, ma in modo non evidente) e non sono osservate nell'apparenza esteriore del corpo (nel fenotipo) o, se sono letali, non sono osservabili poiché la cellula germinativa con tali mutazioni muore.
A parte ciò, l'individualità genetica che appare sull'esterno del corpo umano ossia nel fenotipo oppure nel funzionamento del corpo stesso ossia nel genotipo è più vistosa nel fenotipo giacché si mostra col colore degli occhi, con la forma del naso, con la forma del cranio e con altri e numerosi tratti. Se i nostri antenati sono stati sempre impressionati dalle fattezze esterne dell'uomo e gli studiosi antropologi di oggi se ne sono interessati, ogni teoria costruita su tali esteriorità per dimostrare l'esistenza di razze, di popoli superiori e popoli inferiori si è rivelata fallace, sebbene ha riempito di pregiudizi le tradizioni culturali umane in tutta la Terra. Se poi si aggiunge che la lingua parlata era considerata nel Medioevo un aspetto dell'uomo pari ai capelli biondi ad esempio, ci sentiamo giustificati a soffermarci sommariamente su quanto la genetica moderna ci sa dire sull'argomento ereditarietà, evoluzione e mescolanza dei caratteri umani esterni e interni.
Già nel 1963 nell'entusiasmo degli albori della ricerca genetica umana si espresse la possibilità che potesse esistere un orologio molecolare che indicasse come le variazioni (mutazioni e errori genetici nel genoma) si potessero collocare nel tempo in base alla loro frequenza in popolazioni definite. In altre parole la rassomiglianza di un certo numero di tratti genetici umani fra due o più popolazioni è inversamente proporzionale all'età delle dissomiglianze dei medesimi tratti, avendo supposto un antenato comune delle popolazioni stesse al quale vorremmo giungere. Stabilito quindi il tasso medio di mutazioni o varianti riscontrate e definite in una catena del genoma di una popolazione, se lo confrontiamo con quello analogo di un'altra popolazione e riscontriamo che i due tassi hanno un valore di somiglianza alto, ciò vorrà dire che le due popolazioni si sono separate recentemente. Il contrario avviene, se tale valore invece è basso. Il problema è fissare l'unità di misura delle distanze temporali: mesi, anni, millenni? In molti casi ultimamente studiati purtroppo questo “orologio genetico-molecolare” dà dei valori fuori scala e non coincidenti con i riscontri archeologici. Certo, la ragione è che il numero di variazioni/mutazioni da studiare sono un numero enorme e, al momento, quasi impossibili da valutare nel breve termine. Ultimamente però si è notata la presenza nel citoplasma della cellula umana, oltre all'importantissimo nucleo coi suoi cromosomi e i suoi innumerevoli geni da trasmettere, di un organello separato, quasi un ospite a sé, e della sua funzione che governa la respirazione del sistema cellulare stesso: il mitocondrio. Alquanto meno complicato nella costituzione del proprio DNA (detto mt-DNA) che non è una lunga striscia doppia come quella dei cromosomi, ma circolare e chiusa su se stessa con ca. 16 mila basi costituenti oggi tutte ben note, nel caso di errori di duplicazione e di mutazioni il tasso rispettivo è molto più limitato nel numero e quindi si può immaginare, sempre per approssimazione, che conservi i propri caratteri genetici più a lungo immutati rispetto al DNA dei cromosomi del nucleo. Per gli studi evoluzionistici ciò è un grosso vantaggio giacché, “riconoscendo” nella cellula di un individuo qualsiasi un mt-DNA “uguale” a quello che si è trovato, ad esempio, in un altro individuo lontano e separato nel tempo e nello spazio, si può affermare con certezza che i due hanno ascendenti comuni “propri”. Usando allora il mt-DNA e, contando le mutazioni subite che come dicevamo sono nella fattispecie dei mitocondri un numero piccolo (ca. 1600!), possiamo più agevolmente procedere – ma con precauzione – al confronto descritto con l'ausilio del famigerato “orologio genetico-molecolare”.
Scelto quindi il mt-DNA come elemento di riferimento genetico (trasmesso esclusivamente dalla femmina via gene X), vediamo che le portatrici delle sue varianti a volte per varie ragioni climatiche geografiche et sim. costituire un gruppo separato nel loro peregrinare sulla faccia della Terra ossia si stabiliscono in un certo territorio lasciando che una delle dette varianti continui a agire. Si forma così all'interno di quella popolazione fuori da ogni contatto con altre esterne un pool genetico a sé ossia si crea la cosiddetta deriva genetica.


A parte questo caso che comunque ha creato molto imbarazzo nel passato perché con le “razze” umane oggi ormai cancellato, se dal gruppo di portatrici di una mutazione si staccano altri gruppi, ecco che in un sufficiente lasso di tempo possono comparire ora nuove varianti che si aggiungeranno a quella di partenza, ma permetteranno all'osservatore di risalire alla genitrice e quindi stabilire una genealogia temporale. Se il nuovo gruppo, chiamiamolo così, si allontana di parecchio dalla “genitrice”, possiamo ridisegnare l'itinerario percorso, l'epoca e persino la velocità di camminamento. Se addirittura la nuova mutazione riesce ad agire sul fenotipo modificandolo, allora ecco che i membri del nuovo gruppo appariranno diversi dagli altri “fratelli” loro simili nel colore della pelle, per gli occhi chiari, l'altezza e la pelosità etc. Semplice no? Potrebbe esserlo, se i numeri coinvolti non fossero enormi...
D'altronde il fattore genetico è un argomento complicatissimo e noi, per renderlo comprensibile almeno per quella parte che ci riguarda, ci siamo sforzati di descriverlo in modo sommario tanto da poter concludere e dire che, messo il fattore genetico insieme con gli altri elementi che ci vengono da altre discipline storiche e parastoriche, possediamo finalmente quei marcatori informativi dell'ascendenza o AIM (acronimo inglese di Ancestry Informative Markers) che ci permettono di ricostruire (solttanto in buona parte) la provenienza, le origini etc. degli Slavi nei limiti che abbiamo già definito fin qui.
Facciamo ora un semplice ragionamento: ogni individuo ha dei genitori e ciascun genitore ha avuto altri genitori e così, indietreggiando nelle generazioni, indietreggeremo anche nel tempo. A questo punto dall'esame degli AIM di individui, morti o vivi, di un certo gruppo umano, quando notiamo che un AIM (o talvolta anche più di uno) compare con maggior frequenza statistica rispetto agli altri AIM, è chiaro che i portatori essendo “più simili” fra loro saranno parte di una serie di generazioni imparentate. Se poi notiamo un altro gruppo umano localizzato in un'area lontana con una frequenza pure simile per gli stessi AIM, è conseguenziale pensare che i membri di questo secondo gruppo umano siano imparentati con quelli del primo. Se in più la frequenza dell'AIM sotto osservazione è maggiore nel primo gruppo, è pure probabile che il secondo origini dal primo e non viceversa. Non solo, ma ci suggerisce che il gruppo che vanta una maggior frequenza dell'AIM è il più antico fra quelli confrontati.
Aggiungiamo che l'esame genetico dei reperti archeologici sui quali è possibile ricavare DNA da testare in laboratorio può essere allargato e si possono associare i risultati persino con diversi gruppi umani odierni che hanno le stesse frequenze (o molto prossime) degli AIM scelti e di qui, se i gruppi osservati non si trovano più “vicini”, possiamo dedurre quando (cioè in quale generazione) gli allontanamenti sono avvenuti. Quel che è più importante addirittura è che così si può riuscire ad assegnare il gruppo definito più antico con queste analisi statistiche a una certa cultura che magari l'archeologia ha già classificato nel tempo e nello spazio e così ricostruire meglio la parentela culturale fra più gruppi e le loro reciproche connessioni storiche.
L'esame genetico naturalmente è possibile farlo anche su resti non umani in parallelo ossia magari dei “commensali” animali e da ciò dedurre, ad esempio, quali animali erano allevati o quale fauna frequentava i gruppi umani in questione e di qui conoscere le variazioni climatiche a cui gli animali sono molto più dipendenti degli uomini dal punto di vista fisico.
Una prima constatazione sui risultati che l'enorme lavoro dei genetisti fornisce è che le diverse popolazioni slavo-parlanti sono fra di loro più somiglianti (in ambito genetico) che non con le altre confinanti non slave e, in aggiunta, che il loro patrimonio genetico è diventato “comune” non più di 2000 anni fa arrivando a una conclusione che è davvero clamorosa: Le popolazioni o meglio i gruppi di famiglie nelle loro migrazioni dalle steppe ucraine verso nord si imposero dapprima a popoli già presenti nelle aree del bacino della Vistola intorno alle sue sorgenti fra i Carpazi e successivamente nuove generazioni si spostarono nel bacino del fiume Oder! Ancora più avanti nel tempo si nota, sempre sulla base della genetica, un'espansione verso i Balcani.
Dalla cartina qui sopra (proposta dalla ricercatrice Jean Manco, v. bibl.) si può vedere come fra il 300 d.C. e il VII sec. d.C. gli Slavi erano ormai definitivamente insediati a nord del Danubio oltre i Carpazi e come continuarono i loro raids specialmente nei Balcani in area già abitata dagli Illiri. Anzi, questi ultimi alla fine furono costretti a rifugiarsi sui monti lungo l'Adriatico e in parte furono assimilati e diventarono slavo-parlanti. Da quel poco che sappiamo di quei periodi senza scrittura sulle lingue slave parlate possiamo dedurre pure che nei Balcani queste sostituirono le lingue illiriche già parlate e notate dai Latini e dai Greci nell'antichità.
Una simile slavizzazione toccò ai latino-parlanti della Mesia e della Tracia, noti col nome di Valacchi, che soltanto in parte si rifugiarono fra le montagne per non essere assimilati lasciando però le valli agli Slavi che vi s'insediarono (Bulgaria danubiana, Moldavia).
La stessa sorte toccò ai Venedi già noti secoli prima come vicini dei Germani lontano da qui che incontrarono gli Slavi in espansione verso nord e alla fine i Vendi/Venedi/Veneti del Baltico e della Germania Orientale acquisirono una lingua slava intorno al VI sec. d.C. e non il contrario, per cui... gli Slavi non hanno i Venedi/Vendi come ascendenti.
Tutto quanto detto si sposa bene con le culture archeologiche già descritte che sono ormai da considerare slave fra il 500 e il 700 d.C. senza dimenticare che fra queste popolazioni nelle date sopra dette c'erano anche i Baltici indoeuropei.
Come mai però le popolazioni “autoctone” accettarono una cultura nuova rinunciando alla propria? La risposta è che gli Slavo-parlanti per “invadere” il nord e il nordovest portarono con sé trasformazioni culturali che apparivano talmente “più moderne” da attrarre chi li frequentava da spingere perciò a assimilarle o perlomeno a imitarle.
Qualche anno fa un gruppo di genetisti capeggiato da M. Richards ha tirato fuori un'altra storia davvero inimmaginabile prima sul popolamento del nordest europeo e cioè che gli AIM portati dal cromosoma X e chiamati H e V sono apparsi nel sudovest d'Europa recentemente (33 mila anni fa) e sono frequenti fra Slavi, Ugro-finni e Caucasici di oggi rispetto alla loro presenza fra i popoli del Vicino Oriente dove invece sono apparsi soltanto 26500 anni fa e che perciò sono “quegli europei” che sono emigrati (per ragioni climatiche) nella Mesopotamia antica. Ciò concorda con quanto ad esempio i Sumeri dicono dei propri antenati. In qualche modo però gli Indiani e i loro padri Ariani emigrati ca. 1500 anni a.C. in India quasi “ritornavano in patria” dal punto di vista genetico poiché H e V erano già apparsi nel Kashmir 40 mila anni fa come risulta da un'indagine fatta dai genetisti estoni R. Villems e T. Kivisild.
In altre parole dall'ultima regione (fra Kashmir e Gujarat) di migrazione si mossero i cosiddetti “autoctoni” del nord Europa, ma poi tornarono nell'area di partenza e di là successivamente migrarono ancora una volta verso il Mediterraneo, verso il Caucaso e verso il Danubio.
Già nel 1963 nell'entusiasmo degli albori della ricerca genetica umana si espresse la possibilità che potesse esistere un orologio molecolare che indicasse come le variazioni (mutazioni e errori genetici nel genoma) si potessero collocare nel tempo in base alla loro frequenza in popolazioni definite. In altre parole la rassomiglianza di un certo numero di tratti genetici umani fra due o più popolazioni è inversamente proporzionale all'età delle dissomiglianze dei medesimi tratti, avendo supposto un antenato comune delle popolazioni stesse al quale vorremmo giungere. Stabilito quindi il tasso medio di mutazioni o varianti riscontrate e definite in una catena del genoma di una popolazione, se lo confrontiamo con quello analogo di un'altra popolazione e riscontriamo che i due tassi hanno un valore di somiglianza alto, ciò vorrà dire che le due popolazioni si sono separate recentemente. Il contrario avviene, se tale valore invece è basso. Il problema è fissare l'unità di misura delle distanze temporali: mesi, anni, millenni? In molti casi ultimamente studiati purtroppo questo “orologio genetico-molecolare” dà dei valori fuori scala e non coincidenti con i riscontri archeologici. Certo, la ragione è che il numero di variazioni/mutazioni da studiare sono un numero enorme e, al momento, quasi impossibili da valutare nel breve termine. Ultimamente però si è notata la presenza nel citoplasma della cellula umana, oltre all'importantissimo nucleo coi suoi cromosomi e i suoi innumerevoli geni da trasmettere, di un organello separato, quasi un ospite a sé, e della sua funzione che governa la respirazione del sistema cellulare stesso: il mitocondrio. Alquanto meno complicato nella costituzione del proprio DNA (detto mt-DNA) che non è una lunga striscia doppia come quella dei cromosomi, ma circolare e chiusa su se stessa con ca. 16 mila basi costituenti oggi tutte ben note, nel caso di errori di duplicazione e di mutazioni il tasso rispettivo è molto più limitato nel numero e quindi si può immaginare, sempre per approssimazione, che conservi i propri caratteri genetici più a lungo immutati rispetto al DNA dei cromosomi del nucleo. Per gli studi evoluzionistici ciò è un grosso vantaggio giacché, “riconoscendo” nella cellula di un individuo qualsiasi un mt-DNA “uguale” a quello che si è trovato, ad esempio, in un altro individuo lontano e separato nel tempo e nello spazio, si può affermare con certezza che i due hanno ascendenti comuni “propri”. Usando allora il mt-DNA e, contando le mutazioni subite che come dicevamo sono nella fattispecie dei mitocondri un numero piccolo (ca. 1600!), possiamo più agevolmente procedere – ma con precauzione – al confronto descritto con l'ausilio del famigerato “orologio genetico-molecolare”.
Scelto quindi il mt-DNA come elemento di riferimento genetico (trasmesso esclusivamente dalla femmina via gene X), vediamo che le portatrici delle sue varianti a volte per varie ragioni climatiche geografiche et sim. costituire un gruppo separato nel loro peregrinare sulla faccia della Terra ossia si stabiliscono in un certo territorio lasciando che una delle dette varianti continui a agire. Si forma così all'interno di quella popolazione fuori da ogni contatto con altre esterne un pool genetico a sé ossia si crea la cosiddetta deriva genetica. A parte questo caso che comunque ha creato molto imbarazzo nel passato perché con le “razze” umane oggi ormai cancellato, se dal gruppo di portatrici di una mutazione si staccano altri gruppi, ecco che in un sufficiente lasso di tempo possono comparire ora nuove varianti che si aggiungeranno a quella di partenza, ma permetteranno all'osservatore di risalire alla genitrice e quindi stabilire una genealogia temporale. Se il nuovo gruppo, chiamiamolo così, si allontana di parecchio dalla “genitrice”, possiamo ridisegnare l'itinerario percorso, l'epoca e persino la velocità di camminamento. Se addirittura la nuova mutazione riesce ad agire sul fenotipo modificandolo, allora ecco che i membri del nuovo gruppo appariranno diversi dagli altri “fratelli” loro simili nel colore della pelle, per gli occhi chiari, l'altezza e la pelosità etc. Semplice no? Potrebbe esserlo, se i numeri coinvolti non fossero enormi...
D'altronde il fattore genetico è un argomento complicatissimo e noi, per renderlo comprensibile almeno per quella parte che ci riguarda, ci siamo sforzati di descriverlo in modo sommario tanto da poter concludere e dire che, messo il fattore genetico insieme con gli altri elementi che ci vengono da altre discipline storiche e parastoriche, possediamo finalmente quei marcatori informativi dell'ascendenza o AIM (acronimo inglese di Ancestry Informative Markers) che ci permettono di ricostruire (solttanto in buona parte) la provenienza, le origini etc. degli Slavi nei limiti che abbiamo già definito fin qui.
Facciamo ora un semplice ragionamento: ogni individuo ha dei genitori e ciascun genitore ha avuto altri genitori e così, indietreggiando nelle generazioni, indietreggeremo anche nel tempo. A questo punto dall'esame degli AIM di individui, morti o vivi, di un certo gruppo umano, quando notiamo che un AIM (o talvolta anche più di uno) compare con maggior frequenza statistica rispetto agli altri AIM, è chiaro che i portatori essendo “più simili” fra loro saranno parte di una serie di generazioni imparentate. Se poi notiamo un altro gruppo umano localizzato in un'area lontana con una frequenza pure simile per gli stessi AIM, è conseguenziale pensare che i membri di questo secondo gruppo umano siano imparentati con quelli del primo. Se in più la frequenza dell'AIM sotto osservazione è maggiore nel primo gruppo, è pure probabile che il secondo origini dal primo e non viceversa. Non solo, ma ci suggerisce che il gruppo che vanta una maggior frequenza dell'AIM è il più antico fra quelli confrontati.
Aggiungiamo che l'esame genetico dei reperti archeologici sui quali è possibile ricavare DNA da testare in laboratorio può essere allargato e si possono associare i risultati persino con diversi gruppi umani odierni che hanno le stesse frequenze (o molto prossime) degli AIM scelti e di qui, se i gruppi osservati non si trovano più “vicini”, possiamo dedurre quando (cioè in quale generazione) gli allontanamenti sono avvenuti. Quel che è più importante addirittura è che così si può riuscire ad assegnare il gruppo definito più antico con queste analisi statistiche a una certa cultura che magari l'archeologia ha già classificato nel tempo e nello spazio e così ricostruire meglio la parentela culturale fra più gruppi e le loro reciproche connessioni storiche.
L'esame genetico naturalmente è possibile farlo anche su resti non umani in parallelo ossia magari dei “commensali” animali e da ciò dedurre, ad esempio, quali animali erano allevati o quale fauna frequentava i gruppi umani in questione e di qui conoscere le variazioni climatiche a cui gli animali sono molto più dipendenti degli uomini dal punto di vista fisico.
Una prima constatazione sui risultati che l'enorme lavoro dei genetisti fornisce è che le diverse popolazioni slavo-parlanti sono fra di loro più somiglianti (in ambito genetico) che non con le altre confinanti non slave e, in aggiunta, che il loro patrimonio genetico è diventato “comune” non più di 2000 anni fa arrivando a una conclusione che è davvero clamorosa: Le popolazioni o meglio i gruppi di famiglie nelle loro migrazioni dalle steppe ucraine verso nord si imposero dapprima a popoli già presenti nelle aree del bacino della Vistola intorno alle sue sorgenti fra i Carpazi e successivamente nuove generazioni si spostarono nel bacino del fiume Oder! Ancora più avanti nel tempo si nota, sempre sulla base della genetica, un'espansione verso i Balcani.
Dalla cartina qui sopra (proposta dalla ricercatrice Jean Manco, v. bibl.) si può vedere come fra il 300 d.C. e il VII sec. d.C. gli Slavi erano ormai definitivamente insediati a nord del Danubio oltre i Carpazi e come continuarono i loro raids specialmente nei Balcani in area già abitata dagli Illiri. Anzi, questi ultimi alla fine furono costretti a rifugiarsi sui monti lungo l'Adriatico e in parte furono assimilati e diventarono slavo-parlanti. Da quel poco che sappiamo di quei periodi senza scrittura sulle lingue slave parlate possiamo dedurre pure che nei Balcani queste sostituirono le lingue illiriche già parlate e notate dai Latini e dai Greci nell'antichità.
Una simile slavizzazione toccò ai latino-parlanti della Mesia e della Tracia, noti col nome di Valacchi, che soltanto in parte si rifugiarono fra le montagne per non essere assimilati lasciando però le valli agli Slavi che vi s'insediarono (Bulgaria danubiana, Moldavia).
La stessa sorte toccò ai Venedi già noti secoli prima come vicini dei Germani lontano da qui che incontrarono gli Slavi in espansione verso nord e alla fine i Vendi/Venedi/Veneti del Baltico e della Germania Orientale acquisirono una lingua slava intorno al VI sec. d.C. e non il contrario, per cui... gli Slavi non hanno i Venedi/Vendi come ascendenti.
Tutto quanto detto si sposa bene con le culture archeologiche già descritte che sono ormai da considerare slave fra il 500 e il 700 d.C. senza dimenticare che fra queste popolazioni nelle date sopra dette c'erano anche i Baltici indoeuropei.
Come mai però le popolazioni “autoctone” accettarono una cultura nuova rinunciando alla propria? La risposta è che gli Slavo-parlanti per “invadere” il nord e il nordovest portarono con sé trasformazioni culturali che apparivano talmente “più moderne” da attrarre chi li frequentava da spingere perciò a assimilarle o perlomeno a imitarle.
Qualche anno fa un gruppo di genetisti capeggiato da M. Richards ha tirato fuori un'altra storia davvero inimmaginabile prima sul popolamento del nordest europeo e cioè che gli AIM portati dal cromosoma X e chiamati H e V sono apparsi nel sudovest d'Europa recentemente (33 mila anni fa) e sono frequenti fra Slavi, Ugro-finni e Caucasici di oggi rispetto alla loro presenza fra i popoli del Vicino Oriente dove invece sono apparsi soltanto 26500 anni fa e che perciò sono “quegli europei” che sono emigrati (per ragioni climatiche) nella Mesopotamia antica. Ciò concorda con quanto ad esempio i Sumeri dicono dei propri antenati. In qualche modo però gli Indiani e i loro padri Ariani emigrati ca. 1500 anni a.C. in India quasi “ritornavano in patria” dal punto di vista genetico poiché H e V erano già apparsi nel Kashmir 40 mila anni fa come risulta da un'indagine fatta dai genetisti estoni R. Villems e T. Kivisild.
In altre parole dall'ultima regione (fra Kashmir e Gujarat) di migrazione si mossero i cosiddetti “autoctoni” del nord Europa, ma poi tornarono nell'area di partenza e di là successivamente migrarono ancora una volta verso il Mediterraneo, verso il Caucaso e verso il Danubio.

© 2015 di Aldo C. Marturano


Bibliografia essenziale

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J. Manco – Ancestral Journeys, London 2014
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C. Stringer – Lone Survivors, New York 2012
S. Tornow – Abendland and Morgenland im Spiegel ihrer Sprachen, Wiesbaden 2009
P.N. Tretjakov – Po sledam drevnih slavjanskih plemen, Leningrad 1982
Z. Váná – The World of the Ancient Slavs, London 1983
D.M. Wilson – Kulturen im Norden, die Welt der Germanen, Kelten u. Slawen, München 1980
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Re: Istri, Iliri, Xlavi

Messaggioda Berto » lun apr 04, 2016 12:00 pm

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