La deriva violenta della umma coranica nel mondodi Matteo Matzuzzi | 09 Gennaio 2015 ore 17:32
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/12445 ... -samir.htm Roma. “Gli imam dicono che non bisogna confondere i terroristi con l’islam, che invece è una religione che predica la pace e la non violenza.
Troppo facile così, troppo poco”, dice al Foglio padre Samir Khalil Samir, gesuita nato in Egitto, vissuto in Libano, professore all’Université Saint Joseph di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma.
“Non ci si può discolpare in questo modo e finché si sentirà ripetere da parte dei dotti musulmani il solito refrain, nulla cambierà”. Gli imam, per prima cosa, spiega il nostro interlocutore, “dovrebbero prendere le distanze da chi entra in una redazione di giornale con i fucili spianati, dicendo che quelli sono terroristi che vogliono riconquistare il mondo all’islam. Invece non lo fanno, non prendono atto che almeno l’ottanta per cento delle azioni terroristiche sul pianeta avviene in nome del profeta”.
La questione fondamentale è che “nel Corano c’è la violenza, a differenza del Vangelo.
Quando i musulmani conquistano la Terra Santa, passano a fil di spada gli infedeli”, e questo è un dato di fatto. E’ qui che deve iniziare il lavoro degli imam e dei dotti, chiamati a “a spiegare che una cosa è il testo scritto che nessuno vuole toccare, ma altra cosa è la necessaria interpretazione di quelle frasi. Prendiamo l’Antico Testamento, che contiene passi d’una violenza inaudita”, aggiunge padre Samir:
“La chiesa però in duemila anni ha saputo insegnare come interpretare le Scritture, altrimenti saremmo ancora a prendere alla lettera i versetti sul Dio degli eserciti e i bambini gettati sulle rocce.
Tutte le civiltà hanno conosciuto questa fase, ma l’hanno superata. L’islam no”.Sono pochissimi, e per lo più professori universitari intellettualmente cresciuti in occidente, coloro che hanno provato a contestualizzare ai tempi correnti il dettato coranico. Gli altri, la maggioranza, “non osano farlo”.
Quel che servirebbe da parte delle comunità musulmane, spiega padre Samir, è “una sana autocritica, ma non la fanno, tacciono quando nel nome dell’islam viene commesso qualcosa contro gli altri.
E allora è inutile dire che si sentono oppressi e inferiori. In parte è vero, ma che fanno per cambiare questa condizione? Nulla. Non è l’occidente che li ha messi in quella situazione, ma sono loro che ci si sono infilati, andando a rovinare la reputazione di tutti i musulmani che desiderano solo vivere in pace con tutti”.
Insomma, dice l’islamologo al Foglio, “non si può accettare che quanti vengano in occidente vogliano imporre il proprio sistema di regole. L’integrazione presuppone l’accettazione della cultura delle popolazioni ospitanti, l’adozione delle abitudini di quel popolo, anche diverse dalle proprie.
Perché solo così quella gente sarà pronta ad accogliere e ad aiutare.
Il confronto faccia a faccia non serve a nulla, il dialogo vero presuppone la disponibilità sì ad ascoltare, ma anche ad adeguarsi all’altro”. Oggi, invece, “il dialogo consiste nei musulmani che per prima cosa ricordano di essere più di un miliardo e mezzo sul pianeta e che se si verifica qualche attentato è perché si trovano in condizioni sociali difficili. Ebbene, non è che i cinesi siano in condizioni molto migliori, eppure non tirano granate”. Invece, gli islamici non lo fanno, si chiudono in comunità ristrette e alimentano la paura. Cosa a quel punto ovvia, osserva Samir: “Troppi hanno commesso atti terroristici nel nome del dio islamico – per loro c’è solo ‘Allah’, non lo chiamano Dio neppure quando parlano in francese inglese o italiano – e l’immagine che l’islam da di sé è del tutto negativa. Si presenta come una religione bellicosa, aggressiva, arretrata. L’unica soluzione è ammettere, da parte loro, che qualcosa non va nel proprio agire. Ma lo devono fare loro”.
Invece, reagiscono nel modo che s’è visto contro le vignette satiriche d’un settimanale: “La bomba nel turbante di Maometto? Che male c’è?”, dice padre Samir, che aggiunge: “All’epoca i miei interlocutori musulmani definivano ciò inaccettabile. Eppure loro rappresentano Allah con la spada. Hezbollah lo scrive addirittura come fosse un kalashnikov, così che chi lo guarda e non sa leggere l’arabo pensa che quel nome stia a indicare proprio l’arma”.
Non si tratta di insultare il Profeta, chiarisce l’islamologo: “Sto solo dicendo che se uno non è d’accordo con una caricatura va da un giudice e si serve della legge di quel paese. Se la legge non sta bene, si è liberi di andarsene da quel paese. Non si può arrivare al punto da sentirsi definire ‘empi’ in casa propria”.
Ecco che fine fanno i veri musulmani moderati che criticano la “legge nera”di Giulio Meotti | 20 Settembre 2014 ore 06:30
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/121142/rubriche/islam http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ostati.jpgIl professor Muhammad Shakil Auj era segnato.
Gli imam delle madrasse lo avevano condannato a morte. Una fatwa con l’accusa di “blasfemia”. Aveva ricevuto minacce di morte dagli stessi colleghi di università, che lo avevano chiamato “apostata”. Giovedì sera il professor Auj è stato ucciso mentre andava a una conferenza. Era il preside della Facoltà di studi islamici dell’Università di Karachi, la più importante del Pakistan.
Auj era orgogliosamente un “musulmano liberale”, teneva lezioni sull’islam negli Stati Uniti, partecipava a dibattiti televisivi e aveva scritto quindici libri sul Corano e l’islam, contro il letteralismo takfir dei fondamentalisti, a favore del matrimonio fra musulmani e persone di diversa confessione, contro il velo delle donne durante le preghiere e contro la “legge nera” sulla blasfemia che condanna a morte i cristiani.
Un eroe, dunque.
Una settimana fa un altro studioso di religione islamica, Masood Baig, è stato anche lui ucciso.
Auj era come il riformatore islamico Muhammad Taha, giustiziato in Sudan per aver protestato contro l’imposizione della sharia e per aver scritto che le sure medinesi corrispondono a una società del VII secolo e che per questo sono modificabili in funzione delle dinamiche storiche. E’ così che finiscono i veri “musulmani moderati”, ma non vengono mai celebrati dagli stessi apologeti che in occidente gongolano per il veleno di Socrate, il rogo di Giordano Bruno, la mannaia di Thomas More.
Come il governatore del Punjab, Salman Taseer, musulmano, laico, modernizzatore, uno che beveva alcolici e ballava, per questo assassinato dai talebani pachistani. Difendeva Asia Bibi, la ragazza cristiana in carcere con una condanna a morte per blasfemia.
Dal 1986 al 2005, 695 persone sono state processate con questa accusa in Pakistan. Oggi, sedici di loro si trovano nel braccio della morte e altre venti scontano l’ergastolo. Dal 1990 52 pachistani sono stati uccisi prima di arrivare in aula.
Come l’avvocato pachistano Rashid Rehman Khan, noto per il suo attivismo a favore dei diritti umani, assassinato dai terroristi in quanto difensore di alcuni cristiani imputati per blasfemia.
Khan era coordinatore della Human Rights Commission of Pakistan.
Altri avvocati gli avevano detto: “Non arriverai alla Corte la prossima volta”.
“Non aveva paura di nulla – hanno detto i colleghi del legale assassinato – diceva che non bisogna aver paura della morte, perché si può morire anche per una puntura di zanzara”.
Così parlava un musulmano moderato. Il prossimo pachistano sulla lista nera è un Junaid Hafeez, poeta, docente di Letteratura e Fulbright scholar, in carcere con l’accusa di blasfemia. Il suo avvocato era proprio Rehman Khan. Prima di morire aveva dato un’intervista alla Bbc: “Chi viene accusato di blasfemia è già vicino alla morte.
La società è intollerante e fanatica e nessuno bada se le accuse sono vere o false.
La gente uccide per cinquanta rupie, perché qualcuno dovrebbe farsi problemi a uccidere in un caso di blasfemia?”.
Rehman aveva accettato di difendere Hafeez dopo che per quattro mesi questi non era riuscito a trovare nessuno disposto ad assisterlo in tribunale. A rischio è anche l’avvocato di Asia Bibi, Sardar Mushtaq Gill. E Sherry Rehman, donna, musulmana, laica, colpita da una fatwa degli integralisti islamici per aver chiesto di abrogare la legge sulla blasfemia. Sherry è “wajib-ul-qatl”, degna di essere uccisa.
Si ripete il copione dell’Algeria degli anni Novanta, quando decine di intellettuali vennero assassinati dai terroristi. -Lâadi Flici. Romanziere. Ucciso nel suo studio con la penna in mano.
-Djilali Liabès. Sociologo. Aveva squarciato il velo del chador per raccontare come amano le algerine.
-Abderrahmane Chergou. Saggista. Lasciato lì a morire dissanguato come un agnello.
-Abdelkader Alloula. Commediografo. Tre pallottole nel cranio.
-Mahfoud Boucebci. Scrittore. Ucciso a coltellate.
-Tahar Djaout. Giornalista e autore dei versi “Se taci, muori; se parli, muori; allora di’ e muori”.
-Youcef Sebti. Scrittore e poeta francofono e poeta, sacrificato sull’ara della “purezza islamica”. Sgozzato in casa sotto una riproduzione delle esecuzioni del “3 maggio” di Goya. Sul comodino aveva le bozze dell’ultimo romanzo, “Les illusions fertiles”.