Pagani, ma ki sarisełi?

Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 11:05 pm

Pagani, ma ki sarisełi?
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A esar ojetivi, obietivi, sençeri, … a ben wardar o dal bon, naltri, tuti naltri sarisimo pagani:

tuti ma purpio tuti e no se salvaria nesuni:
cristiani, musulmani o muxlin, ebrei, endù, xorastriani, sintoisti, budisti, animisti, połiteisti, shamanisti, ...

Tute łe rełijon de ancó łe xe na seitansa o continuasion co variasion de coełe pagane e shamaneghe de na olta, tute anca coełe dite revełà e moneteiste.

La speirtołetà omàna dita pagana lè ła mema o stesa de coeła dita no pagana e el Dio o Alah dei “pagani” lè el memo Dio de coełi ke se crede e se dixi no pagani anca se artecołà ente na manera difarente.

Dirghe a on “pagan” enfedel o misecredente lè na ofexa e na falbaria, el primo paso verso ła descremenasion e ła persecousion rełijoxa, coultural, etnega e rasial.


Enfedeł, miscredente, Kafir
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Pagani
http://it.wikipedia.org/wiki/Paganesimo
Il termine paganesimo indica quelle religioni, specialmente quelle proprie della Grecia antica e della Roma antica, viste in opposizione al cristianesimo. Il termine, in uso comune, viene utilizzato in ambito scientifico solo nel suo significato storico.
Il termine "paganesimo" è introdotto nella lingua italiana a partire dalla metà del XIV secolo e deriva dal termine "pagano" introdotto in questa lingua a partire dalla seconda metà del XII secolo. Il termine "pagano" deriva a sua volta dal latino pagānu(m) dove indica il "civile", il "campagnolo", contrapposto al "militare". Pagānus deriva a sua volta dal termine sempre latino di pāgus (villaggio).
Henri Maurier osserva come tali termini latini, pāgus e pagānus, indichino quei territori, e coloro che li abitano, in opposizione ai centri delle amministrazioni dell'Impero romano e, a differenza di questi ultimi che celebrano il culto imperiale, questi celebrano i culti locali.
Nel lessico cristiano questi termini entrano intorno al 370 quando il cristianesimo è divenuto religione ufficiale e quindi culto dell'impero. Il latino liturgico ignora tuttavia questi termini preferendogli i termini di gens, gentiles, natio o nationes, lasciando pāgus e pagānus all'uso popolare e non "ufficiale" insieme ad altri termini come "infedeli" (latino infedēlis-e) o "idolatri" (latino ecclesiastico ido(lo)lătra) i quali acquisiscono una connotazione peggiorativa. Necessità del latino liturgico è quella di individuare un termine che renda quello greco di ethnicoi ("popoli") a sua volta traduzione dell'ebraico biblico di goj (pl. gojim) per indicare quei popoli differenti da quello ebraico ovvero dal "popolo eletto da Dio", "popolo", che nell'ambito neotestamentario e quindi cristiano, diviene per l'appunto la chiesa di Cristo.

Teuta/touta, trabs/treb/tribus, opida, vico/vigo, pago/pagus, viła, viłàjo, paexe, dorf, borgo, çità, muniçipo, mansio/maxo, corte, comun
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Re: Pagani, ma ki xarisełi?

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 11:17 pm

Lexive ła Storia de łe Rełijon de Mircea Eliade

http://it.wikipedia.org/wiki/Mircea_Eliade
Mircea Eliade (Bucarest, 13 marzo 1907 – Chicago, 22 aprile 1986) è stato uno storico delle religioni e scrittore rumeno. Uomo di cultura, grande viaggiatore, parlava e scriveva correntemente otto lingue: rumeno, francese, tedesco, italiano, inglese, ebraico, persiano e sanscrito.

http://books.fbk.eu/sites/books.fbk.eu/ ... 047-65.pdf
http://www.corradomarchi.it/pubblicazio ... eliade.pdf
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=& ... N1j6AX_YNg

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e

El Ramo d’Oro de James Frazer
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_ramo_d%27oro
Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione è un saggio scritto dall'antropologo James Frazer, pubblicato inizialmente nel 1890 e poi ripetutamente ampliato fino alla stesura definitiva del 1915. In questo voluminoso libro, l'autore si occupa di studi sulle culture primitive, correlati tra loro, grazie al filo conduttore della teoria evoluzionistica della storia.

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Spirtoaƚetà da ƚa pristoria, shamanexemo e coxmołoja shamana
viewtopic.php?f=24&t=19

L’uomo preistorico alla ricerca di dio
di Emmanuel Anati
http://www.ariannaeditrice.it/articolo. ... colo=11945
http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... i-dio.html
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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 11:31 pm

Le rivełasion de Moxè, de Cristo, de Maometo łe sta benon drento ła tradision ogneversal e mełegnara de łe revełasion shamaneghe co el shaman el va en estaxi o trance.
Anca el misteçeixmo el se inpira a perfesion so sto fiłon: ciàpa el caxo de ła vixion de Maometo e de Dante Alighieri:


El mito de Dante Alighieri e del volgar talian
viewtopic.php?f=176&t=213

lo sapevate che nella divina commedia,maometto ... .

http://www.ajyalitalia.it/forum/discuss ... vt556.html

La Divina Commedia, considerata il più grande poema epico della letteratura italiana, deriva da molte caratteristiche di e episodi sull'aldilà, direttamente o indirettamente da opere arabe sull'escatologia islamica: il Hadith e il Kitab al-Miraj (tradotto in latino nel 1264 come Liber Scalae Machometi, "Il Libro della Scala di Maometto") riguardante l'ascensione di Maometto al cielo, e gli scritti spirituali di Ibn Arabi.

[fonte: I. Heullant-Donat and M.-A. Polo de Beaulieu, "Histoire d'une traduction," in Le Livre de l'échelle de Mahomet, Latin edition and French translation by Gisèle Besson and Michèle Brossard-Dandré, Collection Lettres Gothiques, Le Livre de Poche, 1991, p. 22 with note 37.]

E possibile leggere il libro Liber Scalae Machometi (in Latino) qui:
http://www.classicitaliani.it/maomet..._Machometi.htm



Libro della Scala - Enciclopedia Dantesca (1970)
di Francesco Gabrieli

http://www.treccani.it/enciclopedia/lib ... antesca%29

Testo escatologico arabo-spagnolo, il cui originale, a noi non giunto, portava quasi certamente il titolo di Kitāb al-Miʽrāǵ (" Libro della scala ", o della " ascesa " [di Maometto in cielo]). Esso fu fatto tradurre poco prima del 1264 da re Alfonso X di Castiglia, ad opera di un dotto medico giudeo, Abraham; e da questa versione castigliana, anch'essa perduta, l'italiano Bonaventura da Siena, sempre per commissione del re, trasse le due versioni in latino (Liber Scalae) e in antico francese (Livre de l'Eschiele Mahomet) giunte a noi rispettivamente in un manoscritto di Oxford, e in due di Parigi e della Vaticana e pubblicate nel 1949 da E. Cerulli insieme con un riassunto della prima versione castigliana, conservata in un codice dell'Escuriale e attribuita a S. Pedro Pascual.

L'opera originaria appartiene a quel filone della letteratura araba edificante e popolare, che sviluppando un famoso versetto coranico su un miracoloso viaggio notturno del profeta a Gerusalemme (Corano XVII 1), narra la susseguita sua salita al cielo e la sua visita dei regni d'oltretomba. Nel testo in questione, Maometto è destato nel suo letto alla Mecca dall'angelo Gabriele, è fatto montare sul destriero alato Burāq, condotto a Gerusalemme, e di qui fatto ascendere in cielo per la fulgida ‛ scala ' (miʽrāg) che dà nome al libro. Egli vede l'angelo della morte, un altro in forma di gallo, un terzo metà di fuoco e metà di neve, e traversa gli otto cieli incontrando in ognuno un profeta, fino al trono di Dio; visita quindi il Paradiso con le sue delizie di natura e d'amore, e riceve da Dio il Corano, con i precetti delle orazioni quotidiane e del digiuno.
Passato poi all'Inferno, ne percorre le sette terre, e ne contempla i diversi tormenti, ascoltando da Gabriele le spiegazioni sul giorno del giudizio e la prova del ponte aṣ-Ṣirāt. Tornato infine sulla terra, tenta invano di convincere i suoi concittadini Meccani sulla verità della sua visione, che per suo invito trascrivono e autenticano i suoi fidi Abū Bekr e Ibn ' Abbās.


La materia relativa era già quasi per intero nota in sparse analoghe fonti, ma l'importanza di questo testo sta nel presentarcela tutta in una continuata narrazione, e soprattutto nella sua trasmigrazione dalla Spagna araba all'Occidente cristiano. Le versioni del L. della S., sia quella castigliana (già citata in altra opera dallo stesso Alfonso il Savio, e poi dallo scrittore catalano trecentista Francesco Ximenez e dal famoso cardinale Giovanni Torquemada), sia le due conservateci in latino e in francese, varcarono infatti presto i Pirenei: e l'operetta escatologica araba, attribuita a Maometto stesso, appare conosciuta e citata col suo titolo (" il libro suo [di Maometto] che Scala ha nome ") alla metà del Trecento da Fazio degli Uberti nel Dittamondo, nel secolo seguente da Pio II (Enea Silvio Piccolomini) e dal francescano Roberto Caracciolo nello Specchio della fede, e nel Cinquecento da Alfonso Spina; da Angelo Piantini; dal Bibliander; da Guillaume Postel; da Antonio Torquemada e Celio Malespini e infine dai fratelli De Bry. Si verificava così per la prima volta l'ipotesi già avanzata da M. Asín Palacios, a fondamento della sua tesi sugl'influssi dell'escatologia musulmana nella Commedia, di un testo arabo giunto per documentata trafila di versioni all'ambiente e all'età di Dante.

La conoscenza del L. della S. da parte del poeta appare ora, se non certa, probabile; ma sulla misura e il valore delle suggestioni che tale testo può avergli fornito per la sua visione d'oltretomba, restano assai discordi i pareri: il suo maggiore e più prudente studioso, il Cerulli, considera tale possibile influsso solo come concorrente e secondario alle principali fonti d'ispirazione del poeta, latine e cristiane (v. ISLAM).

Bibl. - E. Cerulli, Il " L. della S. " e la questione delle fonti arabo-spagnole della D.C., città del Vaticano 1949 (per le discussioni seguitene v. bibl. alla voce ISLAM); P. Wünderli, Études sur le livre de l'Eschièle Mahomet, Winterthur 1965; E. Cerulli, Nuove ricerche sul " L. della S. " e l'Islam nell'Occidente medievale, Città del Vaticano 1971.



http://it.wikipedia.org/wiki/Isra%27_e_Mi%27raj
Con le parole arabe isrāʾ e miʿrāj (in arabo: إسراء ومعراج) ci si riferisce rispettivamente a un miracoloso viaggio notturno del profeta Maometto in sella a Buraq (isrāʾ) e della sua successiva ascesa al Cielo (miʿrāj), con la visione delle pene infernali e delle delizie paradisiache riservate a dannati e beati, fino alla finale ascesa e accostamento ad Allah, con relativa Sua "visione beatifica", impossibile agli occhi di qualsiasi uomo per l'infinità che è uno degli attributi divini.
L'esperienza è narrata dal Corano nelle sure XVII:1, LIII:1-12 e LXXXI:19-25.
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http://it.wikipedia.org/wiki/Buraq
Burāq o Burak è, secondo la tradizione islamica, un destriero mistico venuto dal paradiso islamico, la cui funzione è stata quella di essere la cavalcatura dei vari profeti, e di Maometto in particolare. Secondo la tradizione islamica, nel VII secolo Burāq fu destinato dall'angelo Gabriele per portare il profeta dell'Islam da quelle che furono identificate poi come Mecca a Gerusalemme con un miracoloso tragitto avvenuto di notte ( isrāʾ ), prima che egli intraprendesse l'ascesa attraverso i 7 cieli ( miʿrāj ).
Burāq avrebbe portato in precedenza anche Ibrāhīm (Abramo) quando egli si recò in visita al figlio Ismāʿīl (Ismaele), a Mecca.
È un soggetto iconografico frequente nell'arte musulmana, dove esso è generalmente rappresentato come un quadrupede con una testa di donna, ali e una coda da pavone.
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Buraq = latin burricus (cavałin) = acadego buru (pułiero) e burtu (vedeło)
cfr. co ła vaca Burlina

Burlina - La vaca burlina e łi Morlaki
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Spirtoaƚetà da ƚa pristoria, shamanexemo e coxmołoja shamana
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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 11:36 pm

La preghiera łè on rito pagan, anca el batexo, ła crexema, la mesa e reçitar el roxaro, el coulto de łe rełicoe, el coulto de łi santi, el coulto de ła pria nera xlamega, łi anxołi, tute łe prateghe aseteghe e de purificasion, …

http://it.wikipedia.org/wiki/Pietra_Nera
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Folla di pellegrini nella Spianata Sacra della Mecca, la città più santa dell'Islam per la presenza della Kaʿba

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http://upload.wikimedia.org/wikipedia/c ... Arabia.jpg


Bad-, bat-, bal-, baia, badia, bagno, batexo, battigia, balneo
viewtopic.php?f=45&t=1266

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ckland.jpg


Tute łe fedi łe xe pagane, parké tute łe ga łe so raixe ente ła paganetà e ente ła spertoałità ogneversal pristorega.
Anca pensar o credar ke n’omo el sipia Dio o so fioło lè na credensa pagana.
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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 11:41 pm

Anca el divieto o proibision ebraega e xlamega de magnar mas-cio/porco/porçeło lè na credensa pagana; par naltri ouropei, no ebrei e no xlameghi, lè na bestia sagra ke podemo ben magnar e ke ła ne ga aià col so sagrefarse par dexine de miłara de ani, cognaria farghe on monomento e metar ła so somexa ente ła bandera de l’Ouropa.

Bosegato, boxgato, buxgat - bonbasin e iscrimire
viewtopic.php?f=44&t=422
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... N1bnc/edit
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Par łi ebrei e łi xlameghi el poro porco lè na bestia enpura e enfeta parké luri, da pagani, łi gheva doparà sta bestia cofà on cavro espiadoro:

“capro espiatorio” su cui trasferire o scaricare tutti i loro peccati, le malattie, la malasorte e le disgrazie come è stato fatto nell’area mesopotamica e ben evidenziato nei vangeli cristiani nell’episodio di quando Jesù incontra l’indemoniato e scaccia i demoni trasferendoli nei maiali che si trovavano in quel momento nelle vicinanze; un po’ come in Arabia un tempo si faceva con i Cammelli nei periodi di pestilenza, che venivano portati per i quartieri della città affinchè prendessero su di sé la peste e che poi venivano strangolati in un luogo sacro e tutti credevano di essersi così liberati della pestilenza.


El tabù del magnar mas-cio par li ebrei e li musulmani:

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Ła paraboła de i porçełi ke ghe toca torse i demoni da łe aneme de łi endemognà:
...
http://www.lanuovavia.org/testimonianze ... ni....html
http://www.biblistica.it/1/l_indemoniat ... 84635.html
Sta storia la conta ke Yeshùa espulse de li demòni parandoli rento on branco de mas-ci ke a so volta li se gà butà entel lago negandose.


Nimali cofà cavri espiadori e veicoli par l’espulsion de le malatie e de li demogni (de James G. Frazer)
https://picasaweb.google.com/1001409263 ... eLiDemogni


http://it.wikipedia.org/wiki/Sacrificio
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_ramo_d'oro

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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » mer gen 28, 2015 9:23 pm

El coulto de łe rełicoe

http://www.treccani.it/enciclopedia/rel ... taliana%29

di N. Tu., G. P. K.

RELIQUIE. - S'intende per reliquia ciò che resta (corpo o parte del corpo; oggetti, vesti, armi, utensili, che furono a contatto con il corpo) di una persona reale (o anche mitica) dotata agli occhi del gruppo di qualità eccelse o addirittura sovrumane.

Storia delle religioni. - La venerazione e l'uso delle reliquie, fuori della religione cattolica si fonda sul principio di magia simpatica che il contiguo agisce sul contiguo: quindi il contatto, l'ingestione, l'uso di cose o appartenenti o collegate a persona particolarmente ricca di virtù produce gli stessi effetti ammirati nella persona: effetti di gagliardia, di intelligenza, di preservazione contro mali influssi, ecc. Col progredire del livello religioso, il devoto, invece di attribuire alle reliquie un valore magico, le venera in quanto appartenute ad uomini che hanno onorato la divinità, che sono stati esempio da imitare e il cui ricordo vale, come le immagini, ad eccitare la pietà.

L'uso delle reliquie è universale nelle religioni primitive ed etniche dell'antichità e si accentua in quelle religioni universali che, avendo avuto un fondatore, amano venerare i ricordi superstiti della sua persona e della sua vita.

I primitivi. - Come il cannibale parte dall'idea che ingerendo il cuore, il fegato, il rene, l'occhio del guerriero ucciso se ne assimilano le qualità, così il primitivo che porta al collo, al braccio, sullo scudo quelle stesse parti del corpo mummificate, o anche capelli, denti, ossa, ecc., ritiene di riceverne una protezione magica e un potenziamento delle sue facoltà (v. amuleto) specialmente nei casi di guerra, di caccia, di provocazione della pioggia, di cura o preservazione dalle malattie, ecc.

Si possono considerare, sebbene impropriamente, come reliquie anche le impronte di mani, di piedi, del corpo, lasciate dall'eroe su blocchi o su rocce; e difatti verso di esse i devoti muovono in pellegrinaggio.

Egitto. - L'Egitto ha assai venerato le reliquie di Osiride, specialmente i 14 pezzi del suo corpo disseminati dall'uccisore Set per tutto l'Egitto e sui quali furono eretti santuarî. Di questi il più importante era quello di Abido, dove era sepolto il capo. Notevole anche era a Busiride il misterioso pilastro ded strettamente legato alla persona del dio. Anche i Serapei dell'Egitto greco-romano contenevano nella mummia del bue Api la reliquia dell'Osiride ultramondano.

Grecia. - Il culto degli eroi in Grecia è essenzialmente un culto delle loro reliquie, chiuse nell'apposito tempio (ἡρῷν) e considerate come salvaguardia ambitissima della città che le possedeva: tanto che erano ricercate con cura, spesso in seguito a indicazioni di oracoli, e una volta ritrovate venivano con gran pompa portate nelle città dove servivano come fonte ordinaria di divinazione e presidio da malattie o altre iatture. Ricordiamo, tra le reliquie più celebri, il capo di Orfeo (conservato a Lesbo o a Smirne) e le sue ossa (a Dio in Macedonia); le ossa di Europa (Hellotis) in Creta; quelle di Teseo da Sciro in Atene; quelle di Oreste a Sparta, dove dànno la vittoria contro quei di Tegea; quelle di Esiodo a Orcomeno dove, appena entrate, liberano la città da un'epidemia, ecc.

Anche oggetti che avevano appartenuto ad eroi erano considerati reliquie: la lancia di Achille a Phaselis, la spada di Memnone a Nicomedia, la lira di Orfeo in varî luoghi, il flauto di Marsia a Sicione, lo scettro di Agamennone a Cheronea; e più lo scudo di Pirro, il residuo della creta con cui Prometeo foggiò Deucalione e Pirra, i sandali di Elena, le uova di Leda, ecc.

Roma. - In Roma le reliquie più notevoli erano il palladio di Enea, le tombe di Evandro, di Carmenta, di Romolo, di Acca Larenzia, oltre ad altre minori; il fico ruminale, la casa di Romolo sul Germalo, la conocchia e i sandali di Tanaquilla conservati nel tempio di Iuppiter Fides, la pila horatia con le armature dei tre Curiazî, il tigillum sororium, le spoglie opime di Romolo dedicate a Giove Feretrio sul Campidoglio, ecc.

Buddhismo. - Il buddhismo ha sempre venerato le reliquie. Ai funerali del Buddha le sue ceneri furono divise in otto parti e distribuite alle genti intervenute. Esse furono conservate in altrettanti stūpa, divenuti centro di costruzioni religiose. Di esse sono state ritrovate quelle contenute negli stūpa di Piprāwā (Nepal) eretto dai Sakya di Kapilavastu, le più autentiche; di Bīmarān tra Cabul e Jalālābād e di Peshāwar fondato dal re Kaniska (v.). Il nord dell'India, Ceylon e la Birmania sono i paesi dove le reliquie del Buddha sono più venerate.

L'induismo ignora la venerazione delle reliquie, come anche il jainismo. Così pure l'islamismo, salvo in quei paesi dove è stato suggerito dall'ambiente etnico: così a Bījāpur (Deccan) vi sono peli della barba di Maometto cui si presta venerazione all'anniversario della nascita del profeta; a Rohrī (Sind) si venera un suo capello che si mostra ai fedeli una volta l'anno, né vanno dimenticate le impronte dei suoi piedi (ad Ahmadābād, Gaur, Delhi); nell'Africa settentrionale sono venerate le tombe dei cosiddetti santoni.

Tutte queste forme di culto si devono considerare però come degenerazioni locali della pura religione coranica (???).

Bibl.: A. Erman, Die ägyptische Religion, 3ª ed., Berlino 1909 (trad. it. Pellegrini, Bergamo 1908); P. Pfister, Reliquienkult im Altertum, voll. 2, Giessen 1909; A. Wylite, Buddhist Relics, in Chinese Researches, Sciang hai 1897; L. A. Waddel, The Buddhism of Tibet or Lamaism, Londra 1895; I. Goldziher, Muhammedanische Studien, Halle 1889-90, II, pp. 275-380; E. Doutté, Notes sur l'islām maghribin: Les marabouts, in Revue de l'hist. des religions, XL-XLII (1899-1900); R. Basset, Nédromah et les Traras, Parigi 1901.

Cristianesimo. - È spontaneo all'uomo avere una considerazione speciale e una venerazione per ciò che si riferisce a persone, per le quali si aveva stima particolare o sentimenti speciali di affetto. Questa inclinazione naturale unita con la venerazione religiosa verso i martiri, quali eroi della fede e cristiani perfetti, forma la base del culto delle reliquie e dell'apprezzamento speciale che queste hanno preso già nell'antichità nella vita religiosa dei cristiani. La voce reliquiae (in greco λείψανα) fu usata nell'antichità, secondo il senso etimologico (illa quae ex aliqua re relicta sunt) arche per designare resti dei corpi dei defunti o le ceneri dei corpi incinerati. In questo senso la parola passò nell'uso del linguaggio cristiano, dove però prese un senso più ampio, con l'estensione della venerazione anche a oggetti, venuti a contatto con i resti dei santi. Dal sec. IV in poi, la voce "reliquie" venne usata non soltanto per i resti mortali del corpo o per il sangue raccolto in occasione del martirio, ma anche per parti degli strumenti del martirio o considerati come tali (catene di S. Pietro, di S. Paolo, graticola di S. Lorenzo, pietre della lapidazione di S. Stefano), per pezzi degli abiti portati dai santi, per oggetti toccati alla tomba di un martire (pezzi di stoffa, brandea, polvere della tomba) o usati per onorare la tomba (fiori depositativi sopra, olio delle lampade), e simili ricordi materiali.

Tutti questi oggetti nell'antichità cristiana, dal sec. IV in poi specialmente, furono considerati come sacri e venerabili, e furono trattati come reliquie nel senso più stretto della parola, benché chiamati anche con altri nomi (sanctuaria, pignora, beneficia).

Il culto delle reliquie è un'espressione deìla venerazione religiosa verso i martiri e si sviluppa in modo parallelo a questa. Già nell'antichità classica, presso i Greci e presso i Romani, si trova il culto degli eroi e delle loro reliquie: culto praticato naturalmente secondo concetti idolatrici. Questo però presenta soltanto un'analogia generica col culto cristiano dei martiri, basato com'è sul concetto naturale di venerazione per insigni personaggi, ma non è la radice o il modello diretto del culto dei santi e delle loro reliquie, come del resto è già dichiarato da autori cristiani antichi, i quali rilevano la differenza essenziale tra il culto pagano degli eroi e la venerazione cristiana dei martiri (Eusebio, Praepar. evang., XIII,1; Gregorio Nazianz., Adv. Iulianum, I, 69 segg.; Cirillo Aless., Contra Iulianum, VI). S. Girolamo dichiara espressamente che non si adorano, non si rendono onori divini alle reliquie dei martiri, per non servire le creature piuttosto che il creatore: i cristiani onorano le reliquie dei martiri per adorare quello del quale sono martyres (Ad Ripar., ep. 53, c. 1).

I motivi che indussero i fedeli a venerare le reliquie dei santi sono presentati da varî Padri, principalmente nei panegirici pronunziati in occasione delle feste dei martiri. Gli eroi della fede cristiana, restati fedeli a prezzo della vita, sono degni della più alta gratitudine, avendo dato il più bell'esempio a tutti i cristiani. I loro corpi sono stati strumento dello Spirito Santo per la vittoria contro gli avversarî di Cristo, perché in questo corpo hanno potuto vincere tutte le pene e torture; cosicché questi resti mortali hanno acquistato un valore particolare, anche dopo che l'anima si è distaccata dal corpo. Sono quindi degni di venerazione da parte dei fedeli, i quali mediante quelle reliquie possono partecipare alla grazia particolare ad esse congiunta. E questa venerazione si estende anche agli oggetti materiali venuti a contatto con i corpi o la tomba (Gregorio Naz., Adv. Iulianum, I, 69; Paolino dl Nola, Natal., IX, 451-453).

Il culto delle reliquie prese origine e si sviluppò in modo parallelo al culto dei martiri nell'antichità (v. martire). Dapprincipio questo culto s'accentrò sulla tomba del santo, la quale conservava il suo corpo: secondo la lettera autentica sul martirio di Policarpo (v.), i fedeli consideravano i resti del corpo bruciato del loro vescovo martirizzato più cari delle pietre preziose e dell'oro (Eusebio, Hist. eccl., IV, 15). Tale era il sentimento generale dei cristiani nei primi secoli all'epoca stessa delle persecuzioni, per cui si cercò di avere ricordi materiali del martire. La comunità di Gerusalemme venerava come reliquia la cattedra stessa usata da S. Giacomo (Eusebio, Hist. eccl., VII, 19). Uno dei guardiani di S. Cipriano desiderava avere gli abiti del vescovo dopo il martirio di questo come contenenti "i sudori già sanguinei" del martire (Vita Cypriani, 16), e i cristiani di Cartagine misero panni sul luogo del supplizio per conservarli dopo averli bagnati del sangue del loro vescovo (Acta proconsularia s. Cypr., c. 5).

Si hanno altri esempî dagli Atti autentici di martiri a dimostrare che i cristiani dopo il supplizio raccoglievano con panni il sangue del santo, come ricordo e reliquia. I corpi dei martiri erano seppelliti completamente e la venerazione si svolgeva principalmente attorno alla tomba; ma nell'ultima persecuzione si ebbero casi di una forma di venerazione per le reliquie, in quanto si cercarono resti dei corpi stessi per conservarli e venerarli. Nel Testamento dei Quaranta martiri di Sebaste, questi pregano espressamente che i loro corpi siano seppelliti insieme e domandano istantemente che nessuno ritenga parte dei loro corpi; tuttavia questa raccomandazione non fu seguita, poiché sappiamo da testimonianze del sec. IV (S. Basilio, Hom. in SS. XL martyres, 8; S. Gregorio di Nissa, Hom. in SS. XL mart., in Patrol. Graeca, XLVI, 784) che resti delle ceneri e di ossa bruciate si conservavano in varie parti come reliquie dei Quaranta martiri (v.).

Quest'uso, però, da principio non venne approvato dalle autorità ecclesiastiche e dal sentimento di molti fedeli. Ne abbiamo un'eco nella Passio, leggendaria ma antica, di S. Fruttuoso e dei suoi compagni. Nella notte dopo il martirio, i fedeli si recano all'anfiteatro di Tarragona, versano vino sui corpi pȧrzialmenie bruciati e portano con sé parte delle ceneri; ma S. Fruttuoso appare a questi fedeli e ordina di riportare via tutto e di preparare ai martiri un sepolcro comune, mettendovi tutti i resti dei corpi. Si vede dunque che l'idea di deporre nella tomba tutto ciò ch'era appartenuto al corpo del martire e di rispettare la tomba con le reliquie, era ancora viva specialmente presso i rappresentanti dell'autorità ecclesiastica. Tuttavia nel sec. IV, con lo sviluppo del culto dei martiri, l'uso delle reliquie nella vita religiosa dei cristiani divenne molto frequente e il loro culto prese una parte importante anche nella vita ecclesiastica.

La venerazione dei martiri e delle loro reliquie era in uso, secondo la tradizione anteriore, in tutta la Chiesa, e un'opposizione contro questo uso religioso non si manifestò in modo generale. Quando, al principio del sec. V, Vigilanzio scrisse contro il culto delle reliquie, fu combattuto e confutato da S. Girolamo (Contra Vigilantium). L'espressione principale primitiva della venerazione dei martiri nel culto era la celebrazione del loro anniversario che comprendeva il sacrificio eucaristico. Questo culto cominciò nella seconda metà del sec. II e ne abbiamo le testimonianze più antiche per l'Asia Minore (S. Policarpo) e per l'Africa (Martiri Scillitani, Sante Perpetua e Felicita e compagni).

A Roma, la celebrazione solenne dell'anniversario venne in uso nel corso del sec. III. Oltre a questa solenne commemorazione liturgica, i fedeli visitarono le tombe dei martiri per esprimere la loro devozione privata e per implorare l'intercessione di questi particolari amici di Cristo; più tardi, anche in giorni fuori dell'anniversario, fu celebrato in loro onore e in forma più privata il sacrificio eucaristico.

In origine, ogni comunità cristiana onorava così i suoi martiri, e questo culto liturgico e privato si faceva presso la tomba stessa del martire. Dal sec. IV in poi, furono costruite basiliche e cappelle presso la tomba con le reliquie dei santi e, se questi avevano la sepoltura in gallerie sotterranee, si crearono anche cappelle più grandi presso la tomba, principalmente nelle catacombe romane. Così l'altare per la celebrazione eucaristica poteva essere disposto presso il sepolcro venerȧto, e quando sulla tomba fu eretta una chiesa più grande (come per lo più avveniva) la costruzione fu disposta in modo che l'altare venisse costruito sopra la tomba stessa del martire, e perciò, secondo un'espressione di Prudenzio, la sacra mensa era nello stesso tempo, donatrix Sacramenti e custos fida sui martyris (Peristephanon, XI, 170). Le tombe nelle cripte e nelle basiliche cimiteriali erano dunque i veri santuarî delle reliquie dei martiri. Se i fedeli si fossero contentati di erigere chiese in onore di santi soltanto presso le loro tombe, ognuno di essi avrebbe avuto un unico santuario. Ma l'importanza del culto dei martiri portò alla fondazione di chiese in onore dei santi in varie località, fuori del loro sepolcro. Anche per queste chiese si voleva avere una memoria materiale del santo. In Oriente cominciò nel sec. IV l'uso della traslazione delle reliquie di martiri celebri in altre città, dove furono fondate chiese in loro onore. Così la capitale dell'impero d'Oriente, Costantinopoli, ricevette le reliquie di più corpi di santi, trasferiti e deposti nelle suntuose chiese a loro dedicate: S. Timoteo nel 356, S. Andrea e S. Luca nel 357 sotto l'imperatore Costanzo; altri imperatori posteriori, come Teodosio I, seguirono questo esempio per le chiese della capitale, e anche altre città orientali, come Antiochia, Edessa, Alessandria, videro solennità grandiose in occasione della traslazione dei corpi di santi. Se in questi casi troviamo la deposizione di tutti i resti mortali di un santo in una chiesa dedicata alla sua memoria, l'uso di separare piccole parti di reliquie del corpo di santi cominciò in Oriente fin dal sec. IV e continuò nell'epoca posteriore. Alle reliquie dei Quaranta martiri e di altri martiri si aggiunsero reliquie di S. Stefano protomartire dopo la rivelazione della sua tomba.

Un altio genere di reliquie furono memorie materiali dei luoghi santificati in Palestina dalla vita terrestre di Gesù, piccoli pezzi della sua croce, venerata a Gerusalemme nel sec. IV. Tutte queste reliquie furono trattate in modo simile ai corpi dei martiri: esse furono deposte in piccoli sepolcri, sotto o dentro gli altari delle chiese, e venerate come si usava per le tombe stesse dei santi. Ma non soltanto reliquie nel senso proprio, cioè resti del corpo, ma anche oggetti messi in contatto col sepolcro di un martire e altre reliquie secondarie furono venerate e trattate in modo simile. Qui però troviamo fino al sec. VII una differenza nella disciplina ecclesiastica tra l'Oriente e l'Occidente. In Oriente le traslazioni di reliquie, e l'uso molto diffuso di usare dei resti di corpi di martiri come reliquie, sia nelle chiese sia nella vita religiosa privata, non trovarono difficoltà. A Roma inveee e nell'Occidente a questa epoca si conservava la disciplina primitiva, per la quale il sepolcro di un martire non doveva essere aperto né si potevano separare particelle del suo corpo. S. Gregorio Magno (Epist., IV, 30) nella sua lettera all'imperatrice Costantina di Bisanzio, che aveva domandato la testa o altra parte delle ossa di S. Paolo, dichiara che questo era assolutamente impossibile, poiché in Roma e in tutto l'Occidente sarebbe stato considerato sacrilegio toccare i resti mortali dei martiri: perciò egli dà soltanto pezzi di stoffa posti sulla tomba di santi, piccole particelle delle catene di S. Pietro o di S. Paolo, riguardando simili benedictiones come reliquie e adducendo come prova i miracoli operati mediante tali oggetti. Questa disciplina dell'Occidente è confermata per il sec. VI da Gregorio di Tours (De gloria mart., I, 25, c. 55). In Occidente si cercò ansiosamente di avere reliquie di questo genere, sia per uso privato, sia per deporre queste reliquie in altari consacrati alla memoria di santi. Il vescovo Gaudenzio di Brescia fece lunghi viaggi per procurarsi molte reliquie, che, poste nella sua chiesa, fecero sì che essa fosse nominata "il concilio dei Santi" (Sermo XVII, in Patrol. Lat., XX, col. 959 seg.); Paolino di Nola parla del grande numero di reliquie che egli poté avere per le chiese da lui fondate (Carmen, XXVII, 403 segg.; Epist., XXXII, 10), e testimonianze simili sono conservate di altri vescovi. Così avvenne che, verso la fine del sec. IV e nei secoli seguenti, non si fondasse una chiesa nuova senza che si cercasse di avere delle reliquie per metterle nell'altare, principalmente quando il santuario era dedicato in modo particolare a un santo. Furono trovate varie iscrizioni di altari, specialmente in Africa, dove sono indicate le reliquie deposte in un sepolcreto, dentro o sotto l'altare; e altari conservati del sec. VI e VII mostrano quasi regolarmeme il piccolo sepolcro per le reliquie. L'uso divenne tanto generale, che in Occidente si fissò nei secoli VIII-IX la norma che nessun altare poteva essere consacrato senza reliquie, e per conseguenza non si poteva celebrare il sacrificio eucaristico senza che vi fossero reliquie dentro l'altare.

L'importanza del culto dei martiri e delle loro reliquie in epoca posteriore fece ricercare i corpi di martiri non venerati con culto speciale, e creò anche delle rivelazioni intorno al sito dov'erano tombe di martiri.

Per alcuni di questi ritrovamenti si può constatare che vi era una tradizione intorno alla tomba; per altre di queste rivelazioni è difficile trovare un fondamento storico.

Tra le invenzioni più celebri sono da ricordare quelle dei Ss. Gervasio e Protasio, di S. Nazario a Milano, e dei Ss. Vitale e Agricola a Bologna all'epoca di S. Ambrogio, e, nell'Oriente, quella di S. Stefano protomartire nel 415 a Cafargamala. Le reliquie di S. Stefano furono distribuite in tutte le regioni dell'impero romano cristiano. Altre rivelazioni e traslazioni di reliquie avvennero in seguito. In Occidente però si mantenne fino al sec. VII, quasi generalmente, l'antica disciplina di non asportare particelle delle ossa o ceneri dei santi, ma contentandosi di reliquie di secondo ordine. Col sec. VIII però si cominciò ad asportarne anche nella chiesa latina; il cambiamento è in relazione con la traslazione dentro la città di Roma delle reliquie dei martiri dalle loro sepolture primitive nei cemeterî fuori le mura. Lo spopolȧmento della campagna circostante, causato dalle invasioni dei Longobardi, e la decadenza di Roma stessa nei secoli VII-VIII non permettevano più di mantenere il culto dei martiri nelle molte chiese cemeteriali erette sulle loro tombe; perciò varî papi dei secoli VIII e IX tolsero le reliquie dei santi dalle loro tombe primitive per trasportarle in chiese dentro la città, dove furono deposte sotto gli altari, cosicché si poté continuare il culto dei resti preziosi.

In tali occasioni si cominciò a staccare parti delle ossa per deporle in cappelle o chiuderle dentro altari, e da questo tempo si fissò anche in Occidente l'uso di distribuire come reliquie le parti delle ossa dei santi. Dopo la conversione dei Franchi e delle altre tribù germaniche alla Chiesa cattolica, il culto dei santi e delle reliquie occupò una parte importante nella vita religiosa anche di questi popoli. Dagli scritti di Gregorio di Tours (sec. VI) si vede chiaramente la diffusione della venerazione delle reliquie; ma si veneravano ancora in primo luogo i martiri, come eroi della fede, e appresso a loro presero posto vescovi, asceti, fondatori di monasteri, come rappresentanti della perfezione cristiana, e ciò sia nella venerazione dei fedeli sia nel culto liturgico. Quindi anche reliquie di tali santi vennero usate come quelle dei martiri, sebbene costoro conservassero il primo posto nella considerazione dei cristiani. Roma era la "città santa" per il grande numero di celebri martiri che vi avevano le loro tombe, e numerosi pellegrini delle nazioni germaniche convertite vi si recavano per venerarne i sepolcri. Le chiese nuovamente fondate furono spesso consacrate a celebri martiri romani, e quando nei secoli VIII-IX le reliquie furono trasferite dentro la città, principi, vescovi e abati delle varie regioni europee cercarono di procurarsene qualche particella per portarla nella loro patria. Così un certo numero di martiri vennero trasportati in Francia e in Germania, dove suntuose chiese furono fondate per queste reliquie. Ci sono pervenute relazioni contemporanee di alcune di queste traslazioni. Si manifestarono però presto abusi nella pratica di procurarsi reliquie, perché in alcuni casi se ne faceva un vero commercio, come pure per certe traslazioni l'autenticità delle reliquie è molto dubbia. In quest'epoca cominciò l'uso di mettere reliquie, non più dentro altari, ma in reliquiarî, per poterle esporre sopra gli altari alla venerazione dei fedeli. All'epoca delle crociate venne in Occidente una ricca messe di reliquie dalla Terrasanta, sia in relazione alla religione giudaica sia riguardanti le persone di Gesù e di Maria Vergine; ma queste reliquie non possono essere ritenute, nella grande maggioranza, come autentiche. Presa Costantinopoli nel 1204, molte delle reliquie conservate in quella città furono portate in Occidente, e varie città italiane, come Venezia, Amalfi, Bari, ecc., ebbero parte a queste traslazioni. Il culto in certi casi fu accompagnato da pratiche superstiziose contro le quali agirono varî sinodi del Medioevo. Un nuovo impulso alla venerazione delle reliquie fu dato dalla scoperta delle catacombe di Roma nella seconda metà del secolo XVI e dalle ricerche condotte in seguito in quei venerandi cimiteri sotterranei. Per un giudizio formatosi in buona fede, ma completamente errato, si credeva, sulla base di racconti leggendarî e favolosi, che tra le tumbe scoperte nelle catacombe molte appartenessero a martiri, e che certi segni (palma, corona, monogramma di Cristo) scolpiti sulle lastre di chiusura, e la presenza di ampolle e vasetti fissati presso i sepolcri o trovati dentro i loculi, considerati erroneamente come recipienti ov'era stato raccolto il sangue del defunto, indicassero il martirio dei fedeli sepolti in tali sepolcri; perciò le ossa rinvenute in tali condizioni furono considerate come reliquie di martiri, e numerose chiese nei varî paesi accolsero tali "corpi santi".

Il progresso del metodo scientifico nello studio delle catacombe e dei loro monumenti per opera di G. B. De Rossi mostrò che questi concetti erano errati, e dalla metà del sec. XIX l'uso di levare tali resti mortali di antichi cristiani come reliquie non poteva più essere approvato. Il protestantesimo nelle sue varie forme rigettò sia il culto dei santi sia quello delle reliquie, tanto che furono gettati fuori dai santuarî i resti venerati nei secoli anteriori, e furono distrutti i reliquiarî, spesso anche di gran valore artistico, nelle regioni dove trionfò il protestantesimo. Il Concilio di Trento dichiarò e formulò la dottrina cattolica sul culto dei santi e delle loro reliquie nella sess. 25 (De invocatione et veneratione Sanctorum). Più tardi, la direzione e sorveglianza di ciò che riguarda le reliquie fu affidata alla S. Congregazione delle indulgenze e delle reliquie (16 luglio 1669), la quale nell'anno 1904 fu riunita con la S. Congregazione dei riti. Con varî decreti fu stabilita la disciplina ecclesiastica intorno alle reliquie, alle dichiarazioni di autenticità (le "autentiche" necessarie per farne uso nel culto o per esporle alla venerazione). La compra e la vendita di reliquie sono severamente proibite.

In varie regioni si celebra una festa speciale delle reliquie, e sia in questa celebrazione, sia nelle dichiarazioni della Chiesa si riconosce che la base e lo scopo del culto delle reliquie è la venerazione dei santi e l'impulso dato ad esso mira a farne ricopiare le virtù e a implorarne l'aiuto.

Bibl.: Fr. Stengel, De reliquiarum cultu, Ingolstadt 1624; L. A. Muratori, De christ. veneratione erga sanctos, diss. 58, in Antiquit. ital., V, Milano 1741, pp. 1-60; M. Sdralek, Reliquien, in Kraus, Realencyklopädie der christl. Altertümer, II (1886), pp. 686-692; St. Beissel, Die Verehrung der Heiligen und ihrer Reliquien in Deutschland, voll. 2, Friburgo in B. 1890-92; E. A. Stückelberg, Geschichte der Reliquien in der Schweiz, voll. 2, Basilea 1902-07; V. Guiraud, Le commerce des reliques au commencement du IXe siècle, in Mélanges J.-B. de Rossi, Roma 1892, pp. 73-95; H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, 2ª ed., Bruxelles 1933, pp. 50-99; Fr. Pfister, Der Reliquienkult im Altertum, Giessen 1909-12; E. A. Stückelberg, Katakombenheilige der Schweiz, Basilea 1907; H. Delehaye, Cinq leçons sur la méthode hagiograph., Bruxelles 1934.
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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » mer gen 28, 2015 9:23 pm

Naltra ensemensa granda, ke se pol considerar come na superstision pagana lè el dogma xlamego de ła łengoa araba come łengoa de Dio.

Dio o Alah Pare Çełeste e creador de l’ogneverso, de tuti łi omani e de tute łe so łengoe nol pol ver de łe prefarense par coalkedon o pa’ coalke łengoa, descremenando tuti staltri e tute łe altre łengoe omàne.

Dio el parla tute łe łengoe de łi omani e łe so łei o łej de l’ogneverso łe se pol dir ente tute łe łengoe del mondo, pensar ke lomè na łengoa ła sipia coeła de Dio łè na ensemensa granda e ki ke ła sostien nol pol esar ke on kel ga poco conprendonio o ke lè rasista.


Il mondo arabo islamico ieri ed oggi: la conoscenza come via alla convivenza possibile
INTERVENTO DELLA PROF.SSA Anna PAGNINI
Lezione ed intervista avvenuta l’11/12/2001 nell'aula della classe 5 liceale sez. AC del Liceo " G.Chiabrera " di Savona
http://www.nuovadidattica.net/archivio/ ... entale.htm

Abbiamo detto che Muhammad, il Profeta dell’Islam, era arabo di Mecca, e il Corano, il testo sacro dei musulmani, è stato rivelato a lui in lingua araba. Questo è il motivo per cui su questa lingua gravano tutta una serie di dogmi di perfezione e di bellezza, che derivano proprio dal fatto che la lingua araba è, per i musulmani, la lingua con cui Dio ha parlato agli uomini. ‘Corano’ significa ‘recitazione’, è la dettatura della parola di Dio, è la rivelazione di Dio all’uomo. Per i musulmani Dio si è fatto Parola, ha parlato in “lingua araba chiara” e questa Parola poi è stata fissata su un libro. Ogni buon musulmano infatti dovrebbe conoscere l’arabo per avere accesso al Corano. Ma ‘musulmano’ non vuol dire ‘arabo’ e il dominio islamico ben presto arrivò ad imporsi su popolazioni non arabe.

Del Corano sono state ammesse delle ‘interpretazioni’ che però non possono essere definite ‘traduzioni’.
Il Corano è intraducibile non soltanto per questo dogma della lingua perfetta, della lingua che Dio ha usato, ma anche per il fatto che è una composizione fortemente intrisa di sonorità. Il valore aggiunto (rispetto alla sostanza) della bellezza formale del Corano è difficilmente spiegabile a chi non conosce l’arabo e, dal punto di vista letterario, si innesta sulla base estetica della poesia pre-islamica.
Tale poesia, di nascita, natura e fruizione orale, poggiava la sua eccellenza su valori formali rigidi ed elaboratissimi che la rendevano ‘parola memorabile’, in grado di essere ricordata, trasmessa di generazione in generazione, di valicare il tempo. L’effetto che la parola poetica aveva sul suo uditorio era vicina all’incantamento e la stessa recitazione poetica era una sorta di esperienza emozionale collettiva e aveva un carattere rituale. Il poeta era considerato, nel periodo pre-islamico, un sensitivo, era chiamato “majnun”, cioè ‘quello preso dal demone’; era considerato avere una relazione privilegiata con le potenze non umane.
Nei paesi arabi, ancora oggi, c’è un grande fascino della parola recitata; ci sono festival di poesia che riscuotono un grande successo di pubblico. Gli Arabi si definiscono proprio sulla base della loro identità linguistica. Il potere di incantamento della parola poetica in ambito pre-islamico era dovuto in parte all’ambiente di cultura e tradizione orale, all’interno del quale la parola conservava intatto il suo aspetto di ‘creazione’, e in parte alla struttura dell’Arabo stesso che prevede un alto tasso di ripetizione sonora, data dalla regolarità e uniformità negli schemi di formazione di parola. Perciò ci sono tantissime parole che hanno la stessa forma vocalica, differenziate solo dalla sostanza consonantica.

Il Corano, pur non avendo forma poetica, mantiene tutti gli echi di questa estetica, tanto che Muhammad dovette difendersi dalla possibilità di essere scambiato per un poeta, per un invasato. Il Corano inoltre è stato, nella sua prima trasmissione, solo orale. La tradizione dice che il Corano venne fissato per iscritto già sotto il primo califfo che succedette a Muhammad, Abu Bakr. Una redazione definitiva venne fatta sotto il terzo califfo, ‘Uthman, e quindi una ventina d’anni dopo la morte di Muhammad. Secondo la tradizione pare che anche quando Muhammad era ancora in vita alcune parti siano state scritte su materiale vario.



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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » gio gen 29, 2015 10:47 pm

Anca i miracołi e łe cexe łi xe de orexene pagana.


http://it.wikipedia.org/wiki/Miracolo
Si definisce miracolo (dal latino «miraculum», cosa meravigliosa), in teologia, un evento straordinario, al di sopra delle leggi naturali, che si considera operato da Dio direttamente o tramite una sua creatura. Nel linguaggio comune, per estensione, il termine miracolo indica anche un fatto eccezionale, che desta meraviglia. Colui che si ritiene abbia compiuto dei miracoli di natura medica è detto taumaturgo.

Il miracolo nelle religioni
Nell'ebraismo, così come nell'Islam, i miracoli sono considerati segni dell'onnipotenza di Dio.
Nella Bibbia svariati eventi vengono presentati come miracolosi. Si deve tuttavia fare una differenza tra l'interpretazione ebraica, ovviamente limitata all'Antico Testamento, e l'interpretazione cristiana, che abbraccia soprattutto il Nuovo Testamento, del quale l'Antico è letto come prefigurazione.
I miracoli nell'Induismo
I testi sacri propri dell'Induismo contengono vari esempi di miracoli, tra cui la comparsa di un ponte sull'oceano per lasciare che gli eserciti di Rama lo attraversino, il salvataggio divino di Prahlada alla cui vita si era attentato con molti mezzi (fuoco, calpestamento ad opera di elefanti, ecc), la scomparsa del corpo fisico di Mirabai e Andal mentre entrano nel santuario di un tempio, Krishna che risuscita dai morti Parikshit. In epoca recente si sarebbero verificati miracoli da parte del dio Ganesha; tra i più rilevanti quello del 21 settembre 1995, quando in diverse parti del mondo - dall'Asia alle comunità induiste europee ed americane - le statue della divinità avrebbero bevuto del latte[3].
I miracoli nel Cristianesimo
Nel Nuovo Testamento i principali miracoli sono opera di Gesù, e sono accompagnati da un valore simbolico; spesso capita che lo stesso Gesù si rifiuti di fare miracoli per fare proseliti. Da ricordare, come momento topico, la tentazione di Satana che nel deserto propone a Gesù di cambiare i sassi in pane; Gesù rifiuta, con questo e altri segni, di far diventare i miracoli segni per convincere i testimoni. Da ricordare, dopo la moltiplicazione dei pani, come Gesù si nasconda per fuggire alla gente che voleva farlo re. Gesù evita che i miracoli da lui operati possano venir equivocati dalla folla. Numerose sono le volte che Gesù chiede ai miracolati di rimanere in silenzio e di non dirlo, è sempre fatto divieto a chi riceve un miracolo di seguirlo. Nell'ottica complessiva del messaggio evangelico, l'unico segno attorno a cui ci si deve convertire è quello duro e crudo della croce. Il Nuovo Testamento riferisce anche di miracoli operati dagli Apostoli, attribuendoli esplicitamente al potere concesso loro da Gesù, perché potessero testimoniare la loro fede e annunciare il regno di Dio. Essi vengono presentati dagli evangelisti come opere di Gesù, il Cristo, termine greco che traduce l'ebraico Messia, e sono considerati come parte della proclamazione del regno divino, a solo scopo di sollecitare il pentimento e la conversione a Dio. Nel Nuovo Testamento è presente anche la figura di Simone Mago che compie prodigi considerati veri miracoli dai testimoni.

http://it.wikipedia.org/wiki/Miracoli_di_Ges%C3%B9
La religione cristiana chiama miracoli di Gesù alcuni eventi narrati nei vangeli canonici, nei vangeli apocrifi e in altri libri del Nuovo Testamento, ritenuti prodigiosi ed attribuiti a Gesù.
Per la dottrina cattolica[1][2], e in generale per la fede cristiana, soltanto i miracoli attestati nei Vangeli canonici (diversamente dagli apocrifi) sono da considerarsi come fatti storici, con significato trascendente. Anche altre confessioni[3] esprimono di credere ai miracoli, e così anche la religione musulmana, che considera Gesù un profeta dell'Islam[4]. Secondo singoli esegeti biblici, sia cristiani sia non credenti, i miracoli di Gesù sono dei racconti allegorici[5][6].


http://www.treccani.it/vocabolario/miracolo
miràcolo s. m. [dal lat. miracŭlum «cosa meravigliosa», der. di mirari «ammirare, meravigliarsi»]. –

1.
a. In genere, qualsiasi fatto che susciti meraviglia, sorpresa, stupore, in quanto superi i limiti delle normali prevedibilità dell’accadere o vada oltre le possibilità dell’azione umana. In partic., per la teologia cattolica, fatto sensibile straordinario, fuori e al di sopra del consueto ordine della natura, operato da Dio direttamente o per l’intermediazione di una creatura: il m. della resurrezione di un morto; i m. di Gesù Cristo; il m. della moltiplicazione dei pani e dei pesci. I m. della Madonna, di un santo, compiuti da Dio per la loro intercessione o valendosi di loro come strumento (quando siano compiuti dai santi in vita), in quanto per definizione teologica i miracoli possono essere attribuiti soltanto a Dio; il m. delle noci, raccontato da fra Galdino nei Promessi Sposi; il santo dei m., per antonomasia, sant’Antonio da Padova; fare, operare miracoli. Gridare al m., annunciare pubblicamente che è avvenuto un miracolo, gridare che si è in presenza di un fatto miracoloso; per estens., sollevare rumore per cosa che appaia straordinaria, fare grandi manifestazioni di meraviglia. Sapere, raccontare vita, morte e miracoli di qualcuno, propr. di un santo, ma per lo più fig., conoscere o narrare per filo e per segno tutte le vicende, i casi, le azioni di una qualsiasi persona.

b. Per iperbole, riferito all’uomo o alle cose umane, fatto straordinario e superiore alle possibilità comuni, azione che ha effetti insperati, intervento che ha la capacità di modificare radicalmente una situazione e sim.; per lo più al plur.: abbiate pietà di questo odio e di questo amore, fate che per un m. unico io possa amare me stesso come amo una cosa pure a me inferiore (Penna); tu pretendi miracoli da me; cercherò di rimediare, ma non aspettarti dei m.; soprattutto nella frase far miracoli, fare assai più di quanto un uomo possa fare normalmente: considerata la scarsità dei mezzi di cui disponevamo, abbiamo fatto m.; è uno scolaro volenteroso che in pochi mesi ha fatto m., ha fatto progressi notevolissimi nello studio; il medico ha fatto m., ma non è riuscito a salvarlo; e di cose, con sign. simile: è una cura, una medicina, un prodotto che fa m., che ha effetti prodigiosi; la chirurgia moderna riesce a far miracoli.

2. Evento che sembra miracoloso, che ha dell’incredibile; con questo sign. è sempre usato in funzione di predicato, a proposito di fatti che superano ogni speranza o aspettativa, così da far quasi credere che siano dovuti all’intervento di forze soprannaturali, oppure di fatti tanto insoliti ed eccezionali, che non possono non stupire grandemente: fu un m. che mi trovassi io lì presente; è stato un m. che non ti sia rotta una gamba; sarà un m. se riuscirà a cavarsela; mi pare ancora un m. che sia rimasto vivo, e con uso iperb.: sarebbe un m. se arrivasse puntuale. Per la corte dei miracoli nella Parigi medievale, v. corte, n. 1 c. Frequente nella locuz. avv. per miracolo, in modo che sembra quasi incredibile: si salvò per m.; fu promosso per m.; si regge in piedi per miracolo. Spesso in forma ellittica, in frasi esclam. e per lo più di tono iron. (con intenzionale esagerazione della meraviglia): gran m., che tu non abbi fatto quello che non hai potuto (Leopardi); m. che non ti abbia trattato male!; m. che si sia ricordato di noi! Assol., ha voluto offrirci da bere: miracolo! (o che miracolo!; quale miracolo!); anche, per antifrasi, quando si finge, per ironia, di ritenere eccezionale un fatto che è invece consueto: hai preso un brutto voto a scuola: miracolo!

3.

a. Con senso più vicino a quello originario latino (non senza influenza, spesso, più o meno diretta del sign. religioso), cosa meravigliosa, fuori del comune: par che sia una cosa venuta Da cielo in terra a miracol mostrare (Dante, con riferimento a Beatrice); i m. della scienza, della tecnica, le loro straordinarie invenzioni, i loro prodigiosi ritrovati, e in genere il meraviglioso progresso rivelato dai loro prodotti; i m. dell’arte, i grandi capolavori, soprattutto delle arti figurative (e Prato dei m. è comunem. detto lo spiazzo erboso di Pisa da cui si elevano i capolavori architettonici del Duomo col campanile, del Battistero e del Camposanto vecchio); un m. di natura, spettacolo, aspetto, fenomeno naturale che colpisca per i caratteri o le qualità eccezionali.

b. M. economico, espressione con cui è indicato il rapido sviluppo che ha avuto l’economia italiana, e il benessere sociale che ne è conseguito, negli anni ’50 e ’60 del Novecento.

c. Persona che, per le sue doti straordinarie o per l’alto grado in cui possiede determinate qualità, si allontana molto dalla norma, così da destare ammirazione e meraviglia: L’alto e novo miracol ch’a’ dì nostri Apparve al mondo (Petrarca, di Laura); è un m. di bellezza, di memoria, d’ingegno, di bontà, di pazienza (ma anche un m. di bruttezza, di stupidità, di sfacciataggine); fu un bambino così precoce che ai suoi tempi era considerato un miracolo (cfr., con sign. analoghi, prodigio, portento, fenomeno). Anche riferito a cose: un congegno così perfetto, che è un m. di precisione; o alle qualità stesse: ha una memoria, una capacità d’apprendere che è un vero miracolo.

4. Con usi affini a meraviglia, in alcuni dei suoi sign.:

a. Dire, raccontare, scrivere miracoli di qualcuno, narrare sul conto suo fatti strabilianti, o esaltarne con molta esagerazione le imprese, le virtù, i pregi; analogam., di cose, vantarne i prodigiosi effetti.

b. non com. Al plur. (per lo più in unione col verbo fare), espressioni di gran meraviglia per fatti da poco, manifestazioni esagerate o insistenti di vario genere (di dolore, di stupore scandalizzato, di protesta, di stizza, di sdegno, di disgusto, ecc.): quanti m. per un aeroplano che passa, come se tu non ne avessi mai visti!; sapevi che le cose andavano male, non capisco perché ora fai tanti m.; per un piccolo taglietto al dito fai tanti m.!; quanti m. per un capello nella minestra!

5. Nel medioevo, nome generico della sacra rappresentazione, per lo sviluppo che in essa aveva la parte dedicata ai miracoli.

Miracolo!!! Il volto di Gesù appare sull'Ostia durante la Santa Messa
https://www.youtube.com/watch?v=rNp48amAhvE


Baxełega (basilica), palaso de la raxon o de l’arengo e sala
viewtopic.php?f=44&t=76

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... xibkE/edit

Evoƚousion/raxon e creasion/fede no ƚe se contradixe/ o dà contro
viewtopic.php?f=24&t=1169
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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » ven feb 06, 2015 12:50 pm

Sti ki li xe altro ke pagani!

Gli esorcisti a convegno: «Il Diavolo? Spesso è un imbroglione gentile»
A Monreale, fino a sabato, si discute a porte chiuse su come opporsi al Maligno:
«Che sta su Internet, nelle logge massoniche e in Scientology»
di Felice Cavallaro
http://www.corriere.it/cronache/15_febb ... fffa.shtml


shadow

MONREALE (Palermo) – Bisogna arrampicarsi oltre Monreale, fra le colline sopra Palermo, fra i boschi di Poggio San Francesco per trovare quaranta esorcisti provenienti da tutta Italia a convegno contro Satana. Si, contro il diavolo che, dicono, ormai si annida nelle sette segrete. Anzi, «nelle logge massoniche e nei segreti di Scientology». Parola di un sacerdote con saio, barbone, piedi nudi e un nome che è già un esercizio contro le diavolerie, Fra’ Benigno, 67 anni, capofila degli esorcisti siciliani, un vagone ferroviario come alloggio, protagonista del convegno a porte chiuse che andrà avanti fino a sabato per capire come estirpare il male dai «posseduti» e dalla comunità «oppressa da quelle sette».

Sembra un salto di qualità questa levata di scudi con preghiere e crocefissi branditi non solo contro messe nere, sedute spiritiche e riti orientali, maghi e cartomanti, ma anche contro massoni e fedeli di Ron Hubbard, lo scrittore-santone che costruì Scientology, un’organizzazione con lo status di religione riconosciuto solo in alcune aree, Australia e Stati uniti compresi.

«È roba che scotta. E quindi niente foto, niente nomi. Non sappiamo quali rischi corriamo. Meglio stare al sicuro», raccomanda Fra’ Benigno nell’oratorio del Centro Maria Immacolata, restando muto, senza ammettere e senza negare, quando si sparge la voce che ai 40 corsisti per spiegare «natura satanica e dimensione occultistica di queste forze» saranno presentati i racconti di «alcuni ex scientologisti di alto rango», come li chiama uno dei teologi in cattedra, il professor Tullio di Fiore. Insomma, entrano in campo i pentiti, qui a due passi da Corleone dove Fra’ Giacinto ha lavorato per vent’anni.

Ma lui va ben oltre, allarmato «dal diavolo trovato anche dentro Internet». Il suo viso placido e i suoi occhi celestiali si oscurano quando parla dei suggerimenti che tanti siti danno su come preparare una bambolina Woodoo, su come piazzare gli spilli per il maleficio: «È roba stomachevole suggerita ai giovani per vendicarsi di un torto contro il direttore di reparto o contro la ragazza che ti ha fregato il fidanzato. Ecco una porta del male che, socchiusa, il diavolo poi apre entrando nella mente e nel cuore dei singoli. Tutti a rischio perché queste schifezze le vendono pure nei mercati e nei centri commerciali». L’antidoto ovviamente per Fra’ Benigno è la caccia al diavolo da affidare allo schieramento degli esorcisti ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa, dalle diocesi. Fiero della sua missione visto che «in Sicilia siamo in 30, mentre sono quattro in Spagna e solo uno in Portogallo...». Parola di chi col diavolo ha parlato. Come ha scritto nel libro edito dalle Paoline, con un titolo eloquente: «Il diavolo esiste, io l’ho incontrato». E giura che spesso appare con le sembianze di una persona gentile promettendo guarigioni e soluzioni. Insomma un diavolo imbroglione. Simile a maghi e impostori spesso scovati da scoop modello «Striscia la notizia».
5 febbraio 2015 | 11:20


Sti fanfaroni de exorçisti li ga làsà fora i posti prefaresti dal demogno:

Li stadi totaledari
El poder poledego, la partetocrasia, ...
La stesa jerarkia cexastega (come kel ga dixesto Papa Françesco)
La tivi ke la endotrina
Le edeoloje relijoxe ke le xe edeoloje de poder poledego e militare, piene de violensa e orori ...
El paganexemo e le falbetà de le edeoloje relijoxe
Le mafie e le caste
...
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Re: Pagani, ma ki sarisełi?

Messaggioda Berto » lun feb 09, 2015 10:59 am

Papa Francesco: «I santi non sono super uomini»

http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/pa ... santi.aspx

"I santi non sono super uomini". Papa Francesco lo ha ricordato prima della recita dell'Angelus dalla finestra del Palazzo Apostolico vaticano, proprio nella ricorrenza della festa di Ognissanti. "I santi non sono nati perfetti - ha sottolineato il Papa - sono come noi, come ognuno di noi, persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze".
La differenza con il resto dell'umanità consiste nel fatto che "quando hanno conosciuto l'amore di Dio, lo hanno seguito con tutto il cuore, senza condizioni o ipocrisie; hanno speso la loro vita al servizio degli altri, hanno sopportato sofferenze e avversità, senza odiare e rispondendo al male con il bene, diffondendo gioia e pace". Proprio in tal senso, ha osservato Jorge Mario Bergoglio, "i santi sono uomini e donne che hanno la gioia nel cuore e la trasmettono agli altri". Quindi, il Papa ha esortato che "essere santi non è un privilegio di pochi ma è una vocazione per tutti".
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