Ła falba teoria romansa: latin-latin volgar, volgar romanso

Ła falba teoria romansa: latin-latin volgar, volgar romanso

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 4:13 am

Ła falba teoria romansa, latin-latin volgar, volgar romanso:
viewtopic.php?f=176&t=268

Kive se łexe ben ła conta de ła teoria romansa ke ła vuria łe nostre łengoe derivà dal latin:

http://www.achyra.org/cruscate/viewtopic.php?t=233

CENNI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

Con la fine dell’organizzazione politica ed economica dell’impero romano, il latino si scinde in tante minuscole unità quanto sono le comunità.
Ma tutti sono convinti di continuare a parlare latino, anche se i pochi che scrivono lo scrivono in modo sempre piú sgrammaticato.


Pensè valtri ke ensemense kel scrive sto omo kive, se rajonè na s'cianta a ve rendarì conto, da vù, de łe so asourdetà.

Questo stato di cose dura tre secoli, fino a Carlo Magno. La ripresa dell’insegnamento scolastico restituisce un certo ordine alla lingua scritta, ma rivela anche a tutti la distanza che la separa da quella parlata. Il Concilio di Tours (IX secolo) in Francia impone ai preti di predicare in volgare. Anche in Italia, col IX secolo, si può affermare che esiste la lingua italiana, anzi: tante lingue italiane.


MONTE CASSINO

Nell’archivio della Badia di Monte Cassino è conservata una serie di sentenze emesse da giudici, dette «placiti cassinesi», che risalgono a circa il 960: in esse la lingua volgare è assunta non come manifestazione lirica o giocosa, ma come verbale di una testimonianza. Uno di questi dice:

Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.

Essa è evidentemente volgare, non latina. Ma quando si dice ‘volgare’ si potrebbe credere che rispecchiasse il risultato della frantumazione del latino, quale si era compiuta in Campania. Viceversa questi testi contengono sia una base popolare, regionale (come può essere nella forma kelle terre), sia alcuni elementi superiori e per cosí dire sovrapposti. Uno di questi (parte Sancti Benedicti, senza l’articolo) è latinismo, come fini invece di ‘confini’. L’altro, importantissimo, è un elemento interregionale: la forma sao per ‘so’ (in confronto della forma moderna saccio e del latino sapio) è qualcosa di sovrapposto, di venuto di fuori, di non definitivo; essa mostra nel testo volgare, accanto all’aspetto popolare istintivo, un elemento elevato e non regionale, italiano e non latino, giunto in Campania seguendo itinerarî di Longobardi e di Franchi.
La differenza che separa il regionalismo dal latinismo consiste in questo, che il latinismo è un resto, superstite al processo di frantumazione, mentre il regionalismo è una novità, è il sintomo di un processo di ricostruzione.
Vi era stato un processo recente di differenziazione linguistica, ed ora il volgare, rispondendo alle esigenze istintive della società, mostrava capacità di ripresa, di livellamento, di comunione. Da tribunali, chiese e scuole si diffondevano, per aree piú vaste, forme e pronunce costanti. Da questi passi incerti potrà svilupparsi una tradizione di lingua usuale nuova, con caratteri intermedî, per il momento, fra la letterarietà della lingua latina e la familiarità, l’espressività della lingua locale.


LA SICILIA DI FEDERICO II

Di fronte alle resistenze vitali, giustificate, bene organizzate, della tradizione latina, il successo e l’espansione del volgare erano condizionati, se non a una voluta organizzazione consapevole, al concorso di circostanze favorevoli. Occorreva che esistesse un ambiente di cultura appoggiato a una unità amministrativa abbastanza vasta, già aperto a forme d’arte non latine, pronto ad assumere il patrocinio del volgare come una manifestazione ovvia del proprio ambiente storico-culturale.
Queste condizioni si verificano in Sicilia.
Già durante la monarchia normanna (sec. XII) all’assestamento politico si accompagna una fioritura artistica di scultura e di architettura. Quando la monarchia da normanna si trasforma in sveva, agli inizi del XIII secolo, fu completa anche la fioritura letteraria. Questa trae vantaggio dal maggiore spazio vitale, che interessa gran parte dell’Italia meridionale, e, per la stessa natura imperiale della casa, la lega, verso settentrione, a tutta la vita italiana. Pier delle Vigne (1190-1249) è il simbolo di questa unità: nato a Capua, educato a Bologna, diventa ministro di Federico II.
Sulle orme dell’espansione sveva, la lingua poetica siciliana, cólta e aperta a sua volta a molteplici influssi culturali, perde presto, se pure li ha mai avuti, i tratti caratteristici di un’area ben determinata e fa dell’Italia peninsulare un terreno d’incontro spontaneo. Ma la morte di Federico II (1250) fa entrare in crisi la monarchia sveva, e alla lingua poetica siciliana viene a mancare l’appoggio necessario ad una ulteriore espansione.


DANTE

Con Guido Guinizelli (n. 1230 o 1240 – m. 1276) comincia una tradizione di lingua poetica, inquadrata in una visione della vita, che costituisce un ciclo nuovo rispetto a quello della tradizione siciliana. Questa tradizione è detta del «dolce stil nuovo». La sua discendenza poetica è tutta toscana e assume aspetti caratteristici presso i diversi autori.
Tecnico di questa lingua, fondata soprattutto sul ritegno e l’eliminazione di ogni volgarità, fu Dante. Egli afferma la dignità del volgare, nobilior ‘piú nobile’ della lingua letteraria, perché questa è il risultato di uno sforzo di apprendimento non adatto a tutti, mentre quello lo apprendiamo dalla nutrice.
Il processo di concentrazione dialettale ormai in atto fa sí che egli riconosca quattordici grandi volgari italiani, all’interno dei quali naturalmente persistono varietà minori, a centinaia e centinaia, persino all’interno di una stessa città come Bologna. La divisione è essenzialmente geografica, fondata sulla catena appenninica, per cui il lombardo e l’apulo di oriente sono messi sotto una stessa categoria (Italia di sinistra), il ligure e il romano sotto un’altra (Italia di destra).
Sensibile ai molteplici aspetti della lingua, Dante distingue gli impieghi del volgare nelle tre categorie dell’illustre (canzone e tragedia) mezzano (ballata e commedia) umile (elegia). E indagando sulla «costruzione» e sul «vocabolario» del volgare illustre, la sua tesi appare come non lontana dalla ciceroniana, per la quale si tratta essenzialmente di eliminare scorie locali, per stendere il tutto secondo un minimo di artificio.
Questo volgare «illustre» è stato visto da taluno come una realtà. Dante ha voluto esporre piuttosto un ideale. La dottrina del De vulgari eloquentia, nelle sue facce, cosí diverse, delle osservazioni sulla lingua viva e degli astratti ideali di distinzione, non ebbe infatti efficacia determinante, nemmeno per lo stesso Dante. La Divina Comedia, in base alla dottrina, avrebbe dovuto essere scritta in stile «mezzano» o anche «umile». Sta di fatto che essa è scritta in tutti gli stili, non solo perché altra è l’atmosfera dell’Inferno, altra quella del Paradiso, ma anche perché, all’interno di una stessa cantica, abbiamo situazioni espressive che non rientrano negli schemi linguistici elaborati da Dante.
Ma la Divina Comedia non risponde nemmeno alle esigenze di una sia pur temperata attenuazione dialettale. Anche se «Comedia» e non «Tragedia», pare strano che proprio vi si trovino esempi rimproverati nel De vulgari eloquentia e già da lui giudicati sufficienti per spogliare del loro vanto i volgari municipali dei toscani.
Comunque, è stato provato che il fondamento della lingua della Divina Comedia è il dialetto fiorentino: ci sono dei latinismi, ma non arrivano a cinquecento; ci sono gallicismi (poche decine), settentrionalismi e meridionalismi (poche unità).
Le proporzioni sono tali che non incrinano la compattezza fiorentina di quella lingua poetica. Del resto, difficilmente sussiste nella storia una corrispondenza automatica fra una teoria grammaticale e una prassi linguistica; né Dante ha dato altrove la prova di ciò che egli intende realizzare come volgare «illustre», illustre da ogni punto di vista.
Se avesse pensato all’avvenire, all’opportunità o al desiderio di avere dei continuatori, si sarebbe reso subito conto che la sua realizzazione fiorentina non teneva conto né del passato né dell’avvenire in quanto questo fosse prevedibile. Per questo fa tanto maggiore impressione la fortuna storica della Divina Comedia come testo esemplare, come capostipite di una tradizione di lingua letteraria italiana.


PETRARCA

Oltre che a fattori di ordine politico, geografico e funzionale, l’affermazione linguistica fiorentina fu dovuta a fattori positivi che hanno moltiplicato il prestigio e la forza di penetrazione dei modelli danteschi. Il primo di questi si identifica in una persona, il Petrarca (1304-1374). Alla giovane tradizione fiorentina egli aderisce, non già istintivamente come il fiorentino Dante, ma attraverso processi di riflessione e di scelta, per i quali essa rapidamente matura.
Questa altezza del volgare si inquadra in una spontaneità e intimità del latino che, in un uomo come il Petrarca, adempie ancora al compito di lingua dell’uso, all’interno del suo tecnicismo di lavoratore della penna.
Per ripetere due giudizi ormai classici, di fronte a Dante che «crea sovente una lingua nuova», il Petrarca «sa scegliere... le piú eleganti e melodiose parole e frasi» secondo il Foscolo; «fu... atto come nessun altro a raggentilire una lingua e una poesia» secondo il De Sanctis.
Ma proprio perché fu sensibile e seppe scegliere e correggere con cura, il Petrarca si avvicinò a modelli formali assai diversi, nel tempo e nello spazio, da lui. E la cura e il culto della parola, e il preziosismo indiretto che ne consegue, gli danno un posto non soltanto nello svolgersi della storia linguistica posteriore a Dante, ma anche in quelle realizzazioni tendenti all’artificioso, che piú e piú imitatori dovevano avere anche secoli dopo.


BOCCACCIO

Per quello che riguarda la prosa, Dante teorizzò nel Convivio. Le sue definizioni, a proposito del volgare, sulla «agevolezza delle sue sillabe, le proprietadi delle sue costruzioni, e le soavi operazioni che di lui si fanno» mostrano la partecipazione costruttiva del gusto. Naturalmente, i fatti hanno preceduto la teoria, e l’istinto il ragionamento. Dante non si rende ancora conto della distanza che passa tra un prosatore medievale e uno classico, pure usando un periodare italiano sufficientemente maturo per apparire ispirato da modelli classici. Solo il Petrarca si rende conto di questo anche in teoria.
Come si notano differenze fra i testi letterarî del due e del trecento, cosí avviene anche in quelli piú popolari della lingua dell’uso di professionisti e notai. I testi del secolo XIV sono ricchi anch’essi di barbarismi toscani. Ma il loro significato è diverso. Si tratta dell’allargamento dello spazio vitale fiorentino, che assorbe nella sua orbita spazi sempre piú ampi, e quindi amanuensi di origine piú eterogenea. Contemporaneamente si diffondono per la Toscana modelli fiorentini.
Queste esercitazioni e queste innovazioni sarebbero forse rimaste chiuse nel loro alveo, percorrendo una strada piú lenta e comunque distinta dalle lingue poetiche, se non le avesse coltivate, assimilate e per cosí dire rese viventi, Giovanni Boccaccio (1313-1375).
Il Boccaccio del Decamerone è il terzo grande puntello sul quale la lingua letteraria italiana si afferma, definitivamente atta a tutte le esigenze, e il modello dantesco si completa.


LINGUA «TOSCANA»

Questo non toglie che l’affermazione generale della lingua poetica, proprio perché piú appartata e staccata dalla lingua dell’uso, sia piú rapida che non quella della prosa.
L’espansione della lingua poetica è un processo abbastanza semplice, connesso in gran parte con la diffusione della conoscenza del Petrarca. Ma, per la prosa, l’espansione della lingua toscana non si lascia riassumere nell’immagine militaresca di resistenze omogenee da superare o da travolgere. Anche nelle regioni settentrionali il toscano si doveva imporre non tanto come la sola forma di lingua scritta, quanto come una lingua letteraria di maggior prestigio, di fronte ad altri aspiranti.
Esso fu aiutato dalle corti e dai centri di cultura che intorno a quelle si andavano formando: Ferrara, Mantova, Milano al nord, Urbino e Roma al centro.
Intanto un nuovo fattore di unità linguistica era entrato in gioco prima ancora della fine del sec. XV: l’invenzione della stampa. Nel 1470 si ebbe la prima Bibbia, succedettero rapidamente tre edizioni della Comedia di Dante, del Decamerone e del Canzoniere petrarchesco.
La facilità che ne derivava alla presentazione dei libri e alla loro moltiplicazione tagliò le radici alle discussioni troppo aristocratiche sulle questioni di lingua.

MACHIAVELLI

Un giudizio notevole sull’autonomia e sul significato di Niccolò Machiavelli (1469-1527) nella storia linguistica è stato dato da Leonardo Salviati (1540-1589) che lo contrappone al Boccaccio del Decamerone: quest’ultimo «tutto candidezza tutto fiore, tutto dolcezza, tutto osservanza, tutto splendore», il Machiavelli essendo invece rivolto ad altre virtú, «la chiarezza, l’efficacia e la brevità... nella prima a Cesare, nell’ultima a Tacito da paragonare».
La misura e il tecnicismo degli impieghi lessicali del Machiavelli trovano una motivazione e una giustificazione nel carattere scientifico e naturalistico del Principe. Questo si ripercuote sulla sintassi, nella quale il Machiavelli sostituisce ai «ragionamenti a piramide» proprî degli scolastici, «il ragionamento a catena» proprio dei tempi nuovi.
La sua morfologia non è né tradizionalista, aderente a modelli del Boccaccio, né anarcoide. Essa accetta una fonte, quella fiorentina popolare, quale appare nelle Regole della lingua fiorentina attribuite a Lorenzo il Magnifico e conservate nel Codice Vaticano 1370.


BEMBO

Accettato il volgare, sorse il problema di quale volgare. In testa alle risposte vanno messe le Prose della volgar lingua (Venezia 1525) di Pietro Bembo. Affermato il volgare, questo deve secondo il Bembo esser toscano: ma il toscano deve essere arcaico, ispirato ai modelli del Petrarca e del Boccaccio e di altri trecentisti. Da questi modelli arcaici deve essere tenuto staccato Dante, che non sempre si mantiene all’alto livello sufficiente per agire come fattore di stabilità linguistica.
L’atto compiuto e la formula furono decisivi. Il Bembo, veneto, dotto di latino, raffinato sostenitore di un volgare non materno, non contemporaneo, superiore persino a quello dantesco, valido come base per l’avvenire, fu riconosciuto come maestro dall’Ariosto, dal Castiglione, persino dal Guicciardini.


LA CRUSCA

Fra il 1508 e il 1528 si erano avuti dunque alcuni testi di importanza capitale ai fini della storia linguistica, fra i quali il Principe del Machiavelli (1513) e le Prose del Bembo (1525). Ma fra il 1509 e il 1530 si erano compiuti anche eventi politici e militari di primaria importanza.
Dopo che la lega di Cambrai bloccò ogni possibilità della Repubblica di Venezia di raggiungere in Italia l’egemonia e di realizzarne praticamente l’unità, si ebbe sí l’anatema del papa Giulio II «Fuori i barbari!», ma in realtà l’avvento al potere di Carlo V e l’equilibrio raggiunto fra le potenze di Austria Francia e Spagna condannarono l’Italia a essere un complesso di piccoli stati, piú o meno satelliti delle grandi potenze straniere.
A differenza della Francia, che sotto l’egida della monarchia, continuò energicamente sulla via della unificazione linguistica, la tradizione linguistica italiana, chiusa la parentesi politico-sociale, tornò a fondarsi sugli ambienti letterarî ed eruditi.
La teoria fiorentina se ne avvantaggiò. Nel 1551 comparve la prima grammatica di autore toscano, quella di Pierfrancesco Giambullari (1495-1555) De la lingua che si parla e si scrive in Firenze.
Intervenivano organizzazioni collettive. L’Accademia fiorentina con decreto di Cosimo I (del febbraio 1541) viene riconosciuta, con lo scopo di ridurre ogni scienza nel volgare toscano. Nel 1572 il Granduca chiede al Consolo dell’Accademia che si compilino le regole della lingua toscana. Nel 1583 ha il suo atto ufficiale di nascita l’Accademia della Crusca. In meno di trent’anni questa pubblicò la prima edizione di quello che, dopo qualche esitazione, fu chiamato il Vocabolario degli Accademici della Crusca (Venezia, 1612) e che sancí la vittoria di un indirizzo approssimativamente bembesco, di un ideale fiorentino arcaico. La quarte edizione, in sei volumi, è del 1729-1738.


GALILEO

Capostipite vero e proprio di una tradizione nuova, quella di una lingua scientifica pienamente matura, è Galileo (1564-1642). L’antefatto di maggior rilievo era stato dato da Leonardo con la sua varietà, irregolarità, palpito; dal Bruno, con il suo tormento. La meta raggiunta da Galileo, non diversamente dal Boccaccio, e senza le sue complicate invenzioni, è l’armonia, e un’armonia tutta interna. Galileo fonde il narrativo e l’episodico, e il parlato dei suoi dialoghi viene disciplinato per formulare un precetto scientifico, come per sorvegliare una dimostrazione. Non è, a rigore, la prosa di Galileo una lingua speciale, riservata alla tecnica e alla scienza, ma una lingua letteraria che si sa piegare alle esigenze della tecnica. E che questa eguaglianza e semplicità siano una conquista è mostrato dal carteggio con suor Maria Celeste sua figlia.
La sua decisione di scrivere in italiano non era stata improvvisa. Il suo primo lavoro italiano, La Bilancetta, è del 1586, ma il suo insegnamento di Padova è tenuto ancora in latino, e solo col discorso «intorno alle cose che stanno in su l’acqua» (1612) l’impiego dell’italiano è definitivo. Precedette cosí di venticinque anni il Discours de la méthode di Cartesio (1637), fondamento della prosa scientifica francese.


PIETRO VERRI

Fra il Seicento e il Settecento i cambiamenti del gusto furono clamorosi. Si raggiunse un massimo nella ricerca dell’ornamento col Marino, ci si volse al lezioso con l’Accademia dell’Arcadia, si arrivò sino al disgusto per le diatribe linguistiche, culminate nel cosiddetto «sciopero della lingua».
All’arricchimento sintattico portato da Galileo fa riscontro l’atteggiamento spavaldo dei milanesi. Esso è formulato correttamente da Pietro Verri (1728-1797): «ogni parola che sia intesa da tutti gli abitanti d’Italia è secondo noi una parola italiana: l’autorità e il consentimento di tutti gli italiani, dove si tratta della loro lingua, è maggiore dell’autorità di tutti i grammatici»; «qualora uno scrittore dica cose ragionevoli, interessanti, e le dica in una lingua che sia intesa da tutti gli italiani e le scriva con tal arte da esser lette senza noia, quell’autore deve dirsi un buono scrittore italiano».


MANZONI

Il Manzoni si era affacciato alla tradizione linguistica italiana dal di fuori, dominandone essenzialmente il solo aspetto espressivo attraverso la padronanza del dialetto, e quello tecnico sopranazionale attraverso la conoscenza del francese. La sua familiarità con la lingua letteraria era modesta e convenzionale. Si dice talvolta che la sua dottrina linguistica è stata triplice, prima quella di una lingua letteraria sopradialettale, arieggiante a quella dantesca, poi quella di un modello toscano, a cui segue quella del modello fiorentino. In realtà non si tratta di dottrine diverse, ma di una ascesa propressiva verso una dottrina, passando da forme rudimentali a forme piú compiute.
Gli Sposi promessi, mai pubblicati dal Manzoni, che risalgono nelle due stesure agli anni 1824-1826, sono una fonte di lessico forse piú milanese che toscano, piú artificioso che parlato, certamente grigio, convenzionale, demoralizzante.
Tuttavia la struttura del periodo vi appare ormai matura.
La prima edizione autorizzata dei Promessi sposi (1827) non si allontana da queste posizioni. Ma la crisi ulteriore, decisiva, appare presto. Alla crisi segue un’esperienza umana, il viaggio e il soggiorno a Firenze, e il lungo periodo di riflessione, alla fine del quale compare la seconda edizione dei Promessi sposi (1840), radicalmente rinnovata nel vocabolario. Una ricerca essenziale di concretezza compie, nel campo del lessico, lo sforzo già svolto nel campo della sintassi del periodo.
L’immersione nella lingua viva non è soltanto di pronuncia e lessico toscano, ma di immagini concrete.
L’ideale fiorentino è realizzato piuttosto nel senso della lingua dell’uso che in quello della espressività; questo spiega la non-fiorentinità di certi particolari. Questo spiega però anche come, a tanti anni di distanza, i Promessi sposi battono, con la loro giovinezza perenne, non solo tutti gli scritti contemporanei, ma anche scritti di mezzo secolo piú recenti. La costrizione linguistica del Manzoni ha dato alla sua scultura compattezza e non rigidità.


TOMMASEO

Vicino al Manzoni per indirizzo letterario, interessi lessicali, tecnica classica del verso, è Niccolò Tommaseo (1802-1874), la cui prosa, lontana dall’equilibrio manzoniano, mostra punte, squilibrî e addirittura violenze che solo una mano poderosa come la sua riesce a inserire in periodi regolari. Il Dizionario dei sinonimi, pubblicato per la prima volta nel 1830 e ripubblicato in numerose edizioni fino al 1858, si presenta proprio alla fine del periodo purista e all’inizio di quello manzoniano, riconoscendo in teoria che il prestigio toscano è giustificato in modo triplice dalla chiarezza etimologica, dalla regolarità grammaticale, dall’armonia, e affermando con i fatti che, in materia di definizioni lessicali, sopra alle teorie si impegna la responsabilità e l’autorità di un interprete. Il Dizionario dei sinonimi, a differenza dei Promessi sposi, è largamente superato e lontano dalla sensibilità attuale, ma non è stato sostituito da nessun altro tentativo di qualche valore.


CARDUCCI

La prosa dei Promessi sposi, con la sua perfezione, era stata anche la risposta di una tradizione linguistica, vigorosa e indipendente, ai decenni della sottomissione e della assenza di vita politica. A trent’anni di distanza dall’edizione definitiva dei Promessi sposi, la comunità linguistica italiana corrispondeva quasi completamente a una comunità amministrativa e politica, con un’unica capitale, con un governo unico.
L’unità politica, questo successo rapido e inatteso, creò un’atmosfera di entusiasmo nazionale, per il quale alla mitologia di una «Terza Roma» vennero ad accompagnarsi miti e vicende della romanità. Esigenze espressive opposte a quelle realizzate nei Promessi sposi dovevano sfociare nel gusto per una prosa resa solenne dalla aderenza plastica alle immagini e agli impulsi che l’antichità rediviva suscitava. Simbolo di queste realizzazioni fu Giosuè Carducci (1835-1907), poeta e critico, preso tutto nello sforzo non già di immergere la prosa nella concretezza del presente, ma di distenderla per i secoli, e associare a fiumi e montagne miti del passato, e rendere vive figure scomparse da millenni per esaltarle o combatterle.
Il quindicennio 1875-1890 è il quindicennio carducciano nella storia linguistica d’Italia. Poi quella prosa, volta a mettere in rilievo immagini e ragionamenti in una gradazione ricchissima e plastica, cominciò a invecchiare, piú rapidamente di quella piú antica e classica, ma riposata, del Manzoni. E tuttavia, ben al di là del 1890, questo culto del periodare classico si è continuato per altre vie, entro maggiori limiti, fino ai nostri giorni: se esso stesso è morto, sopravvivono modelli di prosa italiana che ne derivano o gli sono affini.


D’ANNUNZIO

Questi sviluppi della prosa classica, che chiamiamo di tipo carducciano, sono opera degli uomini, non degli eventi. Delusioni da una parte, ansie di nuovi problemi e conquiste dall’altra, avevano rinnovato la classe dirigente italiana nel 1876. Sforzo di nuove conquiste formali, non come specchio ma come reazione all’età vissuta, si raggiungono intorno al ’90 attraverso le realizzazioni di un uomo nuovo, Gabriele D’Annunzio (1863-1938). La prosa del D’Annunzio rappresenta la tensione massima di una lingua destinata ad evocare un’atmosfera con una musicalità del periodo insuperata: musicalità, non semplice ritmo. Parole insolite e preziose vengono riesumate dal passato con fedeltà storica piú o meno integra. Il dialogo, all’opposto del Manzoni, è sempre stilizzato, come in una recita ideale.
La guerra 1915-1918 fu una prova troppo dura per non dissolvere quanto c’era di artificiale e ornamentale nel tentativo dannunziano. Col Notturno (1921) il D’Annunzio intraprese una strada nuova in cui la semplicità delle successioni sintattiche non basta per giustificare un ritorno o un ulteriore svolgimento organico o un progresso. Le opere posteriori nulla aggiungono dal punto di vista estetico; da quello linguistico non hanno nemmeno la novità del Notturno.


LA LINGUA D’OGGI

A quel tesoro linguistico che Alessandro Manzoni aveva offerto al suo paese, ancor privo di unità politica, si aggiunsero, dopo la compiuta unità d’Italia, tensioni, derivazioni e fermenti nuovi che risposero a nuove esigenze e riproposero sempre nuovi problemi.
Nessuno dei tanti autori, che hanno lasciato un’orma nella storia delle nostre lettere, ha agito su questi resti antichi e su questi fermenti nuovi con una costruttività paragonabile a quella del Manzoni.
In particolare, nel corso del nostro secolo, la realtà italiana, attraverso vicissitudini talvolta perfino drammatiche, ha indotto mutamenti notevoli nella lingua; essa non ha tuttavia tanto contribuito a esprimere nuovi modelli quanto piuttosto a garantire una rilevante pluralità di apporti variamente valutabili. Spetta allo storico, ad esempio, indagare sulla effettuale portata di un’opera e di una personalità come quella di Benedetto Croce (1866-1952); allo storico della cultura e a quello della lingua esprimersi sul fenomeno del nuovo cinema italiano nel secondo dopoguerra. L’italianista potrà di volta in volta additare nell’opera di Svevo o di Pirandello, nella poesia di Pascoli o del Montale o nella misura e nel gusto di un Emilio Cecchi premesse e conferme che significhino qualcosa di piú rispetto a un semplice e mutevole costume letterario.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito – è vero – soprattutto a un pullulare diffuso di esperimenti narrativi anche assai dignitosi e generosi, accompagnato talvolta da prese di posizione indiscutibilmente autentiche e sofferte; non è mancata né la saggistica piacevole e brillante, né la critica acuta e filologicamente preparata, in certi casi contrassegnata da una certa genialità. Si ha l’impressione che siano solo mancati argomenti con cui gli scrittori potessero o volessero confrontarsi pienamente, con sicurezza e dedizione assolute. Però bisogna anche riconoscere che se da un lato il libro si è venuto sempre piú accostando alla vita, dall’altro ha subito massicciamente la concorrenza degli altri mezzi di comunicazione, della televisione in particolare. Ha di conseguenza perduto parte del prestigio e delle autorità tradizionali per avviarsi a diventare oggetto di consumo. Se dunque la lingua scritta non offre piú, come offriva in passato, modelli o esempi atti a essere imitati o seguiti, o sufficienti per caratterizzare un’epoca, sembra giunto il momento appropriato per chi scrive o parla, per chi legge o ascolta, di porsi in rapporto diretto con le parole o le cose, su una nuova base di serietà e consapevolezza.

Giacomo Devoto – Gian Carlo Oli
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La falba teoria romansa

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 5:03 am

Crixi de la filoloja romansa
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Teoria Romansa e Gerhard Rohlfs
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Le orixeni pristorego-storeghe de łe łengoe dite diałeti e caouxa de ła vargogna
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Onedà del stado talian, el mito de Roma e ła teoria romansa
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Re: La falba teoria romansa

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 5:06 am

Crixi de la filoloja romansa
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... RUcDQ/edit


Ma certo che serve la filologia romanza!
Risposta a Corrado Bologna
di Andrea Fassò
Società Italiana di Filologia Romanza

http://www.sifr.it/comunicazioni/rispos ... logna.html
...
1996-2000: presso il Mulino esce Origini delle lingue d’Europa di Mario Alinei.
Immagine e Immagine

Le nozioni tradizionali circa l’arrivo degli Indoeuropei in Europa sono messe radicalmente in discussione:
al modello Gimbutas (invasione a partire dal IV millennio da parte dei pastori-cavalieri dei kurgan) e al modello Renfrew (migrazione pacifica a partire dal Neolitico, VIII-VII millennio, dei diffusori dell’agricoltura) si sostituisce il Paradigma della Continuità Paleolitica (PCP): i popoli europei erano già stanziati nelle attuali sedi fin dal Paleolitico superiore, come si evincerebbe anche dai risultati dell’archeologia e della genetica.

Fra le molte conseguenze, una ci colpisce direttamente:

lingue e dialetti romanzi non derivano dal Latino, ma risalgono al Paleolitico;
il Latino è solo uno di questi dialetti e si imporrà sugli altri come superstrato con l’espandersi della potenza romana (allo stesso modo del franciano, del castigliano, del fiorentino nei confronti delle parlate francesi, spagnole, italiane).

La filologia è linguistica ed ecdotica? Bene, vivaddio si torna a parlare di linguistica!

Una visione così rivoluzionaria meriterebbe convegni, tavole rotonde, numeri monografici di riviste; e in effetti qualcosa si muove, a giudicare da ciò che si legge in http://www.continuitas.org ;
Francisco Villar, che non è l’ultimo degli indoeuropeisti, si è man mano avvicinato alla teoria di Alinei;
ma da parte di noi romanisti si hanno solo un paio di recensioni a denti stretti (sfavorevoli naturalmente, ma con scarsità di argomenti) e sei pagine (42-47, pure sfavorevoli, ma con un accenno di discussione) del libro di Michele Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani (Roma-Bari, Laterza, 2009).

Per la verità un’iniziativa c’era stata (e qui mi tocca parlare di me per un momento): coordinato da me, era nato un serrato dibattito, via e-mail, fra Mario Alinei e Alberto Zamboni (convinto e competentissimo sostenitore della tesi tradizionale) intorno al riflesso del PCP sulla linguistica romanza.
Noi organizzatori del VII congresso della SIFR (Bologna 5-8 ottobre 2009) avevamo deciso di diffonderlo in settembre al punto a cui era arrivato (circa metà cammino) via Internet a tutti i soci della SIFR, i quali sarebbero così giunti ben informati al convegno, destinato ad aprirsi proprio con la comunicazione di Mario Alinei e Francesco Benozzo.
Non appena il programma fu pubblicato fummo fermati dall’intervento a piedi uniti di un collega che, scandalizzato da questa apertura eterodossa, faceva intendere che il convegno avrebbe conosciuto (sotto la sua stessa presidenza) una giornata un po’ troppo animata.
Finì che pro bono pacis spostammo al quarto posto Alinei e Benozzo e rinunciammo al proposito di diffondere on line il dibattito (Alinei e Zamboni si dimostrarono molto comprensivi, conoscendo l’ambiente, anche se Zamboni insieme col suo rammarico mi espresse la sua giusta preferenza per i congressi «incasinati»).

Il dibattito si interruppe dolorosamente il 25 gennaio 2010 per la scomparsa di Zamboni; ma proprio in omaggio a lui (che, non convinto della nuova teoria, non si è però girato dall’altra parte e ha accettato con passione il confronto) sarà presto pubblicato.
Un’altra occasione persa per i romanisti.

Ho portato solo qualche esempio; ce ne sarebbero molti altri, che non ho bisogno di menzionare perché noti a tutti. Ma a che cosa è dovuto questo silenzio ostinato, questo ostinato guidare guardando nello specchietto retrovisore? Credo che la risposta si sintetizzi in una parola: paura.
In alcuni casi (Grisward, Alinei), paura di dover ricominciare tutto da capo, di affrontare materie di cui non sappiamo quasi nulla (indoeuropeistica, archeologia…), di farci una competenza accettabile in campi sconfinati di cui nessuno ci ha mai parlato (un laureato in lettere moderne, come sono la maggior parte dei romanisti italiani, ha mai studiato seriamente la storia antica, la preistoria, la glottologia indoeuropea, le culture indo-iraniche…? Ne ha almeno letto qualcosa? In alcuni casi sì, per lo più no; anzi, per chi si è iscritto a Lettere moderne prima del 2001, l’unico contatto con la linguistica è stata appunto una parte del corso di filologia romanza; nei casi migliori, anche un corso di storia della lingua italiana; poi più nulla: niente glottologia, niente dialettologia, niente archeologia…). Oltre a ciò, il timore di contrariare chi confonde la storia di lunga durata con l’assenza di storia. Ma a parte questo, la paura di cui parlo è paura e basta.

In Manhattan Woody Allen, sdraiato sul divano, riflette «sull’idea per un racconto sulla gente ammalata, che si crea continuamente problemi inutili e nevrotici perché questo gli impedisce di occuparsi di più insolubili e terrificanti problemi universali» (sono grato a Roberto Saviano per avermelo ricordato in «Repubblica» 1.3.11, p. 55). Probabilmente Woody Allen non conosce la filologia romanza, altrimenti avrebbe subito trovato materia per il suo racconto.
Lo so, tu mi dirai: ma noi studiamo cose medievali, di che cosa dovremmo avere paura?
E invece no: quanto più ci si occupa di cose (di cose, non di sole parole), tanto più c’è il rischio che prima o poi qualche problema si ponga anche a noi contemporanei.

Scandagliare il Medioevo (compreso il primo mezzo millennio, e comprese molte cose che vengono prima di Dante e dello Stilnovo, e che hanno valore di per sé, non solo in quanto precorrono Dante) non ci riserverà qualche sorpresa? Non ci rivelerà qualcosa di scomodo sulle nostre radici, sulle nostre origini, sulla nostra storia, su quello che siamo? Non ci metterà di fronte a problemi tuttora insoluti e che per essere affrontati richiedono un pizzico di coraggio?

E allora, invece di riflettere sui contenuti, non sarà meglio fare la punta agli spilli, fare la storia (quando la si fa) delle forme, analizzare con sottigliezza e con linguaggio artefatto gli stilemi più insignificanti, pubblicare inediti e inutili volgarizzamenti toscani (inutili per la lingua, della quale sappiamo ormai tutto; inutili per il contenuto, uguale a quello dell’originale), ripubblicare – ovviamente – testi già pubblicati e ampiamente noti e la cui sostanza non cambia con la nuova edizione, ma dei quali è sempre possibile rifare lo stemma e privilegiare qualche nuova variante senza mai domandarsi di quale mondo, di quale mentalità, di quale umanità quel testo (quel «testimone»!) ci dà notizia?
Perché il codice è “testimone” del testo; ma il testo sarà pur testimone di qualcosa!
...

L’endouropeista Francisco Villar e la Teoria de la Seitansa
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... hjUFE/edit
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Re: Ła falba teoria romansa: latin-latin volgar, volgar roma

Messaggioda Berto » ven feb 28, 2014 11:38 am

Anca Franco Roketa el ła pensava cofà dapò me xe vegnesto de pensar anca mi:

Paxene so ła łengoa veneta de Franco Roketa

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... lfYUE/edit

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Le me creteghe a ła conta storega de Roketa:
viewtopic.php?f=49&t=615
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Re: Ła falba teoria romansa: latin-latin volgar, volgar roma

Messaggioda Berto » lun mar 03, 2014 9:37 pm

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Re: Ła falba teoria romansa: latin-latin volgar, volgar roma

Messaggioda Berto » mer apr 16, 2014 10:21 pm

Una ricerca sulla diasilla: preghiera per i defunti e rito apotropaico

http://www.antrocom.org/2013/07/14/una- ... potropaico

La diasilla, preghiera per i defunti e rito apotropaico, è il tema della ricerca di Donatella Di Maria, giovane linguista e socia di Antrocom onlus. Una ricerca sul campo che abbraccia la (socio)linguistica, l’antropologia e la religiosità mistica.

Registrazioni d’archivio e sul campo per fotografare e ripercorrere le strade della lingua, della fede e della storia, partendo dal biografo di San Francesco e arrivando agli oranti di oggi.

Il lavoro di Donatella Di Maria si concentra nel sud Italia e in particolare nel basso Lazio, dove la diasilla si è differenziata ed evoluta nei secoli con esiti di grande interesse e suggestione.

Si tratta di un’invocazione religiosa dedicata al giorno del Giudizio, che discende direttamente dall’inno latino conosciuto come “Dies Irae”, sequenza del Requiem, il cui probabile autore è identificato in Tommaso da Celano, biografo di San Francesco vissuto nel XIII secolo.

La diasilla è la versione volgare del testo latino, con ogni probabilità giunta alla tradizione popolare attraverso il canale orale. Ne esistono oggi molte varianti, che si differenziano non solo per la veste dialettale, ma anche per il tono stesso del componimento.

La ricerca si svolgerà specialmente nel sud del Lazio, con particolare attenzione dall’area itrana da cui ha avuto origine, e impegnerà i prossimi otto mesi, al termine dei quali i risultati del lavoro saranno resi noti e condivisi con la comunità di studiosi ed appassionati.

Lo studio si propone di esplorare una tradizione su cui non esiste bibliografia, aspetto che aggiunge il fascino, non sottovalutabile, di camminare su un sentiero ancora inesplorato. Saranno raccolte interviste e testimonianze sui territori dalla viva voce degli ultimi conoscitori di questo inno religioso: la sua memoria appartiene infatti essenzialmente ai nati nel primo trentennio del Novecento.

Verranno analizzate inoltre le versioni contenute negli archivi pubblici o privati e tutte quelle che, registrate o annotate in passato, consentono oggi di documentare un’importante fase di transizione:
il momento in cui la Chiesa abbandonò l’uso del latino per passare alle lingue “del popolo”.

Questo passaggio si riflette in molte preghiere e non meno nella diasilla, che si caratterizza per alcune “parole strane” (così vengono definite da una delle informanti le parole che non hanno alcun significato, poiché sono il tentativo di imitazione di un latino evidentemente non compreso ma riprodotto foneticamente) e per il fatto di avvicinarsi, proprio per questo, alla dimensione del mantra e dell’incantesimo.
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