Qualche osservazione su “mito” di Venezia e governo misto tra Basso Medioevo e Rinascimentohttp://www.bibliomanie.it/mito_venezia_ ... urelli.htmPiero Venturelli
(Università di Bologna)
1. Il “mito” di Venezia nei secoli XIV-XVI
Nel Quattrocento e nel Cinquecento assai diffusa in Europa è un’immagine positiva della Repubblica di Venezia, della quale si celebrano in special modo – oltre all’eccezionalità del sito geografico – la stabilità dell’ordinamento, le virtù e la libertà dei cittadini, la concordia regnante all’interno della società e le ricchezze pubbliche e private provenienti in massima parte dai commerci, tutti caratteri che i trattatisti e pure i semplici osservatori fanno sempre derivare dalla natura della sua plurisecolare costituzione, che parecchi autori esplicitamente considerano mista[1]. È proprio in quel periodo che va modellandosi e consolidandosi il “mito” di Venezia, la cui “fortuna” perdura a lungo nel Vecchio Continente, arrivando a lambire – seppure in forme un po’ attenuate – il XVIII secolo[2].
Già in un’opera dei primi anni del Trecento, il De quattuor virtutibus cardinalibus ad cives Venetos, Enrico da Rimini (1314) delinea l’immagine della Serenissima come Stato esemplare, esprimendo ammirazione per il suo assetto costituzionale e la sua prassi politica. Quest’autore, tuttavia, descrive un ordinamento che non esiste più in Laguna: egli, infatti, non tiene conto della cosiddetta «serrata» del Maggior Consiglio, con la quale nel 1297 viene impedito a innumerevoli cittadini di accedere all’importante organismo politico veneziano[3].
Nel secondo dei quattro «trattati» di cui si compone il suo scritto, Enrico da Rimini considera Venezia uno Stato misto, caratterizzato da un ordinamento capace di evitare le degenerazioni della tirannide e dell’oligarchia perché costitutivamente teso a riconoscere a ciascuna forza sociale un proprio ruolo e un proprio spazio d’intervento nel governo della cosa pubblica. Nella Repubblica lagunare si realizza, a suo avviso, una commistione di diverse componenti che coinvolge nella vita sociale e politica le energie di tutti i ceti, e che mira a soddisfare equanimemente le esigenze di questi ultimi, contemperando – così – il potere del patriziato con la partecipazione del popolo[4].
Per alcuni decenni, la posizione di Enrico da Rimini rimane ancora abbastanza isolata, tanto che – in senso proprio – è solo a partire dal XV secolo che il reggimento di Venezia comincia ad essere considerato su ampia scala come un vero e proprio modello politico. Tre, in particolare, sono i temi che alimentano fin dalle origini il mito della Repubblica di San Marco: la libertà, la pace interna e la stabilità. Come chiarisce Felix Gilbert, il termine «libertà» caratterizza sia la situazione politica di Venezia come regime non tirannico sia la sua posizione rispetto ad altre città-Stato, acquistando così il significato di indipendenza[5]. Sono proprio questi temi che ricorrono con maggiore frequenza nella letteratura umanistica del Quattrocento, nell’àmbito della quale predomina l’idea classica del governo misto che identifica Doge, Senato e Consiglio Maggiore rispettivamente negli elementi monarchico, aristocratico e democratico.
All’incirca un secolo dopo Enrico da Rimini, Pier Paolo Vergerio, nelle sue annotazioni De republica veneta, descrive Venezia come uno Stato aristocratico avente nel suo interno aspetti monarchici e democratici. Proprio per questo, la città lagunare gli appare «particolarmente ben costruita»[6].
Più o meno negli stessi anni, Giovanni di Conversino da Ravenna, nella Dragmalogia seu de elegibili vitae genere (1404), esalta Venezia quale esempio mirabile di regime repubblicano, e come una città della pace e della libertà, dove è del tutto assente la spinta espansionistica e bellica[7].
Verso la metà del Quattrocento, Giorgio da Trebisonda si spinge fino a riconoscere nella costituzione lagunare la realizzazione dell’ideale politico di Platone[8]. Nel 1451 Trebisonda scrive a Francesco Barbaro, uno dei più famosi patrizi veneziani del tempo e suo protettore: «Leges quoque Platonis, ex quibus aperte intellexi, Majores vestros, qui Reipublicae vestrae jecerunt, ex his certe libris omnia, quibus Respublica diu felix esse possit, collegisse. Non est enim credibile, casu ita omnia confluxisse, ute ad unguem praeceptis illius conveniant. Nullam, inquit ipse, beatam diu fore Rempublicam, nisi quae ita constituta sit, ut omnibus regendarum civitatum modis, Principis dico unius, Optimatum, Populique potestate gubernetur: quod nulli umquam sic exacte accidisse, quam vobis, perspicuum est»[9].
Non tutti gli scrittori umanisti, comunque, riscontrano nel reggimento lagunare una combinazione di tutte e tre le forme di governo. Francesco Patrizi, ad esempio, nel suo De institutione rei publicae mostra di ammirare la stabilità e l’immutabilità del governo veneziano, ma giudica quella costituzione il risultato dell’armonica mescolanza di democrazia e oligarchica.
Anche Poggio Bracciolini offre una diversa analisi del modello politico veneto, considerandolo un’aristocrazia e proponendo addirittura la tesi che Venezia sia il solo governo autenticamente aristocratico mai esistito[10]. Egli riscontra, nella Serenissima Signoria, l’encomiabile propensione ad eleggere alle cariche più importanti solo i cittadini migliori; inoltre, tutti i governanti di ogni ordine e grado gli sembrano prestare la propria opera nell’esclusivo interesse della Repubblica di San Marco, non badando al proprio tornaconto individuale[11]. Occorre mettere in risalto, però, che Poggio ha motivi personali per guardare con ammirazione Venezia, tanto da lasciare Firenze, la sua città, e stabilirsi nella Repubblica lagunare: egli non tollera le tasse, a suo avviso ingiuste, che il governo gigliato gli impone[12].
Non si può peraltro tacere il fatto che la maggior parte degli scrittori umanisti esprime lodi e ammirazione per la Serenissima, allo scopo di ottenere il favore e la protezione del governo o di alcuni nobili veneti. D’altra parte, gli stessi cittadini della Repubblica di San Marco considerano l’elemento aristocratico come quello prevalente in seno alla loro società: dunque, l’interpretazione di Venezia come aristocrazia è solitamente da essi bene accetta[13].
In età umanistica, l’ordinamento dello Stato lagunare diviene oggetto a pieno titolo di un discorso politico concreto. Sul finire del Quattrocento, in particolare, la Serenissima inizia a rappresentare per Firenze un vero e proprio modello politico con cui confrontarsi e da cui attingere esperienza.
Nel 1494, con la caduta dei Medici, è istituito a Firenze il Consiglio Grande secondo il modello veneziano. Tale organismo politico tende ad allargare la base governativa ristrettasi, dopo la fine del potere mediceo, ad una oligarchia[14].
Il frate domenicano Girolamo Savonarola si richiama esplicitamente all’ordinamento sociale e politico lagunare prospettandolo come una possibile soluzione alla crisi costituzionale fiorentina del 1494. Egli addita quali elementi positivi il Maggior Consiglio e il sistema di assegnazione delle cariche non per sorteggio, ma per elezione. Questi due elementi, a suo giudizio, conferiscono un carattere tendenzialmente «popolare» al governo di Venezia[15]. Nelle sue prediche, l’esigenza di una riforma morale che faccia da supporto ad una riforma politica, è profonda. Occorre, nella visione di Savonarola, che i cittadini antepongano il bene pubblico ai propri privati interessi, convivendo in un clima di amore e carità; e il conseguimento di tali finalità, a suo avviso, può essere favorito dall’adozione di un governo «largo» incentrato su un Consiglio Grande, espressione della collettività e del popolo.
Il suggerimento di Savonarola di seguire il modello veneziano è dettato, per certi aspetti, non tanto da precise convinzioni politiche, quanto dalla sua visione della realtà dilaniata, tra il bene e il male. Venezia è un esempio politico positivo cui fare riferimento, perché essa non ha conosciuto rivoluzioni e contrasti interni. Nel pensiero di Savonarola, si afferma il “mito” della stabilità del governo veneziano che egli, però, non intende studiare nelle sue componenti fondamentali. A suo avviso, non è infatti di prioritario interesse scoprire se Venezia sia un’aristocrazia, una democrazia o un governo misto. Egli consiglia ai Fiorentini di guardare all’esperienza politica della città lagunare al fine di trarre da essa una lezione che non sia solo politica, ma anche morale[16].
L’istituzione a Firenze nel 1494 del Consiglio Grande è la prova più concreta che i Fiorentini seguono l’esempio veneziano e assecondano il monito di Savonarola. Sennonché, la nascita di quest’organismo e la scelta d’introdurre l’elezione nominativa per diversi pubblici uffici non sono fattori in grado di risollevare Firenze dalla crisi politica[17]. Il motivo di ciò risiede nella natura vera del Consiglio Grande, un’istituzione che ben presto si rivela molto meno omogenea (contando nel suo interno sia aristocratici sia esponenti della classe media) del corrispettivo organo veneziano. Ciò che più importa a fra Girolamo, comunque, è che Firenze diventi, proprio grazie al Consiglio Grande, una repubblica «larga».
Negli ambienti aristocratici fiorentini, soprattutto dopo il 1494, c’è chi, come Bernardo Rucellai, s’interessa alla costituzione veneziana, considerandola quasi perfetta. Egli è promotore delle riunioni degli Orti Oricellari dei primi anni del Cinquecento: in esse, il modello politico costituzionale veneziano è un tema assai dibattuto, e il tono delle discussioni non è astratto o retorico, bensì abbastanza aderente alla realtà coeva, la quale viene analizzata anche in vista della correzione dei suoi difetti[18]. L’attenzione di Rucellai per le istituzioni lagunari, lungi dall’essere fine a se stessa, nasce dalla volontà di rafforzare il potere politico dell’aristocrazia fiorentina. A suo avviso, Venezia è un governo misto, rappresentando il Doge l’elemento monarchico, il Senato l’aristocrazia e il Consiglio Maggiore la democrazia. Rucellai propone di sostituire la forma popolare di governo introdotta al tempo di Savonarola con una più ristretta, secondo l’esempio della Serenissima[19]. Esorta, così, i suoi concittadini a por mano alla costituzione della fine del 1494, migliorandola attraverso un rafforzamento dell’influenza politica dell’aristocrazia. Tale operazione è possibile, secondo Rucellai, con la creazione, accanto al Consiglio Grande, di un organismo più piccolo, modellato sul veneziano Consiglio dei Pregadi (o Senato) e deputato ad occuparsi degli affari di governo più delicati e importanti; di tale assemblea ristretta, una cui larva – il Consiglio degli Ottanta – è stata invero istituita a Firenze nel 1494, l’Autore intende fare l’effettivo centro di potere della Repubblica. Negli anni immediatamente successivi alla morte di Savonarola, tuttavia, l’unica riforma attuata sulle rive dell’Arno è quella concernente la nomina di un Gonfaloniere a vita: ciò avviene nel 1502, e all’ufficio è chiamato Piero Soderini, politico di grande esperienza e probità. Questa magistratura ricorda quella del Doge veneziano, sia per solennità sia per rilievo politico. L’aristocrazia ne accetta la creazione, considerandola un passo in avanti verso la correzione dell’ordinamento istituzionale fiorentino nel senso di quello veneziano.
L’omologazione completa al modello lagunare, comunque, non è mai del tutto realizzata, dal momento che la riforma politica di Firenze non porta alla nascita di un’assemblea ristretta dotata di poteri affatto simili a quelli detenuti dal veneziano Consiglio dei Pregadi. Il Senato istituito nella città gigliata grazie ad una legge del 7 settembre 1512 viene peraltro a palesare non poche analogie col Consiglio dei Pregadi: in entrambi i casi, sono presenti due tipi di membri, ossia coloro che, essendo rivestiti di alte cariche di governo, ottengono di conseguenza il diritto di esserne membri, e coloro che lo diventano perché eletti dal Consiglio Grande; in ambedue le assemblee, inoltre, i Senatori hanno la funzione di eleggere gli ambasciatori, di designare gli amministratori per i territori sotto il proprio dominio e di occuparsi della politica finanziaria. Ciò non toglie, come è stato autorevolmente notato, che la legge del 1512 testimoni di quanto poco siano conosciuti a Firenze la costituzione veneziana e il funzionamento degli organismi pubblici in seno alla città lagunare[20].
Lo scrittore fiorentino che sicuramente non contribuisce ad alimentare il “mito” della Serenissima – e che, anzi, tende sempre a mostrare scarso apprezzamento per il modello politico veneziano – è Niccolò Machiavelli. Nelle sue riflessioni, comunque, non viene mai meno il confronto serrato tra il sistema politico lagunare, contraddistinto dall’assenza di tensioni e scontri sociali, ma dotato di istituzioni stabili, non soggette a mutamento, e quello romano antico, animato da forti conflitti e, di conseguenza, con istituzioni che si sono trasformate nella storia. Più che quello tradizionale del governo misto, il tema che più appassiona Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio è quello della «guardia della libertà», cioè il problema di frenare, controllare o contestare il potere di chi governa per tutelare l’interesse della collettività. Secondo la sua interpretazione, questo obiettivo fondamentale è conseguito a Roma, dove i nobili hanno la direzione del governo e i popolari, posti «a guardia della libertà», svolgono la funzione di controllare l’operato del governo e d’intervenire nel caso di un’arbitraria affermazione del potere; non così avviene a Venezia, ove si ha una grande omogeneità nella sua classe politica, la quale è composta integralmente dai nobili o «gentiluomini»[21]. Quest’analisi porta Machiavelli a considerare la Serenissima una repubblica aristocratica all’interno della quale è il medesimo ceto sociale a muovere i meccanismi di governo, soddisfacendo sempre e comunque i propri interessi.
È singolare come l’Autore si mostri preoccupato sia di un eccesso di potere sia di una sua carenza. Nei Discorsi, infatti, egli scrive: «Un’autorità assoluta in brevissimo tempo corrompe la materia»[22]; d’altro canto, gli sembra che un vuoto di potere generi inevitabilmente «disordine grandissimo»[23]. Più vivo che mai è, dunque, nel pensiero machiavelliano, l’interesse ad avere un potere efficiente e forte che però sia, al tempo stesso, circoscritto nella sua sfera di competenza, così da non degenerare in potere tirannico.
In realtà, molte sono le critiche che Machiavelli rivolge alla Repubblica di San Marco. Nelle prime righe dei suoi Discorsi[24], per esempio, egli accusa gli abitanti di Venezia di vivere nell’«ozio». Quest’ultimo è da lui considerato il peggiore dei mali, dal momento che non stimola la virtù politica; esso, secondo il Segretario fiorentino, ha determinato il carattere passivo della politica imperialistica della Serenissima, rendendo la città stessa fiacca e snervata. Machiavelli insiste su questo punto: quella lagunare è una Repubblica che, grazie anche alla sua fortunata posizione geografica, è stata da sempre al riparo da attacchi nemici, è riuscita a sottrarsi alla dura legge del «fare uno imperio»[25], non conosce al suo interno contrasti o inimicizie sociali, e per questo ha preso le sembianze di una repubblica «effeminata»[26]. Questo vocabolo non ha una connotazione moralistica, ma chiarisce e riassume il significato dei giudizi negativi dello scrittore fiorentino su Venezia. Là dove non c’è lotta politica, là dove i contrasti sociali perdono vigore, là dove – insomma – regna la pace, gli animi infiacchiscono e la Repubblica arriva presto sull’orlo della decadenza e della rovina. I dissidi interni o una guerra, al contrario, sono il sintomo della forza e della vitalità di uno Stato.
L’omogeneità del gruppo dirigente veneziano, la quiete sociale, che denota rilassamento e avvilimento, la mancanza di armi proprie, cioè di un esercito interno a guardia della città e delle istituzioni, la conseguente immutabilità e stabilità di queste ultime, da molti considerati fattori positivi della costituzione veneziana, sono per Machiavelli un sintomo inequivocabile di decadenza[27].
Dichiarato fautore dello Stato «popolare», il Segretario fiorentino riconosce che in ogni forma di governo vi è un germe che lo porta a degenerare. Lo Stato misto nasce, secondo Machiavelli, dalla necessità di eliminare tale insidia, fonte di instabilità, instaurando – come a Sparta e a Roma – una costituzione che comprenda più forme di governo[28].
Anche Francesco Guicciardini, nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio, esprime la sua preferenza per il governo misto, il quale «è migliore e più stabile che uno governo semplice di qualunque delle tre spezie, e massime quando è misto in modo che di qualunque spezie è tolto el buono e lasciato indrieto el cattivo»[29].
Ogni forma di governo, considerata singolarmente, contiene, secondo l’aristocratico fiorentino, elementi positivi ed elementi negativi. Ad esempio, la monarchia, più delle altre forme di governo, offre la garanzia dell’ordine e dell’efficienza della pubblica amministrazione, ma rischia di mutarsi in tirannide, se il potere regio viene a trovarsi nelle mani di un uomo troppo ambizioso e avido di potere. Per conservare i vantaggi di un regime monarchico e impedire la sua degenerazione, occorre che il capo dello Stato sia perpetuo ed elettivo, ma che – allo stesso tempo – la sua autorità risulti limitata e soggetta a controllo: in questo modo, egli non sarà nelle condizioni di prendere arbitrariamente decisioni su questioni importanti[30].
La forma di governo più detestata da Guicciardini è la democrazia, o Stato «popolare». Egli scrive, infatti, che «el populo per ignoranza sua non è capace di deliberare le cose importante, e però presto periclita una republica che rimette le cose a consulta del populo; è instabile e desideroso sempre di cose nuove, e però facile a essere mosso e ingannato dagli uomini ambiziosi e sediziosi»[31].
Il problema, molto sentito da Machiavelli, di chi collocare a «guardia della libertà», per Guicciardini non si pone. L’aristocratico fiorentino è convinto che, nello Stato misto, tale funzione non sia affidata ad una sola forza politica o sociale, ma a tutte, poiché ognuna di esse vigila sulle altre, controllandone il potere e l’operato. Del resto, a differenza di Machiavelli, egli non affiderebbe mai la tutela della libertà al popolo[32]: lo Stato misto a cui pensa, vantaan presupposti antipopolari, essendo la plebe «piena di ignoranzia e di confusione e di molte male qualità»[33].
Nel Dialogo del reggimento di Firenze, composto tra la fine del 1521 e l’inizio del 1525, il modello ideale di Stato misto di Guicciardini trova il suo riscontro reale nella Repubblica di Venezia, il governo della quale «è el più bello ed el migliore non solo de’ tempi nostri, ma ancora che forse avessi mai a’ tempi antichi alcuna città, perché participa di tutte le spezie dei governi, di uno, di pochi e di molti, ed è temperato di tutti in modo che ha raccolta la maggiore parte de’ beni che ha in sé qualunche governo e fuggiti la più parte de’ mali»[34].
Il Doge, i Pregadi e il Consiglio Maggiore offrono, secondo l’aristocratico fiorentino, tutti i vantaggi che un governo misto può offrire: la vigilanza, la competenza, la tutela della libertà e della pace sociale, la garanzia che nessun potere possa scavalcare l’altro[35]. Egli è convinto che il vero punto di forza dello Stato veneziano sia la stabilità del governo e la presenza di un organo ristretto come i Pregadi, avente nelle proprie mani la direzione politica e finanziaria dello Stato[36]. Nel Dialogo del reggimento di Firenze, Guicciardini fa dire a quello che è per molti aspetti il suo portavoce, il saggio ed esperto Bernardo del Nero, che «el governo di Vinegia è populare come el nostro e che el nostro non è manco governo di ottimati che sia el loro»[37]. Secondo Gilbert, tale affermazione dimostra che l’autore fiorentino non ha riconosciuto «il carattere di casta della nobiltà veneziana, che escludeva i negozianti e gli artigiani, e il suo carattere ereditario, che impediva l’ascesa di uomini nuovi tra le sue fila. Poiché il Consiglio Maggiore veneziano era limitato ad un gruppo dirigente ereditario, c’era più verità nella caratterizzazione di Firenze come democratica e di Venezia come aristocratica di quanto presupponesse Guicciardini»[38].
Stabilità e concordia sono, per l’aristocratico toscano, caratteristiche proprie della Repubblica di San Marco, nella quale il criterio per partecipare al governo della città è fissato in base non già al grado di ricchezza, bensì piuttosto al titolo nobiliare che ogni cittadino possiede e che lo abilita a ricoprire i vari uffici. L’armonia e la pace sociale regnanti a Venezia, inoltre, non appaiono frutto della saggezza originaria con cui sono stati concepiti i suoi «ordini»[39], ma una conquista realizzata dopo un periodo di crisi e di travagli interni. Questo induce Guicciardini a pensare che anche Firenze potrà raggiungere tale concordia, nonostante la diversità del sito d’origine, al quale, a parere di alcuni, si deve attribuire la quiete della vita politica in Laguna[40]. Nel dialogo, egli elabora il proprio ideale politico, un’«aristocrazia dei savi e dei prudenti», che è sia espressione delle energie dei cittadini migliori, scelti attraverso un criterio politico prima che economico[41]. Guicciardini ha in mente un governo «nel quale intervengono universalmente tutti quegli che sono abili agli uffici, né vi si fa distinzioni o per ricchezze o per stiatte, come si fa quando governano gli ottimati, ma sono ammessi ugualmente tutti a ogni cosa»[42].
Secondo l’Autore, unicamente la forma mista di Stato è in grado di realizzare ciò. Ed è per questo che la teoria guicciardiniana della mistione contempla tre organi fondamentali, ognuno dei quali esprime uno dei tre elementi canonici, il principio dell’uno ovvero dei pochi ovvero dei molti: «el Consiglio Grande, sustanzialità necessaria per la libertà, uno gonfaloniere a vita o almeno per lungo tempo, una deputazione di buono numero di cittadini per consigliare e determinare tutte le cose importanti dello stato; le quali tutte cose se si ordinassino ragionevolmente, sarebbe in questa parte el governo della città bene instituto e perfetto»[43].
2. Venezia e la costituzione mista
Nella sezione precedente si offerta qualche prova del fatto che, nelle trattazioni quattro-cinquecentesche dedicate all’idea di governo misto e alle sue possibili incarnazioni storiche, accanto agli ormai classici richiami alla Sparta e alla Roma antiche, trova di frequente spazio il rimando alla Venezia contemporanea. Sono del resto gli stessi patrizi lagunari, alla ricerca di patenti di nobiltà per la Serenissima, a mettere insieme i materiali costitutivi con i quali, anche grazie all’apporto di autori forestieri, a partire soprattutto dal XV secolo nasce e si consolida il “mito” di Venezia – città libera, virtuosa, potente, coesa, armonica, operosa, tollerante, pacifica e bella.
Nel tardo Medioevo, nel Rinascimento e nella prima Età moderna, la celebrazione dell’ordinamento istituzionale lagunare ricorre presso scrittori, magari di levatura e formazione diverse, con quasi indefettibile coralità. Platonici e aristotelici, italiani e stranieri, moltissimi autori sembrano concordi nell’indicare la costituzione della Serenissima quale realizzazione storica di quel governo misto che, per diversi secoli ininterrottamente, ha potuto salvare la Repubblica veneta da ogni rivolgimento, assicurandone così la saldezza.
Ricondurre l’ordinamento di Venezia alla categoria della mistione, tuttavia, significa – per alcuni importanti aspetti – snaturare la dottrina “classica” della composizione. A parere del primo e senza dubbio più influente teorizzatore consapevole e organico del governo misto, Polibio, tale concezione assume infatti una doppia valenza: dottrina del coinvolgimento delle parti sociali nella gestione della cosa pubblica e dottrina del limite del potere di ognuna di codeste parti nella sua separazione dalle altre[44]. Viceversa, quando si parla della costituzione della Serenissima Signoria in epoca tardo-medioevale e rinascimentale, non si deve dimenticare che, a partire dal 1297 (anno – come già ricordato – della «serrata» del Maggior Consiglio, cioè dell’esclusione di molte famiglie dall’effettivo governo della città)[45], non viene più contemplata una sintesi dialettica, sul terreno politico come sul terreno sociale, fra patriziato e popolo: la mistione, dunque, ha luogo soltanto nella misura in cui si formano degli equilibri interni alla classe dominante, intesa come ordinata gerarchia di funzioni che assicura il concorso di tutti gli uomini nobili al governo, tendenzialmente ciascuno secondo le sue capacità (e, si sarebbe tentati di dire, anche in base alla sua età anagrafica, dal momento che il regime veneziano è forse la gerontocrazia più funzionale e duratura della storia dell’Occidente).
L’ordinamento costituzionale realizzatosi in Laguna è contraddistinto da organismi coordinati in modo tale che il governo della Repubblica appare regolato da tre (o quattro, o anche più: dipende dai punti di vista dei singoli teorici) istituzioni fondamentali – il Maggior Consiglio, il Senato (in diverse circostanze gli viene affiancato il Consiglio dei Dieci, in qualche caso quest’ultima magistratura insieme con altre, come il Collegio) e il Doge –, le quali, a loro volta, stanno ad esprimere il principio dei «molti», dei «pochi» e dell’«uno». Nella concezione del regime composto veneziano non esiste, comunque, alcun riferimento ad una mistione che – in qualche maniera – presupponga o implichi una contaminazione del ceto dei «gentiluomini» (ossia, dei patrizi). Il Maggior Consiglio si collega strettamente alle particolari caratteristiche sociali della città. Si potrebbe dire che esso è la Repubblica medesima, in quanto comprende al suo interno tutti i nobili veneziani. Quest’organismo assicura un’individuazione certa di chi si deve considerare parte effettiva della città: in tal modo, viene smorzato sul nascere ogni eventuale tentativo di sedizione sociale che intenda rivendicare un allargamento del numero di famiglie ammesse al Maggior Consiglio.
Tutto ciò reca tracce profonde nel pensiero e negli scritti dell’autore che riveste senza dubbio il ruolo più significativo nella diffusione e nel radicamento, anche al di là dei territori veneti, del “mito” della Serenissima Signoria da poco prima della metà del Cinquecento in poi. Si tratta del diplomatico, teologo e cardinale Gasparo Contarini, insigne esponente di un antico casato veneziano di altissimo lignaggio. Egli stende – in parte all’inizio degli anni Venti del Cinquecento e in parte nella prima metà del decennio seguente – il breve trattato De magistratibus et republica Venetorum per descrivere e magnificare il reggimento di San Marco, le sue istituzioni e i costumi dei cittadini veneziani[46]; la riflessione etico-politica contariniana intorno al governo misto è racchiusa tutta nel celebre libro appena menzionato, opera fortunatissima che esce postuma a Parigi nel 1543. Pur nella sua brevità e concisione (anzi: per molti versi, proprio a causa di tali caratteristiche), il testo diventa subito un classico nel suo genere e un punto di riferimento imprescindibile sia per i fautori sia per gli oppositori del “mito” della Serenissima. Anche se rivendica l’unicità dell’ordinamento politico veneziano, specie dinanzi alla realtà costituzionale della Roma antica, nel De magistratibus Contarini paragona – per certi aspetti – la Repubblica di San Marco a quella lacedemone, a motivo della loro comune natura di governi misti, e spiega che, in Laguna, il Doge rappresenta l’autorità règia, il Senato (insieme con il Consiglio dei Dieci) la magistratura peculiare di un regime degli ottimati, il Consiglio Maggiore l’organo dello Stato popolare.
Secondo il Cardinale, il collante degli organismi politici – maggiori e minori – di Venezia è l’ordinamento giuridico della città, al quale le diverse istituzioni e lo stesso Doge sono sottoposti: tutte le «potestà», quindi, risultano «dalle leggi raffrenat[e]»[47]. Già da questo aspetto, a suo avviso, si può intuire come nella costituzione della Serenissima sia ben riconoscibile l’impronta divina: nella prospettiva dell’Autore, infatti, codeste mirabili equità e armonia sono state conseguite e fino ad allora conservate grazie all’intervento non solo della mera azione umana nella storia, ma anche e soprattutto di un legislatore celeste, da lodare in eterno quale supremo artefice di tanta perfezione terrena.
Distante dalle concezioni machiavelliane[48], Contarini è persuaso che il modello costituzionale veneziano debba ritenersi alternativo a quello romano, non da ultimo perché nella Repubblica di San Marco sono presenti istituzioni capaci di scongiurare ogni conflitto sociale, ossia ciò che egli interpreta – al pari di quanto fanno molti trattatisti del suo tempo – come la principale fonte di corruzione dello Stato; e la sua visione del mondo contempla, appunto, la naturalità della pace e l’inumanità della guerra.
Un’opera come il De magistratibus mette bene in luce un importante nodo concettuale che sta alla base delle riflessioni condotte intorno al governo misto negli ambienti intellettuali veneziani del XVI secolo: accostare l’ordinamento della Serenissima all’idea di composizione significa, de facto, non considerare punto di riferimento essenziale la teoria classica della mistione. Questo accade, come si diceva, perché nella costituzione lagunare, a partire dal 1297, viene meno una sintesi dialettica, tanto sul piano politico quanto sul piano sociale, tra patriziato e popolo. A Venezia, infatti, essendo preclusa a chi è non «gentiluomo» la partecipazione al governo della cosa pubblica, non è possibile porre un freno alla prepotenza e all’arbitrio degli ottimati, i quali – a loro volta – non sono nelle condizioni di moderare l’umore tendenziamente mutevole e sedizioso dei cittadini di ceto più basso. Appunto per questo, rispetto alla teoria “classica” della composizione, il governo è misto – come si diceva – in un senso “nuovo” e abbastanza improprio.
Nel De magistratibus, emergono diversi punti di vista analoghi a quelli individuabili nei testi grosso modo coevi di un altro importante teorico cinquecentesco del governo misto, lo scrittore e uomo politico fiorentino Donato Giannotti[49]. Pur nell’indubbia prossimità di certe argomentazioni e di certe accuse, a partire da una comune tendenza a descrivere e ventilare città “pacificate”, Giannotti e Contarini hanno di fronte (e a cuore) due realtà politico-sociali ben diverse: il primo, Firenze; il secondo, Venezia. Contarini descrive – idealizzandola – la costituzione della propria città e accetta che i differenti organi e collegi continuino ad essere composti di persone appartenenti alla medesima classe sociale, l’aristocrazia; Giannotti, nato e formatosi a Firenze, conosce bene l’ordinamento lagunare, al quale consacra il suo Libro della Republica de’ Viniziani, e nel suo scritto maggiore, il trattato Della Republica fiorentina, analizza la storia della città gigliata, focalizzando in particolar modo l’attenzione sui governi «civili» che vi si sono succeduti con alterna fortuna. Benché plauda a parecchi aspetti della costituzione della Serenissima e non esiti a additarli alla classe dirigente della sua travagliata città natale, egli prende tuttavia partito per i reggimenti di tipo «largo», contestando a quelli di tipo «stretto», compreso quello veneziano, di essere iniqui e nemici della libertà, dal momento che non accettano di far partecipare una o due categorie sociali, quella del «popolo» e talora anche quella dei «mediocri», alla vita politica della comunità; all’interno della Repubblica di San Marco, per esempio, tutto il potere è concentrato nelle mani dei nobili, anche se poi esso viene saggiamente distribuito in un cospicuo numero di istituzioni.
Alla luce di tali presupposti e preferenze, Giannotti ritiene necessario che chi tratta argomenti politici incentri le proprie considerazioni su un sistema istituzionale che non soffochi le aspirazioni dei diversi ceti, naturalmente separati e disposti secondo gerarchia nelle comunità dell’epoca. Inesausta dev’essere dunque la ricerca, da parte dei legislatori e dei riformatori, di artifici in grado di dar vita a contesti politico-sociali che sappiano garantire la stabilità attraverso il coinvolgimento dei cittadini al governo della cosa pubblica e la “presa sul serio” dei loro desideri di ceto.
Le considerazioni di Giannotti intorno a questi aspetti si fondano su quella che appare come la sua norma bronzea, e che possiamo così sintetizzare, utilizzando parole nostre: «Un regime dura quando si guadagna l’affetto dei cittadini, e guadagnarsi quest’affetto significa soddisfare i loro desideri»[50].
Di conseguenza, allo studioso di argomenti politici, così come al legislatore e al riformatore, si richiede di osservare con grande attenzione i molteplici aspetti della realtà che lo circonda: a ciascuna comunità occorre il tipo di governo e il tipo di istituzioni che meglio degli altri possano rispondere alle domande e alle esigenze delle diverse classi che compongono la società; in ogni specifico contesto, la storia, le consuetudini e le condizioni esistenti sono peculiari e si commetterebbe un errore grave sottovalutandole. Qualsiasi contesto comunitario venga preso in considerazione, secondo Giannotti, tre sono le forze sociali presenti, e ciascuna di esse si rivela caratterizzata da uno specifico «umore». Al pari di alcuni teorici suoi contemporanei[51], egli chiama «umori» i tratti propri di ogni ceto, peculiarità che si traducono in aspirazioni specifiche e nel conseguente tentativo di realizzarle: in particolare, il «popolo» ricerca la libertà; i «grandi», la libertà e soprattutto l’onore; il «principe», specialmente il comando.
Spetta alle classi dirigenti delle varie comunità dare un’istituzionalizzazione a tali «umori» all’interno della struttura politica, così da accrescere l’affetto di ogni forza sociale per quell’ordinamento nel quale i membri di ciascuno di questi ceti ritengono di avere speranze di ottenere in futuro gli obiettivi che si propongono.
Giannotti loda più volte le potenzialità positive di codesta vivace tripartizione sociale. Egli la considera, se accompagnata dalla presenza di una nutrita classe media, la base necessaria per la creazione di uno stabile ed organico governo misto. In linea generale, comunque, il trattatista toscano sposa l’insegnamento aristotelico e viene a considerare l’esistenza, in seno alla società, di un numeroso e forte ceto «mediocre» uno dei fattori determinanti nella costruzione di un ordinamento che ambisca ad essere saldo, duraturo ed equo[52].
La preferenza dell’autore fiorentino per il governo misto nasce da una riflessione sulla complessità dell’animo umano, il quale – come si è accennato – desidera libertà, onori e potere[53]. Un buon ordinamento, nella prospettiva di Giannotti (che la sviluppa, in special modo, in Della Republica fiorentina), è quello che permette di realizzare tali aspirazioni legalmente, ossia senza ricorrere a mezzi illeciti che possano causare danno ai propri simili. Del resto, egli, consapevole che nessuna forma di governo riesce a garantire tutto ciò sino in fondo, ha fiducia nella concreta possibilità di instaurare un modo di vivere in cui ciascuno pensi, o si illuda di ottenere totalmente il proprio scopo, mentre lo realizza solo in parte. Il governo misto, a suo avviso, può rendere possibile tutto questo[54]. Si espone a rischi gravi, infatti, la società che non metta in condizione i membri dei diversi ceti presenti nel suo seno di poter perseguire i propri desidèri e, allo stesso tempo, di contribuire al benessere collettivo; una tale miopia della politica, come si capisce, rende pure difficoltoso a molti cittadini ottenere un riconoscimento pubblico di uno status sociale chiaro. Chi mai, sentendosi impedito nel conseguimento di un ruolo preciso all’interno della propria comunità e non potendo esibire dinanzi al mondo un’identità “valida”, “in ordine”; chi mai, essendo frustrato nelle proprie legittime ambizioni e prendendo atto dell’“inutilità” del proprio talento personale e della “tradizione” cetuale di cui egli è portatore; chi mai – in tali condizioni – nutrirà, ci vuole dire Giannotti, un sincero interesse a mantenere in vita quel contesto politico, sociale ed economico che lo sta escludendo ed opprimendo? A suo parere, la storia insegna che una delle prime preoccupazioni dei governanti dev’essere quella d’intervenire affinché a interi gruppi e categorie di cittadini non venga preclusa la possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale e politica; in caso contrario, è facile ipotizzare che i gruppi frustrati nelle loro ambizioni operino in vista della caduta di quell’ordinamento e che si apra dunque la strada alla guerra civile, alla rovina dello Stato e al probabile avvento di un tiranno.