All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:35 pm

All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla, ma proprio nulla, niente di niente, tanto meno agli asiatici e ai nazisti maomettani d'Asia e d'Africa

viewtopic.php?f=194&t=2494

All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla più di quello che dobbiamo a tutti gli esseri umani della terra e in primo luogo e sopratutto a noi stessi e alla nostra gente




Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... litmap.jpg

Quando ero piccolo, nato e cresciuto in una famiglia cattolico romana, mi avevano convinto che ero un ricco, un privilegiato e fortunato cristiano, bianco ed europeo, perché avevo una casa di due stanze senza bagno, una stufa a legna e poi a carbone; perché avevo un piatto di pastasciutta da 70/80 g tutti i giorni da mangiare che mia madre mi condiva, con un cucchiaino di conserva di pomodoro, un cucchiaino di olio di oliva e un cucchiaino di formaggio grana.
Mi raccontavano dei poveri bambini dell'Africa che morivano di fame a cui dovevo pensare nelle preghiere, facendo fioretti e doni ai missionari per aiutarli.
Mi avevano anche convinto a farmi missionario per andare salvarli con il vangelo dello spirito e di Cristo e con i doni materiali per la fame del corpo.
Ma per fortuna mi sono liberato da questa ossessione di superiorità apparente che mi faceva sentire in colpa e che mi dannava la vita.


Europeo aiuta la tua gente prima di aiutare il resto del mondo; anche al tuo paese ci sono tante persone che ne avrebbero bisogno, non abbandonarle e disprezzarle, se puoi aiutale e tutta la comunità sarà migliore.


L'obbligo dell'accoglienza o l'imposizione dell'accoglienza come nuova forma di dominio politico ideologico e di riduzione in schiavitù;
imposta in nome delle utopie totalitarie comunista e cristiana a cui si va aggiungendo quella orrenda maomettana:

Non esiste alcun obbligo assoluto di soccorso in mare.
Esiste soltanto un obbligo relativo, subordinato alla sicurezza della nave e del proprio paese e alle proprie possibilità. E quanto sta accadendo da qualche anno è un fenomeno straordinario ed estremamente preoccupante, è una vera e propria invasione che viola i nostri diritti umani e che si configura come una violenza e una depredazione che non possiamo più sopportare in quanto arreca un grave danno economico, sociale e politico al nostro paese e ai nostri concittadini. Quanto sta accadendo si configura come un crimine contro l'umanità, contro la nostra umanità.
E poi i naufraghi debbono essere portati al porto più vicino, quindi in Libia che non può certo rifiutarsi di accettarli; se lo facesse violerebbe gravemente i rapporti con gli altri paesi in una forma tale che può considerarsi come un'agressione fisica e politica a cui si può rispondere anche militarmente.

Dato l'andazzo inarrestabile si dovrebbe passare al blocco navale militare e dopo aver informato preventivamente le organizzazioni internazionali e gli stati da cui partono i migranti e i barconi con i clandestini e volantinando porti e spiagge si dovrà procedere a partire da una certa data a non prestare più alcuna forma di soccorso nemmeno difronte alla morte per annegamento. Il solo modo per fermare l'invasione è di piantargliela dura costi quello che costi anche decine o centinaia di morti.
Non possiamo continuare a sottostare al ricatto, questi non hanno alcun rispetto per noi e pertanto non possiamo assolutamente morire noi per loro o diventare i loro schiavi. Che si arrangino, se muoiono pasienza anche se sono donne e bambini.


Migrare e non migrare, accogliere e non accogliere, diritti e doveri
viewtopic.php?f=194&t=2498
Non esiste alcun dovere assoluto ad accogliere e alcun diritto assoluto ad essere accolti.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:36 pm

Le caste dei manipolatori dei Diritti Umani Universali e negatori dei nostri Diritti Umani di Nativi e Indigeni europei ci dicono ogni giorno, ce lo raccontano dalla mattina alla sera, ovunque, anche nelle chiese cristiane che dobbiamo accogliere e ospitare a casa nostra e a nostre spese tutti gli africani che giungono sulle nostre coste, perché un tempo siamo stati crudeli colonizzatori e sfruttatori dell'Africa e degli africani e oggi siamo depredatori delle loro ricchezze al punto da destabilizzare e impoverire i loro paesi da costringerli ad emigrare.

Ce lo ripetono in tutte le salse ma non è così.

Ecco alcuni esempi di questo martellamento per farci sentire in colpa e giustificare l'invasione e lo sperpero, il furto, la rapina delle nostre risorse e dei nostri beni

Manipolazione criminale dei valori e dei diritti umani universali, quando il male appare come bene
viewtopic.php?f=25&t=2484


Natalino Balasso e la Telecoscienza
https://www.facebook.com/CarloMartelliM ... 1886150375
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:37 pm

???

Immigrazione, quando noi europei tagliavamo le mani ai bambini africani
di Ferruccio Sansa | 6 febbraio 2017

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02 ... ni/3370810

Trovo questa immagine in un archivio. Non posso credere a quello che dice la didascalia: “Congo belga 1904, un padre osserva i piedi e le mani del figlio di cinque anni, tagliati perché non aveva raccolto abbastanza gomma“.

È una foto che non si riesce nemmeno a guardare. Sembra impossibile, viene da sperare che sia falsa. Ma ce ne sono altre, tante, di mutilazioni inflitte in Congo dagli europei. Allora forse è giusto riportarla (da http://www.rarehistoricalphotos.com) perché non si può dimenticare. Non si devono tacere i disagi che l’immigrazione oggi ci porta. E bisogna affrontarli. Ma questa immagine – come le altre sul Congo di inizio ‘900 – ci costringe a essere obiettivi: ci sono stati decine di milioni di schiavi deportati dai mercanti (europei, anche italiani) e uno sfruttamento selvaggio delle colonie africane compiuto dagli europei (anche da noi italiani). Abbiamo compiuto dei genocidi. Abbiamo cancellato intere generazioni.

Abbiamo preso alla gente dell’Africa infinitamente più di quanto ci sia chiesto oggi di dare: ricchezze, ma soprattutto vite (solo in Congo ci sono stati 10 milioni di morti).
Non si può ignorare tutto questo quando parliamo di immigrazione: la miseria dell’Africa dipende anche da noi.
Più di mille parole vale questa foto.

Dopo, se ci resta qualcosa da dire, discutiamo.

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... go_675.jpg




La prima foto che sconvolse il mondo
https://elisaintanzania.wordpress.com/2 ... rris-congo

Questa è la storia di come già nei primi anni del XX secolo una fotografia fu in grado di mobilitare l’opinione pubblica mondiale.
...
Durante l’epoca imperialista, per cinque anni Charles Goodyear (sì, proprio quello da cui prendono il nome gli pneumatici) cercò di trarre un materiale resistente dal lattice dell’albero di gomma. Falliva sempre. Tuttavia, dopo essere quasi finito sul lastrico, gli venne l’idea di aggiungere dello zolfo alla gomma: nacque un materiale resistente ed elastico, che avrebbe rivoluzionato il mondo. La gomma vulcanizzata sarebbe risultata molto importante nell’industria automobilistica, e non solo. Salì dunque alle stelle la richiesta del lattice, che veniva estratto in Congo.
Tale zona dell’Africa era dal 1885 sotto dominio di Leopoldo II, re del Belgio, che del Congo sfruttava le risorse, frustava e mutilava la popolazione indigena (prendeva le famiglie in ostaggio, cosicché gli uomini fossero costretti a lavorare per i coloni). Nel frattempo trapelavano alcune notizie in Europa, e ci si cominciava ad interrogare sui diritti umani.
Un giorno un uomo chiamato Nsala si presentò a casa di una missionaria di nome Alice Harris; aveva con sé un pacchetto realizzato con delle foglie, lo scartò e ne mostrò il contenuto: una mano e un piede della sua bambina di cinque anni. Era infatti pratica comune che i soldati coloni amputassero gli arti a bambini ed adulti, per mostrare la propria forza.
Alice Harris scattò allora una famosissima foto in cui si vede l’uomo che osserva gli arti della figlia.
Questa foto – insieme a molte altre, di bambini senza mani – venne spedita ai media occidentali, e sconvolse le masse di tutto il mondo, specie in Stati Uniti ed Inghilterra, dove le foto venivano proiettate in incontri pubblici.
Sotto pressione dell’opinione pubblica internazionale, ed anche di scrittori famosi dell’epoca, nel 1908 Re Leopoldo pose fine alle sue indiscriminate atrocità.

Per approfondire:
• Congo, Then and Now (iconicphotos.wordpress.com)
• King Leopold II and the Congo (enotes.com)
• Il cuore di tenebra del Congo (comune.rimini.it)


Colonizzazione tedesca in Africa - Namibia

Namibia, 1904. Quando i tedeschi fecero le prove della Shoah
Herero stremati dopo essere riusciti a tornare dal deserto di Omaheke, nella Namibia orientale, dove erano stati spinti dai tedeschi (Getty Images)
Stupri e campi di concentramento. Nella colonia africana la Germania organizzò il primo genocidio del XX secolo. Anticipando i metodi nazisti. Ma oggi a Berlino si fatica a parlarne
dalla nostra corrispondente Tonia Mastrobuoni
30 maggio 2017
9 giugno 2017

http://www.repubblica.it/venerdi/artico ... -166817547

BERLINO. Gli occhi chiari si intuiscono anche nella foto in bianco e nero. Israel fatica a rimanere serio davanti a quel ricordo sbiadito di suo padre che ha appeso in soggiorno, vicino a immagini della sua infanzia in Namibia e di donne Herero in costumi tradizionali. Nel ritratto si vede un africano bellissimo, dallo sguardo fiero. Ma sotto il naso spiccano un paio di baffetti da Hitler. Israel si stringe nelle spalle, sorride imbarazzato: «Non so perché li portasse così, i miei figli mi hanno sempre chiesto di coprirli».

Israel Kaunatijke ci accoglie nel suo coloratissimo appartamento profumato di spezie, nel cuore di Berlino. È un discendente degli Herero namibiani: insieme ai Nama furono il primo popolo sterminato dai tedeschi, oltre un decennio prima del massacro degli armeni nell’Impero ottomano. Il primo genocidio del Ventesimo secolo, dunque, non fu organizzato dai turchi, ma dai generali di Guglielmo II. Nella più importante colonia tedesca in Africa due minoranze ribelli furono sterminate con acribìa e sistematicità teutonica. Solo che la Germania fatica a ammetterlo.

Due anni fa ha votato persino una risoluzione in Parlamento per riconoscere il genocidio degli armeni del 1915. Rimuove però il proprio, triste primato dello sterminio in Namibia del 1904. Israel proviene da un popolo quasi cancellato dalla faccia della terra: in quattro anni gli Herero furono decimati da circa 90 mila a poco più di 15 mila. Sa di avere sangue tedesco nelle vene, sangue dei colonizzatori. Stuprarono migliaia di donne della sua etnia – «compresa, forse, mia nonna». Vive a Berlino da oltre quarant’anni e si considera «l’unico Herero della Germania». Ma la diaspora del suo popolo dura fino ai nostri tempi.

Negli anni 60, quando lasciò il suo Paese, Israel si buttò a capofitto nelle battaglie contro l’apartheid, e scoprì solo tardi la tragedia del suo Paese. Ma da allora l’attivista oggi ottantenne è instancabile. Lotta perché al suo popolo «venga riconosciuta un’indennità e una parte delle terre rubate dai tedeschi: ci vivono ancora i loro discendenti!». Gli occhi azzurri di suo padre sono quelli dei bianchi del neonato Regno tedesco, che applicarono al suo popolo una strategia dello sterminio studiata a tavolino e perfezionata in una famosa battaglia, quella di Waterberg. Ormai, dopo anni di ricerche, Israel ha scoperto che suo nonno si chiamava Otto Mueller ed è ancora sepolto nelle terre strappate ai suoi avi africani.

Israel sa che i teschi e gli scheletri degli Herero e dei Nama – che sta cercando in tutta la Germania da anni perché siano restituiti al suo Paese – furono portati un secolo fa nelle università e nei laboratori del Reich da medici che insegnarono anni dopo la loro “scienza” anche ad un certo Josef Mengele. I resti mortali di presunte “razze inferiori” dovevano dimostrare la superiorità di quella bianca. Erano gli anni del socialdarwinismo, delle deliranti teorie sullo spazio vitale, cui si aggiunse qualche anno più tardi l’ossessione per lo sterminio degli ebrei. Teorie che i medici e gli scienziati dell’epoca come Eugen Fischer cercarono di dimostrare raccogliendo prove in Africa.

Facendo spedire in Germania teste mozzate dei prigionieri Herero e Nama e scheletri di bambini detenuti negli atroci campi di concentramento come quello di Shark Island. Aberrazioni delle pseudoscienze di allora, escrescenze maligne del positivismo di fine Ottocento. Israel sa anche che le crudeltà inflitte ai suoi avi scaturivano dai bisogni predatori di una Germania appena unificata, giovane, affamata di terre lontane, ricchezze e materie prime. Sa che nel suo Paese natale si tendono ancora a nascondere i primi campi di concentramento della Storia e le fosse comuni. E quei baffetti sulla foto del padre devono sembrargli una beffa del destino.

Gli storici sostengono – inascoltati – che tra il massacro in Namibia degli Herero e dei Nama e quello degli ebrei nel Terzo Reich ci sia un filo diretto, che il genocidio in Namibia possa essere considerato l’anticamera dell’Olocausto. Tanti soldati che combatterono in Africa andarono poi a formare le milizie dei Freikorps, la teppaglia antisemita e anticomunista degli albori del nazismo. Tanti scienziati furono i professori dei macellai dell’eutanasia, del genocidio degli ebrei e della selezione della razza del Terzo Reich. L’”igiene razziale”, il divieto di mescolarsi con gli africani, fu imposta anche in Namibia. Eppure, la riluttanza a riconoscere questa continuità è gigantesca.

Nonostante l’autorevolezza di chi ha sempre sostenuto questa tesi, che si è irrobustita nei decenni fino a diventare una certezza per lo storico Jürgen Zimmerer. «Non possiamo più considerare i dodici anni del nazismo una parentesi tragica: c’è un prologo» spiega il professore dell’Università di Amburgo, specialista del colonialismo. «La differenza della Namibia con gli altri colonialismi è anzitutto il genocidio come guerra dello Stato, e non come espressione di violenza privata. Lo sterminio di Herero e Nama non è un effetto collaterale: è l’obiettivo, è una pulizia etnica sistematica e centralizzata».

Del resto, ad individuare nel colonialismo le radici della violenza collettiva esercitata sugli ebrei fu Hannah Arendt, già nel 1951. Ma il dibattito pubblico stenta a decollare persino un secolo dopo. Le scuse alla Namibia arrivate finora dalla Germania sono debolucce: un sottosegretario nel 2004 e un portavoce del ministero degli Esteri nel 2015. E di risarcimenti neanche a parlarne. Per Israel lo scandalo è che si sia finalmente istituito un negoziato tra Germania e Namibia, ma che gli Herero e i Nama non siedano al tavolo: «Trattano del genocidio contro di noi senza di noi, non è assurdo?».

Nel 1950 il grande scrittore della Martinica, Aimé Césaire, scrisse che ciò che rendeva inaudito l’Olocausto «è l’umiliazione dell’essere umano bianco, il fatto che Hitler abbia applicato all’Europa metodi colonialisti che sino ad allora erano stati riservati esclusivamente agli arabi d’Algeria, agli indiani, ai neri africani». Ma se la Germania non riesce a fare i conti con la Namibia, secondo Zimmerer, «è anche perché significherebbe aggiungere un altro capitolo e un altro genocidio alla nostra già pesante storia, mentre molti preferiscono coltivare l’idea che abbiamo giocato un ruolo marginale, nel colonialismo». D’altro lato, aggiunge, «si rischierebbe di scatenare una reazione a catena di richieste di riparazioni e risarcimenti, che potrebbe travolgere anche altri Paesi ex colonialisti».

All’inizio del secolo scorso, la Namibia, detta “Africa Sudoccidentale”, sembra una colonia come le altre. La sua è una storia ordinaria e squallida di espropri, violenze, stupri. Ma il governatore Theodor Leutwein, tutto sommato, crede più nella diplomazia che nel terrore. Anche lui ha istituito, come tante potenze, un protettorato basato su razza e schiavitù, ma è convinto che i namibiani siano una forza lavoro indispensabile. Le cose cambiano drammaticamente con le prime rivolte degli Herero e dei Nama, nel 1904. Berlino si spazientisce e manda giù il suo sterminatore, una sorta di antenato di Göring e Heydrich, il famigerato Lothar von Trotha.

Il generale sassone si è già distinto per straordinaria spietatezza in Cina e in altre colonie africane. Quando arriva in Namibia non ha un’idea chiara su come battere i rivoltosi, ma è lucido sull’obiettivo: condurre «una guerra di razza», costringendo gli africani a «ritirarsi attraverso il terrore e la crudeltà»: le insurrezioni «devono essere represse in un bagno di sangue». Quando il governatore Leutwein cerca di dissuaderlo, ricordandogli che l’Impero ha bisogno dei lavoratori africani, Von Trotha taglia corto: fate lavorare i bianchi. È lì il germe dello sterminio: l’idea che le popolazioni autoctone siano superflue. Cui si aggiunge, osserva Zimmerer, «l’ambizione di germanizzare il Paese», spazzare via la cultura africana per innestarvi la propria. È questa la definizione classica di “genocidio”, ricorda lo storico.

La prova generale dello sterminio è la battaglia di Waterberg, 11 agosto 1904. I tedeschi sconfiggono gli Herero, ma non si accontentano della vittoria militare. Cominciano a spingerli verso il micidiale deserto di Omaheke. Per farli morire di fame e sete. Un rapporto militare dell’epoca narra di «uomini, donne, bambini malati, apatici, stremati dalla stanchezza, che aspettavano immobili e morti di sete il loro destino sdraiati nei cespugli». I soldati che li trovano così, li ammazzano. Contemporaneamente, vengono istituiti i campi di concentramento e forse il primo campo di sterminio, Shark Island, dove muoiono soprattutto i Nama. In autunno arriva anche l’ordine che formalizza il genocidio. Von Trotha lo emana il 2 ottobre del 1904. È passato alla storia come “ordine del genocidio” o “ordine dell’annientamento”. Il generale impone di sparare a vista a qualsiasi Herero: «Devono lasciare il Paese» oppure «li fucileremo».

Nel frattempo, quelli reclusi nei campi di concentramento sono costretti a lavorare per le aziende tedesche in condizioni atroci. A Shark Island, dove sono rinchiusi circa duemila Nama, l’intento di farli morire di stenti è espresso a chiare lettere nell’ordine di un comandante, Berthold von Deimling: «Nessun Nama lascerà vivo Shark Island». Lo scopo non è farli lavorare: è sterminarli. Le foto dell’epoca mostrano uomini, donne e bambini scheletrici, buttati a terra come stracci. I morti vengono portati via a mucchi, nelle carrette spinte a mano. Ai malati di dissenteria o scorbuto che non riescono a mangiare viene detto «uccellino mangia o muori». È anche la mancanza di qualsiasi forma di empatia da parte dei tedeschi, la sistematica “disumanizzazione” degli africani, considerati meno di bestie, che colpisce, nei crudi resoconti dell’epoca. Un altro indizio che porta dritto dritto ad Auschwitz.

https://it.wikipedia.org/wiki/Tedeschi_della_Namibia
Nel 1883 un mercante tedesco, Adolf Lüderitz, acquistò da un capo locale la costa meridionale dell'attuale Namibia e fondò la città di Lüderitz. Il governo tedesco, desideroso di impadronirsi di territori oltremare, decise ben presto di annettersi il possedimento, che ricevette il nome di "Africa Tedesca del Sud-Ovest (Deutsch-Südwestafrika in lingua tedesca). Alcuni piccoli gruppi di tedeschi cominciarono a stabilirvisi: si trattava soprattutto di mercanti, cercatori di diamanti, ufficiali coloniali e soldati della Schutztruppe.

Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, la Germania perse il controllo della Namibia che divenne così un mandato del Sudafrica. Ai coloni tedeschi fu tuttavia concesso di restare tant'è che fino al 1990, anno di indipendenza della Namibia dal Sudafrica, il tedesco fu lingua ufficiale del paese insieme all'inglese e all'afrikaans.


https://it.wikipedia.org/wiki/Africa_Te ... _Sud-Ovest
L'Africa Tedesca del Sud-Ovest fu una colonia dell'Impero tedesco corrispondente al moderno Stato africano della Namibia; la colonia esistette dal 1884 al 1919 quando, a seguito della sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, il territorio divenne un Mandato della Società delle Nazioni affidato all'Unione Sudafricana.
L'Africa Tedesca del Sud-Ovest fu l'unica colonia dove i tedeschi si stabilirono in gran numero. I coloni erano attratti non solo dalle opportunità economiche offerte dall'estrazione dei diamanti e del rame, e specialmente dalla coltivazione della terra, ma anche dal fatto che questa era l'unica colonia tedesca in Africa poste a latitudini meno torride e quasi temperate. Nel 1902, la colonia aveva 200.000 abitanti, di cui 2.595 tedeschi, 1.354 Afrikaner e 452 inglesi. Negli anni seguenti, sino al 1914, arrivarono altri 9.000 coloni tedeschi. Nello stesso periodo, le popolazioni autoctone comprendevano circa 80.000 Herero, 60.000 Ovambo e 10.000 Nama, a cui ci si riferiva genericamente col nome di Ottentotti.
Il potere coloniale tedesco sulla Namibia fu consolidato con la forza e con "trattati di protezione" imposti alla popolazione locale. Attraverso questi mezzi, i coloni europei si appropriarono rapidamente del bestiame e della terra coltivabile. La popolazione non bianca non aveva, per contro, nessuna protezione legale da parte delle autorità. Questo stato di cose contribuì a creare una situazione di tensione che sfociò, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, in una serie di scontri fra le popolazioni autoctone e l'esercito coloniale.

La prima Rivolta Ottentotta ebbe luogo fra il 1893 ed il 1894; a insorgere furono i Nama, guidati da Hendrik Witbooi. Negli anni successivi altri gruppi seguirono l'esempio dei Nama; particolarmente cruenta fu la rivolta degli Herero nel 1904. Furono attaccate fattorie isolate e vennero uccisi circa 150 coloni tedeschi. Le Schutztruppe, che contavano meno di 800 soldati e pochi ausiliari, ebbero inizialmente notevoli difficoltà a contenere gli insorti. Gli Herero arrivarono persino ad assediare le città di Okahandja e Windhoek e a distruggere il ponte ferroviario verso Osona. Sempre nel 1904, anche i Nama tornarono a sollevarsi, guidati da Hendrik Witbooi e Jakob Morenga (detto "il Napoleone nero").

Di fronte a questa situazione di crisi, il Kaiser inviò un contingente militare guidato dal generale Lothar von Trotha, dandogli l'incarico di stroncare la ribellione senza pietà, al fine di dare una "punizione esemplare" agli insorti. Le forze tedesche ebbero la meglio nella battaglia di Waterberg e, tenendo fede al proprio compito, von Trotha diede inizio a quello che viene spesso indicato come il primo genocidio del XX secolo. Gli Herero dovettero ritirarsi nell'arida Omaheke-Steppe (nella parte occidentale del deserto del Kalahari); i soldati tedeschi ebbero l'ordine di avvelenare le sorgenti d'acqua e di sparare a vista a qualsiasi Herero, anche disarmato. Alla fine della repressione, che si concluse intorno al 1908, i tedeschi avevano ucciso 40.000 Herero (il 75% della popolazione Herero complessiva), circa il 50% dei Nama, e un numero imprecisato di San, subendo un numero di perdite inferiore a 2000 uomini.

Le guerre portarono il paese a un regime ancora più duro, in cui il "lavoro forzato" dei neri era praticamente indistinguibile da una condizione di schiavitù, con una netta e invalicabile stratificazione della società su base razziale.




Alberto Pento
Chiariamo subito che non siamo stati noi europei ma caso mai qualche europeo, la responsabilità è individuale e non collettiva;
e usare questi argomenti per colpevolizzare tutti gli europei e farli in sentire in dovere e in debito con l'Africa al punto da accettare l'invasione dall'Africa e la relativa accoglienza è un crimine da cui abbiamo ogni diritto di difenderci.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:50 pm

Ve lo ricordate Kabobo l'africano che sentiva delle voci che gli ordinavano di ammazzare i diavoli bianchi a Milano?
Omicidi a picconate: definitiva
la condanna a 20 anni per Kabobo
La difesa rinuncia al ricorso in Cassazione. Il ghanese uccise tre persone a colpi di piccone. I suoi legali avevano chiesto di concedere le attenuanti generiche
31 marzo 2016

http://milano.corriere.it/notizie/crona ... 520a.shtml


Immagine

È definitiva la condanna a 20 anni di carcere per Adam Kabobo, il ghanese di 34 anni che nel maggio 2013 seminò il terrore nel quartiere Niguarda di Milano ammazzando tre passanti a colpi di piccone. Nei giorni scorsi, infatti, si doveva tenere l’udienza in Cassazione per discutere il ricorso, ma la difesa ha rinunciato e così la Suprema Corte ha decretato che la pena è diventata definitiva. La tesi dell’incapacità totale di intendere e di volere, sempre sostenuta dai legali del ghanese, non era stata accolta né in primo né in secondo grado.

Non scatta il ricorso in Cassazione

Per Kabobo, nel gennaio 2015, era arrivata la conferma dei 20 anni di carcere da parte della seconda sezione della Corte d’Assise d’appello di Milano che aveva riconosciuto all’immigrato soltanto un vizio parziale di mente, condannandolo anche a 3 anni di casa di cura e custodia (una misura di sicurezza a pena espiata e applicata per la sua «pericolosità sociale»). La difesa, poi, ha fatto ricorso alla Suprema Corte per chiedere che venisse ricalcolata e diminuita la pena, anche attraverso la concessione delle attenuanti generiche. Successivamente, però, c’è stata la rinuncia alla discussione.

Le vittime

Kabobo uccise a colpi di piccone Daniele Carella, 21 anni, i cui genitori, parti civili, sono stati rappresentati dagli avvocati Antonio Golino e Jean-Paule Castagno. Tra le parti civili, rappresentati dai legali Salvatore Scuto e Anna Cifuni, anche Andrea Masini, figlio di Ermanno, pensionato di 64 anni anche lui ucciso, e i familiari di Alessandro Carolé, 40 anni. Lo scorso gennaio, tra l’altro, per Kabobo è stata confermata anche la condanna a 8 anni di reclusione per il tentato omicidio di altre due persone ferite quel giorno.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:53 pm

L'idolatra, che vive con le nostre tasse che lo stato ci rapina e che parla come se fosse D-o.


Papa Bergoglio contro le ingiustizie: «Le ricchezze mondiali in mano solo a un gruppetto di persone»
Martedì 21 Febbraio 2017
di Franca Giansoldati

http://www.ilmessaggero.it/primopiano/v ... 73109.html

Per certi versi sembra un manifesto venato di socialismo, per certi altri un appello terzomondista. Papa Bergoglio al VI forum internazionale sulle migrazioni e la pace torna a puntare il dito contro le grandi multinazionali che sfruttano il Sud del mondo e contro la finanza internazionale che determina enormi speculazioni, con il risultato che le ricchezze si concentrano sempre in poche mani. "Non può un gruppetto di individui controllare le risorse di mezzo mondo. Non possono persone e popoli interi aver diritto a raccogliere solo le briciole”. Questo divario è alla base di tanti squilibri. “Manca la giustizia redistributiva”.

Papa Francesco spiega ai suoi ospiti ricevuti in Vaticano ciò che in passato ha ampiamente esposto nelle sue encicliche. “Anzitutto il dovere di giustizia. Non sono più sostenibili le inaccettabili disuguaglianze economiche, che impediscono di mettere in pratica il principio della destinazione universale dei beni della terra”. Denuncia poi il divario tra chi ha troppo e chi non ha nulla. Una forbice che tende ad allargarsi sempre di più. “Nessuno può sentirsi tranquillo e dispensato dagli imperativi morali che derivano dalla corresponsabilità nella gestione del pianeta, una corresponsabilità più volte ribadita dalla comunità politica internazionale, come pure dal Magistero". Il sistema economico e sociale nel suo complesso andrebbe corretto, “un dovere di civiltà”, dice.
Non si tratta solo di cancellare forme di colonialismo, o di egemonia, ma di portare avanti “una riparazione. A tutto ciò bisogna riparare”.

Francesco insiste sul fatto che “siamo tutti chiamati a intraprendere processi di
condivisione rispettosa, responsabile e ispirata ai dettami della giustizia distributiva". Naturalmente nel corso dell’incontro ha affrontato il fenomeno migratorio, un tema sul quale il Papa richiama tutti gli Stati “al dovere di civiltà”. Difende la scelta politica dei corridoi umanitari “accessibili e sicuri”, le politiche legate all’integrazione degli stranieri, evitando “le pericolose ghettizzazioni”. Il rispetto dei migranti, però, inizia dalla comunità di origine. E insiste: "Ogni migrante ha diritto a emigrare, ma anche il diritto a non dovere emigrare, a non essere costretto dalla fame e dalla miseria a un avvenire altrove". Infine non manca di denunciare la deriva populista. "Di fronte a questa indole del rifiuto, radicata in ultima analisi nell’egoismo e amplificata da demagogie populistiche, urge un cambio di atteggiamento, per superare l’indifferenza e anteporre ai timori un generoso atteggiamento di accoglienza verso coloro che bussano alle nostre porte".



Migranti, Bergoglio: “Accogliere, proteggere, promuovere, integrare” Papa Francesco incontra i partecipanti al Forum Internazionale "Migrazioni e Pace"
di Fabio Beretta -
Feb 21, 2017
http://www.interris.it/2017/02/21/11365 ... grare.html

Sviluppo e integrazione. Su questo binomio si è sviluppato il Forum organizzato da Dicastero sullo Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede, Scalabrini International Migration Network e Fondazione Konrad Adenauer su “Migrazioni e pace” che si è svolge a Roma e i cui partecipanti sono stati ricevuti dal Papa. Un Forum che, come ha spiegato nel suo saluto al Papa mons. Silvano Maria Tomasi, del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, convoca ogni due anni diversi attori sociali e politici alla ricerca di nuove strade per umanizzare il fenomeno migratorio e ridurre le sofferenze dei migranti. “In effetti, non è possibile leggere le attuali sfide dei movimenti migratori contemporanei e della costruzione della pace senza includere il binomio “sviluppo e integrazione” – ha detto il Papa nel suo discorso – A tal fine ho voluto istituire il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, all’interno del quale una Sezione si occupa specificamente di quanto concerne i migranti, i rifugiati e le vittime della tratta”.

“L’inizio di questo terzo millennio – ha ricordato il S. Padre – è fortemente caratterizzato da movimenti migratori che, in termini di origine, transito e destinazione, interessano praticamente ogni parte della terra. Purtroppo, in gran parte dei casi, si tratta di spostamenti forzati, causati da conflitti, disastri naturali, persecuzioni, cambiamenti climatici, violenze, povertà estrema e condizioni di vita indegne. Davanti a questo complesso scenario, sento di dover esprimere una particolare preoccupazione per la natura forzosa di molti flussi migratori contemporanei, che aumenta le sfide poste alla comunità politica, alla società civile e alla Chiesa e chiede di rispondere ancor più urgentemente a tali sfide in modo coordinato ed efficace”. Il Papa ha sviluppato la sua riflessione su quattro aspetti: accogliere, proteggere, promuovere, integrare.


Accogliere: la via dei canali umanitari

“C’è un’indole del rifiuto che ci accomuna, che induce a non guardare al prossimo come ad un fratello da accogliere”. Di fronte a questa indole del rifiuto, radicata in ultima analisi nell’egoismo e amplificata da demagogie populistiche, urge un cambio di atteggiamento, per superare l’indifferenza e anteporre ai timori un generoso atteggiamento di accoglienza verso coloro che bussano alle nostre porte. Per quanti fuggono da guerre e persecuzioni terribili, spesso intrappolati nelle spire di organizzazioni criminali senza scrupoli, occorre aprire canali umanitari accessibili e sicuri. Un’accoglienza responsabile e dignitosa di questi nostri fratelli e sorelle comincia dalla loro prima sistemazione in spazi adeguati e decorosi. I grandi assembramenti di richiedenti asilo e rifugiati non hanno dato risultati positivi, generando piuttosto nuove situazioni di vulnerabilità e di disagio. I programmi di accoglienza diffusa, già avviati in diverse località, sembrano invece facilitare l’incontro personale, permettere una migliore qualità dei servizi e offrire maggiori garanzie di successo.
Proteggere: difesa dei diritti

“Il mio predecessore, Papa Benedetto, ha evidenziato che l’esperienza migratoria rende spesso le persone più vulnerabili allo sfruttamento, all’abuso e alla violenza. Parliamo di milioni di lavoratori e lavoratrici migranti – e tra questi particolarmente quelli in situazione irregolare –, di profughi e richiedenti asilo, di vittime della tratta. La difesa dei loro diritti inalienabili, la garanzia delle libertà fondamentali e il rispetto della loro dignità sono compiti da cui nessuno si può esimere. Proteggere questi fratelli e sorelle è un imperativo morale da tradurre adottando strumenti giuridici, internazionali e nazionali, chiari e pertinenti; compiendo scelte politiche giuste e lungimiranti (…) attuando programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro i “trafficanti di carne umana” che lucrano sulle sventure altrui; coordinando gli sforzi di tutti gli attori, tra i quali, potete starne certi, ci sarà sempre la Chiesa”.


Promuovere: il diritto a non dover emigrare

“Proteggere non basta, occorre promuovere lo sviluppo umano integrale di migranti, profughi e rifugiati. Lo sviluppo, secondo la dottrina sociale della Chiesa, è un diritto innegabile di ogni essere umano. Come tale, deve essere garantito assicurandone le condizioni necessarie per l’esercizio, tanto nella sfera individuale quanto in quella sociale, dando a tutti un equo accesso ai beni fondamentali e offrendo possibilità di scelta e di crescita. Anche in questo è necessaria un’azione coordinata e previdente di tutte le forze in gioco. La promozione umana dei migranti e delle loro famiglie – ha sottolineato il Papa – comincia dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, assieme al diritto di poter emigrare, anche il diritto di non dover emigrare, ossia il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una dignitosa realizzazione dell’esistenza”.


Integrare: scambio di culture

L’integrazione, che non è né assimilazione né incorporazione, è un processo bidirezionale, che si fonda essenzialmente sul mutuo riconoscimento della ricchezza culturale dell’altro: non è appiattimento di una cultura sull’altra, e nemmeno isolamento reciproco, con il rischio di nefaste quanto pericolose “ghettizzazioni”. Per quanto concerne chi arriva ed è tenuto a non chiudersi alla cultura e alle tradizioni del Paese ospitante, rispettandone anzitutto le leggi, non va assolutamente trascurata la dimensione familiare del processo di integrazione: per questo mi sento di dover ribadire la necessità, più volte evidenziata dal Magistero, di politiche atte a favorire e privilegiare i ricongiungimenti familiari. Per quanto riguarda le popolazioni autoctone, esse vanno aiutate, sensibilizzandole adeguatamente. Per questo occorrono anche programmi specifici, che favoriscano l’incontro significativo con l’altro. Per la comunità cristiana, poi, l’integrazione pacifica di persone di varie culture è, in qualche modo, anche un riflesso della sua cattolicità“.

“Credo che coniugare questi quattro verbi, in prima persona singolare e in prima persona plurale, rappresenti oggi un dovere- ha aggiunto il Pontefice – un dovere nei confronti di fratelli e sorelle che, per ragioni diverse, sono forzati a lasciare il proprio luogo di origine: un dovere di giustizia, di civiltà e di solidarietà“. Il Papa ha concluso il suo discorso richiamando “l’attenzione su un gruppo particolarmente vulnerabile tra i migranti, profughi e rifugiati che siamo chiamati ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Mi riferisco ai bambini e agli adolescenti che sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari”.


Un sinodo sui migranti

Mons. Tomasi nel suo intervento ha chiesto al Papa “Un’esortazione apostolica, o magari un Sinodo, sui migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo”. Tomasi ha espresso l’auspicio che l’esortazione o il Sinodo “possa diventare un messaggio efficace” per l’Assemblea dell’Onu prevista nel 2018 su questo tema, e l’occasione “per una solidarietà sempre più concreta verso i nostri fratelli e sorelle che sono vittime delle migrazioni forzate”. “Con la sua azione e la sua persona – ha detto Tomasi rivolgendosi a Papa Francesco – lei ha indicato un cammino per la comunità internazionale”, oltre che per la Chiesa, nella direzione di “una governance più rispettosa di ogni persona, per sensibilizzare la cultura pubblica a prevenire lo sradicamento forzato di tante persone dal loro contesto umano”.


Sbarchi nel 2016 e 2017

Si avvicinano già a quota diecimila gli sbarchi di migranti sulle coste italiane nel 2017: ben 2.500 sono arrivati negli ultimi due giorni. Alcune centinaia, soccorsi in mare, toccheranno terra nelle prossime ore e non sono conteggiati nel totale indicato dal Viminale ad oggi: 9.359 arrivi, il 50% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (6.030).
Gli stranieri provengono in grande maggioranza dall’Africa: Guinea, Costa d’Avorio, Nigeria, Senegal, Gambia e Marocco le nazionalità più rappresentate. Il 2016 è stato un anno record per il numero di migranti arrivati in Europa attraverso la rotta centro mediterranea, che coinvolge l’Italia e in misura minore Malta, e per il numero di coloro che hanno trovato la morte in mare durante il viaggio della speranza. Il primo dato è fornito dall’agenzia europea Frontex: il totale è di 181 mila, con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno precedente. L’altro viene dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati ed è aggiornato al 2 dicembre scorso: le vittime sono state 3.470 contro le 2.771 di tutto il 2015 e il rapporto tra morti e sbarchi è triplicato passando da uno ogni 269 a uno ogni 88.


Le bugie dei radicali, del Papa e di altri sui migranti regolari e sugli immigrati clandestini
viewtopic.php?f=194&t=2460

Manipolazione criminale dei valori e dei diritti umani universali, quando il male appare come bene
viewtopic.php?f=25&t=2484

La demenza irresponsabile di Bergoglio e dei falsi buoni che fanno del male e che non rispettano i nostri diritti umani
viewtopic.php?f=132&t=2591
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 9:55 pm

Colonizzazione europea e tratta degli schiavi

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_de ... _in_Africa
La colonizzazione dell'Africa da parte delle nazioni europee raggiunse il proprio apice a partire dalla seconda metà del XIX secolo, periodo in cui si ebbe una vera e propria spartizione dell'Africa, i cui protagonisti furono soprattutto Francia e Gran Bretagna e, in misura minore, Germania, Portogallo, Italia, Belgio e Spagna.
Pur riferendosi spesso a una presunta "missione civilizzatrice" nei confronti soprattutto dei popoli relativamente arretrati dell'Africa subsahariana, le potenze coloniali europee si dedicarono soprattutto allo sfruttamento delle risorse naturali del continente. Soltanto in alcuni casi la presenza europea in Africa portò a un effettivo sviluppo delle regioni occupate, per esempio attraverso la costruzione di infrastrutture. Nei luoghi in cui si stabilirono comunità di origine europea (l'esempio più rappresentativo è il Sudafrica) la popolazione locale fu in genere discriminata politicamente ed economicamente.


https://it.wikipedia.org/wiki/Spartizione_dell'Africa
La spartizione dell'Africa (detta anche, con termine meno asettico, corsa all'Africa, ma meglio nota in inglese come scramble for Africa, traducibile in "lo sgomitare per l'Africa") fu il proliferare delle rivendicazioni europee sui territori africani, avvenuto tra il 1880 e l'inizio della prima guerra mondiale, nel cosiddetto periodo del Nuovo imperialismo.
Nella seconda metà del XIX secolo ebbe luogo la transizione dall'imperialismo informale, caratterizzato dal controllo attraverso l'influenza militare e la dominanza economica, a quello del governo diretto sul territorio. È di questi anni la nascita degli stati coloniali propriamente detti.


https://it.wikipedia.org/wiki/Schiavismo_in_Africa

https://it.wikipedia.org/wiki/Tratta_at ... i_africani
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 11:10 pm

Agli africani non dobbiamo nulla, poiché hanno sterminato e cacciato quasi tutti i bianchi dal loro continente.

Da decenni gli africani hanno cacciato quasi tutti gli invasori-colonizzatori bianchi europei e cristiani arrivati a partire dal secolo 18°;
li hanno in parte sterminati e in parte cacciati senza alcun risarcimento; i pochi rimasti come in Sudafrica vivono una specie di apartheid e gli africani di quel paese sanno che senza di loro starebbero molto peggio.


Ma gli africani non hanno mai cacciato gli arabi islamici poiché costoro hanno sterminato tutti coloro che potevano ribellarsi e li altri sono stati costretti a convertirsi


Decołonixasion e cołonixasion
viewtopic.php?f=194&t=1822




I bianchi discriminati in Sudafrica
https://it.wikipedia.org/wiki/Razzismo_contro_i_bianchi

Il Sudafrica dopo Mandela: dove la minoranza bianca è discriminata e sotto la soglia della povertà
Giulia Bonaudi - Ven, 04/12/2015
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/i-b ... 01485.html

Dalla fine delle politiche discriminatorie verso i neri in Sudafrica si è verificato una sorta di apartheid all'inverso: oggi ad essere discriminati sono bianchi, molti dei quali infatti sono senza lavoro e senza casa.

Se da un lato i neri hanno subito un processo di empowerment, termine che sta ad indicare la forza e il potere conquistati; dall'altro lato, quasi come se fosse il rovescio della stessa medaglia, i bianchi hanno visto diminuire la loro influenza nella società sudafricana.

Ann le Roux è una donna sudafricana bianca di sessant'anni. Nel 1994, quando Nelson Mandela divenne il primo presidente nero del Sudafrica, viveva in una casa a Melville, un quartiere della città di Johannesburg, con la sua famiglia. Dopo la morte del marito, Ann fu costretta a vendere la sua casa di Melville. A causa delle politiche governative mirate a promuovere l'assunzione dei neri alla fine dell'apartheid. Ad aggravare la situazione della donna è arrivato il licenziamento, avvenuto in seguito a una pausa che si era presa per via del lutto familiare. Sedici anni dopo, Ann è costretta a vivere tra una roulotte e una tenda che divide con altre sette persone, tra cui sua figlia e i suoi quattro nipoti, nel campo abusivo di Coronation Park, a Krugersdorp.

A quanto pare, quindi, vi sono minoranze etniche che hanno la precendeza nella lottta alla discriminazione raziale. E la minoranza bianca sudafricana non sembra rientrare tra queste. Sono i nuovi poveri del Sudafrica, migliaia di bianchi che un tempo appartenevano alla classe media, e che oggi come Ann si trovano costretti a chiedere l’elemosina o a vendere gadget improbabili, annidati nei parcheggi dei supermarket ad aiutare per una manovra, sperando nella generosità di qualcuno. Trovare lavoro poi è diventato impossibile: tanto più che moltissime compagnie hanno smesso da tempo di assumere impiegati bianchi. In molti moduli di accettazione online, una volta arrivati alla richiesta della razza, il processo si interrompe per chi barra la casella ‘white’. Nessuna assunzione per loro.

Si stima che i sudafricani bianchi che oggi vivono nei campi abusivi sono circa 450mila. "Al momento, il nostro colore non è il colore giusto in Sudafrica", ha detto Ann La Roux. Dunque, a conti fatti, sembrerebbe che il Sudafrica è ancora più ineguale di quello del 1994.


Non c’è futuro per bianchi in Sud Africa
sabato 6 settembre 2008

http://www.agoravox.it/Non-c-e-futuro-p ... n-Sud.html

I criminali hanno già preso il potere in Sud Africa e non c’è più un futuro per gli Aficani Bianchi, nativi di questo Paese, oramai.

Questo è uno dei tanti messaggi fatto conoscere da Andries Ludik, Avvocato Sud Africano, molto conosciuto, la cui famiglia è stata attaccata in casa, da criminali,terrorizzata , sua moglie Margot, stuprata in fronte al loro giovane figlio la settimana scorsa.

L’Avvocato racconta: giusto guidando lungo i quarieri periferici, vedo come adesso è il Sud Africa, dappertutto, alti muri e reti elettrificate. Mi sono mosso da Morelatapark (zona vicino Pretoria), per andare in un complesso residenziate sicuro, a nord est di Pretoria, e scopriamo una persona dentro la nostra casa, armata, tutti i soldi spesi per proteggere le nostre vite, di mia moglie e dei miei figli, non è servito, perchè siamo stati attaccati lo stesso.

Essere attaccati e sottoposti ad una serie interminabile di violenze, torturati, e terrrorizzati, da criminali, entrati nelle nostre case, e rimasti impuniti, è semplicemene disgustoso.

Le persone di pelle chiara, i bianchi, sono forzati ad andarsene dal Sud Africa, perchè il regime del Governo, l’ANC, usa una barriere razzista per allontanare dal mercato del lavoro, i bianchi, preferendo solo coloro di pelle scura, e tagliando fuori, coloro che sono semplicemente, bianchi.

La legge sull’Eonomia Africana in Sud Africa, (BEE Law) era stata designata per proteggee la maggioranza della popolazione contro le minoranze. Simili leggi sono usate da altri stati, ma in maniera inversa, per dare alle minoranze, voce e diritti, non come qui che a questi ultimi vengono tolti, visto che i, bianchi sono le minoranze.

La legge sulle minoranze (BEE), assicura che i bianchi non possano mai trovare alcuna sorta di impiego. Basicalmente, questa legge proibisce ai bianchi di lavorare in qualsiasi posto, se vuoi un lavoro devi essere nero. Questo è ridicolo e vergognoso.

Non c’è futuro in Sud Africa per i Bianchi, questa è la realtà, si vive in una nazione, dove il governo non può dare alcuna forma di sicurezza e sopratutto possibilità di gestirsi la vita.



De Klerk: “Oggi il Sudafrica discrimina i bianchi”
L’ex leader che mise fine all’apartheid: neri favoriti in tutto
Lorenzo Simoncelli

http://www.lastampa.it/2014/04/30/ester ... emium.html

Il Sudafrica di oggi è ancora più ineguale di quello del 1994». A vent’anni dalle prime elezioni democratiche del Paese, questo il bilancio di F.W. De Klerk, l’uomo che, insieme a Nelson Mandela, ha messo la parola fine al regime dell’apartheid. L’ex presidente sudafricano, oggi 78enne, dagli uffici della Fondazione a lui intitolata, racconta com’è cambiata la «Nazione Arcobaleno». Cominciando dalle critiche al partito al governo, l’Anc (Africa National Congress), accusato di mettere in atto «aggressive politiche di discriminazione razziale». Un attacco che pesa come un macigno, in un Paese, che ha visto la sua storia martoriata dai conflitti etnici.

In che modo il governo sta discriminando la popolazione sudafricana?

«La decisione di favorire i neri nelle istituzioni pubbliche, così come nell’economia, ci sta portando ad una situazione in cui si viene scelti per il colore della pelle e non per le reali competenze dei singoli. Siamo vicini al punto in cui non ci potremmo più definire una democrazia non razzista. La strumentalizzazione delle cariche pubbliche per promuovere obiettivi di partito e gli attacchi retorici stanno indubbiamente portando ad un deterioramento delle relazioni tra le varie minoranze».

Qual è il bilancio a 20 anni dalle prime elezioni democratiche del Paese?

«L’economia è tre volte quella del ’94, sono state costruite case per il 25% della popolazione, e garantiti servizi base come elettricità e sanità per milioni di sudafricani. Tuttavia siamo una società ancora più ineguale del 1994. Innanzitutto per il fallimento della scuola che non fornisce un’educazione di livello all’85% dei nostri bambini. A questo si aggiunge l’inaccettabile tasso di disoccupazione. Solo il 43% dei sudafricani tra 15 e 64 anni ha un lavoro. Inoltre le tanto acclamate politiche d’uguaglianza hanno sì permesso al 20% della popolazione nera di entrare a far parte della classe media, ma per il 50% degli estremamente poveri è stato fatto poco o niente».

Conoscendo così bene Mandela crede che sarebbe soddisfatto di come il suo partito, l’Anc, sta governando il Paese?

«Sono sicuro sarebbe profondamente dispiaciuto dalla rampante corruzione all’interno dell’Anc e dall’apparente assenza di punizioni da parte del partito stesso nei confronti dei responsabili. Credo sarebbe infastidito anche dal crescente tono razzista dell’African National Congress e dall’effetto negativo che questo atteggiamento aggressivo sta avendo sulla riconciliazione nazionale. Fino al 2007 il partito ha governato abbastanza bene. Da quel momento in poi, a seguito di una svolta radicale, i risultati, ad eccezione della lotta contro l’Aids, sono venuti meno, soprattutto in campo economico e nelle politiche lavorative».

Il 7 maggio ci saranno le elezioni. Il presidente Jacob Zuma è stato più volte fischiato durante la sua campagna elettorale. Crede che il Paese sia pronto ad un cambio di leadership dopo 20 anni di governo dell’Anc?

«Credo che l’Anc perderà molti voti, ma i tempi non sono maturi per un cambio di leadership. Tuttavia non sarei sorpreso se, a breve, le divisioni e le incomprensioni tra le varie anime del partito portassero ad una scissione interna. Sarebbe un positivo passo avanti e aprirebbe le strade ad una coalizione centrista».

Recentemente Zuma è stato accusato di essersi appropriato indebitamente di denaro pubblico (18 milioni di euro circa, ndr) con la scusa di dover incrementare la sicurezza nella sua casa di campagna. Lei si sarebbe dimesso?

«Faccio ancora parte di quella classe politica secondo cui, se sei colpevole di un grosso scandalo, bisognerebbe dimettersi. Non mi sorprenderebbe se dopo le elezioni, Zuma, si accontentasse di una funzione cerimoniale e lasciasse il timone del Paese al suo vice, esattamente come fece Mandela per la gran parte del mandato».

Lei è stato l’ultimo Presidente bianco del Sudafrica, crede che un giorno il Paese tornerà ad averne uno?

«Attendo il giorno che il colore del Presidente del Paese non sarà più un elemento determinante. Se gli Stati Uniti sono riusciti a sviluppare una maturità politica che li ha portati ad eleggere un presidente nero, non vedo perché un giorno un sudafricano bianco non possa essere eletto di nuovo Presidente».



Con il termine assalti alle fattorie s'intendono una serie di ruberie svolte, a danno di proprietari di fattorie, in Sudafrica.

https://it.wikipedia.org/wiki/Assalti_a ... _Sudafrica

Il fenomeno, ancorché diffuso, viene anche strumentalizzato da ambienti di estrema destra (e siti neonazisti come Stormfront) che parlano di fenomeno che manifesta un genocidio boero[3]. A smentire tale visione sono i diversi studi che mostrano come il movente politico/razzista sia solo rinvenibile in un numero limitato di casi (circa il 2% dei casi) e che solo il 60% degli attacchi alle fattorie è rivolto contro bianchi.
L'11 novembre 2011 i parlamentari europei Philip Claeys (di Interesse Fiammingo), Andreas Mölzer (del Partito della Libertà Austriaco), Fiorello Provera (della Lega Nord) hanno presentato una dichiarazione scritta sugli omicidi di agricoltori in Sud Africa.



In Sudafrica uccidere un bianco non è reato
Più di tremila assassinati in quindici anni nei modi più atroci, quasi tutti senza un colpevole. La strage dei boeri viaggia al ritmo di due delitti alla settimana con la compiacenza del governo. Che ha un obiettivo preciso: l’esproprio delle loro terre
Gian Micalessin - Lun, 29/03/2010
http://www.ilgiornale.it/news/sudafrica ... reato.html

Se andate in Sudafrica per i mondiali di calcio fate un salto a Petersburg, nelle province settentrionali. Da quelle parti troverete una collinetta disseminata di croci bianche.

Contatele. Sono più di tremila. Una per ciascun agricoltore bianco ucciso dal 1994, da quando la «rivoluzione colorata» incominciò a cambiare il volto del Paese. Una rivoluzione che, 16 anni dopo, sembra pronta ad approfittare della «distrazione» del mondiale per metter le mani sulle fattorie dei boeri.

Se dunque l’apartheid era ignobile, il silenzio che circonda il clima di violenza e soprusi sofferto dagli agricoltori boeri non sembra migliore. Chiedetelo al 69enne Nigel Ralf. Lo scorso fine settimana Nigel, come ogni giorno da 50 anni, sta mungendo le vacche della sua fattoria di Doornkop nel mezzo del KwaZulu-Natal. Quando quei quattro ragazzotti neri gli si piantano davanti e gli chiedono del latte, Nigel manco alza la testa. «Non vendo al dettaglio» risponde. Un attimo dopo è a terra con un proiettile nel collo e uno nel braccio. Poi i quattro gli sono addosso, lo fanno rialzare, lo colpiscono con il calcio della pistola, lo spingono fuori dalle stalle. Stordito e confuso Nigel si ricorda di sua moglie. Mezz’ora prima l’ha lasciata dentro la fattoria con i tre nipotini. «Lynette, Lynette chiudi la porta, barricati dentro». Lei lo sente, ma non intuisce. S’affaccia, cerca di capire meglio. La risposta sono tre proiettili al petto. La poveretta s’accascia, cade sul letto, agonizza tra le braccia insanguinate di Nigel mentre i bambini urlano terrorizzati e i tre tagliagole fuggono portandosi dietro una vecchia pistola, un telefono e un paio di binocoli. Bazzecole, banalità quotidiane.

Sui giornali non fanno neanche notizia, ma sulla collinetta di Petersburg solo l’altr’anno sono state piantate altre 120 croci bianche. I plaasmoorde - gli assassini di fattoria come li chiamano i boeri - colpiscono ormai al ritmo di un paio di casi a settimana, ma per le autorità, per i capi dell’Anc e per i seguaci del presidente Jacob Zuma la campagna di violenza contro gli ultimi 40mila agricoltori bianchi non è certo un problema. Per capirlo basta seguire le ultime apparizioni pubbliche di Julius Malema, il 29enne leader dell’ala giovanile dell’African National Congress. Per questo «giovane leone» pupillo del presidente il modo migliore per riscaldare le folle accalcate intorno alle sue mercedes blindate è intonare «Dubula Ibhunu», la vecchia canzone dell’Anc il cui titolo significa emblematicamente «Spara al Boero». Un inno rispolverato ed eseguito con spavalda e incurante allegria negli stessi giorni in cui Lynette agonizzava tra le braccia del marito, mentre un altro farmer 46enne veniva freddato dalla salva di proiettili sparati contro la sua fattoria di Potchefstroom e una serie di fendenti massacrava un allevatore 61enne sorpreso nel sonno dagli assalitori penetrati in una tenuta di Limpopo.
Ovviamente chiunque osi collegare il fiume di sangue versato nelle fattorie e la canzonetta cantata a squarciagola da Julius e dalle sue allegre combriccole viene immediatamente tacciato di calunnia e diffamazione. «Quella canzone come molte altre intonate nei giorni della lotta fa parte della nostra storia e della nostra eredità e non può certo esser vietata» precisa con orgoglio un comunicato dell’African National Congress sottolineando lo struggente carattere «sentimentale» delle storiche note.

Peccato che quel rigurgito d’antichi sentimenti nei confronti degli agricoltori bianchi coincida, a livello politico, con il progetto di nazionalizzazione delle fattorie avanzato, negli ultimi tempi, dal dipartimento di sviluppo rurale. La proposta del dipartimento che intende dichiarare assetto d’interesse nazionale tutte le tenute coltivabili di ampie dimensioni potrebbe portare all’esproprio di tutte le terre possedute tradizionalmente dai boeri. E così mentre i tifosi si godranno i mondiali di calcio l’odiato color bianco scomparirà definitivamente dalle campagne del Paese «colorato».



ZIMBABWE, STRAGE DI BIANCHI PER UNA DISPUTA SUI PASCOLI
di PIETRO VERONESE
28 novembre 1987

http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... sputa.html

È stato un massacro infame, senza precedenti per lo Zimbabwe, ex Rhodesia britannica, il paese africano di più recente indipendenza (1980). Sedici bianchi inermi sorpresi alle prime ombre della sera, legati con le mani dietro le spalle, trucidati uno per uno a colpi di machete come bestie da macello. Poi metà dei cadaveri sono stati bruciati. Solo quattro delle vittime erano uomini adulti, sette erano donne. Cinque erano ragazzini o bambini, uno nato da appena sei settimane, un altro di un anno e mezzo. Tutti hanno dovuto affrontare la stessa sorte bestiale. Lo spettacolo che si è presentato alle prime persone accorse nelle due fattorie confinanti dove è avvenuta la strage è stato agghiacciante. Solo in due sono riusciti a nascondersi e a sopravvivere: il piccolo Matthew Marais, di sei anni, i cui genitori e il cui fratellino Ethan di quattro anni non si sono invece salvati, e la giovane Laura Russel. La notizia della strage s' è diffusa in tutto il paese come un' onda d' urto, provocando uno choc collettivo nell' opinione pubblica e soprattutto nella numerosa comunità bianca dello Zimbabwe, quasi tutta residente in fattorie più o meno isolate, che torna a temere per la propria sicurezza. Il governo del primo ministro Robert Mugabe tenta di apparire padrone della situazione. Il ministro dell' Interno Enos Nkala ha ricostruito l' accaduto in una conferenza stampa, aggiungendo che speciali reparti delle forze di sicurezza stanno dando la caccia agli assassini. Ma lo sgomento e la preoccupazione restano. Stando alla ricostruzione del ministro Nkala, tutto ha avuto origine da una banale disputa per il diritto di pascolo sulle terre delle due fattorie rivendicato da alcuni squatters, allevatori di bestiame che la siccità aveva spinto a lasciare le proprie capanne e ad installarsi lì. Ma dietro il massacro sta la ferita aperta della recente storia dello Zimbabwe. La guerriglia nazionalista nera che attraverso gli anni Settanta combatté il regime bianco rhodesiano fino all' indipendenza non riuscì mai a superare la divisione etnica che caratterizza questo paese. A nord gli Shona; a sud, nella regione del Matabeleland, gli Ndebele. Giunti infine al potere nel 1980, i due movimenti nazionalisti che ricalcavano questa divisione entrarono presto in conflitto. Fu soprattutto grazie alla superiorità politica del loro leader, Robert Mugabe, che gli Shona ebbero la meglio. Da allora il Matabeleland ha sempre covato una rivolta larvata ed è rimasta la regione insicura del paese. Mentre i guerriglieri Shona sono stati inquadrati nel nuovo esercito regolare, gran parte degli Ndebele hanno, per varie ragioni, rifiutato tale possibilità. Molti di questi ex guerriglieri Ndebele hanno ripreso la via delle montagne trasformandosi in ribelli e sempre più, col passare dei mesi e degli anni, in puri e semplici banditi. Così il Matabeleland è stato testimone di attacchi, rapine, omicidi ai danni di farmers bianchi o di turisti (un bilancio di oltre 50 morti), ed anche di feroci spedizioni dell' esercito governativo, nel tentativo di pacificare la regione. La situazione è stata vieppiù aggravata negli ultimi tempi dalla siccità che infierisce nel sud dello Zimbabwe. Adams e Olive Tree, le due fattorie dov' è avvenuto il massacro, sorgono a una trentina di chilometri da Bulawayo, il capoluogo del Matabeleland, al centro di quattromila ettari di ottima terra. Sono molto diverse dalle centinaia di altre fattorie che punteggiano il paese e che, lasciate in proprietà ai bianchi dal regime di Mugabe, hanno finora garantito allo Zimbabwe indipendente l' autosufficienza alimentare. Adams e Olive Tree, infatti, erano abitate da una comunità religiosa protestante. Una ventina di persone tutte appartenenti alla Chiesa pentecostale della riconciliazione; non missionari nel senso tradizionale del termine, piuttosto agricoltori che vivevano in comunità. Gente innocente, che parlava della pace, come li ha descritti ieri il ministro Nkala. C' erano due americani, uno scozzese e tutti gli altri tra cui alcune giovani coppie con figli erano cittadini dello Zimbabwe. In conformità ai principi cristiani che ne regolavano la vita, i confini delle due fattorie non avevano né siepi né steccati. La siccità aveva portato gli squatters e il loro bestiame ischeletrito, ma la convivenza si era presto dimostrata impossibile. Ne erano nate dispute e liti. L' argomento era quello che tutti i bianchi dello Zimbabwe conoscono a memoria: Questa terra è nostra, voi bianchi ci avete tolto la terra migliore. La settimana scorsa il governatore della regione, Mark Dube, era venuto a parlamentare con gli abusivi, invitandoli ad andarsene e minacciando di farli trasferire con la forza. Uno dei capi degli squatters, Charles Masuku, si era alzato e aveva detto: Questi bianchi non mangeranno il loro prossimo pranzo. Adesso le autorità ipotizzano che Masuku se ne sia andato a trovare un certo Morgan, alias Gayigusu, noto capo di una banda di banditi-ribelli che da tempo si nasconde sui vicini monti Matopo e periodicamente scende a valle a fare razzie. Come siano andate realmente le cose non si sa; ma Gayigusu è ufficialmente accusato della strage ed è alla sua banda che le speciali forze antiguerriglia stanno dando la caccia, mentre Masuku viene interrogato in prigione. I massacratori hanno lasciato un messaggio scritto in rozzo inglese: via i bianchi dallo Zimbabwe, abbasso Margaret Thatcher, abbasso Mugabe. Hanno lasciato, soprattutto, una lunga scia di paura.



Sudafrica: "Via tutti i bianchi in 5 anni". Massacrati. A quando anche da noi? (Con un'aggiunta).
5 maggio 2017
Mauruizio Blondet
http://www.maurizioblondet.it/sudafrica ... rati-anche

Jacob Zuma, il corrotto presidente del Sud Africa, lo scorso marzo ha espresso il proposito di confiscare le terre dei coltivatori bianchi per redistribuirle ai neri. “Voglio un accertamento dell’uso ed occupazione pre-coloniale delle terre” per decidere quali terreni saranno presi, ha detto: quasi che esistesse un catasto pubblico “pre-coloniale” – mentre i coltivatori bianchi, quasi tutti olandesi (gli inglesi abitano nelle città) si stabilirono nel Seicento a dissodare un paesaggio primordiale di savane incolte, scarsamente popolate; gli Zulu e Xhosa arrivarono dopo, durante il sorgere del cosiddetto Impero Zulu nel 18mo secolo.

Ma il presidente Zuma, dell’ANC (il partito di Mandela), è in difficoltà per il crescere di un partito rivale, Economic Freedom Fighters, che ha come punto centrale del programma la confisca delle terre bianche; indebolito da accuse di corruzione, ha pensato bene di cavalcare questo tema, popolare fra i neri. “Dobbiamo accettare la realtà che quelli che sono in parlamento – ha detto – dove sono fatte le leggi, in particolare i partiti neri, devono unirsi perché ci occorre una maggioranza di due terzi per cambiare la costituzione”, nel rendere legali le confische.

I leader dei partiti di sinistra stanno minacciando di “sgozzare tutti i bianchi, di eliminarli tutti entro cinque anni”, ha raccontato Simon Roche, un sudafricano che ha costituito un gruppo di autodifesa. I rurali, quasi tutti afrikaneers (boeri) si aspettano l’imminente scoppio di una guerra razziale

Da anni, nel silenzio complice dei media e dei politici occidentali, i coloni boeri sono oggetti di rapine, saccheggi assassini commessi da bande di neri. Almeno 3 mila bianchi, uomini, donne e bambini, sono stati massacrati nelle loro fattorie nell’ultimo decennio; la statistica è per difetto, perché lo ANC al poter ha vietato la pubblicazione di statistiche su questi omicidi – “dissuadono gli investimenti esteri” – e la polizia comunque tende a non riportare i fatti.

Secondo una inchiesta indipendente (Genocide Watch) è un vero e proprio genocidio per odio razziale: lo dicono le modalità delle stragi, spaventose. Donne e bambini violentati prima di essere uccisi; uomini torturati per ore; famiglie intere aperte coi machete, le loro interiora asse come festoni alle porte; altri legati ai loro stessi automezzi e trascinati per chilometri, fino alla morte.

Nel 2017 sono stati sterminati in questi orrendi modi settanta coltivatori, in 345 assalti alle fattorie (sempre più sofisticati, di stile militare) nel silenzio generale; del secondo massacro del 2017, avvenuto a febbraio, si sa perché la coppia era inglese e quindi ne hanno parlato i media britannici, anche la BBC. Sue Howart, 64 anni, e il marito Robert Lynn, 66, stavano dormendo nella loro fattoria a 150 chilometri da Pretoria quando, alle 3 di notte, sono stati sorpresi da tre assalitori; i quali hanno torturato il marito con un cannello ossidrico, lo hanno accoltellato selvaggiamente, per fargli confessare dove teneva il denaro (non ne aveva in casa); alla donna hanno bruciato la faccia col cannello. Poi hanno caricato i due, feriti, sul loro camioncino e li hanno portati nella savana. Il marito l’hanno abbandonato con un sacco nero legato alla testa, perché morisse soffocato; alla moglie hanno sparato alla testa (l’autopsia scoprirà che le avevano ficcato un sacco di plastica nella gola). La donna, portata all’ospedale, è morta dopo due giorni di agonia. Il marito, miracolosamente sopravvissuto, ha potuto raccontare com’è andata.

Molto meno descritto il primo fatto del 2017: una coltivatrice di 64 anni, Nicci Simpson, è stata trovata nella sua fattoria del Vaal, a due ore da Johannesburg, in un lago di sangue. I suoi violentatori ed assassini l’avevano torturata per ore con un trapano. Spesso i coloni sono disarmati: il regime ANC ha obbligato tutti a registrare le armi che avevano in casa, e vieta da anni ai bianchi di tenerle legalmente.

La complicità del regime e della sua polizia non sono nemmeno dissimulati: il presidente Zuma (suo nome tribale: Gedleyihlekisa, detto Msholozi) ha celebrato l’anniversario della nascita dell’ANC intonando l’inno “Dubula iBhunu”, ossia “Spara ai Boeri” violando la costituzione sudafricana, ovviamente anti-apartheid, che proibisce ogni “appello all’odio basato sulla razza e costituisca un incitamento alla violenza”.

E’ per questo che, dopo l’annuncio presidenziale di confisca delle terre, molti sudafricani si sono riuniti in un gruppo di autodifesa – Suidalender – che ha approntato un piano: “Raccogliere la nostra gente” dalle fattorie (tutte ovviamente isolate e sparse) e concentrarla in una zona sicura ; non prendere le armi, ma ritrarci dal pericolo”; ha detto Simon Roche, uno dei capi, intervistato da Infowars. E’ un progetto immane: riunire sotto attacco un 20 per cento dei 4,8 milioni di bianchi sudafricani. “Speriamo di salvare 800 mila persone; il nostro protocollo di evacuazione è basato su individui che si collegano con i vicini per radunarsi in luoghi sicuri provvisori…”.

Giova sperare. Sarà da veder se questo esodo disperato, quando avverrà, susciterà l’interesse dei media progressisti. Magari della confisca delle terre e della loro distribuzione ai neri avremo qualche eco, per i rincari e la carestia che questo sicuramente provocherà (è accaduto lo stesso in Angola): il 95% dei generi alimentari in Sudafrica è prodotto dal 3% dei coltivatori, che sono ovviamente i bianchi; è per questo che i neri vogliono le loro fattorie-modello, che ridurranno alla sterilità.

E’ opinione del vostro modesto cronista, che ha conosciuto la realtà sudafricana (e la “cultura” dell’ANC) in diversi servizi sul campo, che con la nostra accoglienza senza limiti ai “migranti” africani, ci stiamo procurando da noi stessi un simile problema. Li vedo sempre più numerosi, agli angoli di certe strade di Milano, tutti giovani, atletici, palestrati, a fare nulla. Non gli ci vorrà molto a capire che possono entrare nel bilocale della pensionata vecchia, sola e indifesa, e sgozzarla e torturarla impunemente per portarle via la pensione. Mi direte che sono razzista? I razzisti sono loro. Li conosco. Conosco la loro crudeltà, la loro invidia, la loro assoluta mancanza di freni inibitori.

Del resto li conosce bene anche la Boldrini, che in Africa c’è stata. Ha annunciato che i migranti sono l’avanguardia del nostro futuro stile di vita. Non certo nel senso sudafricano, io spero.

Per le anime belle che leggono questo sito infestandolo con luoghi comuni:

Ho dimenticato di aggiungere come i negri sudafricani (povere vittime dell’uomo bianco) massacrano alla grande, molto volentieri, gli immigrati negri che vengono a a cercare lavoro dalla Nigeria, dal Malawi, dalla Somali. Gli omicidi sono quotidiani. Spesso con la «collana di fuoco », uno pneumatico incendiato e attorcigliato al collo della vittima.

Chissà perché Bergoglio, Boldrini e Soros, Medecins sans Frontières etceteranon fanno mai la lezione a questi eroi.

Forse perché “è la loro cultura”. Loro hanno diritto alla “loro cultura”. Noi no.
Un immigrato non gradito a Johannesburg.
UN somalo di 25 anni massacrato per rubargli il telefonino.

http://pulse.ng/books/southafrica-xenop ... 95006.html
Il re zulu Goodwill-Zwelithini, lieto incitatore dello sterminio degli immigrati (2015).
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio feb 23, 2017 10:08 am

All'Africa arabizzata e islamizzata del nord, gli europei non devono proprio nulla o almeno io non sento di dover alcunché;

quest'Africa islamica è quella che ha sterminato e cacciato i cristiani e gli ebrei che ivi vi abitavano da secoli, che poi ha invaso militarmente l'Europa e che per secoli ha esteso il suo imperialismo in Spagna e nei Balcani, che ha depredato e schiavizzato le genti lungo le coste dell'Europa mediterranea:


Islam è religione di guerra e violenza non di pace
viewtopic.php?f=188&t=2024

Islam e persecuzione e sterminio dei cristiani (creistianfobia)
viewtopic.php?f=181&t=1356

Imperialismo islamico da Maometto ai giorni nostri
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 0147022373

L'Islam e la schiavitù
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 0147022373

Li schiavi degli islamici, degli arabi, dei turchi
viewtopic.php?f=149&t=1336
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio feb 23, 2017 10:10 am

Nigeria, undici milioni di persone alla fame per colpa di Boko Haram
febbraio 10, 2017

http://www.tempi.it/nigeria-undici-mili ... J8Qd39-YlB

Un rapporto della Fao (Onu) denuncia «condizioni catastrofiche» per oltre 120 mila cittadini. «La più grave crisi umanitaria in Africa si aggraverà tra giugno e agosto»


Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Abuja, 9. Tragedia annunciata in Nigeria. L’Onu denuncia per i prossimi mesi «condizioni catastrofiche» per oltre 120.000 cittadini e carenze alimentari per 11 milioni di persone, a causa del persistere delle violenze di Boko Haram, che sparge terrore dal 2014. In questi anni gli estremisti hanno ucciso circa 20.000 persone, oltre ad aver provocato più di due milioni di sfollati. Il governo prosegue la sua battaglia contro il gruppo ma le violenze continuano.

Il rapporto, della Food and Agriculture Organization (Fao), prevede che «la più grave crisi umanitaria in Africa, nel nord-est della Nigeria, si aggraverà tra giugno e agosto». Le tendenze — si legge nel rapporto — mostrano che la sicurezza alimentare e nutrizionale sta sempre più venendo meno.

Agenzie dell’Onu hanno già avvertito nei mesi scorsi che molti bambini stanno morendo e che oltre 500.000 persone potrebbero andare incontro alla morte se non riceveranno aiuti. La malnutrizione colpisce almeno 400.000 minori nelle zone dove più alto è il livello di conflittualità.

Nei tre stati più colpiti, Borno, Yobe e Adamawa, le attività agricole sono state interrotte e i raccolti distrutti, le riserve di cibo sono esaurite e spesso vengono saccheggiate, il bestiame viene ucciso o abbandonato.

Si tratta delle zone dove il gruppo terrorista Boko Haram imperversa da anni. Nel 2009 è stato catturato e giustiziato il fondatore di Boko Haram, Mohammed Yusuf, ma il gruppo non ha perso potere e ha installato basi anche in paesi limitrofi come il Ciad, il Niger e il Camerun.

L’impatto sui bambini è già devastante. Se la situazione non cambia, nel prossimo anno la maggior parte dei minori che già soffrono di malnutrizione saranno in una condizione acuta grave che li esporrà alla morte.

In particolare nel Borno, dove i combattimenti sono diventati terribilmente violenti, il 75 per cento delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie e il 30 per cento di tutte le strutture sanitarie sono state distrutte, saccheggiate o danneggiate. Nello stato di Borno è nato il gruppo Boko Haram, che ha l’obiettivo di combattere tutto ciò che è occidentale e di ripristinare una sharia senza compromessi con la modernità.

È emergenza umanitaria anche nel sud est del Niger, zona di confine con la Nigeria, dove si riversano centinaia di migliaia di persone che subiscono le conseguenze del conflitto tra Boko Haram e le forze armate della Nigeria. Nonostante gli sforzi delle organizzazioni umanitarie, non c’è una risposta soddisfacente alle sofferenze della gente e alla carenza di cibo.

Oltre agli attacchi delle milizie jihadiste dei Boko Haram, il paese soffre la recessione dovuta alla crisi dei prezzi del greggio.



Petrolio. Una guerra mondiale
settembre 24, 2016 Leone Grotti

Un conflitto “senza esclusione di pozzi” che non produce montagne di morti ma sta facendo a pezzi interi paesi. E non ci sono tregue in vista. Perché riguarda anche il controllo dell’islam

http://www.tempi.it/petrolio-guerra-mon ... J8Rvn9-YlB

Nel 2008, l’anno in cui scoppiò la crisi che ancora fa arrancare le economie di tutto il mondo, un barile di greggio costava in media circa 135 dollari. Quest’anno, con la stessa cifra, se ne possono comprare quattro, se non di più. Il petrolio è sempre stato un veliero esposto alla bora e alla bonaccia del mercato ed è normale che il suo prezzo oscilli a seconda del momento storico: negli ultimi trent’anni è passato dai 13 dollari del 1986 ai 35 del 1990, dai 13 del 1999 ai 135 del 2008. Da fine 2009 il prezzo dell’oro nero si è stabilizzato intorno ai 90-100 dollari al barile e da lì non si è più mosso fino al 2014, quando è cominciato un crollo verticale che se da un lato ha favorito paesi come l’Italia, dall’altro ha spaventato gli sceicchi dell’Arabia Saudita (98 miliardi di deficit nel 2015), danneggiato giganti africani come la Nigeria (in recessione, costretta a svalutare la moneta locale rispetto al dollaro del 50 per cento) e letteralmente rovinato stati sudamericani detentori di enormi riserve come Venezuela e Brasile.

Il mercato è capriccioso e può essere crudele, ma in questo caso le fortune e le rovine di tanti produttori non sono dettate solo dalla legge della domanda e dell’offerta, bensì dalla precisa strategia politica di chi vuole usare l’oro nero come un’arma. E da questo punto di vista, un barile di petrolio a prezzo stracciato può fare più danni della bomba atomica nordcoreana.

Domanda, offerta e colpi bassi
Sicuramente non mancano le ragioni che hanno portato alla diminuzione della domanda di petrolio: la crisi che ha azzoppato l’economia mondiale, il rallentamento della Cina, che cresce ancora del 6,9 per cento ma che ci aveva abituato a balzi annuali di oltre il 10, l’avanzamento della tecnologia che garantisce migliori prestazioni a parità di consumi, il boom del gas naturale (vorrà dire qualcosa se quest’anno la Shell ha completato l’acquisizione più onerosa della storia: 70 miliardi di dollari per British Gas) e l’aumento della produzione degli Stati Uniti, il più grande consumatore del pianeta, che grazie allo shale oil è diventato autosufficiente.

Insieme alla diminuzione della domanda, c’è stato anche un eccesso di offerta dovuto a diversi fattori: prima di tutto l’irruzione nel mercato del citato shale oil americano, il petrolio di scisto grazie al quale gli Stati Uniti hanno raddoppiato la produzione dal 2008 superando i 9 milioni di barili al giorno; poi quella dell’Iran, che dopo la firma del trattato sul nucleare l’anno scorso ha potuto ricominciare a estrarre e vendere greggio a ritmi elevati.

Il calo della domanda, a fronte di una maggiore offerta, non basta però a spiegare il crollo del prezzo del petrolio. La situazione attuale è dovuta anche a una precisa scelta politica di alcuni paesi riuniti nell’Opec, il club degli esportatori di petrolio, che controllano circa il 78 per cento delle riserve mondiali accertate e forniscono circa il 42 per cento della produzione mondiale. L’Arabia Saudita, insieme ai suoi alleati nel Golfo, nel novembre del 2014 si è infatti rifiutata di limitare la produzione, nella speranza di mettere in ginocchio concorrenti già in difficoltà come Iran e Russia, e danneggiare quei produttori che hanno bisogno di prezzi alti per sostenere l’estrazione, come gli Stati Uniti. Il risultato di questa guerra del petrolio, però, non è stato quello che i sauditi si aspettavano.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, se all’inizio del crollo dei prezzi centinaia di aziende che si erano lanciate nello shale oil sono state costrette a chiudere i battenti, strangolate dalla corsa al ribasso, nel giro di un anno e mezzo il settore si è ripreso, grazie a una tecnologia sempre più efficiente e meno costosa. Secondo Wood Mackenzie, un leader globale nella consulenza energetica, da quando è cominciata la crisi dei prezzi gli Stati Uniti hanno tagliato il costo di estrazione del greggio del 30-40 per cento, contro una media mondiale del 10-12. Oggi il 60 per cento degli investimenti petroliferi che possono fruttare, anche se il prezzo del greggio rimane intorno ai 60 dollari al barile, riguarda lo shale oil americano.

Il ritorno in campo dell’Iran
Ma se l’Arabia Saudita ha incrementato la sua produzione al livello record di 10,7 milioni di barili al giorno, allagando così il mercato di petrolio a basso costo, lo ha fatto anche per colpire il suo arcinemico: l’Iran. «Anche in questo caso, però, ha fallito», spiega a Tempi Alberto Negri, inviato di guerra del Sole 24 Ore, profondo conoscitore del Medio Oriente. «Prima della Rivoluzione, nel 1978, Teheran produceva 6 milioni di barili al giorno. Dall’accordo sul nucleare del luglio 2015 può tornare a produrre e vendere come prima: ora l’obiettivo iraniano è pompare petrolio come un tempo». Esattamente quello che i sauditi non vogliono, «visto che la guerra tra Teheran e Riyad va avanti su tutti i fronti: dalla Siria, dove i sauditi vogliono buttare giù l’alleato sciita dell’Iran, Assad, allo Yemen, dove gli sceicchi sunniti cercano di sconfiggere i ribelli Houthi. La guerra tra le due potenze non è solo per il controllo del Medio Oriente, ma anche per quello dell’islam». Non a caso, quando ad aprile i paesi dell’Opec si sono riuniti in Qatar per discutere di come far rialzare i prezzi, magari frenando la produzione, l’Arabia Saudita si è opposta, essendo disposta a rimetterci ancora pur di contrastare l’Iran. Teheran però è ancora in piedi, ha raggiunto una produzione di 3,6 milioni di barili al giorno e non ha alcuna intenzione di fermarsi.

petrolio-prezzo-greggio-1986-2016

Anche gli Stati Uniti, per quanto inizialmente danneggiati, hanno approvato la politica saudita pur di rovinare la Russia e danneggiare l’odiato Vladimir Putin. «Teniamo anche conto – continua Negri – che l’Arabia Saudita resta il principale alleato degli Stati Uniti nel Golfo, anche se fomenta l’ideologia islamica più conservatrice. Negli ultimi cinque anni hanno venduto 100 miliardi di armi agli sceicchi: direi che è chiaro da che parte stanno». Nonostante lo sforzo congiunto, anche Mosca, l’ottavo paese al mondo per riserve petrolifere, per quanto in crisi ha retto l’urto. A crollare davanti alla spregiudicata politica dei paesi del Golfo sono stati altri, a partire dal Brasile e dal Venezuela, che vanta le più ampie riserve petrolifere del pianeta. Eppure, sotto la guida di Nicolás Maduro, lo stato sudamericano che dipende quasi interamente dalle esportazioni di greggio è sprofondato nella crisi, con una crescita negativa dell’8 per cento, un tasso di inflazione vicino al 500 per cento e il rischio che le sue riserve valutarie si esauriscano entro l’anno.

La stessa Arabia Saudita però si è scottata: il petrolio vale il 70 per cento dei ricavi sauditi e nonostante i bassi costi di estrazione, Riyad ha chiuso l’anno con un deficit del 15 per cento e ha dovuto usare 115 miliardi di dollari di riserve estere per ripianare i conti. Anche per questo il governo ha annunciato da poco un piano post-petrolifero intitolato “Visione per il regno dell’Arabia Saudita”, nel quale sono state proposte riforme economiche e sociali. Il “Programma di trasformazione nazionale”, pubblicato a giugno, dettaglia la prima fase di riforme annunciate nel documento di aprile, tra cui la privatizzazione del 5 per cento della compagnia petrolifera di Stato, Saudi Aramco, tagli ai sussidi su acqua ed elettricità, l’aumento delle tasse e l’istituzione di un fondo sovrano attraverso cui reinvestire i proventi del petrolio. «L’obiettivo è diversificare l’economia», spiega Negri. «Ma non basta spostare i soldi. Deve cambiare il sistema, la mentalità, l’ambiente sociale e politico. Dubito fortemente che un paese dove le donne non possono guidare, non si vota e circa il 50 per cento della manodopera è straniera e sottopagata possa farcela».

Mai mettersi d’accordo
Sia per il fallimento dei piani originari, sia per le difficoltà economiche incontrate e sia perché ora i sauditi, secondo fonti Opec citate da Reuters, hanno bisogno di prezzi più alti per il greggio «per meglio vendere le azioni della compagnia petrolifera di bandiera», molti pensano che alla prossima riunione dei paesi petroliferi ci sarà un deciso dietrofront. L’incontro avverrà dal 26 al 28 settembre ad Algeri, ma cambiare non è facile. «Non mi sembra possibile che Iran e Arabia Saudita si mettano d’accordo, non finché i sauditi hanno questo atteggiamento aggressivo. Se fossi un iraniano, non cederei di un millimetro», continua Negri. Altre fonti industriali citate sempre dall’agenzia Reuters sono altrettanto scettiche: «Non penso che il ministro per l’Energia saudita, Khalid al-Falih, voglia davvero tagliare la produzione saudita. Piuttosto faranno più attenzione a mettere in atto politiche che allaghino ancora di più il mercato di petrolio».

Sul tavolo c’è una proposta di limitare la produzione mondiale, o perlomeno di congelarla allo stato attuale, ma l’accordo è ancora di là da venire e nessuno sembra realmente intenzionato a deporre le armi petrolifere. Anzi, l’Arabia Saudita non ci sta a fare la parte del paese indebolito. «Possiamo aumentare la nostra produzione anche a 12,5 milioni di barili al giorno», ha minacciato il ministro Al-Falih, spaventando i mercati. Poi però ha aggiunto: «Ora il mercato è saturo e non vedo la necessità per il regno di raggiungere la sua massima capacità».

La verità è che l’Opec non sembra più essere in grado di guidare la politica petrolifera. «L’organizzazione è in declino», conclude il giornalista del Sole. «Basta guardare i suoi paesi fondatori: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela. Da cinquant’anni tutti tranne il Venezuela, invece che mettersi d’accordo, non hanno ancora smesso di farsi la guerra».




La Nigeria è uno dei paesi piu' corrotti nel mondo (144simo su 177 per "Transparency International"), dove quasi il 70% della popolazione vive sotto il livello di poverta'.
http://www.invisible-dog.com/nigeria_giant_ita.html
Una corruzione cosi' vorace che viene stimato che, dall'indipendenza ad oggi, circa 400 miliardi di dollari siano spariti nelle tasche di pochi noti. Tra le strutture dello Stato, i piu' corrotti sono i poliziotti, seguiti dalla classe politica e dalla magistratura. Il primato incontrastato in questa gara a chi ruba meglio e' storicamente assegnato all'ex presidente Sani Abacha che negli anni '90 si impossessava sistematicamente del 2-3% del prodotto interno lordo. Ma a questa competizione hanno partecipato un po' tutti i presidenti nigeriani, senza distinzioni di religione o di etnia.

La corruzione al potere

L'attuale, Goodluck Jonathan, in carica dal 2011, sta facendo anche lui abbondantemente la sua parte con la fattiva concorrenza dei suoi ministri. La ministra del Petrolio, Diezani Madueke, e' in forte odore di corruzione anche perche' gestisce la fetta piu' grossa degli introiti dello Stato. Nessuno pero' indaga. Anzi, Jonathan si e' subito dedicato ad attingere dalla stessa torta. E' del febbraio 2014 la decisione di una commissione di inchiesta del Parlamento nigeriano di annullare la vendita dei diritti di sfruttamento del blocco OPL245 con riserve stimate pari a 9 miliardi di barili di greggio. Originariamente assegnato alla Malabu Oil, societa' fondata da un figlio di Abacha e dall'allora ministro del Petrolio, e' stato "comprato" per 1,1 miliardi di dollari dall'Eni - attraverso la controllata Agip - per tramite della Shell. L'esorbitante cifra e' stata pero' filtrata prima dalle autorita' nigeriane e poi dalla Malabu, che ne ha dirottato le somme su tutta una serie di conti intestati a dei prestanome. Il sospetto e' che fra i beneficiari occulti vi sia lo stesso presidente Jonathan. Non e' chiaro adesso che fine faranno i soldi versati dalla societa' italiana e se verranno o meno restituiti.

Ma purtroppo oramai la corruzione in Nigeria e' un evento sistematico. Chi ha potere ruba. In Nigeria pero' sulla corruzione si e' creato un sistema di sopravvivenza e di sussistenza. E' la componente essenziale su cui si basa il sistema economico del Paese. E questo fenomeno e' cosi' diffuso che oramai non fa notizia o scandalo. E' parte delle regole del gioco se vuoi vivere in quella parte di mondo.

Quello che fa della Nigeria un caso speciale, o terribilmente banale a seconda dei punti di vista, e' la sua enorme ricchezza petrolifera che potrebbe, almeno teoricamente, garantire al paese piu' popoloso d'Africa un tenore di vita dignitoso. Infatti tutto gira intorno al petrolio ed al gas che rappresentano il 95% degli introiti di valuta pregiata dello Stato e che quindi alimentano l'intero apparato amministrativo e corruttivo. Un flusso annuo di circa 100 miliardi di dollari che soddisfa gli appetiti di pochi, lasciando nel contempo la stragrande maggioranza della popolazione nell'indigenza piu' assoluta.


A chi tutto, a chi niente

Il 25% dei nigeriani e' infatti disoccupato. Il 70% e' impiegato nell'agricoltura. Il 40% e' analfabeta. L'industria petrolifera, che da sola potrebbe assorbire tutta la disoccupazione, impiega soltanto il 10% della popolazione. Se il reddito pro-capite e' di circa 2.700 dollari l'anno, sono molti quelli che di polli ne mangiano quattro e ancora di piu' quelli che non ne vedono nemmeno uno. L'industria e' inesistente, le infrastrutture scandenti ed il petrolio e' divenuto la tipica manna che in Africa sovente fa rima con disgrazia. Non per tutti, certo. La Nigeria e' uno dei maggiori importatori di autovetture di lusso del continente: Porsche, Ferrari, Mercedes circolano abbondantemente per le strade di Abuja e Lagos. Ma questo non deve impressionare perche' tra i 40 uomini piu' ricchi dell'Africa, 11 sono nigeriani.

Il risultato di questa sperequazione nella distribuzione della ricchezza ha degli inevitabili risvolti sociali, un crescente malcontento popolare che sta rendendo endemiche forme di rivolta e terrorismo. Quello di matrice integralista islamica, come i Boko Haram, trova giustificazione e proseliti non solo per motivazioni religiose, ma soprattutto per questioni economiche. E non e' un caso che sia l'Islam il veicolo di questo risentimento perche' le popolazioni del nord della Nigeria, a maggioranza di fede islamica, sono le piu' povere del Paese.

Nello stato di Sokoto, uno dei 36 Stati federali in cui e' articolata la Nigeria, abitato dagli Haussa e geograficamente posizionato ai confini settentrionali, il tasso di disoccupazione e' oltre l'80%. Nel sud invece, dove sono presenti le riserve petrolifere, la percentuale dei senza lavoro e' la meta'.

Dal malcontento al terrorismo

Il divario sociale tra cristiani e musulmani si traduce in un pretesto per interpretare in chiave religiosa un problema sociale ed economico.

Se nel nord della Nigeria e' Boko Haram a canalizzare il malcontento popolare, nel delta del fiume Niger lo stesso ruolo lo svolge il MEND (Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger). Nel suo logo ufficiale c'e' scritto "non-violento, progresso, liberta'", ma nella realta' anche questo gruppo fa della lotta armata uno strumento di lotta politica. Il MEND non ha una connotazione religiosa, anche se le minacce proferite contro i Boko Haram di vendicare gli attacchi contro le chiese lascerebbero pensare una prevalenza di militanti cristiani.

Quello che invece accomuna il MEND con i Boko Haram e' il comune denominatore anti-establishment. Il movimento, infatti, rivendica i diritti della popolazione locale ad avere maggiori introiti sullo sfruttamento del petrolio (in quell'area ci sono molti pozzi) e lotta anche contro l'inquinamento ambientale che pregiudica lo svolgimento di attivita' alternative, come l'agricoltura o la pesca. Il governo nigeriano ha cercato in passato di negoziare con il MEND, nel 2009 era stata firmata un'amnistia per circa 26mila combattenti, sono stati promessi degli incentivi economici che pero' non sono mai arrivati. Il risultato e' che nel 2013 il MEND ha ripreso la propria lotta armata finanziata da rapimenti ed estorsioni nei confronti delle societa' petrolifere operanti sul loro territorio, con il contrabbando di greggio e di armi. Il ritorno alle armi e' anche coinciso con la condanna per terrorismo a 24 anni di carcere in Sudafrica del leader storico del movimento, Henry Okah.

Un gigante dai piedi d'argilla

Se dai dati statistici la Nigeria e' un paese economicamente florido, con una crescita economica del 6-8% all'anno, sono altri i numeri da tenere invece d'occhio. La crescita demografica e' al 3,8%, il che significa per un paese di circa 300 milioni di abitanti il raddoppiarsi della popolazione nel giro di 20 anni circa. Senza una politica redistributiva del benessere, quel 40% della popolazione che oggi ha meno di 14 anni, sommato al 19% che non supera i 24, danno come risultato il caos e la violenza sociale. Se si proiettano questi dati nel futuro, i problemi sociali della Nigeria di oggi saranno sicuramente minori di quelli della Nigeria di domani. Per quanto possa sembrare un paradosso considerarlo un dato "positivo", il fatto che l'aspettativa di vita media in Nigeria sia appena di 52 anni e' un dato che potrebbe mitigare la crescita demografica. Lo stesso dicasi delle stime della World Health Organization secondo cui le morti infantili in Nigeria rappresentano il 14% del totale mondiale.

Sul piano dei diritti umani, la Nigeria e' da sempre sul banco degli imputati. In teoria c'e' la liberta' di stampa, ma gli arresti o la sparizione di giornalisti sono eventi ricorrenti soprattutto se si scrivono articoli contro i potenti, presidente compreso. Anche il sistema giudiziario e' teoricamente indipendente, ma la corruzione e' quella che determina le sentenze. E la polizia indaga se la paghi, arresta o ti libera se la paghi, accusa o ti assolve se la paghi.

Se i Boko Haram sono accusati a buon titolo di crimini contro l'umanita', e per questo inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche (dal settembre 2013 dal Regno Unito e da novembre 2013 dagli USA), non godono di migliore reputazione le forze di sicurezza nigeriane, additate per la sistematica violazione dei diritti umani. E da quando, nel maggio 2013, il presidente Jonathan ha imposto lo stato di emergenza in alcuni Stati del nord, gli abusi hanno acquisito caratteristica di sistematicita': da un lato le efferatezze dei Boko Haram contro la popolazione, dall'altra gli arresti indiscriminati, le torture, le uccisioni extra-giudiziarie, le estorsioni e violenze commesse da militari e polizia. A questa gara a chi fa peggio si sono poi aggiunti anche i gruppi armati di autodifesa autorizzati dal governo che, con la scusa di difendere la popolazione dagli integralisti islamici, , hanno attivamente contribuito alle violazioni. In mezzo ci finisce come vittima predestinata la popolazione civile, a cui e' talvolta riservato il lusso di scegliere da parte di chi subire le angherie, e fra essa la sua parte piu' vulnerabile, le donne.

Il problema sono quindi le priorita' che si da un paese, o una comunita' internazionale. In Nigeria non si rischia di finire in galera per corruzione, tanto piu' se hai degli amici influenti, o per il fiorente narcotraffico che fa del paese uno dei ponti per l'arrivo in Europa della droga, ma puoi essere condannato a 14 anni di carcere se contrai un matrimonio gay, o a 10 anni se esibisci in pubblico la tua omosessualita'. Questi provvedimenti, in vigore dal 14 gennaio 2014, sono stati fortemente voluti dal presidente Jonathan, in calo di consensi e che ha pensato bene di tirare fuori il classico coniglio dal cilindro. Nel 2015 i nigeriani andranno al voto per eleggere un nuovo presidente e Jonathan non ha ancora sciolto le riserve su una sua ricandidatura.

Bisognerebbe domandarsi perche' tutto cio' avvenga in Nigeria, alla luce del sole e nella disattenzione piu' totale dell'opinione pubblica mondiale. La risposta e' semplice : perche' la Nigeria e' un grande Paese, economicamente e demograficamente emergente, pieno zeppo di petrolio e di materie prime, forte contributore alle missioni internazionali dell'Onu. E questo basta e avanza per assolvere la coscienza di molti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio feb 23, 2017 10:16 am

Non è colpa nostra se in molti paesi africani come in Nigeria fanno 6 figli e più a coppia, che poi muoiono di fame o che vengono abbandonati e cacciati per le loro supertizioni religiose.
Non dobbiamo certo mantenerglieli noi che abbiamo difficoltà a fare figli perché la vita in Europa e nell'occidente è difficile e ci soffoca per il costo, le tasse, la complessità, le ingiustizie, la povertà.



http://www.limesonline.com/mar-dafrica/94854?prv=true
Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... Africa.jpg




Il più popoloso paese dell'Africa,
https://it.wikipedia.org/wiki/Demografia_della_Nigeria

la Nigeria conta all'incirca un quarto degli abitanti dell'Africa occidentale, inoltre più di 24 città del Paese superano i 100.000 abitanti. La grande varietà di usi e costumi, lingue e tradizioni tra i 250 gruppi etnici della Nigeria danno al paese una ricca diversità.
Il gruppo etnico dominante i due terzi settentrionali del paese è quello Hausa-Fulani, la grande maggioranza dei quali è di fede islamica. Altri gruppi etnici maggiori del nord sono i Nupe, i Tiv, e i Kanuri.
La popolazione Yoruba è predominante nel sud-ovest. Più della metà degli Yoruba è Cristiana e circa un quarto è di fede islamica, mentre la rimanente parte segue religioni animiste tradizionali. Gli Igbo, in maggioranza Cristiani, sono il gruppo etnico maggioritario nel sud-est. Il cattolico è il culto più seguito, ma anche la Chiesa evangelica e pentecostale hanno un buon seguito. Gli Efik, gli Ibibio, e i Ijaw (il quarto gruppo etnico del paese per numero) assommano ad un buon numero degli abitanti dell'area. La lingua di comunicazione utilizzata tra persone di etnie diverse è l'inglese, prevalentemente in una versione semplificata detta comunemente broken english o pidgin english. Molti Nigeriani, oltre alla lingua della propria etnia, ne conoscono spesso almeno una seconda. Hausa, yoruba, e igbo sono le lingue nigeriane usate più largamente.

http://popolazione.population.city/nigeria

https://populationpyramid.net/it/nigeria/2016




Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... tregon.jpg


Abbandonato perché ritenuto uno stregone. Una volontaria lo salva: "Questa è la ragione per cui mi batto"
L'Huffington Post
16/02/2016
http://www.huffingtonpost.it/2016/02/16 ... 41618.html

L'hanno ribattezzato Hope come la speranza in cui credere sempre. Hope, bambino nigeriano di due anni, è stato abbandonato dalla sua famiglia perché ritenuto uno stregone. Quando Anja Ringgren Loven, volontaria danese dell'African Children’s Aid Education and Development Foundation, l'ha notato non ha potuto far altro che avvicinarsi con in mano una bottiglietta d'acqua per farlo bere.
Sul suo post su Facebook Anja ha scritto: "Questa serie di immagini mostrano il motivo per cui mi batto. Perché ho venduto tutto quello che possiedo. Perché mi sto muovendo su di un territorio inesplorato".

La volontaria è la responsabile dell’African Children’s Aid Education and Development Foundation, fondata da lei stessa 3 anni fa, con l'obbiettivo di aiutare i bambini che subiscono inimmaginabili e inaudite violenze dopo essere stati etichettati come strega o stregone. I più piccoli sono trascurati o perfino uccisi dagli stessi membri della comunità.

Hope girovagava nudo per il villaggio e ha vissuto rovistando tra gli scarti gettati per strada dai passanti per 8 mesi sin quando ha incrociato Anja che l'ha preso in braccio, coperto e portato all'ospedale più vicino.
"Ore le sue condizioni sono stabili e continuano a migliorare, infatti, ha ripreso a mangiare e la cura sta avendo i risultati sperati. Oggi è un bambino forte e ci sorride. Non so proprio come descriverlo a parole. Questo è ciò che rende la vita così bella e preziosa, e quindi lascerò che le immagini parlino da sole", ha detto.

Due giorni dopo aver chiesto aiuto per le spese mediche di Hope , ha ricevuto 1 milione di dollari in donazioni da tutto il mondo.
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