All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » sab dic 02, 2017 9:58 pm

???

Usa sponsor dell'immigrazione in Italia per destabilizzare l'Europa
AFRICA di SERGIO BIANCHINI
2 Dic 2017

http://www.lindipendenzanuova.com/afric ... migrazione

Sgombriamo il campo da un equivoco voluto e sostenuto che confonde tutti i termini della questione.

I duecentomila africani all’anno che dal 2014 vengono prelevati in Africa e siringati in Italia non c’entrano niente con le classiche migrazioni.

Le migrazioni classiche sono legate allo sviluppo ineguale dei territori ed alla dinamica della domanda e dell’offerta di impieghi e di lavoro. I nostri emigrati sono sempre andati là dove li volevano, Svizzera Belgio Stati Uniti, Argentina. Per invogliarli ad arrivare nel lontano continente americano fu inventato lo ius soli.

I nostri emigranti andarono a lavorare e vivere non forzando mai gli ordinamenti e le leggi degli stati .

C’è qualcosa di blasfemo nel paragone tra i nostri gloriosi emigrati e la tolleranza verso l’immigrazione illegale che ci viene richiesta in loro nome.

Anche la gran massa degli immigrati in Italia negli ultimi 30 anni è in generale legata, anche se con enormi eccezioni e sanatorie, alla dinamica domanda offerta. La graduatoria degli ingressi in base a quella legge della domanda e dell’offerta è prevalentemente dai paesi dell’oriente (Romania, Albania, Ucraina, Moldavia, Cina) e del nord Africa a cominciare dal Marocco.

La novità scattata nel 2014 è invece un fenomeno completamente diverso. Gli Africani, provenienti dal centro africa, sono accompagnati fino alle coste della Libia e lì prelevati e portati in Sicilia. Si traveste questo prelievo con la favola del salvataggio ma ormai tutte le riprese dimostrano che sono veri e propri prelievi concordati in acque tranquille nei pressi delle coste libiche. Il numero annuale di questi prelievi è programmato in 200.000 unità l’anno ed anche l’apparente piano di svolta della Gabanelli (probabile erede della Bonino) prevede 200.000 prelievi l’anno e 20.000 impiegati statali addetti alla loro gestione.

I 200.000 non sono legati ad alcuna necessità e realtà economica e vivono solo di sussidi statali e di un accattonaggio (e di furti, rapine, spaccio) che ormai a vista d’occhio occupa tutti i centri commerciali, le chiese i mercati e che non accenna a diminuire anzi cresce in modo galoppante. 200.000 prelievi l’anno sono accuratamente concepiti come una necessaria massa critica, una massa d’urto sulla società italiana ed europea a cui bisogna impedire uno sviluppo proprio e naturale. Diventeranno presto, col meccanismo dei ricongiungimenti una presenza di almeno 500.000 all’anno.

In questa situazione gli appelli all’accoglienza ed i discorsi sull’equa ripartizione che renderebbe sopportabile l’introduzione sarebbero accettabili solo se venisse d’ora in avanti interrotto il prelievo. Ma tutti sanno che non sarà così. Anche la linea Minniti è assolutamente ingannevole e solo propagandistica. L’accusa secondo cui non prelevando si condannano gli africani ai lager libici ha qualcosa di sottilmente diabolico ed è chiaramente finalizzata a mantenere i prelievi.

Il prelievo africano non ha niente a che fare con la maggiore o minore apertura verso l’immigrazione. È una forzatura politico-militare dei fenomeni e degli equilibri europei all’interno dello scontro mondiale e della crisi dell’egemonia USA. La cosa è galoppante dal 2014, dopo la distruzione del sistema libico. Proprio nel 2014 Prodi è stato nominato commissario ONU per il Sahel in totale sintonia col presidente OBAMA.

Gli africani sono la carne da trapianto (non più da cannone) per destabilizzare l’Europa partendo dall’Italia che è l’anello debole.
La tradizionale forte presenza cattolica in Africa viene usata dal mondialismo per arruolare il cattolicesimo nella sua strategia politico -militare sfruttando la carità cristiana che da secoli opera in quelle aree sub sahariane. Ricordo che fin da piccolo partecipai a Brescia ad incontri dei padri Comboniani che raccontavano le vicende dell’Africa e spiegavano che in Africa non bisognava portare i pesci ma la canna da pesca.

L’attuale convergenza tra il mondialismo politico militare e l’ultimismo cattolico forse non durerà a lungo, perché la chiesa non è la stessa cosa del sistema imperiale delle multinazionali che operano cinicamente per il loro vantaggio politico, economico e militare. Nessun politico ha ancora risposto alla richiesta del Papa di quantificare la reale capacità di ricezione del nostro paese.

La chiesa cattolica ha nell’ultimismo uno dei suoi messaggi millenari a cui si è sempre attenuta e ancora oggi si attiene. Ma se vogliamo la salvezza del nostro paese e dell’Europa dobbiamo contrastare anche sul piano culturale il mondialismo politico-militare e l’africanizzazione forzata.

Per l’Africa che cresce di 40 milioni di persone l’anno un prelievo italiano di 200.000 è niente. Ma per noi è fatale. Il mondialismo non ama gli africani anche se vuole farli amare a noi perfino più di noi stessi. Per noi gli africani sono come gli indiani o i cinesi. Per i mondialisti invece il nero africano (a differenza dei neri indiani e degli africani non neri del nord africa che non praticano l’accattonaggio e che non sono esaltati) è diventato quasi un etical simbol, e l’amore totale nei suoi confronti è la cartina di tornasole del nuovo umanesimo politico-militare. Basta osservare tutte le pubblicità e le mode di alto bordo per riconoscere stridenti e martellanti forzatura africanofile.

La spiegazione che io do ( ma non è essenziale dato che si comincia a ragionare con la visione dell’assurdo) a queste cose è che nel grande processo mondiale in cui l’Asia si espande incessantemente COL LAVORO BEN ORGANIZZATO l’egemonia americana si trova in gravissimo pericolo ed usa sapientemente la sua intelligenza politica cercando di impedire in primo luogo una saldatura dell’Europa con la Russia e con la Cina.

È grottesco che in Europa, ma soprattutto in Italia, essere europeisti voglia dire essere accoglienti verso l’Africa e non si possa mai parlare di misure atte a creare una maggiore comunità di organizzazione e di interessi tra gli europei. E che nonostante l’autoscioglimento dellUnione Sovietica si continui come niente fosse a fare, con spese ingenti, la guerra, fredda ma sempre più calda, contro la Russia.


Ecco quando le migrazioni non sono invasioni e portano il bene e non il male
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven dic 15, 2017 7:17 am

L'Africa dei neri criminali che violano i Diritti Umani

https://www.facebook.com/x.kisenefrega/ ... 4365994532

A quasi vent' anni dalla fine dell'Apartheid la persecuzione razziale in Sud Africa esiste ancora, ma si è capovolta, la praticano i neri nei confronti dei cittadini bianchi o boeri, i quali, con il partito marxista al potere, sono oggetto di una pulizia etnica oltremodo brutale. I morti ammazzati, bruciati vivi, segati a metà aumentano vertiginosamente ogni giorno. La solita storia insomma, se le vittime del genocidio sono di pelle nera (come nel caso del Darfur) per bloccarlo si mobilitano Usa, Onu e Ue, ma se le vittime sono bianche e dagli occhi chiari non gliele frega niente a nessuno, nessuno muove un dito per pretendere il riconoscimento dei loro diritti.
L'assemblea nazionale ha fatto legge il "Firearm control bill", che annulla di fatto la prerogativa dei contadini boeri sul possesso di armi per autodifesa. Ormai in molti danno per scontato un "effetto Zimbabwe", un bis della pulizia etnica contro i bianchi condotta nell'ex Rhodesia dal dittatore Mugabe. Certo i bianchi in Sudafrica sono 3,5 milioni ma, anche in Zimbabwe cominciò così e, prima ancora, con i Tedeschi in Namibia. Chi può ha cominciato a scappare. Il rischio è che venga meno ogni freno e il genocidio contagi le città. Il problema è che la maggior parte dei bianchi sudafricani non hanno una madrepatria che li accoglierebbe compensandone i danni: vivendo lì da tre secoli e mezzo sono oramai dei nativi, quanto gli statunitensi in America.
Eugene Terreblanche, leader del movimento per la difesa dei bianchi, ucciso a pugnalate nella sua fattoria, Rudi Botes, 47 anni, rinvenuto con gli occhi cavati nella fattoria Genbade presso Bultonfontein, Adriana Van Der Riet, 86 anni, uccisa con 20 pugnalate in una fattoria nelle Rocklands, Martmaria Da Bruin, 18 anni, stuprata in un lago di sangue nel suo letto a Honeydew, Roelof Gottschalck, 34 anni, impiccato a Rustenburg. Hanno antichi nomi europei questi martiri del Sud Africa. Il nome di Piero Basilico, giovane imprenditore di Johannesburg, si è aggiunto lo scorso fine settimana alla lista ormai lunga e purtroppo interminabile degli italiani caduti in Sud Africa nella guerra crudele che la criminalità nera ha dichiarato contro i cittadini bianchi di questa nazione che si sforza di apparire civile ma si trascina purtroppo una zavorra spaventosa di individui votati a sopravvivere nella ricerca del male altrui. Si contano ormai a decine gli italiani le cui vite, quasi sempre giovani, sono state stroncate da malfattori pronti a uccidere senza battere ciglio.
Non c’è più famiglia italiana a Johannesburg che non abbia perso qualcuno o qualche caro amico per mano di rapinatori con il grilletto facile e un supremo sprezzo della vita altrui. Nel 2017 sono stati sterminati in questi orrendi modi settanta coltivatori, in 345 assalti alle fattorie (sempre più sofisticati, di stile militare) nel silenzio generale; del secondo massacro del 2017, avvenuto a febbraio, si sa perché la coppia era inglese e quindi ne hanno parlato i media britannici, anche la BBC. Sue Howart, 64 anni, e il marito Robert Lynn, 66, stavano dormendo nella loro fattoria a 150 chilometri da Pretoria quando, alle 3 di notte, sono stati sorpresi da tre assalitori; i quali hanno torturato il marito con un cannello ossidrico, lo hanno accoltellato selvaggiamente, per fargli confessare dove teneva il denaro (non ne aveva in casa); alla donna hanno bruciato la faccia col cannello. Poi hanno caricato i due, feriti, sul loro camioncino e li hanno portati nella savana. Il marito l’hanno abbandonato con un sacco nero legato alla testa, perché morisse soffocato; alla moglie hanno sparato alla testa (l’autopsia scoprirà che le avevano ficcato un sacco di plastica nella gola). La donna, portata all’ospedale, è morta dopo due giorni di agonia. Il marito, miracolosamente sopravvissuto, ha potuto raccontare com’è andata.
Molto meno descritto il primo fatto del 2017: una coltivatrice di 64 anni, Nicci Simpson, è stata trovata nella sua fattoria del Vaal, a due ore da Johannesburg, in un lago di sangue. I suoi violentatori ed assassini l’avevano torturata per ore con un trapano. Spesso i coloni sono disarmati: il regime ANC ha obbligato tutti a registrare le armi che avevano in casa, e vieta da anni ai bianchi di tenerle legalmente.
La complicità del regime e della sua polizia non sono nemmeno dissimulati: il presidente Zuma (suo nome tribale: Gedleyihlekisa, detto Msholozi) ha celebrato l’anniversario della nascita dell’ANC intonando l’inno “Dubula iBhunu”, ossia “Spara ai Boeri” violando la costituzione sudafricana, ovviamente anti-apartheid, che proibisce ogni “appello all’odio basato sulla razza e costituisca un incitamento alla violenza”. Ma tutto questo non nasce dal nulla, anzi era prevedibile data la politica razzista intrapresa dal governo nero di Pretoria. Nel 2004 il premier Thabo Mbeki, a capo di un monocolore dell'African National Congress d'ispirazione comunista, ha varato un pacchetto di leggi per il "potenziamento economico dei neri" (Bee Laws). Si tratta di leggi che, nella sostanza, rimuovono il diritto inviolabile alla proprietà privata, cancellano ogni toponimo Afrikaaner, chiudono i loro centri culturali, scolastici, radiofonici, completando la rimozione di ogni segno di matrice europea del Programma per il rinascimento africano. Sulla china del genocidio si arriva però con il programma di redistribuzione della terra, che consente che qualunque nero accampi un diritto su un podere Afrikaaner, per quanto datato o velleitario, di appropriarsene tout court: immaginate cosa accade quando i tribunali o gli interessati non acconsentono. O quando gli imprenditori agricoli rifiutano le società con azionisti neri, imposte dalle Bee Laws.
E dire che i primi a rimetterci dall'estinzione dei Boeri sono giusto i neri. Il Sudafrica era il granaio del continente, grazie all'export sottocosto delle fattorie bianche. Molte delle 24 nazioni che ora soffrono la fame nella fascia subsahariana lo devono al crollo della produzione boera, che dava cibo a 130 milioni di africani. E persino in alcune zone del Sudafrica quest'anno è comparso lo spettro della fame.
Lisa Castelli
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » sab dic 16, 2017 2:37 am

MI MANCANO I NEGRI – VIVA LA CARTA E LA LIBERTÀ! – Movimento Hyronista
Guido Giacomo Gattai
2017/09/24

https://movimentohyronista.com/2017/09/ ... no-i-negri

Dì la verità, hai pensato: “guarda che sporco razzista, adesso lo segnalo! Un click e chiuderà la bocca questo bastardo!”. Se lo hai pensato fai attenzione, ti hanno fatto un brutto scherzo: ti hanno convinto che chiudere la bocca alla gente con un click sia una buona idea. E che si possa decidere da un titolo se una persona abbia diritto o meno di continuare ad esprimersi. Non sono razzista. Tutt’altro. Ma pensaci: se anche lo fossi… meriterei che tu mi chiudessi la bocca? O forse ci sono valori più alti in gioco che qualche parola fuori posto?
Parole forti. Attenzione. Negli anni ’80 e ’90 in Italia c’erano i negri, i neri sono arrivati dopo. I negri si chiamavano negri anche fra di loro, non c’era il politically correct. I froci erano froci e i negri erano negri. Però, linguaggio a parte, c’era molta più integrazione di adesso. La società era molto meno spaventosa di adesso. Adesso quando vedi una persona diversa non sai mai cosa dirgli. Non sai come chiamarlo, cosa puoi dirgli, che discorsi puoi fare con lui, non sai cosa potrai dire ai tuoi amici o ai sui amici di lui senza rischiare di perdere la faccia, senza rischiare di essere ghettizzato. Perché oggi il razzismo vero, la discriminazione vera, è quella contro chi discrimina. E – detto così – potrebbe essere anche un bene. Ma non lo è. Di fatto vuol dire che tutti devono stare molto attenti a come parlano: un passo falso, e sarai bollato. Nessuno è più al sicuro: non importa il tuo orientamento sessuale, il colore della tua pelle, la tua religione. Niente importa. Oggi tutti discriminano tutti. Basta dire una parola sbagliata e sei nel mucchio dei discriminati. Si vive sul filo, bisogna stare attenti. Molto attenti. Tutti.
Anche il reato d’opinione adesso inizia a bussare alla porta, e da dove viene? Da dove non ce lo saremmo mai aspettato: come ingigantimento della legge contro l’apologia di fascismo. Anche io, che mi sono fatto i miei buoni anni di militanza in Rifondazione Comunista, che vengo da una famiglia rossa da tre generazioni, che ho un nonno che ha dedicato la vita a studiare il fenomeno del nazismo perché non si ripetesse, che ho la maglietta del Che e quella del commercio equo e solidale, anche io, in fede e ragionevolezza, ho molta paura di questa legge perché la domanda è: chi deciderà cosa è fascista e cosa non lo è? La paura, anzi la certezza, è questa: diventerà una scusa per chiudere la bocca a chi la pensa diversamente dal potere costituito. Diventerà un bavaglio che si può mettere a chiunque con qualsiasi scusa.
Ma già si comincia, in realtà: da tempo Facebook banna persone in modo del tutto indiscriminato per supposte “violazioni del regolamento” inappellabili. Cioè: il regolamento c’è, ma non gliene frega niente a nessuno se lo rispetti o no. È solo una scusa per chiudere la bocca a chi non sta simpatico a Facebook. L’ultima che mi è capitata è stata la più buffa: sono stato bannato per un mese SENZA che mi si dicesse perché. Facebook ha ormai il potere di mettere a tacere le persone a suo gusto, e lo esercita senza alcun limite ragionevole o tanto meno democratico.
La cosa buffa è che adesso stai pensando “se lo hanno bannato se lo sarà meritato, com’è che a me non capita? Ora scrive tutto questo articolone solo per dire che non è giusto ma in realtà è giusto eccome e lui dovrebbe solo stare zitto e ripensare ai suoi errori!”. Proprio questo è il potere dei social: far sembrare colpevoli coloro che vengono colpiti ingiustamente. Perché in effetti se si legge il regolamento interno di FB sono tutte norme più che ragionevoli. Ma, come accade al Dottor Zero nel racconto di Stefano Benni, un bel giorno ti ritrovi fuori dai tuoi account e ti scopri finito. Quasi tutti hanno letto alcune parole di Martin Niemöller anche se la loro versione più nota è quella parafrasata di Brecht. Tutti le hanno lette ma anche scordate. Rileggiamole un attimo. Aiutano molto a capire come la censura stia riuscendo a chiudere la bocca a tutti con il permesso di tutti:

Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.

Più nota e altrettanto bella la versione di Bertold Brecht:

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Oggi potremmo scrivere

Prima di tutto misero a tacere gli haters
e fui contento, perché dicevano cose brutte
Poi misero a tacere i razzisti
e fui contento perché io sono per l’uguaglianza
Poi misero a tacere i sessisti
e fui contento perché io sono per i diritti
Poi misero a tacere i bufalari
e fui contento, perché diffondevano notizie false
Poi vennero a prendere chi aveva opinioni scomode
e io non dissi niente perché volevo solo farmi la mia vita
Un giorno misero a tacere me, vai a sapere cosa avevo fatto o detto
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Senza considerare che ogni cosa proibita tende a moltiplicarsi quindi rendere proibito lo hating, il razzismo ecc. su Facebook vuol dire che il deep web se ne riempie e i ragazzini avranno sempre più voglia di abbracciare quegli ideali e quei comportamenti proprio perché gli vengono proibiti quindi tra qualche anno la bottiglia tappata esploderà e saranno cazzi di chi si troverà in zona.
Ma facciamo un passo indietro: ve li ricordate i negri? Quelli che si vestivano coi vestiti africani e portavano una cultura fantastica? Quelli da cui potevi imparare tante cose che non sapevi? Quelli con le case multicolori, coi tamburi? Oggi no, ci sono i neri. Sembrano tutti brutte copie di Bello Figo Gu, scimmiottano la nostra cultura e rifiutano la loro.
Ve li ricordate i froci? Erano figure poetiche, grandi artisti come Paolo Poli, figure mitologiche nei paesi di campagna. Oggi no. Ci sono i gay. I gay sono hipster, tutti diversi nello stesso modo, omologati nella loro uniforme fatta di tatuaggi e caffè a starbucks, lavorano nelle multinazionali e sono impiegati efficienti.
Ora forse stai pensando “sei un razzista e un sessista, un criptofascista!”. No. Lo so che prima era più difficile da certi punti di vista. Lo so che non era tutto rose e fiori, soprattutto per le persone di colore o per chi aveva gusti sessuali differenti. Però quello che voglio farti vedere è che oggi, non è più facile per loro. Vivono una vita in cui possono essere discriminati da un momento all’altro, in cui sanno che nessun gli dice in faccia quello che pensa per paura del politically correct, ma non stanno meglio.
Quello che vorrei riuscire a farti vedere, o almeno intravedere, è che il potere centrale non ha fatto vincere nessuna battaglia per la parità e l’integrazione a nessuno. Al contrario: ora non c’è più nessuno ad essere integrato. Siamo tutti atomizzati, ognuno nel suo mondo, terrorizzato dal possibile e pericolosissimo contatto con l’altro che potrebbe discriminarti, disprezzarti, magari anche denunciarti.
I social che dovevano permetterci di dire tutto non ci permettono di dire più niente. Siamo liberi solo di mandarci faccine e postare resoconti delle partite, appena usciamo dal nostro piccolo recinto scatta subito una prigione fatta di blocca account e polizia postale.
Quello che voglio dirti è che siamo tutti meno liberi sul web, che come dice Caparezza, il web non è il Che Guevara anche se finge di esserlo. Quello che voglio dirti è che non dobbiamo castrare le parole. Viva i negri e viva i froci cazzo! È proprio riconoscendoli per quello che sono veramente, chiamandoli col loro nome che posso provare veramente affetto per loro! Le parole mancate uccidono ogni possibilità di affetto! Ogni strada per migliorare il mondo passa dal chiamare le cose con il loro nome diceva Confucio!
E se la rete non lo capisce spengiamola e torniamo nelle piazze. Io intanto ho un giornale cartaceo nelle scuole di tutta Firenze da 4 anni. Volete venire a darci una mano a distribuirlo? Volete farvi il vostro? Volantini dati a mano? Attacchinaggio nelle università?
La nuova parola d’ordine sarà: viva la carta e la libertà!

Dedicato a Ermes Maiolica, bufalaro con la testa e con il cuore e a Daniele Di Luciano che per primo con i suoi video mi ha fatto capire che dovevo studiare di più per capire il mondo. Molto di più.




Gino Quarelo
Quante idiozie e menzogne!


I peggiori sono quelli che si servono degli ultimi o dei presunti ultimi per derubare e opprimere tutti gli altri, tra cui la loro stessa gente
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Giornata europea delle vittime del nazismo mafioso zigano
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » lun dic 18, 2017 6:45 am

L'orrore dell'africano in mutante, brutalizza la vecchina. Il video raccapricciante: la pesta a sangue
16 Dicembre 2017

http://tv.liberoquotidiano.it/video/est ... 4.facebook

Una donna di 73 anni è stata aggredita da un uomo di origini africane a Norimberga. In un video raccapricciante diventato virale sui social si vede tutta la violenza con la quale l'uomo, in mutande, colpisce a pugni e calci l'anziana, ricoverata poi in coma.
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mar dic 19, 2017 9:36 pm

Calabria, riti voodoo e stregoneria per far prostituire le migranti africane: con i guadagni ripagavano il viaggio in Europa
Lucio Musolino
19 dicembre 2017

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/1 ... pa/4049247

“Tranquilla, tutto andrà bene, ho già parlato con l’uomo spirituale per fare il rituale voodoo o juju per mettere loro a lavorare”. Ricorrevano alle stregonerie per far prostituire le nigeriane tra Lamezia Terme e Rosarno. Dovevano lavorare in strada per ripagare il costo, circa 30mila euro, del viaggio dall’Africa in Italia. Stamattina all’alba è scattata l’operazione “Locomotiva”. I carabinieri e la Procura di Catanzaro hanno arrestato sette persone. In carcere sono finiti un italiano, Vincenzo Criserà, e sei nigeriani considerati i capi di un gruppo criminale che aveva ramificazioni in Africa ed era capace di intervenire anche nei lager libici qualora ci fossero stati problemi durante il viaggio delle ragazze.

Oltre a Criserà sono state arrestate cinque “madame” che, come ha affermato il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri, avevano “la gestione materiale della vita di queste ragazze”. In manette è finito pure il compagno di una di loro, tale Omoregie Osagie, che intratteneva rapporti con la Nigeria e la Libia provvedendo al procacciamento delle donne e all’organizzazione della tratta. Per tutti l’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani, acquisto e alienazione di schiavi, immigrazione clandestina, riduzione in schiavitù e sfruttamento della prostituzione con l’aggravante della transnazionalità.

Stando al provvedimento di fermo, è stata colpita la “criminalità nigeriana dedita al traffico di donne a scopo di sfruttamento sessuale che si caratterizza per una struttura a rete con ramificazioni non solo nel territorio italiano e nel paese di origine, ma anche in molti paesi di transito, europei ed extraeuropei”. Le ragazze erano costrette a prostituirsi nei pressi della stazione di Lamezia Terme, in un parcheggio dove c’è un monumento a forma di locomotiva. Per il posto letto e per il cibo pagavano la madame. Nessuna poteva ribellarsi. Dalle intercettazioni è emerso infatti, che chi non rispettava le regole subiva “vessazioni fisiche e psicologiche di una certa gravità: digiuno, isolamento, segregazione, percosse, paura di ritorsioni nei confronti dei familiari nel paese di origine”. Per pagare il debito con i trafficanti, le ragazze dovevano pagare “100 euro giornaliere” alla madame che le sottoponeva anche a pressioni psicologiche legate ai riti voodoo.

Nel marzo scorso, la Procura è riuscita a intercettare anche una conversazione tra una madame e una ragazza che si trovava in Libia in attesa di salire su un barcone per l’Italia. Dalle frasi registrate dai carabinieri è chiaro il collegamento tra gli arrestati di Lamezia Terme e i trafficanti che organizzano i viaggi: “Mio marito – sono le parole della madame – ha parlato con il connection man (il trafficante, ndr) per sapere quando ci sarà l’imbarcazione per l’Italia, ma chiedo a voi di avere pazienza perché la temperatura sul mare non è buona, c’è molto vento… se passa domenica senza l’imbarco per l’Italia chiamami o mio marito per farci sapere, capito?!”.

Una di loro, però, ha avuto il coraggio di rivolgersi ai carabinieri e al termine dell’inchiesta, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri, dall’aggiunto Giovanni Bombardieri e dal sostituto Debora Rizza, i suoi aguzzini sono finiti in carcere. Agli investigatori la ragazza di 32 anni ha raccontato le angherie subite dal momento in cui è stata reclutata: “Prima della partenza, avevo dovuto giurare, attraverso un rito voodoo praticato da uno stregone, di restituire questa somma economica una volta giunta in Italia e che avrei dovuto rispettare le indicazioni della signora (madame) e che avrei trovato qui e che mi avrebbe indicato il lavoro da fare”. Le avevano assicurato un impiego regolare ma già prima di attraversare il Mediterraneo ha compreso quale sarebbe stato il suo destino. Dopo essere stata diversi mesi reclusa in Libia, dove è stata violentata da un signore ghanese che si faceva chiamare “papa”, è arrivata con un barcone in Sicilia e poi trasferita in Calabria. Lì si è messa in contatto con la madame e suo marito che l’hanno accompagnata a Lamezia Terme.

In seguito alle violenze subite in Libia, la ragazza è rimasta incinta: “Ero di circa 5 mesi e la madame e la moglie di Osas mi hanno costretta ad abortire, portandomi in una casa privata. Qui, un uomo di colore, del quale non conosco il nome, mi ha dato alcuni medicinali che mi hanno provocato un aborto spontaneo, uccidendo il feto. Io ero contraria ad abortire, ma sono stata obbligata dalla madame e dalla moglie di Osas. Quando io ho chiesto il motivo di tale aborto mi è stato riferito che era necessario farlo perché dovevo lavorare e, ad una mia richiesta circa quale lavoro dovevo intraprendere, mi è stato detto che dovevo andare “in strada” e che quindi dovevo prostituirmi”.

“Le prime volte non riuscivo – prosegue il racconto – mi vergognavo e i clienti non si fermavano. Rientrata a casa, lei mi diceva che non avevo lavorato bene e non mi faceva mangiare e mi diceva che se non avessi lavorato, non mi avrebbe fatto rimanere lì e avrei passato grossi problemi”. Adesso è una donna libera, vive in una località protetta dove fino a ieri, sul cellulare, riceveva messaggi dei suoi sfruttatori che gli chiedevano di tornare a “lavorare”. Pressioni che la ragazza subiva anche dai suoi familiari spaventati per le conseguenze della sua denuncia. “Qui si tratta di preoccuparci della libertà delle persone” ha affermato durante la conferenza stampa il procuratore Nicola Gratteri secondo cui gli arrestati “promettevano alle ragazze di farle lavorare onestamente in Italia, di farle diventare parrucchiere o commesse ma già nel loro viaggio verso l’Europa, già nei campi libici venivano costrette a prostituirsi. L’organizzazione criminale che le sfruttava prendeva in fitto delle aree di stazionamento, forniva alle ragazze di tutto anche i preservativi e cominciava lo sfruttamento”. “Parte dei proventi della prostituzione – ha spiegato il colonnello Massimo Ribaudo – venivano messi in una cassa comune e usati per l’acquisto di nuove donne”.
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio dic 21, 2017 8:05 am

Violentarono 37 bambine, anche neonate...
Accertati violenze su bambine, alcune di appena 18 mesi. Il capo della milizia, Frederic Batumike, accusato anche dell'uccisione di un attivista per i diritti dell'uomo

https://ninofezzacinereporter.blogspot. ... o.html?m=1

Carcere a vita: è stata questa la sentenza che il Tribunale militare del Sud Kivu, nella parte orientale della Repubblica democraica del Congo, ha emesso nei confronti del parlamentare Frederic Batumike, riconosciuto il capo delle milizie che, tra il 2013 ed il 2016, si sono rese responsabili dello stupro di almeno 37 giovanissime donne, alcune nemmeno bambine.
Una sentenza che era attesa nel Paese e che segna un passo significativo della storia recente del Congo. ''Un politico in carica è condannato, come diretto superiore gerarchico, per crimini commessi da lui stesso e dalle milizie che ha controllato e finanziato", spiega Elsa Taquet, di Trial International, una ong che ha sede a Ginevra e che ha come obiettivo quello di ''combattere l'impunità per i crimini internazionali e sostenere le vittime nella loro ricerca di giustizia". Elsa Taquet ha seguito lo svolgimento del processo, iniziato nei primi giorni di novembre a Kavumu, nel territorio di Kabare, nell'est del Paese.
Il Tribunale militare del Sud Kivu ha condannato Batumike e altri 10 imputati per "crimini contro l'umanità attraverso stupro" commessi su 37 bambine di età compresa tra 18 mesi e 12 anni tra il 2013 e il 2016 a Kavumu e in alcuni villaggi vicini. "Oltre ai crimini di stupro, le milizie sono state condannate per la loro partecipazione a un movimento insurrezionale e l'uccisione di persone che avevano denunciato i loro abusi", afferma Trial International.
I diciotto imputati appartenevano ad una stessa milizia, l'Esercito di Gesù. Alcune delle vittime hanno accettato, pur sapendo dei pericoli che potevano correre, di testimoniare sulle violenze subite, a patto di potere nascondere i volti. Kavumu ed alcuni villaggi vicini tra il 2013 e il 2016, sono stati stato teatro di violenze inaudite. Le ragazze, ma anche bimbe di poco più d'un anno, furono rapite e violentate. I rapitori facevano irruzione, di notte, nella case sequestrando le bambine per poi portarle con sè e violentarle dopo che la loro guida li aveva convinti che bere il sangue dell'imene di vergini li avrebbe resi invulnerabili dalle pallottole.
Frederic Batumike, pastore luterano, era anche accusato di aver ucciso nel marzo 2016 il difensore dei diritti umani Evariste Kasali, assassinato a colpi di arma da fuoco.
L'Esercito di Cristo si è scontrato diverse volte con l'esercito congolese, soprattutto per rifornirsi di armi. Le mozioni di difesa per tentare di invalidare il procedimento sulla base del fatto che il tribunale militare non avrebbe giurisdizione per processare i civili sono state respinte. La spiegazione sta nel fatto che il Codice penale militare congolese afferma che quando una persona ha commesso un reato per mezzo di armi da guerra, anche se è un civile, deve essere processata da un tribunale militare...



Gino Quarelo
Questi sono africani congolesi e non cristiani, l'ebreo Cristo non ha mai fatto né ordinato di fare simili mostruosità.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer dic 27, 2017 11:02 am

Come funziona il racket dell'elemosina della mafia nigeriana
Claudio Bertolotti
26 dicembre 2017

https://www.panorama.it/news/cronaca/co ... -nigeriana


Dalla collaborazione alla competizione. È questo il rapporto che unisce la criminalità italiana, dalla mafia alla camorra, a una sempre più radicata e potente criminalità proveniente dall'estero: la mafia nigeriana.

“ll radicamento in Italia” della criminalità nigeriana – scrive la Direzione Investigativa Antimafia nella relazione sulle attività investigative – “è emerso nel corso di diverse inchieste che ne hanno evidenziato la natura mafiosa”.

Una nuova mafia che è riuscita in poco tempo e in maniera aggressiva a creare legami di successo con i gruppi criminali italiani, da cui ha appreso e adottato strutture e metodi operativi, l'intimidazione, il taglieggiamento di imprese legali e illegali.

IN COMPETIZIONE CON I “GRUPPI CRIMINALI ETNICI”

In poco tempo la “mafia nigeriana” si è dotata di una struttura attiva, con ramificazioni all'estero e una strategia criminale ben pianificata.

Un processo di imitazione e adattamento che ha portato alla competizione con altri gruppi criminali “etnici”, ottenendo la supremazia in molti settori “tradizionali”, come la prostituzione femminile, il traffico degli stupefacenti e di immigrati clandestini, e imponendosi in altri, come le truffe online.

ACCATTONAGGIO

Ma oggi il business della criminalità nigeriana si è allargato a un ulteriore nuovo settore, non violento, almeno non nella forma esteriore, ma sempre più radicato ed esteso, sia in termini di indotto, sia in termini di numeri di individui coinvolti: è il business dell'accattonaggio.

NIGERIANI: SCHIAVI E SCHIAVISTI

Un numero crescente di individui, giovani maschi africani, riempiono le città, si posizionano fuori dai centri commerciali del centro e delle periferie, nei parcheggi degli ospedali e degli edifici pubblici, davanti alle Chiese, ai negozi e alle banche.

La maggior parte è composta da nigeriani, che al mattino lasciano i centri di accoglienza in cui sono ospitati dallo Stato, per prendere posizione nei punti strategici identificati dall'organizzazione che li sfrutta. Ma ci sono anche individui regolarizzati, alcuni con famiglia in Italia.

I DEBITI

Si tratta, in entrambi i casi, di soggetti che sono in debito nei confronti dell'organizzazione criminale nigeriana, che in genere è legata ai gruppi operanti in Nigeria che gestiscono il traffico illecito di esseri umani attraverso la Libia e il Mediterraneo.

COMPETIZIONE ETNICA: I NIGERIANI CACCIANO I ROM

Non sono soli, si muovono in gruppo, all'interno di un'organizzazione affinata, capace di distribuire razionalmente le risorse sul terreno con squadre di trasporto, di garantire il "controllo del territorio" con nuclei di vigilanza, e di creare una "cornice di sicurezza" allontanando gli altri professionisti dell'elemosina, o le persone che povere lo sono sul serio.

L'organizzazione impone gli “strumenti di lavoro” da utilizzare: sempre un cappellino da baseball usato per impietosire i passanti e per far intendere, attraverso il “linguaggio non verbale”, il proprio stato di necessità; ma anche un telefono cellulare, con cui rimanere in contatto con l'organizzazione e per ricevere istruzioni.

È una presenza che in molte città, attraverso la violenza e l'intimidazione, è riuscita in meno di due anni a scacciare dal mercato dell'elemosina la criminalità etnica Rom, gestita da gruppi provenienti dalla Romania. Il che fa capire quanto potente sia ormai la criminalità nigeriana.

UN BUSINESS DA CENTINAIA DI MILIONI DI EURO

Sono centinaia di individui in ogni città; oltre 200 nella sola Milano, ma il fenomeno è internazionale. È quanto evidenziato all'inizio di dicembre dalla polizia locale del capoluogo lombardo al termine dell'operazione “Baseball Cap”, dallo strumento di lavoro che contraddistingue tutti i questuanti africani: si tratta nel complesso di migliaia di individui, capaci di alimentare un mercato nero della schiavitù che rende centinaia di milioni di euro l'anno.

LA SOLUZIONE VIENE DALLA SVIZZERA

Tutto questo è criminalità organizzata. E chi, pur in buona fede, alimenta economicamente questo mercato, anche solamente con pochi spiccioli, sostiene una criminalità sempre più vorace e aggressiva, che non si ferma di fronte a nulla.

Una situazione che ha trovato terreno fertile in cui radicarsi anche in altri paesi europei; in Svizzera, però, la reazione delle forze dell'ordine e la volontà politica hanno portato a strategie di contrasto attraverso un'efficace contro-narrativa rivolta, da un lato, a quella parte dell'opinione pubblica convinta della necessità di dover aiutare economicamente tali soggetti, indipendentemente dallo status di soggezione e “schiavitù” e dal loro ruolo nella macchina dello sfruttamento di esseri umani, e, dall'altro lato, a recidere la radice dell'arricchimento di una criminalità organizzata violenta e senza scrupoli.

Nel Cantone Ticino, dove la criminalità etnica nigeriana è pur marginale rispetto a quella Rom, la polizia di Lugano ha avviato un progetto di contrasto al degrado sociale urbano attraverso la lotta al racket dell'elemosina.

Iniziativa finalizzata a sensibilizzare la cittadinanza sul fenomeno della criminalità dietro all'accattonaggio, segnalare situazioni di reale difficoltà e prevenire attività di questua basata sullo sfruttamento.

I risultati sono incoraggianti, e questo grazie al coinvolgimento, accanto alle forze dell'ordine, di associazioni caritatevoli che si occupano del monitoraggio della povertà e dell'assistenza ai veri bisognosi.

VI CHIEDONO SOLDI? OFFRITEGLI DEL CIBO

L'efficacia dell'iniziativa si riassume nel forte messaggio che l'accompagna: «Vi chiedono soldi? offritegli del cibo». Chi è sfruttato dal racket, pur dichiarando di avere fame, non accetta altro che denaro.

E il denaro è ciò che vuole la mafia nigeriana dai suoi schiavi con cappello da baseball.


Gino Quarelo
Non dategli soldi e nemmeno pane.
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio gen 04, 2018 8:39 pm

Un’eredità complicata in Sudafrica, Angola e Zimbabwe


Pierre Haski
2018/01/03

https://www.internazionale.it/opinione/ ... a-zimbabwe

È una fatalità che i liberatori di un tempo facciano propri, una volta ottenuto il potere, tutti i vizi che denunciavano in passato, come la corruzione, il nepotismo e anche l’autoritarismo che avevano energicamente combattuto? Questa domanda è universale, ma si pone in maniera particolare in Africa australe, dove Sudafrica, Angola e Zimbabwe vivono dei cambiamenti politici significativi.

Quasi tutti i paesi della regione, a lungo roccaforti di poteri bianchi razzisti e repressivi, sono oggi guidati dagli ex movimenti di liberazione, dopo anni di lotta clandestina, di privazioni e di sofferenze. La loro vittoria – negli anni settanta, ottanta o novanta a seconda del paese – appariva allora giusta e carica di promesse, una giusta ricompensa dopo una storia dolorosa.

Oggi in Sudafrica, in Angola o in Zimbabwe, una generazione passa il testimone, in contesti certamente molto diversi, ma in tutti e tre i casi il bilancio è amaro. E i nuovi dirigenti sono portatori di speranze di “un nuovo inizio”, non facili da soddisfare.

Un nuovo inizio in Sudafrica?
Il Sudafrica, il paese più importante del continente, ha appena vissuto un momento politico rilevante, con la nomina del presidente dell’African national congress (Anc), il partito che Nelson Mandela ha portato al potere durante le prime elezioni democratiche nel 1994, e che è rimasto in carica da allora. Il presidente dell’Anc ha ottime possibilità di diventare presidente del Sudafrica, probabilmente anche prima della scadenza prevista del 2019.

Il congresso dell’Anc, il 16 e 17 dicembre ha preferito Cyril Ramaphosa a Nkosazana Dlamini-Zuma, ex presidente dell’Unione africana ma anche ex moglie del presidente sudafricano Jacob Zuma. Di fatto, la scelta era tra la continuità o la rottura con quest’ultimo, i cui nove anni di presidenza del paese hanno rappresentato un disastro su tutti i fronti, sia per l’Anc sia per il paese.

Solo dieci anni separano Jacob Zuma, 75 anni, da Cyril Ramaphosa, che ne ha 65. Ma i due uomini non potrebbero essere più diversi, per personalità e percorso, il che alimenta le speranza di un governo molto diverso in futuro.

Jacob Zuma ha vissuto la dura vita di un combattente dell’Anc, il più vecchio movimento politico africano, rimasto in clandestinità per tre decenni. Autodidatta, incarcerato per dieci anni ai lavori forzati di Robben Island, al largo di Città del Capo, poi dirigente in esilio dell’Anc fino alla liberazione di Nelson Mandela nel quadro della fine negoziata dell’apartheid alla fine degli anni novanta, è diventato presidente dopo aver messo in minoranza il successore di Mandela, Thabo Mbeki.

Un paese contro i suoi liberatori
Il suo regno è stato segnato da una serie di scandali, di storie di corruzione, di mancanza di senso etico e di cattiva gestione economica, che lasciano oggi un paese indebolito, screditato a livello internazionale e pronto a votare per la prima volta contro i suoi liberatori.

Un libro uscito appena qualche settimana fa, The president’s keepers, del giornalista investigativo Jacques Pauw, descrive gli sprechi e la corruzione del più stretto entourage di Zuma, compreso quello di suo figlio, e gli sforzi dei servizi di sicurezza sudafricani per proteggerlo, con sprezzo della legge e dell’interesse pubblico. Segno della potenza dell’eredità di Mandela, il libro è uscito in Sudafrica nonostante varie minacce, e ha finito per discreditare definitivamente il “coccodrillo di Nkandla”, com’è soprannominato Zuma, nomignolo che richiama il suo villaggio natale in terra zulu.

Quanto a Cyril Ramaphosa, ha anch’egli un passato da liberatore impeccabile, ma di diverso tipo. Avvocato di formazione, si è trovato proiettato alla testa del sindacato dei minatori neri nel periodo chiave della lotta all’apartheid, negli anni ottanta e novanta, e ha avuto un ruolo chiave nei rapporti di forza col potere bianco. Durante la transizione, è stato scelto da Nelson Mandela per negoziare gli accordi con la leadership bianca, che hanno permesso le prime elezioni libere e la fine dell’apartheid.

Cyril Ramaphosa è diventato milionario, ottenendo un successo invidiato e talvolta controverso

Prescelto da un anziano Nelson Mandela per diventare il suo delfino, è stato messo da parte dai dirigenti dell’Anc, che gli hanno preferito Thabo Mbeki, figlio di un compagno di prigionia di Madiba e uno dei leader del movimento in esilio.

Cyril Ramaphosa ha allora deciso di lasciare la politica e dedicarsi agli affari, approfittando del black empowerment, l’ascesa dei neri ai vertici dell’economia per controbilanciare un potere economico totalmente bianco. L’uomo è diventato milionario, ottenendo un successo invidiato e talvolta controverso, come durante il massacro dei minatori neri a Marikana, in una miniera di cui era uno degli amministratori.

Sarà compito di Cyril Ramaphosa ripulire le stanze del potere dalla corruzione diffusa da Jacob Zuma, e rilanciare un’economia penalizzata dagli sprechi, che spaventa gli investitori e minaccia i progressi ottenuti nel corso di vent’anni. Vorrà farlo? Potrà farlo? Non avrà vita facile, visto che non gli mancano i nemici dentro lo stesso Anc e i detrattori all’esterno. Tuttavia, resta l’ultima speranza per molti sudafricani, perché il loro paese resti fedele all’eredità di libertà di Nelson Mandela, e alle speranze di prosperità.

La fine di Mugabe in Zimbabwe
Poco più a nord, in Zimbabwe, il primo e unico presidente che l’ex Rhodesia bianca abbia conosciuto dai tempi della sua indipendenza nel 1980 è stato allontanato dal potere in maniera relativamente tranquilla dal suo esercito e dagli ex combattenti della guerra di liberazione.

A 93 anni il despota ormai invecchiato aveva avuto il torto di voler nominare come proprio successore la sua seconda moglie, Grace (soprannominata Grace Gucci per la sua passione per i marchi di lusso), quando questa non aveva né la legittimità né le qualità necessarie.

È stato l’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa, braccio destro di Mugabe da sempre, di vent’anni più giovane, a prendere il suo posto, col compito di organizzare le elezioni presidenziali nel 2018. Il nuovo presidente dovrà evitare di effettuare una svolta autoritaria come quella del suo mentore, lui che è stato spesso l’esecutore degli incarichi più sporchi del presidente, in particolare durante la sanguinosa repressione del Matabeleland, all’inizio del loro lungo regno nel 1983, e che ha provocato circa 20mila morti nella regione del rivale di Mugabe, Joshuna Nkomo. Gli abitanti dello Zimbabwe sperano nel rinnovamento, ma non c’è niente di sicuro.

Dove sono i soldi del petrolio angolano?
Infine, il terzo paese a conoscere un cambiamento è l’Angola, ex colonia portoghese della costa atlantica, ricco di petrolio, e guidato dal Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) fin dalla sua indipendenza nel 1975.

Il leader storico dell’Mpla, Agostinho Neto, è morto poco dopo che il paese ha ottenuto l’indipendenza in circostanze drammatiche, in seguito a una guerra civile tra movimenti armati rivali, alimentata dal Sudafrica, dallo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) di Mobutu Sese Seko, e perfino dal gruppo petrolifero Elf, che mirava alle riserve di petrolio dell’enclave di Cabinda e aveva strumentalizzato il suo movimento di liberazione, il Flec (Fronte di liberazione dell’enclave di Cabinda).

Protetto da un contingente cubano, l’Mpla ha finito per imporsi, guidato da un ex ingegnere formatosi in Unione Sovietica, José Eduardo dos Santos, successore designato di Agostinho Neto. Dos Santos sarebbe poi restato 38 anni al potere, prima di cedere il testimone lo scorso agosto, a 74 anni, al suo ministro della difesa, Joao Lourenço, di dieci anni più giovane, ex generale e anch’egli formatosi in Unione Sovietica.

Come spesso accade, il denaro facile del petrolio e dei diamanti ha generato una corruzione mostruosa

Difficile immaginare uno spreco maggiore di quello avvenuto negli ultimi quattro decenni in Angola, un paese con le risorse petrolifere di un emirato del Golfo, di diamanti e di abbondanti terreni, degni delle agricolture più ricche al mondo. Ma come spesso accade, il denaro facile del petrolio e dei diamanti ha generato una corruzione mostruosa, e sprechi che non facevano troppo clamore quando il petrolio era a cento dollari al barile, ma che trasformano la situazione in una catastrofe quando il greggio perde metà del valore, come che sta accadendo.

L’eredità di Dos Santos avrebbe potuto essere positiva se si fosse ritirato prima, dopo aver messo fine alla guerra civile e aver accettato una relativa normalizzazione politica. Ma l’uomo si è aggrappato al potere, arricchendo dirigenti predatori, a cominciare dalla sua stessa famiglia, piazzando suo figlio José alla testa del fondo sovrano e sua figlia Isabel a capo della compagnia petrolifera nazionale, facendone così la donna più ricca d’Africa.

Con una delle sue prime decisioni da quando è salito al potere, il nuovo presidente, anch’egli del Mpla, ha deciso di allontanare la figlia del suo predecessore dalla compagnia petrolifera Sonangol, dando così il segnale di avvio di un atteso “repulisti”. Si tratta quindi della sostituzione di una classe dirigente con un’altra, di una “famiglia regnante” con una nuova? Oppure ha davvero intenzione di porre fine agli sprechi e alla corruzione che fanno dell’Angola un paese ricco di risorse, ma povero?

In tutti e tre i casi, il cambio della guardia avviene all’interno del sistema. Nessuna rivoluzione, ma un cambiamento di uomini e di epoca, qualunque sarà l’esito, con popolazioni impazienti, che esprimono con mezzi diversi il loro disgusto verso le classi dirigenti predatrici.

Se questi tre nuovi dirigenti non riusciranno a trasformare l’attività di governo, a soddisfare un minimo le aspirazioni di popolazioni stanche di decenni di abusi e di promesse non tenute, si scontreranno con opposizioni più forti e più radicali. I primi risultati sono attesi per il 2018. Non avranno davanti a sé vari decenni, come accaduto per i loro predecessori alla fine delle guerre di liberazione.
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » dom gen 14, 2018 8:50 am

Il massacro silenzioso dei cattolici in Congo. La repressione violenta nel silenzio (o quasi) dell’Europa
Sui social circolano le terribili immagini del 31 dicembre. Padre Albanese: l'unica voce che resta è quella della Chiesa
2018/01/12

https://it.aleteia.org/2018/01/12/il-ma ... tent=NL_it

Una repressione che è passata sotto traccia, silenziosa. Dodici morti, decine di feriti, dodici chierichetti arrestati, persino internet oscurato. Il bilancio delle manifestazioni dell’ultimo giorno del 2017 per i cattolici della Repubblica democratica del Congo è stato drammatico.

Le immagini e i video di quelle giornate che circolano in queste ore sui social network fanno accapponare la pelle.

Le autorità del Congo hanno usato il pugno di ferro per impedire ai cattolici di protestare contro la permanenza al potere del presidente Joseph Kabila, il cui mandato sarebbe scaduto a fine 2016.

Il “gioco” di Kabila

Alla fine del 2016, l’accordo di Saint Sylvester sembrava offrire una via d’uscita alla crisi del Congo. Vennero richieste elezioni entro la fine del 2017, dopo le quali Kabila avrebbe lasciato il potere. Nel corso dell’ultimo anno, tuttavia, il suo regime ha fatto marcia indietro. A novembre, la commissione elettorale ha annunciato un nuovo programma – con un voto alla fine del 2018, estendendo la presidenza di Kabila per almeno un altro anno (L’Indro, 8 gennaio).

Così il giorno di San Silvestro 2017 è diventata la giornata in cui i cattolici si sono concentrati nella capitale Kinshasa per manifestare pacificamente contro Kabila.

Sospese le preghiere

A Notre-Dame del Congo, la cattedrale di Kinshasa, le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni all’arrivo del leader dell’opposizione Felix Tshisekedi. Agenti e soldati sono entrati nel complesso della chiesa principale, chiedendo alla gente di andare via. Da parte sua il sacerdote ha invitato a «tornare a casa in pace perché c’è un impressionante dispositivo militare e di polizia pronto a sparare».

«Mentre stavamo pregando, i soldati e la polizia sono entrati e hanno usato gas lacrimogeni in chiesa», durante la celebrazione della messa, ha raccontato all’agenzia France Presse (31 dicembre) un fedele della parrocchia di St Michael, nel centro della capitale. «La gente è caduta, i soccorritori stanno rianimando le vecchie signore cadute. Ma il sacerdote non ha smesso di dire messa, ha continuato con i cristiani che non sono fuggiti», ha riferito Chantal, un’altra parrocchiana.

L’arresto dei chierichetti

La stessa agenzia ha dato notizia dell’arresto di 12 chierichetti che in abiti liturgici si erano messi alla testa della “marcia pacifica” contro Kabila. I ragazzi, uno dei quali portava un grande crocifisso, sono stati caricati su un veicolo della polizia (La Repubblica, 31 dicembre).

L’assurdo comportamento di Francia e Spagna

Padre Maurizio Albanese, missionario comboniano, direttore della rivista “Popoli e Missioni”, esperto di questioni africane, denuncia ad Aleteia l’atteggiamento ambiguo della politica internazionale sulla gravissima situazione del Congo. In particolare di Francia e Spagna.

«Se da una parte è vero che il capo della diplomazia dell’Unione Europea (Ue), Federica Mogherini, abbia denunciato, lo scorso 3 gennaio, il ricorso alla violenza, l’attacco alla libertà di espressione e il blocco dei mezzi d’informazione da parte del governo di Kabila – evidenzia padre Albanese – la Ue non ha minacciato nuove sanzioni contro Kinshasa. Infatti, stando a fonti diplomatiche accreditate a Bruxelles, i governi di Francia e Spagna, avrebbero impedito che vi fosse una presa di posizione più esplicita».

Un Paese ricco e appetibile

È evidente, prosegue Albanese, che, come al solito, dietro le quinte, si celano interessi economici strategici. Stiamo parlando, è bene rammentarlo, di un Paese che possiede il 34% delle riserve mondiali di cobalto, il 10% di quelle di oro, oltre il 50% di rutilio, per non parlare degli ingenti depositi di diamanti, uranio, cassiterite, petrolio e gas naturale. Inoltre, sul territorio congolese si trova circa il 70% delle risorse idriche dell’Africa e dalla sua foresta pluviale si ricava legname d’ogni genere esportato in tutto il mondo.

“Dall’Europa serve coerenza!”

Negli ultimi vent’anni, ricostruisce il missionario comboniano, «vasti settori geografici del Paese, soprattutto sul versante orientale, sono stati teatro di scontri che hanno coinvolto una galassia di gruppi ribelli, molti dei quali finanziati e sostenuti dai Paesi limitrofi (Uganda e Rwanda), coinvolti nell’estrazione illegale delle ricchezze del sottosuolo. Secondo autorevoli fonti della società civile, la svolta sarà davvero possibile nella misura in cui vi sarà maggiore coerenza da parte della comunità internazionale, Europa in primis».

Infatti, dopo l’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza francese, Parigi e Kinshasa hanno stretto fitte relazioni diplomatiche.

Onu e Belgio in controtendenza

La posizione di Francia e Spagna è certamente condivisa anche da altre potenze straniere, fa notare padre Albanese, «come il governo cinese che è tradizionalmente allergico all’agenda dei diritti umani, soprattutto quando si tratta di affari. Per carità, sarebbe ingiusto fare di tutte le erbe un fascio. Le Nazioni Unite, per bocca del segretario generale Antonio Guterres, hanno sollecitato il governo congolese a “rispettare i diritti del popolo congolese alla libertà di espressione e alla pacifica manifestazione”. E anche il governo belga ha deplorato “la brutale repressione” di San Silvestro».


La rabbia (piuttosto isolata) del cardinale

Alla prova dei fatti, l’ex Zaire potrebbe essere un paradiso terrestre anche se poi, andando avanti di questo passo, rischia davvero l’implosione. «Non rimane che la voce della Chiesa, in particolare quella dell’arcivescovo di Kinshasa, il cardinal Laurent Monsengwo», ha commentato padre Eliseo Tacchella, missionario comboniano e profondo conoscitore della situazione congolese.

Il porporato ha infatti usato parole inequivocabili e molto dure dopo quel 31 dicembre, definendo «mediocre» l’attuale classe politica e «barbari» gli uomini in uniforme che hanno perpetrato le violenze di fine anno. «È tempo per i mediocri di andarsene», ha detto in un comunicato, rilanciato dalla stampa internazionale, lo scorso 2 gennaio.

“Potrebbe esplodere da un momento all’altro”

L’arcivescovo di Kinshasa ha condannato pubblicamente le violenze dei militari al soldo di Kabila, in particolare «il fatto di aver impedito ai fedeli cristiani di entrare in chiesa per partecipare alla celebrazione eucaristica nelle diverse parrocchie di Kinshasa – come si legge nel comunicato – il furto di soldi, di cellulari, la ricerca sistematica delle persone e dei loro beni all’interno della chiesa e per le strade, l’ingresso dei militari, le uccisioni, l’uso delle armi contro i cristiani che avevano in mano bibbie, crocifissi e statue della Vergine».

Una cosa è certa, sentenzia Albanese: «L’ex Zaire è davvero una grande polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro».

Il “sordo”

Papa Francesco aveva compreso da tempo la gravità del caso Congo. Aveva ricevuto in udienza Kabila, il 26 settembre del 2016 in Vaticano, sottolineando, conclude il direttore di Popoli e Missioni, «l’importanza della collaborazione tra gli attori politici e i rappresentanti della società civile e delle comunità religiose, in favore del bene comune, attraverso un dialogo rispettoso e inclusivo per la stabilità e la pace nel Paese».

Purtroppo, nel caso di Kabila, chiosa Albanese, «è proprio vero quello recita il proverbio: “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”».
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Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » sab gen 20, 2018 8:08 am

Altissima tensione tra Sudan ed Egitto. Lo scontro tra musulmani si trasferisce in Africa
Claudia Colombo
20/01/2018

http://www.rightsreporter.org/altissima ... sce-africa

Lo scontro tra potenze musulmane si trasferisce in Africa e il primo vero campo di battaglia potrebbe essere quello tra Sudan ed Egitto, ormai a un passo dalla guerra

È altissima tensione tra Sudan ed Egitto dopo che il 4 gennaio scorso Khartoum ha richiamato il proprio ambasciatore al Cairo per “consultazioni” a seguito dell’aumento delle tensioni militari tra i due Paesi a causa della contesa per il cosiddetto Triangolo di Hala’ib, Shalateen e Abu Ramad (detto anche solamente Triangolo di Hala’ib).

Perché le tensioni tra Sudan ed Egitto e come si è arrivati a questo punto

La crisi tra i due vicini africani risale a decenni fa, in particolare dopo che il Sudan ottenne l’indipendenza. I due Paesi non sono d’accordo sulla proprietà del Triangolo di Hala’ib, Shalateen e Abu Ramad, tre regioni di confine che sono state fonte di discordia dopo l’indipendenza del Sudan dalla colonizzazione britannica nel 1956. La regione contesa è un terreno di 20.500 chilometri quadrati che si trova tra i due paesi ed è delimitato da un lato dal Mar Rosso.

Negli anni ’90, l’Egitto ha inviato le sue truppe al Triangolo di Hala’ib, una mossa che ha innalzato la crisi ad un nuovo livello. Tuttavia, nei due decenni successivi la disputa territoriale rimase ferma e non evolse in alcun modo. Ne frattempo però i due Paesi africani hanno continuato una lotta dietro le quinte nella quale l’Egitto ha appoggiato i ribelli del Darfur mentre il Sudan ha usato le acque del Nilo come arma di pressione sul Cairo. Lo scontro si fa più acceso quando nel 2016 l’Egitto trasferisce all’Arabia Saudita la proprietà di due isole contese nel Mar Rosso, quelle di Tiran e Sanafir, una cessione che di fatto ridisegnava i confini marittimi tra i due Paesi in maniera unilaterale e che quindi riconosceva unilateralmente il dominio egiziano sul Triangolo di Hala’ib.

A seguito di quella mossa egiziana il Presidente sudanese, Omar al-Bashir, concludeva una accordo con il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, secondo il quale il Sudan cedeva temporaneamente alla Turchia la strategica Isola di Suakin, sul Mar Rosso, per potervi creare una base militare. La reazione dell’Egitto è stata pressoché immediata. Il Presidente egiziano, Abd al-Fattah al-Sisi, ordina l’invio di migliaia di militari in Eritrea, in una base di proprietà degli Emirati Arabi Uniti, una mossa che a sua volta ha provocato la chiusura del confine tra Sudan ed Eritrea e il conseguente dispiegamento di militari sudanesi lungo il confine con l’Eritrea.

Come se non bastasse è tornata a farsi sentire la questione riguardante le acque del Nilo con il Sudan che non ha mai ostacolato la costruzione della grande diga di Renaissance (Grand Ethiopian Renaissance Dam) che l’Etiopia sta costruendo nella regione di Benishangul-Gumuz sul Nilo Bianco,a 40 Km dal confine sudanese, un’opera che preoccupano moltissimo gli egiziani in quanto, a detta loro, potrebbe limitare l’afflusso delle acque del Nilo in Egitto, un’opera che per di più è fortemente sostenuta dal Qatar proprio per “indispettire” l’Egitto alleato dell’Arabia Saudita.

I due schieramenti musulmani si scontrano in Africa

Sudan ed Egitto diventano quindi il terreno di scontro che vede contrapposti i due grandi schieramenti del mondo musulmano che non sono quello sunnita e sciita come molto semplicisticamente si dice, ma che vedono Iran, Turchia, Qatar e Sudan da un lato ed Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri Paesi del Golfo dall’altra.

La situazione tra Sudan ed Egitto non è per nulla da sottovalutare. Parlando con la stampa l’ambasciatore sudanese in Egitto appena richiamato a Khartoum ha fatto intendere chiaramente che l’escalation è solo all’inizio e che una guerra tra Sudan ed Egitto è più che probabile.

In tutto questo, fanno notare gli analisti, è più che evidente l’impronta della Turchia che sta puntando decisamente alla “conquista dell’Africa” anche attraverso la Fratellanza Musulmana ormai radicata in moltissimi Paesi africani. Da quando guida la Turchia Erdogan ha compiuto 30 visite nei Paesi africani promettendo aiuti in cambio di moschee e in molti casi stringendo patti di muta assistenza militare. E se il Sudan minaccia così apertamente l’Egitto lo può fare solo grazie al supporto militare promesso da Erdogan ad al-Bashir. Alla base di tutto questo c’è proprio l’ostilità saudita ed egiziana nei confronti della Fratellanza Musulmana della quale Erdogan è uno dei più eminenti esponenti. E a dimostrazione che lo scontro tra le potenze musulmane si sta trasferendo in Africa va ricordato anche che poche settimane fa un contingente militare turco ha aperto una base in Somalia, ufficialmente per favorire gli aiuti umanitari, in realtà un primo passo verso una presenza permanente turca in Somalia.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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