El disco dito de Reitia

El disco dito de Reitia

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2015 5:34 pm

El disco dito de Reitia
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La figoura femała lè coeła de na shamana o de na dea o de na so sagròsa o saçerdòsa (sacerdotesa) con funsion o speçałixasion "psicoponpe", osia coeła de conpagnar l'anema del morto a l'aldelà, kel pol esar l'enferno/sototera raprexentà dal can o dal paradeixo/çeło raprexentà da l'oxeło:

http://www.treccani.it/vocabolario/psicopompo
psicopòmpo agg. e s. m. [dal gr. ψυχοπομπός, comp. di ψυχή «anima» e πομπός «conduttore»]. – Nella religione greca, epiteto di divinità, soprattutto di Ermete (anche di Caronte e di Apollo), designante la loro funzione di guida delle anime dei trapassati verso il regno dei morti (v. anche psicagogo).

http://www.treccani.it/vocabolario/psicagogo
psicagògo s. m. [dal gr. ψυχαγωγός, comp. di ψυχή «anima» e ἄγω «condurre, guidare»] (pl. -ghi), non com. –
1.
a. Sacerdote o negromante che evoca le anime dei morti.
b. Presso i Greci, sinon. di psicopompo (v.).
2. raro. Guidatore, informatore di anime (detto, per lo più scherz., di un filosofo, di un educatore e simili).

http://www.treccani.it/vocabolario/negromante
negromante (ant. nigromante) s. m. [dal gr. νεκρόμαντις (comp. di νεκρός «morto» e μάντις «indovino»), raccostato a negro]. – Genericam., mago, indovino: Sì ad alto il negromante batte l’ale, Ch’a tanta altezza a pena aquila sale (Ariosto). Con accezione più partic., chi esercita negromanzia (in questo caso, anche necromante).


Ente ła man ła ga ła ciave o baston praposto ke catura l'anema
Sa xeło sto angagno dito “ciave de Reitia”?
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Anca staltri 6 diski łi xe varianse de ła fameja:

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Serci o diski de bronxo veneteghi:
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https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... hhTFE/edit

Co łi òmani moriva e more: caretà çełeste, sepełimento e cremasion
viewtopic.php?f=24&t=1437

Spirtoaƚetà da ƚa pristoria, shamaneixmo e coxmołoja shamana
viewtopic.php?f=24&t=19

Anema, atem, atman, atimarse
viewtopic.php?f=44&t=336
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Re: El disco dito de Reitia

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2015 5:38 pm

El can o lovo/lupo (ma anca iena, coyote, sciacało, volpe) lè cofà Cerbero e Anubi e Upuaut; tute bestie de tera e de aria ke łe magna carogne.

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Anubi
http://it.wikipedia.org/wiki/Anubi
Nella religione egizia, Anubi (o Anubis) era la divinità che proteggeva le necropoli ed il mondo dei morti, per cui veniva anche chiamato "Il Signore degli Occidentali".
Prima divinità dell'Oltretomba, come recitano i "Testi delle piramidi", venne successivamente sostituito da Osiride, già verso la V dinastia, ma restava il dio protettore del XVII nomo dell'Alto Egitto il cui capoluogo, Khasa, venne chiamato, in epoca ellenistica, Cinopoli ossia "Città dei canidi" per il culto che vi veniva celebrato.
Anubi tra Osiride e Horus
Anubi aveva numerosi titoli che coglievano i vari aspetti della complessa natura del dio, tra i quali:
"Colui che presiede l'imbalsamazione"
"Colui che è sulla montagna" intendendo la montagna dove erano scavati gli ipogei
"Colui della necropoli"
"Colui che è nelle bende" intendendo le bende funerarie ma dall'oscuro significato
Molti demonologi assimilano la sua figura al demone gotico Ipos.
Nel primitivo culto zoolatrico, Anubi era raffigurato come un cane dal pelo rossiccio, con grandi orecchie e lunga coda, ma a partire dal Nuovo Regno veniva rappresentato con il corpo di uomo e testa di cane, chiamata poi genericamente testa di sciacallo, per identificare così l'animale che si nutre di carogne e quindi strettamente connesso alla morte.
L'aspetto di questa divinità era un incrocio tra il cane, lo sciacallo, la iena, la volpe ed il lupo, animali dall'aspetto simile che vivevano nel deserto e vicino ai cimiteri.
La testa era raffigurata nera perché questo colore indicava la putrefazione dei corpi, il bitume impiegato nella mummificazione ma anche il fertile limo, simbolo di rinascita.

Upuaut (lovo/lupo)
http://it.wikipedia.org/wiki/Upuaut
Nella mitologia egizia Upuaut ("colui che apre la via"), figlio di Iside, è il dio lupo della morte e della guerra, venerato in particolar modo ad Abydos.
Upuaut è originario dell’Alto Egitto, come dio patrono del XIII nomos (Lycopolis), ma simboleggia l’unità dell’Alto e del Basso Egitto, presenziando i rituali di unificazione reale.
Come Anubi, con il quale viene spesso identificato, è una divinità funeraria e uno dei più antichi dèi venerati. Il suo culto aumentò d'importanza a partire dalla I dinastia fino alla XII dinastia, per lasciare il posto ad Osiride, e scomparve del tutto dopo la XVIII dinastia.
Fu identificato con Khentamenti, l'equivalente dell'Ade greco.
Viene raffigurato come un uomo vestito da soldato con la testa di lupo o sciacallo, con pelliccia grigia, bianca o marrone, solitamente con mazza ed arco nelle mani. In qualità di dio guerriero, alcuni studiosi hanno ipotizzato che uno stendardo che lo raffigurava fosse portato alla testa degli eserciti in guerra e si trova raffigurato nella Tavoletta di Narmer.

Khentamentyu
http://it.wikipedia.org/wiki/Khentamentyu
Khentamentyu (anche Khentamenti) è una divinità ancestrale della mitologia egizia, particolarmente venerata ad Abydos, in Egitto. Si considera protettore dei morti (da cui il nome in italiano Primo degli Occidentali, ossia i trapassati), e viene raffigurato come uno sciacallo.

Cerbero
http://it.wikipedia.org/wiki/Cerbero
Cerbero nella mitologia greca era uno dei mostri che erano a guardia dell'ingresso dell'Ade, il mondo degli Inferi. È un mostruoso cane a tre teste, le quali simboleggiano la distruzione del passato, del presente e del futuro[?]. Tutto il suo corpo era ricoperto, anziché di peli, di velenosissimi serpenti, che ad ogni suo latrato si rizzavano, facendo sibilare le proprie orrende lingue. Il suo compito era impedire ai vivi di entrare ed ai morti di uscire. In realtà nell'antichità il "nudo suolo" era definito Cerbero (o "lupo degli dei") poiché ogni cosa seppellita pareva essere divorata in breve tempo.

Ade
http://it.wikipedia.org/wiki/Ade_%28regno%29
Ade (in greco antico Ἅιδης, traslitterato in Ádēs) identifica il regno delle anime greche e romane (chiamato anche Orco o Averno). In realtà, è solo una trasposizione del nome del dio: si voleva identificare il regno col suo stesso re.
Il regno dei morti greco/latino era, al contrario di quello ebraico e cristiano, un vero e proprio luogo fisico, al quale si poteva persino accedere in terra da alcuni luoghi impervi, difficilmente raggiungibili o comunque segreti e inaccessibili ai mortali.
L'Ade, che accoglie le anime di tutti i defunti tranne i morti rimasti insepolti, alle volte viene confuso con una sua sezione, Tartaro, il luogo in cui si trovano sia i Titani che invano tentarono di sconfiggere gli dei Olimpi, sia quei mortali puniti per i loro gravi misfatti come Tantalo, Sisifo, le Danaidi; e questo più che altro sulla base dell'iconografia cristiana relativa all'Inferno. Le anime di coloro che in vita non furono né malvagie né straordinariamente virtuose si aggirano invece sul Prato degli Asfodeli, un luogo bello ma debolmente illuminato: le anime più nobili, infine, accedono nei luminosissimi Campi Elisi, o secondo alcuni autori, alle Isole Fortunate.

Tartaro
http://it.wikipedia.org/wiki/Tartaro_%28mitologia%29
Tartaro (dal greco Τάϱταϱος) indica, nella Teogonia di Esiodo, il luogo inteso come la realtà tenebrosa e sotterranea (katachthònia), e quindi il dio che lo personifica, venuto ad essere dopo Chaos e Gaia. Zeus vi rinchiuse i Titani, stirpe divina e padri degli dei dell'Olimpo, dopo averli sconfitti a seguito della Titanomachia.

I cani, coyote ente l'Amerega
http://it.wikipedia.org/wiki/I_cani_nel ... oamericana
I cani hanno occupato un ruolo importante nel folclore mesoamericano e nella sua mitologia, soprattutto tra il periodo classico e l'era moderna. Secondo una comune credenza della mesoamerica un cane trasporta i morti oltre un corso d'acqua, per poter raggiungere l'aldilà. I cani appaiono nelle scene dell'oltretomba dipinte sulle ceramiche Maya del periodo classico. Nel preclassico i Chupicaro seppellivano i cani assieme ai morti. Nella grande metropoli del periodo classico di Teotihuacan, sono stati rinvenuti 14 corpi umani depositati in una grotta, molti dei quali di bambini, assieme a tre cani che li avrebbero dovuti guidare nella strada per l'oltretomba.

Dormarth
http://www.bibrax.org/celti_storia/cane_celti.htm
Inoltre, i cani erano simbolicamente rilevanti anche nell'ambito della morte: infatti il Dio del mondo sotterraneo era accompagnato da cani bianchi con le orecchie rosse (il Dio gallese dell'oltretomba Arawan ha una muta di tali cani, cfr. Mabinogi, i Cwn Annwn, o Cani di Annwn), mentre nella mitologia irlandese il cane Dormarth sta di guardia al regno dei morti (un pò come il cerbero dei miti classici). In effetti, i racconti mitologici Irlandesi sono ricchi di riferimenti a cani da caccia dalle abilità straordinarie, come il Cucciolo di Ioruaidhe citato nel Lebor Na hUidre. Vi sono infiniti racconti nella cultura celtica in merito a cani fantastici o incantati a volte beneauguranti, a volte no; possiamo citare ancora due esempi: Sucellos, il "Buon Colpitore", divinità gallica assimilabile al Dagda gaelico che viene a volte ritratto in compagnia di un cane di grandi dimensioni, e il famoso Cuchulain.

Coyote
http://it.wikipedia.org/wiki/Sciacallo
Con il termine sciacallo si identificano impropriamente tre (secondo alcuni quattro) diverse specie di mammiferi appartenenti al genere dei Canis, e le relative sottospecie. Questa definizione non ha alcun valore scientifico e tassonomico, ma viene ugualmente utilizzata molto spesso per definire tali specie, che presentano delle notevoli somiglianze morfologiche tra loro.
La parola "sciacallo" deriva dal termine turco Çakal, derivato a sua volta dal persiano Shaghāl, il quale deriva, probabilmente, dal sanscrito Śṛgālaḥ.
Gli sciacalli occupano una nicchia ecologica simile a quella dei coyote americani, in quanto sono predatori di piccoli animali e, soprattutto, mangiatori di carogne. Sono animali notturni, attivi prevalentemente all'alba e al tramonto.

Voce di bronzo'. Il cane e la sfera della morte, nella tradizione e nelle sepolture dell'antica Grecia
https://www.academia.edu/7852956/Voce_d ... ica_Grecia
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Re: El disco dito de Reitia

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2015 5:41 pm

L'oxeło lè on jepeto o avoltoio lè de sta fameja kive de sensari o entermedrari


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Tori del siłensio de Çatalhöyük (ani 7400 al 5700 v.C. sx = suparxo o suxo)

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http://it.wikipedia.org/wiki/%C3%87atalh%C3%B6y%C3%BCk
Çatalhöyük (pronuncia turca [tʃaˈtaɫhœˌjyk]; spesso scritto Çatal Hüyük fuori dalla Turchia; da çatal, "forcella" e hüyük, "collina", variante dialettale della parola höyük[s f ) è un importante centro abitato di epoca neolitica dell'Anatolia (in Turchia), nella Provincia di Konya, ai margini meridionali della pianura.
Il sito, ricostruito lungo una sequenza di 18 livelli stratigrafici che vanno dal 7400 al 5700 a.C. ca., occupa una superficie di 13,5 ettari, dei quali solo un 5% è stato indagato con scavi archeologici.
È stato distrutto a causa di un incendio nel 5880 a.C.[sf]
È stato scoperto alla fine degli anni cinquanta; James Mellaart vi ha condotto campagne di scavi tra il 1961 ed il 1965. Dal 1993, ulteriori ricerche sono condotte da Ian Hodder.


Sepelimento çeleste
http://it.wikipedia.org/wiki/Sepoltura_celeste
La sepoltura celeste è un antico rito funerario tibetano, ancora oggi praticato da alcune comunità. Il rito prevede che il corpo del defunto venga scuoiato ed esposto agli avvoltoi. In Tibet la pratica è nota come jhator, che vuol dire fare l'elemosina agli uccelli. Negli anni '60-'70 la Cina ha vietato questa pratica, che è tornata ad essere legale dagli anni '80.
Il tomden, il maestro buddhista del cerimoniale, scuoia il cadavere dalla testa ai piedi, lasciando al contatto dell'aria le interiora e le ossa. Gli avvoltoi cominciano a volteggiare sopra il luogo del rituale, attirati dal fuoco del ginepro e dall'odore della carne. Il tomden chiama gli avvoltoi usando l'espressione Shey, Shey ("Cibatevi, cibatevi"). Gli uccelli, attirati dalla carne, discendono così dal cielo e si nutrono del corpo dell'uomo morto. Le ossa e il cervello poi vengono frantumati con un martello di pietra e mescolati con farina d'orzo. Il tomden richiama ancora gli avvoltoi, che ridiscendono per mangiare gli ultimi resti.
Scopo e significato
La sepoltura celeste rappresenta la morte come episodio del tutto naturale, parte dell'eterno ciclo delle rinascite. Secondo la cultura buddhista, il corpo è un semplice involucro che permette di compiere il viaggio della vita. Con la morte lo spirito abbandona il corpo che di conseguenza non ha alcuna necessità di essere conservato. Lasciare il proprio corpo in pasto agli avvoltoi è un atto finale di generosità da parte del defunto nei confronti del mondo della natura che crea un legame con il ciclo della vita. Gli stessi avvoltoi sono venerati e considerati una manifestazione dei Dakinis, gli equivalenti tibetani degli angeli (Dakinis significa "danzatore del cielo").

Tori del siłensio
http://it.wikipedia.org/wiki/Torre_del_silenzio
Le torri del silenzio (Dakhma in Lingua farsi; note anche come "Cheel Ghar" in Hindi e "Tower of Silence" in inglese) sono una istituzione tipica dello Zoroastrismo. Esse sono costituite da impalcature di legno fino a 10 metri di altezza, che sostengono una piattaforma esposta ai venti, e servono per la deposizione dei cadaveri, che, lì esposti, vengono smembrati e divorati dagli uccelli rapaci.
Per lo zoroastrismo il fuoco è sacro, e pertanto non può toccare i cadaveri, considerati impuri, rendendo impossibile il ricorso alla cremazione. Non si ricorre nemmeno alla sepoltura, sia perché la putrefazione dei cadaveri era estranea e venne sempre vista in modo non favorevole nella tradizione vedica, sia perché anche la terra era sacra e come tale non poteva essere contaminata.
La scomparsa del cadavere per via degli uccelli, che, non toccando terra, restano in aria e negli alberi, risolveva questo dilemma.
Lo zoroastrismo, predominante in Iran durante il periodo di massimo splendore di tale paese, quello achemenide e sasanide, venne colà perseguitato dopo la conquista musulmana, ma sopravvive oggi in piccole e floride comunità dell'India, dette parsi.

Gipeto
http://it.wikipedia.org/wiki/Gypaetus_barbatus
Il gipeto (Gypaetus barbatus Linnaeus, 1784) è un uccello rapace della famiglia Accipitridae, unica specie del genere Gypaetus Storr, 1784. Comunemente noto come "avvoltoio barbuto" o "avvoltoio degli agnelli", fa parte degli avvoltoi del Vecchio Mondo, ed è l'avvoltoio di maggiori dimensioni tra quelli nidificanti in Europa.
Tipicamente stanziale, nidifica sui dirupi in alta montagna nell'Europa meridionale, in Africa, in India ed in Tibet, deponendo una o due uova. È stato reintrodotto con successo sulle Alpi, ma continua ad essere uno dei più rari avvoltoi d'Europa.
Come altri avvoltoi è un necrofago, cioè si nutre principalmente di carcasse di animali morti, ed ha una dieta estremamente specializzata, nutrendosi in particolare delle ossa e del midollo osseo. Un comportamento tipico è quello di lasciar cadere le ossa di carcasse da grandi altezze, per frantumarle e quindi nutrirsene.

Avoltoio
http://it.wikipedia.org/wiki/Avvoltoio
Avvoltoio è il nome comune con cui si indicano specie di uccelli dell'ordine degli Accipitriformi, appartenenti alle famiglie degli Accipitridae (avvoltoi del Vecchio Mondo) e dei Cathartidae (avvoltoi del Nuovo Mondo).
Gli avvoltoi sono uccelli saprofagi ("spazzini"), che si alimentano principalmente di carcasse di animali morti.
A differenza degli avvoltoi del Nuovo Mondo che hanno un olfatto estremamente sviluppato, gli avvoltoi del Vecchio Mondo individuano le carcasse sfruttando esclusivamente il senso della vista.
Gli avvoltoi (soprattutto il grifone) sono alla base del rito della sepoltura celeste praticato dai buddhisti tibetani e dai Parsi dell'India.


Salvate gli avvoltoi - 28 febbraio 2012
Meera Subramanian, Virginia Quarterly Review, Stati Uniti

http://archivio.internazionale.it/news/ ... i-avvoltoi

Da sempre tengono pulite le campagne indiane dalle carogne prevenendo le epidemie. Ma gli “spazzini” del subcontinente stanno scomparendo. Con conseguenze inimmaginabili.

All’inizio nessuno si era accorto della loro assenza. Gli avvoltoi – goffi e massicci, il collo nudo curvo sulla carne putrefatta ai bordi delle strade, sulle rive del Gange, ai piedi delle mura e dei pinnacoli di ogni tempio e di ogni torre – un tempo erano così onnipresenti che in India nessuno li notava, erano invisibili. E qualcosa, dentro di noi, non voleva vederli. Gli avvoltoi sono universalmente privi di fascino, con la loro testa grigia senza piume, la fronte pronunciata che disegna un cipiglio perenne, l’enorme becco senza punta in grado di scheggiare le ossa. Vomitano quando si sentono minacciati e puzzano di morte.

Nell’Asia del sud possono raggiungere i due metri e mezzo di apertura alare e mentre volteggiano, attratti dal lezzo di una carogna putrefatta, proiettano un’ombra immensa.

In tutto il mondo questi voraci saprofagi suscitano disgusto e sono associati alla morte. E noi, istintivamente, voltiamo lo sguardo. Ma in tutta la storia dell’uomo, gli avvoltoi hanno sempre servito l’India fedelmente. Ripulivano le campagne sgombrando i campi dalle vacche e dalle capre morte. Si libravano sulle città alla ricerca di cadaveri sulle strade e si cibavano dei rifiuti disseminati da una popolazione in continuo aumento.

In un subcontinente dove costumi e tradizioni culturali e religiose limitano il contatto fisico con i morti, umani o animali che siano – i musulmani non mangiano bestie che non siano state uccise secondo il metodo halal, gli indù non possono consumare carne di manzo –, gli avvoltoi erano un sistema di smaltimento naturale ed efficiente. A Mumbai i parsi (un gruppo religioso che non ammette la cremazione e la sepoltura) mettono i loro morti sulle torri del silenzio perché gli avvoltoi li consumino secondo un rito conosciuto come “sepoltura celeste”. A New Delhi sciamavano sulle discariche della città. Ma oggi gli avvoltoi in India sono quasi scomparsi.

Vibhu Prakash, il principale studioso della Società di storia naturale di Bombay (Bnhs), ha notato i primi segnali della loro scomparsa già una quindicina di anni fa. Nel 1984 aveva studiato la popolazione ornitologica del parco nazionale di Keoladeo, vicino a New Delhi, registrando 353 coppie di avvoltoi con nido. Quando tornò, nel 1996, erano meno della metà. “C’erano molti nidi vuoti e avvoltoi morti ovunque: sotto i cespugli, appesi agli alberi, nei nidi”, racconta Prakash. Nel 1999 non rimaneva più nemmeno una coppia. La Bnhs lanciò l’allarme e i biologi di tutto il paese confermarono che le tre specie più diffuse nell’Asia del sud – l’avvoltoio dal becco sottile (gyps tenuirostris), il grifone del Bengala o grifone dorsobianco orientale (gyps bengalensis) e l’avvoltoio indiano o beccolungo (gyps indicus) – stavano morendo in tutta la regione.

Il grifone del Bengala un tempo era il rapace più diffuso nell’intero subcontinente indiano. “Erano così tanti che non riuscivamo a contarli uno a uno”, spiega Prakash. “Ne vedevamo volare a centinaia e li contavamo a decine o a gruppi di cinquanta”. Secondo i calcoli degli scienziati, negli anni ottanta trenta milioni di grifoni del Bengala volavano sull’Asia del sud sospinti dalle correnti ascensionali. Ora ce ne sono undicimila.

Nel 2000 l’Unione mondiale per la conservazione della natura (Iucn) dichiarò che tutte e tre le specie erano a grave rischio di estinzione, e la comunità scientifica indiana si rivolse ai colleghi di altri paesi per individuare le cause della catastrofe. Inizialmente si pensò a una malattia infettiva o alla bioaccumulazione di pesticidi, simile agli effetti devastanti del ddt sugli uccelli predatori di mezzo secolo prima in Europa e in Nordamerica. Giravano voci che accusavano gli statunitensi – “così tecnologicamente avanzati”, come amano scherzare gli indiani – di aver prodotto qualche nuova sostanza chimica che stava uccidendo gli avvoltoi. Dopo il disastro provocato dalla Union Carbide a Bhopal, è difficile accusare gli indiani di essere prevenuti. Ma è stato proprio un americano, Lindsay Oaks, microbiologo della Washington State University, a riuscire a isolare la causa del disastro nell’aprile 2003.

Le tre specie di avvoltoi stavano morendo perché si nutrivano di carcasse di animali trattati con il diclofenac, un analgesico leggero simile all’aspirina o all’ibuprofene. Dopo averlo assunto per decenni, nei primi anni novanta gli indiani avevano cominciato a usarlo per alleviare le sofferenze di animali con gli zoccoli spaccati o le mammelle gonfie. Per ragioni sconosciute, gli avvoltoi che si nutrono di animali trattati con diclofenac sviluppano la gotta viscerale, un’insufficienza renale incurabile che provoca una cristallizzazione diffusa nei loro organi interni. La morte arriva nel giro di poche settimane.

Anche dopo la scoperta, ci sono voluti due anni perché il governo indiano proibisse la vendita di diclofenac a scopi veterinari. Ma gran parte dei negozi per animali lo vende ancora sotto banco. Così nella regione gli avvoltoi sono diminuiti del 97 per cento – il più catastrofico crollo di popolazione aviaria da quando le armi da fuoco spazzarono via il piccione migratore. Solo quindici anni fa c’erano almeno cinquanta milioni di avvoltoi nel subcontinente indiano. Oggi, secondo la britannica Royal society per la protezione degli uccelli, in natura sopravvivono meno di 60mila individui delle tre specie, e un recente censimento promosso dal governo indiano, il primo dopo tre anni, ha dato risultati ancora più sconfortanti.

Ora che non è più un mistero l’India deve trovare il modo di proteggere il suo più importante saprofago o i rischi per la salute degli esseri umani saranno incalcolabili. Gli avvoltoi un tempo sgombravano il paesaggio da malattie come tubercolosi, brucellosi, afta epizootica. I forti acidi gastrici e l’alta temperatura corporea consentono loro di ingerire senza problemi persino una carcassa infettata dall’antrace. Il timore è che con la scomparsa degli avvoltoi queste malattie si diffonderanno non solo tra gli animali ma anche tra gli uomini.

L’arca di Manu
Viaggio in treno per cinque ore a nord di New Delhi per raggiungere il Centro di riproduzione e preservazione degli avvoltoi di Pinjore. Qui Vibhu Prakash guida una squadra che sta tentando di far riprodurre 238 avvoltoi in cattività. Una jeep mi trasporta per gli ultimi chilometri sull’ampio letto di un fiume asciutto fino all’oasi protetta di Bir Shikargah. Le macache mulatte dal sedere rosso formano una vera e propria falange lungo la strada: aspettano di essere nutrite dagli indù che le venerano come incarnazione locale del loro dio-scimmia, Hanuman. Senza preavviso, l’autista sterza bruscamente e la macchina lascia la strada per imboccare un viottolo non più largo della nostra jeep. Il cancello di ingresso è poco più avanti.

Su una superficie di un paio d’ettari concessa dal governo, Prakash, sua moglie Nikita e uno staff di dieci collaboratori gestiscono uno dei centri del programma di allevamento della Bnhs, dove buona parte degli animali da riproduzione vive in tre grandi voliere di cemento. È una versione dell’arca a misura di avvoltoio. Nella versione indù del diluvio universale, fu l’eroico re Manu, figlio del Sole, a ricevere l’incarico di salvare gli animali del mondo in una grande nave. Manu, come il Noè del mondo occidentale, divenne il custode di una miniera genetica.

Aperto nel 2004, il centro di Pinjore doveva essere la prima delle quattro strutture previste dal piano per il salvataggio dell’avvoltoio messo a punto dal governo indiano. Ne sono state aperte solo altre due, e solo Pinjore si avvicina all’obiettivo fissato dal piano, quello di allevare 25 coppie di ciascuna delle tre specie di gyps. Secondo Prakash, oggi tutto dipende da questo centro.

Appena il mio autista varca il cancello, arrivano le capre morte. Due volte alla settimana Prakash riceve alcune capre non trattate con diclofenac da dare in pasto agli avvoltoi. I collaboratori scaricano otto carcasse dal retro della jeep. Si annodano alla vita il grembiule di plastica e agganciano alle orecchie la mascherina sanitaria, ma le mani sono nude e ai piedi hanno un paio di sandali. Fanno a pezzi le capre a colpi di machete. Questa carne è la spesa principale sostenuta dal centro. Ogni mese occorrono migliaia di dollari per nutrire gli uccelli, più che per pagare tutto lo staff. La mancanza di finanziamenti è un problema costante e minaccia la riuscita del progetto. È molto più facile convincere i donatori ad aprire il portafoglio per tigri ed elefanti che per rapaci che si nutrono di carogne.

Gli assistenti infilano le carcasse in alti secchi azzurri e scompaiono a coppie verso le voliere nei boschi circostanti. Per non disturbare gli avvoltoi, aprono un portello sul lato lungo della costruzione e ci infilano dentro le carcasse. È il periodo della riproduzione e anche se alcuni uccelli si sono abituati a queste piccole intrusioni, gli altri potrebbero innervosirsi, con il rischio che distruggano le uova o abbandonino la covata. Depongono un unico uovo all’anno, ma non sempre, e questo è un rischio che il centro non può permettersi di correre. Dato che le voliere sono interdette ai visitatori, mi dirigo con Nikita, la moglie di Prakash, una donna minuta dall’aspetto giovanile, a osservare gli avvoltoi dorsobianco dalla tv a circuito chiuso.

Allevare gli avvoltoi in cattività è un esperimento azzardato, e la biologia va contro ogni probabilità di successo. Fra i 32 avvoltoi che osservo nell’uccelliera dei dorsobianco ci sono solo 12 coppie. Costruiscono il nido per sei settimane prima che la madre deponga l’uovo. Insieme, i genitori lo tengono al caldo per due mesi e, se l’uovo si schiude, alimentano il piccolo nel nido per altri quattro mesi prima del volo inaugurale. Ci vogliono cinque anni perché i giovani avvoltoi arrivino alla maturità sessuale. Il processo è lento e i risultati sono minimi: negli ultimi tre anni a Pinjore ne sono stati allevati con successo solo 17, un numero insufficiente per fermare il declino della specie.

Dieci minuti dopo la consegna delle capre, il primo avvoltoio si avvicina a una delle carcasse. Un minuto dopo sono dieci, e un minuto dopo ancora la capra è completamente nascosta da un consesso di avvoltoi: dorso voltato, ali spiegate, teste che si muovono su e giù, penne che brillano al sole. È uno spettacolo brutale e primitivo. Nikita mi spiega che sono aggressivi con la carne, ma non l’uno con l’altro.

Nel giro di altri dieci minuti l’eccitazione si è già placata. Le ossa nude sporgono dalla carne semidivorata, e un uccello con una sola ala si arrampica sopra la carcassa. Sazi, quasi tutti gli avvoltoi si allontanano dalle carcasse. Uno se ne sta placidamente appollaiato con le ali e la coda che ricadono fino alla punta degli artigli come la lunga veste di una dama. Il soffice anello di piume che circonda il collo nudo e sottile gli dona un aspetto rinascimentale. “È così bianco, come la neve”, osserva Nikita sorridendo dolcemente.

Trovo contagioso l’evidente amore di Nikita per questi uccelli. Sento la stessa intima meraviglia che provo quando osservo qualunque creatura da vicino, ma c’è qualcos’altro, una specie di nostalgia preventiva, il dolore per qualcosa che presto non ci sarà più. “Venga, le faccio vedere”, mi dice Vibhu Prakash.

Tornando all’aperto, mi accorgo che il cielo si è rannuvolato. Il pasto ha eccitato gli avvoltoi, e la foresta risuona dei loro versi striduli. Lo stridore svanisce quando Vibhu mi conduce lungo un sentiero fino a un recinto coperto. L’uccello C99 è stato trovato in un campo a 80 chilometri di distanza ed è stato portato qui da una famiglia del villaggio. Lo sbircio tra le assi di bambù. “Era così debole”, racconta Vibhu bisbigliando, “che potevi avvicinarti e prenderlo in braccio”. Ma quando gli hanno dato della carne, cruda e rossa, l’avvoltoio si è messo a mangiare e ben presto ha recuperato le forze. Forse aveva mangiato pesticidi o altre sostanze chimiche, ma almeno non il diclofenac, altrimenti sarebbe morto. “È ancora troppo abituato agli uomini”, mormora. “Gli altri vomiterebbero per reazione alla nostra presenza”.

Si volta e torna in ufficio. Vibhu è vicino ai cinquant’anni, ha la faccia tonda e modi dolci, ma la sua voce si alza quando parla degli avvoltoi, quegli uccelli che non aveva mai studiato a fondo finché non hanno cominciato a sparire. “Senza tigri ed elefanti, l’equilibrio ecologico può ancora reggere: il loro ruolo ormai lo svolgono soprattutto gli uomini. Ma nessuno può sostituire gli avvoltoi. Sono spazzini molto efficienti. Nessuno sarà mai in grado di riempire quella nicchia”.

Qualcuno ha criticato il lavoro di Prakash con la Bnhs, sostenendo che è sbagliato allevare avvoltoi in cattività e che la Bnhs deve avere qualche interesse non meglio precisato. Prakash sa bene che l’allevamento in cattività è un processo lungo e che può rivelarsi inefficace, ma non vede soluzioni migliori. “Sarebbe bello poterne fare a meno”, commenta. “Allevare questi animali è dura”. E anche se la riproduzione dovesse funzionare, se la Bnhs riuscisse a raccogliere i fondi e a trovare biologi disposti a fare questo lavoro poco riconosciuto, perfino se gli avvoltoi accettassero i loro nuovi spazi, cosa succederebbe? Non c’è speranza di rimetterli in libertà con successo, a meno che il diclofenac non sia completamente eliminato dall’ambiente. Ogni anno ci saranno più avvoltoi da curare e l’arca dovrà espandersi, eppure le acque del diluvio continuano a salire ogni volta che un agricoltore fa un’iniezione di diclofenac a una mucca malata.

Rameshewar abita a un centinaio di metri da una superficie di due ettari coperta di carcasse. Vive con la famiglia ai bordi della discarica di Jorbeer, alla periferia di Bikaner, una città di mezzo milione di abitanti nel deserto di Thar, nel Rajasthan occidentale. Un tempo qui alloggiava un grande corpo di cammellieri. I militari ormai sono passati a mezzi di trasporto più moderni, ma ci sono ancora decine di cammelli che brucano nei terreni circostanti. Dopo la partenza dei cammellieri, apparve la discarica di carcasse: per la città era un posto comodo dove abbandonare vacche morte, bufali, capre e cammelli.

“Vivo qui da quattro anni con mia moglie e quattro figli”, racconta Rameshewar. “Queste sono le mie quattro capre, che teniamo per il latte. Ogni giorno arrivano dei trattori che scaricano carcasse”. Due volte al giorno, quando arrivano le carcasse, Rameshewar e sua moglie Pandevi le spellano con un coltello e poi le lasciano agli animali e agli elementi. Insieme ammucchiano le pelli trattate con una sostanza essiccante sotto alcune tettoie accanto alla loro abitazione, una baracca con il tetto di paglia inclinato da un lato e una piattaforma esterna di terra battuta con un camino scavato che funge da cucina. Fuori, al sole, tra la polvere del deserto, spuntano zoccoli di capra, code, una scarpa e i sacchetti di plastica che fanno ormai parte del paesaggio indiano.

La comparsa dei cani
Rameshewar è magro e scavato, mentre sua moglie Pandevi è piena e rotonda. Sorride sempre, la pelle scura che contrasta con il vestito arancione sgargiante. La sua unica preoccupazione, a quanto pare, è la presenza sempre più minacciosa dei cani selvatici. “Ce ne sono tanti in giro, a due o tre chilometri da Jorbeer”, racconta con voce stridula. “Di notte, se devo uscire per un bisogno, prendo un bastone”, continua.

Secondo uno studio, il 70 per cento dei decessi mondiali causati dalla rabbia è concentrato in India, dove si registrano oltre 17 milioni di morsi di cane all’anno. Nel decennio della grande moria di avvoltoi, dal 1992 al 2003, una stima indicava che la popolazione di cani era aumentata di un terzo, fino a raggiungere i trenta milioni. L’aumento della popolazione canina coincide perfettamente con la scomparsa degli avvoltoi indiani.

Un funzionario forestale mi dice che a Jorbeer non ci sono più di 150 cani randagi; Rameshewar calcola che siano duemila. La cifra reale, probabilmente, è a metà strada. Cerco di fare un rapido calcolo, ma nel calore di mezzogiorno i cani sono sparsi in giro a cercare l’ombra dei cespugli e degli alberi di acacia, dieci qui, tre là, venti che cercano di guadagnare posizioni intorno all’ultima carcassa, scacciando gli uccelli che si avvicinano troppo.

Una femmina, con le mammelle che pendono basse, mostra i canini a un paio di altre cagne, difendendo i suoi tre cuccioli che sgambettano tra le carogne. Mentre passo, i cani alzano gli occhi e ringhiano a una trentina di metri di distanza. La maggior parte sembra stranamente in buona salute, con grossi muscoli, diversi dagli scheletrici randagi impauriti che si vedono di solito sulle strade dell’India. Solo alcuni sembrano molto malati. Altri sono completamente senza pelo, con la pelle penzolante, le costole sporgenti. Sono i cani che hanno contratto la dermatite, che si diffonde rapidamente nella popolazione e uccide fino al 40 per cento del branco. Questa infezione mortale comincia ad apparire anche nelle gazzelle che attraversano Jorbeer, probabilmente contratta dai cani. Malgrado questo alto tasso di mortalità, il numero dei cani continua a crescere. Se un tempo c’erano dieci cani ogni cento avvoltoi, oggi il rapporto è capovolto.

Due giorni dopo torno alla discarica con Jitu Solanki, un biologo locale che si guadagna da vivere gestendo una pensioncina e organizzando safari nel deserto. Viene spesso alla discarica per osservare gli uccelli e me li indica uno dopo l’altro. Ci sono grandi nibbi neri, corvi gracchianti e alcuni avvoltoi cinerei. Solanki non ha paura dei cani randagi, ma scendendo dalla sua piccola auto cerca di proteggermi. Sta ancora identificando i vari tipi di uccelli quando i cani improvvisamente si agitano e si mettono ad abbaiare, riunendosi insieme nell’attesa di qualcosa che non riusciamo a intuire.

Lui si ferma a metà frase e li osserva. “Sei preoccupato per i cani?”, gli chiedo. Mi guarda con aria grave e risponde seccamente: “Sì”. La sua stima, e mi sembra quella più convincente, è che siano un migliaio. “I cani sono un grosso problema. Sono davvero troppi, ma qui i cani non li uccidono. Per gli indù, lo sai, c’è sempre qualcosa di divino. Abbiamo Bhairava, una reincarnazione di Shiva, e il suo veicolo è un cane, perciò la gente crede che ammazzare un cane sia un’offesa a Bhairava”.

Lontano dalla discarica di Jorbeer, in un quartiere residenziale di Mumbai, i parsi continuano a esporre i corpi per gli avvoltoi che non arrivano più. Un tempo era un sistema perfetto per smaltire i cadaveri. Fin dai tempi del profeta Zarathustra, i zoroastriani usano le dhokmas, le torri del silenzio, per le sepolture. Mentre la grande maggioranza degli esseri umani preferisce seppellire o cremare i morti, i parsi credono che la terra, il fuoco e l’acqua siano elementi sacri che non possono essere contaminati da un cadavere.

Nella loro terra d’origine, la Persia, deponevano i morti su promontori di pietra esposti al sole e gli avvoltoi scendevano a banchettare. Nell’ottavo secolo, quando emigrarono in India per sfuggire alle persecuzioni, portarono avanti la tradizione su 62 ettari di foresta nota come dongerwaadi, nel cuore di Malabar Hill, poi divenuto il quartiere residenziale più elegante di Mumbai. Costruirono una serie di torrioni sui quali i corpi vengono deposti ancora oggi. Anche i parsi, come gli avvoltoi, stanno diminuendo. Si calcola che siano solo centomila in tutto il mondo, più della metà concentrati a Mumbai. Per i più ortodossi, la conversione e i matrimoni misti sono proibiti.

Il problema dei parsi
Dhan Baria non è una tradizionalista. È una donna minuta di poco più di settant’anni, e ha una missione da compiere. Con passo veloce mi guida, contro ogni regola, nella zona delle torri del dongerwaadi, una vera oasi di pace nella metropoli che lo circonda. Percorriamo lo stesso sentiero seguito dalle famiglie parsi quando accompagnano i loro cari per l’ultima volta, prima che i nasarsarlas, i becchini, portino i corpi sulle torri. Mi indica i terreni che si potrebbero usare come cimitero. È una parsi devota e si rammarica per la scomparsa degli avvoltoi, ma pensa che si debba trovare una soluzione alternativa. È arrivata a questa conclusione dopo aver scoperto che il corpo della madre, mesi dopo la sua morte, nel 2005, si stava decomponendo lentamente, esposto nudo in cima alla torre.

“Quando andai a pregare al dongerwaadi, chiesi ai nasarsarlas se mia madre se ne era andata, e loro scoppiarono a ridere!”, racconta con un gesto di incredulità. ‘No, no’, mi dissero, ‘sua madre resterà là per anni!’. Avevo sentito dire che i corpi non si decomponevano, ma chi vuole occuparsi di certe cose?”. Decisa a scoprire la verità, ingaggiò un fotografo perché entrasse di nascosto nella torre e documentasse quello che stava succedendo. Le immagini apparvero prima in volantini distribuiti nelle cassette postali dei parsi e poi raggiunsero la Cnn. L’iniziativa fece molto scalpore. Il parsi panchayat di Mumbai, l’organismo religioso della comunità, aveva assicurato ai fedeli che anche senza gli avvoltoi sulle torri andava tutto benissimo. Le foto dimostravano il contrario.

Alla fine del sentiero, ci fermiamo davanti a un cancello di ferro battuto stretto tra due supporti di pietra, chiuso da un enorme chiavistello. Non si vede un avvoltoio da anni, ma sulle nostre teste volteggiano interi stormi di nibbi neri. Ogni giorno arrivano in media tre corpi, e i nibbi banchettano come gli avvoltoi prima di loro. Però pasticciano, si concentrano sulle parti molli e lasciano troppi resti. La gente si lamenta per il cattivo odore e si dice che sui balconi dei palazzi della zona siano state trovate delle dita. Il panchayat ha tentato di sostituire il servizio impeccabile fornito dagli avvoltoi per secoli con una serie di tecnologie fallimentari.

La macchina dell’ozono non è servita a mascherare l’odore. Le sostanze chimiche versate negli orifizi hanno reso tutto scivoloso perché i corpi si sciolgono penetrando nella pietra. Alla fine hanno scelto dei riflettori solari installati su un’impalcatura d’acciaio e diretti sui corpi per accelerare il processo di decomposizione (immaginate un bambino con una lente d’ingrandimento puntata su una formica). Ma la stagione delle piogge dura quattro mesi e i dispositivi solari essiccano i corpi invece di distruggerli. Per i sacerdoti più ortodossi si tratta di una cremazione mascherata.

I limiti dell’ortodossia
Anche Khojeste Mistree, studioso parsi e membro del panchayat, è di questa opinione. Torno nello stesso luogo con lui. Con una bella pancetta, il pizzetto grigio ben curato e il volto senza rughe, è un uomo non sfiorato dal dubbio. “La gente dice che le torri del silenzio sono antiquate, che dovremmo passare alla cremazione e dimenticare le nostre tradizioni”, mi spiega con puro accento di Cambridge, anche se sono passati trent’anni da quando ha studiato lì. “Io sono assolutamente contrario. Questa potente, rumorosa minoranza di riformisti non conosce la religione”. Chiarisce che lui non è un sacerdote. “Io insegno ai sacerdoti”, sottolinea. Lo trovo simpatico per essere un puritano.

Mistree ha un piano grandioso. Immagina una voliera per avvoltoi, alta venti metri e grande come due campi da calcio, che avvolga le torri e gli alberi senza tagliare un solo ramo. I critici – e ce ne sono molti sia nella comunità parsi sia in quella scientifica – sostengono che per gli avvoltoi una voliera significherebbe la morte sicura. Il diclofenac è presente in centinaia di antidolorifici. Sarebbe di fatto impossibile accertarsi che i corpi dei parsi, come la carne di capra nel centro di riproduzione a Pinjore, non contengano questa sostanza.

Ma Mistree è molto determinato. Si è spinto perfino a sollevare il sospetto che i parsi stiano già tenendo degli avvoltoi in cattività da qualche parte, anche se è illegale perché sono una specie protetta. “Volere è potere”, afferma. “Davvero, siamo più interessati di chiunque altro alla sopravvivenza degli avvoltoi. Vogliamo preservare le nostre tradizioni. Siamo molto più coinvolti di quegli ecologisti da salotto”.

Mentre il panchayat si preoccupa dei corpi solo sul piano teorico, i becchini parsi devono fare i conti con problemi più concreti. Per generazioni il loro compito è stato quello di trasportare un cadavere integro e deporlo sul tetto della torre. Gli avvoltoi si mettevano al lavoro e nel giro di pochi giorni i nasarsarlas spingevano i resti nell’ossario al centro. I nasarsarlas sono i più poveri tra i parsi, e immagino che possano sentire la mancanza degli avvoltoi più di chiunque altro nel subcontinente: ogni giorno devono affrontare un nuovo mucchio di cadaveri mentre quelli vecchi non sono ancora stati smaltiti.

Come Baria, anche altri parsi sono disposti a consentire sepolture o cremazioni nel loro rito funebre, pur di trovare un modo di rimediare all’assenza degli avvoltoi. Alcuni hanno proposto di usare la gassificazione, perché le altissime temperature utilizzate con questo metodo non entrano in diretto contatto con il corpo, oppure la promession, una tecnica già piuttosto diffusa in Svezia che usa l’azoto liquido per surgelare i corpi prima di trasformarli in polvere finissima. Un insigne entomologo ha suggerito di provare gli insetti, ma tutte le proposte sono state accolte con tiepido entusiasmo. Per ora, continuano a puntare i loro collettori solari come meglio possono sperando che le torri non vadano in rovina.

Come parassiti
“Sono scomparsi, sono scomparsi”, esclama scuotendo la testa. Sono le prime parole pronunciate dal dottor Asad Rahmani, direttore della Bnhs, quando lo incontro a Mumbai. Mentre parlo con Rahmani mi rendo conto di essere venuta in India per cercare una catastrofe ecologica. Anche se gli avvoltoio sono le più sgradevole delle creature, la loro assenza ha lasciato un vuoto. Eppure non mi sembra un’apocalisse.

La scomparsa degli avvoltoi è catastrofica, certo, ma la capacità di adattamento dell’uomo è stupefacente. O terrificante. O tutte e due le cose. Per quanto la situazione possa peggiorare, indipendentemente da quante specie vengano spazzate via dalla Terra nella marcia verso il progresso, la vita continua. Le specie che scompaiono sono dimenticate nel giro di una generazione, che imparerà a conoscere il passato solo grazie a incontri casuali con reperti di museo, sulle ginocchia della nonna o attraverso un’immagine sullo schermo di un computer. In India ci sono già bambini che stanno crescendo senza aver mai visto un avvoltoio, anche se i loro genitori hanno conosciuto cieli pieni di stormi di saprofagi per gran parte della loro vita. E se ci adattassimo troppo rapidamente?

È proprio quello che mi fa capire Rahmani. “Vorrei che non fossimo così flessibili. Siamo come i parassiti. Possiamo vivere in ogni tipo di ambiente, dall’Alaska alla Namibia. Siamo come gli scarafaggi, i ratti”, esclama. “Lei ha visto gli slum”, continua. “Possiamo vivere in condizioni spaventose e continuare a riprodurci con successo. Nessun’altra specie ha la stessa adattabilità. Per il pianeta, questa è una sfortuna. Se avessimo una ridotta tolleranza all’inquinamento, oppure a certi alimenti, forse ce ne prenderemmo più cura. C’erano tanti di quegli avvoltoi che non potevamo neppure immaginare che rischiassero di scomparire”, continua. “Oh, non ricordarmi quei giorni, è così doloroso per me. Era impossibile perfino pensare che sarebbero diventati rari. Cosa è successo? Cosa gli abbiamo fatto? Ora ci sono i cani che mangiano qualsiasi cosa, viva o morta. Sulla terra ci sono i cani, ma i cieli sono vuoti”.

Traduzione di Giuseppina Cavallo - Internazionale, numero 937, 24 febbraio 2012


Nekhbet
http://it.wikipedia.org/wiki/Nekhbet
Nekhbet (anche chiamata Nechbet e Nekhebit) è una divinità della mitologia egizia, particolarmente venerata a Nekheb, capitale del terzo nomos dell'Alto Egitto.
Si considera protettrice del re e dell'Alto Egitto; viene raffigurata come un avvoltoio di colore bianco, altrimenti come una donna recante la corona bianca. Altro suo luogo di culto era la città di Elkab.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El disco dito de Reitia

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2015 8:02 pm

Spirtoaƚetà da ƚa pristoria, shamaneixmo e coxmołoja shamana
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Shamaneixmo e coxmoloja
https://picasaweb.google.com/1001409263 ... ECoxmoloja

Lo sciamano (psicopompo)
http://corsodireligione.it/religioni/sc ... iama_1.htm

Sciamano è una parola russa derivata da saman di origine tungua, lingua della Siberia dell'Est. Significa colui che è sconvolto , turbato, trasportato...o anche colui che sa).
Lo sciamanesimo è un fenomeno religioso che riguarda pressochè tutte le culture umane.
In senso lato lo sciamanesimo puo' essere compreso come l'insieme delle pratiche psichiche e spirituali di uno sciamano, dei suoi aiutanti, apprendisti, artisti, della stessa comunità che lo sostiene, assiste o interagisce con i suoi atti.
...
"Lo sciamano è guaritore, è mago; tuttavia ha qualcosa in più del guaritore e del mago. E' persino del sacerdote. Egli è mistico, poeta, ma soprattutto psicopompo : un manipolatore di anime.
Lo sciamano accompagna agli inferi le anime dei morti che non ne trovano la strada e restano sulla terra a tormentare i viventi ; lo sciamano restituisce ai malati la salute, vale a dire l'anima che hanno perduto e la cui man-canza è causa dello stato di malattia.
Egli sa come passare dal mondo dei vivi al mondo dei morti, dal mondo di qua al mondo di là. Egli è un vivente tra le anime dei morti ed è un morto qui sulla terra: «Allora sarai possente, perché avrai viso i morti » (Sciamano australiano citato da Mircea Eliade).
La sua familiarità con l'aldilà, il suo poter passare indenne da una condizione all'altra, lo stare anzi contemporaneamente nelle due dimensioni dell'essere, quella materiale e quella spirituale: questo è il compito che lo sciamano svolge, come nessun altro operatore del soprannaturale.
La dimestichezza con i due mondi si esprime nell'esperienza estatica: lo sciamano viaggia, vola passando dalla realtà quotidiana alla realtà "altra", e compiendo i suoi viaggi, i suoi voli, ascende al cielo o discende agli inferi, dove entra in contatto con anime di morti, con spiriti, con le gerarchie degli esseri soprannaturali. Il dominio del fuoco, delle acque, dell'estasi, degli spiriti : questi sono i suoi poteri magici.


I doni sciamanici, seondo Mircea Eliade, non sono il retaggio di una religione particolare, connotata culturalmente e geograficamente. Lo sciamanismo è «una delle tecniche primordiali dell'estasi; esso è, ad un tempo, mistica, magia e "religione" nel senso più lato del termine».

In tutte le religioni, cioè in tutte le sfere di ritualità in cui l'uomo cerca un rapporto con l'alterità divina, esiste un frammento di sciamanismo, poiché questo riguarda l'insieme dei saperi e delle culture dell'estasi: è la tecnica del volo estatico, dell'uscita dal corpo e dell'immersione del sé nella totalità del sacro .

"«In linea teorica - chiarisce Di Nola - è possibile rintracciare fatti di natura sciamanica in quasi tutte le religioni, poiché in tutte le religioni l'estasi e la tecnica di provocazione dell'estasi sono componenti frequenti e rilevanti»."
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Fra le numerose varianti del volo sciamanico c'interessa soprattutto il volo al Centro del Mondo; proprio là si trovano l'Albero, la Montagna, il Pilastro Cosmico che collegano la terra al cielo; sempre là si trova il «buco» fatto dalla stella polare. Salendo sulla Montagna, scalando l'Albero, volando o penetrando attraverso il «foro» alla sommità della volta celeste, lo sciamano realizza la sua ascensione al cielo.
Già sappiamo che, "in illo tempore", nel tempo mitico del paradiso, una montagna, un albero, un pilastro o una liana univano la terra al cielo e che l'uomo primordiale poteva facilmente salire al cielo scalandoli. "In illo tempore", la comunicazione con il cielo era facile e l'incontro con gli dèi avveniva IN CONCRETO. Il ricordo di quel tempo paradisiaco è ancora molto vivo presso i primitivi. I Coriachi ricordano l'era mitica dell'eroe Grande Corvo, quando gli uomini potevano senza fatica salire al cielo; oggi, aggiungono, soltanto gli sciamani ne sono ancora capaci. I Bacairì del Brasile pensano che per lo sciamano il cielo non sia più alto di una casa e che proprio per questo lo raggiunga in un batter d'occhio. (9) Questo equivale a dire che durante l'estasi lo sciamano ricupera la condizione paradisiaca e ristabilisce la COMUNICABILITA' che esisteva "in illo tempore" fra il cielo e la terra; per lui la Montagna o l'Albero Cosmico ridiventano i mezzi concreti di accesso al cielo, come lo erano prima della CADUTA. Per lo sciamano il cielo si avvicina di nuovo alla terra e non è più alto di una casa, com'era prima della rottura primordiale. Infine lo sciamano ritrova l'amicizia con gli animali.
In altri termini, l'estasi riattualizza provvisoriamente e per un ristretto numero di soggetti - i MISTICI - lo stato iniziale di tutta l'umanità. Sotto questo aspetto l'esperienza mistica dei primitivi equivale a un RITORNO ALLE ORIGINI, a una regressione nel tempo mitico del PARADISO PERDUTO. Per lo sciamano in estasi questo mondo, il mondo decaduto - che, per utilizzare la terminologia moderna, è soggetto alla legge del tempo e della storia - è abolito.
...


Disexa o całada a l'enferno e sałida en siel del shaman
El xo a l'enferno e el su en sieło del shaman
http://picasaweb.google.com/pilpotis/Di ... loDelSaman

El xoło majego e l’anema come oxeło
de Mircea Eliade
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... VFeEk/edit

El Shamanixmo e le teneghe de l'estaxi de Mircea Eliade
http://picasaweb.google.it/pilpotis/LoS ... rceaEliade

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Cavajo e shamani de Mircea Eliade
https://picasaweb.google.com/1001409263 ... rceaEliade

Dansa e spasio sagri de li etruski e de li shamani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... YxekU/edit
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Cavaj, Shamani e el Dio del Sieƚo
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... YySTA/edit
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El xoło majego lè raprexentà o rafegourà o somexà anca da ła befana ke ła monta ła scoa e dal tapeo xolante ente ła foła xlava de Baba Jaga, ente coeła de Aladin e ente coełe de łe strie:

http://it.wikipedia.org/wiki/Befana

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http://it.wikipedia.org/wiki/Tappeto_volante

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Iniziazione sciamanica e iniziazione analitica - Salvatore Di Salvo
http://www.depressione-ansia.it/wp-cont ... litica.pdf

4. Istruzione sciamanica e istruzione analitica

Cerimonie iniziatiche

Alla iniziazione estatica segue generalmente un periodo di istruzione durante il quale il futuro sciamano impara, ad opera di un vecchio maestro, a padroneggiare le tecniche estatiche ed è chiamato ad assimilare la mitologia della tribù e la tradizione religiosa.
Il periodo di preparazione è spesso coronato da una serie di cerimonie che sono abitualmente definite come iniziazione del nuovo sciamano.
Bisogna comunque sottolineare che queste cerimonie non costituiscono la iniziazione vera e propria in quanto i candidati sono effettivamente iniziati già prima di essere riconosciuti.
La vera iniziazione è quindi quella estatica e segreta che avviene ad opera degli spiriti nei sogni, nelle visioni e nelle malattie iniziatiche.
Le cerimonie pubbliche hanno solo la funzione di operare un riconoscimento formale del futuro sciamano da parte dei maestri sciamani e della comunità.
Eliade riferisce che presso i Manciù la cerimonia di iniziazione pubblica comportava il passare del candidato su dei carboni ardenti: se l'allievo disponeva davvero degli "spiriti" che pretendeva di possedere, poteva camminare impunemente sul fuoco.
I Manciù conoscevano anche un'altra prova iniziatica: d'inverno si operavano nove aperture nel ghiaccio e il candidato era tenuto a immergersi per una di queste aperture e a uscire per la seconda, nuotando sotto il ghiaccio, e così via fino alla nona apertura.
Presso gli sciamani yakuti il maestro prende con sé l'anima del novizio in un lungo viaggio estatico. Essi cominciano con lo scalare una montagna. Da lassù il maestro mostra al novizio i luoghi dove risiedono le malattie che debilitano gli uomini.
Il maestro conduce quindi il discepolo in una casa: lì i due indossano i costumi sciamanici e fanno dello sciamanismo insieme.
Il maestro rivela al discepolo come si riconoscono e guariscono le malattie che attaccano le diverse parti del corpo e ogni volta che ne nomina una parte gli sputa in bocca e il discepolo deve inghiottire lo sputo affinché possa riconoscere "i cammini dei malanni dell'Inferno".
Infine il maestro conduce il suo discepolo nel mondo superiore, dagli spiriti celesti.
A questo punto il neofita dispone ormai di un corpo consacrato e può esercitare la sua arte.
La cerimonia iniziatica più complessa e meglio conosciuta è quella dei Buriati. Eliade così la riporta: dopo numerose esperienze estatiche (sogni, visioni, dialoghi con gli spiriti, ecc.) l'allievo si prepara in solitudine per lunghi anni, istruito da vecchi maestri e specialmente da chi diverrà il suo iniziatore, che assumerà il nome di sciamano-padre.
Durante tutto questo periodo egli esercita l'arte sciamanica, invoca gli dei e gli spiriti, impara i segreti del mestiere. Anche presso i Buriati l'iniziazione è più una dimostrazione pubblica delle qualità mistiche già acquisite dal candidato che non una vera e propria rivelazione dei misteri.
Dopo una cerimonia purificatoria a mezzo dell'acqua, ha luogo la cerimonia della prima consacrazione e alle spese che essa comporta contribuisce tutta la comunità.
Alla vigilia della cerimonia alcuni giovani, sotto la direzione dello sciamano-padre, vanno a tagliare una quantità sufficiente di alberi di betulla saldi e diritti.
Nella mattina del giorno destinato alla festa gli alberi vengono fissati in modo adeguato: anzitutto si fissa nella yurta una robusta betulla, con le radici nel focolare e con la cima uscente dall'orifizio superiore (buco del fumo). Questa betulla viene chiamata "il custode della porta" perché apre allo sciamano le soglie del Cielo. Resterà sempre nena tenda, servendo da contrassegno per ogni dimora dello sciamano.
Le altre betulle vengono piantate lontano dalla yurta, nel luogo dove avverrà la cerimonia di iniziazione, in un certo ordine.
Dalla betulla principale, che si trova all'interno della yurta, due nastri, uno rosso e l'altro turchino, vanno a tutti gli altri alberi disposti all'esterno: è il simbolo dell'arcobaleno, seguendo la cui lo sciamano raggiungerà il dominio degli spiriti, il Cielo.
Una volta terminati tutti questi preparativi, comincia la cerimonia: il padre-sciamano rivolge una preghiera ai diversi dei e spiriti e il candidato ne ripete le parole.
Quindi monta su una betulla e pratica nove incisioni sul tronco e poi scende. A sua volta monta il candidato. Mentre si arrampicano cadono in estasi.
Dopo di ciò lo sciamano-padre e il candidato si ritirano nella yurta, mentre gli invitati restano a lungo a festeggiare.
In generale in tutte le iniziazioni sciamaniche troviamo riti di ascensione, dove l'ascensione su un albero o su di un palo va considerata una variante del tema mitico della ascensione in Cielo.
Lo stesso simbolismo ascensionale è attestato dai nastri che collegano le betulle (i raggi dell'Arcobaleno e le varie regioni celesti).
Un rito che trova notevoli corrispondenze con questo rituale rubiate è quello della consacrazione sud-americana della macho, la donna-sciamano araucana.
La parte centrale della cerimonia consiste nella ascesa di un tronco denudato, che è l'emblema stesso della professione sciamanica e che ogni macho conserva indefinitamente davanti alla sua capanna.
Si tratta di un albero alto circa tre metri, sul cui tronco si fanno degli intacchi a guisa di scala: questo albero viene piantato solidamente davanti alla abitazione della futura sciamani, un po' obliquo per favorire la ascesa.
L'ascesa estatica su un albero rituale simboleggia il viaggio nel Cielo: è dalla
piattaforma posta su di esso che la macho rivolge la preghiera al Dio supremo o al
Grande Sciamano celeste affinché le accordi sia i poteri terapeutici, sia gli effetti magici
necessari per l'esercizio dell'arte sciamanica.
Con l'ascensione iniziatica, il futuro sciamano acquista la facoltà di volare.
Secondo molte tradizioni il potere di volare era stato proprio a tutti gli uomini dell'età
mitica: tutti potevano raggiungere il Cielo sulle ali di un uccello favoloso.
Motivi mitici del volo magico sono la raffigurazione dell'anima sotto forma di uccello e la concezione degli animali come psicopompi.
Gli sciamani realizzano quaggiù, e tutte le volte che lo vogliono, l'uscita dal corpo, cioè la morte, che sola può trasformare in uccello ciò che resta di un essere umano. Gli sciamani, cioè, godono della condizione di anime, di disincarnati, mentre una tale condizione ai profani si rende accessibile solo dopo la morte.
Eliade sottolinea che vi sono molti miti che alludono ad un tempo primordiale in cui tutti gli esseri umani potevano salire nei Cieli scalando una montagna o salendo su di un albero, volando con mezzi propri o lasciandosi portare da uccelli.
La decadenza della umanità impedisce ormai alla gran massa degli uomini la loro condizione primordiale.
Gli sciamani invece, grazie al fatto di potersi trasformare in uccelli, cioè grazie alla loro condizione di spiriti, conservano questo privilegio e questa capacità.
In conclusione, ascese rituali di un albero o di un palo, miti di ascensione o di volo magico, viaggi mistici in Cielo, sono tutti elementi che assolvono una funzione decisiva nella vocazione e consacrazione sciamanica, dove l'esperienza dello sciamano equivale ad un ripristino di quell'epoca mitica in cui le comunicazioni fra Cielo e Terra erano molto più facili.
Lo sciamano appare quindi come quell'essere privilegiato che ritrova, per conto suo personale, la condizione felice della umanità all'alba dei tempi.



L'arbaro de l'imortaletà, l'arbaro sagro de ła vita, l'arbaro de ła cognosensa del ben e del mal:

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Shamaneixmo del Kataj (çinexe) e del Ciapango (japonexe)
http://www.samorini.it/doc1/alt_aut/ad/ ... appone.pdf
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El disco dito de Reitia

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2015 9:01 pm

Dapò łi shamani a ghè anca łe devenetà psicoponpe:

http://it.wikipedia.org/wiki/Categoria: ... psicopompe


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Co łi òmani moriva e more: caretà çełeste, sepełimento e cremasion
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Sinboło venetego misterioxo - ła barca del sol
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