I veneti del Veneto xełi on popoło e na megnoransa nasional?

Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » dom mag 15, 2016 3:00 pm

Republica Veneta: lettera aperta a Gianluca Busato
Pubblicato 17 maggio 2016 | Da daniele
http://www.life.it/1/republica-veneta-l ... uca-busato


E’ passato poco più di un anno dalle elezioni per il Parlamento provvisorio della Repubblica Veneta e tutto sembra essere ridotto ad un vago ricordo.

La gente credeva che, finalmente, qualcuno avesse trovato la quadra per svincolare il destino del Popolo Veneto da quello compromesso e decadente della Repubblica italiana.

Noi di LIFE APV siamo entrati nel Parlamento Veneto con l’entusiasmo di baldanzosi giovinotti e l’esperienza dei vecchi saggi dopo il successo dell’ultima iniziativa, l’”Operazione Matteo Evangelista” da noi proposta e condivisa da Plebiscito.eu, prima di queste elezioni; Mettere in mora Equitalia e Agenzia delle Entrate non è cosa di tutti i giorni ed ha avuto un gran successo mediatico e di partecipazione

Poi, il 25 Aprile 2015, in Piazza San Marco, la prima norma emanata dal Parlamento Veneto su nostra proposta, che prevede la restituzione ai proprietari d’origine di tutti i beni pignorati da Equitalia e venduti in aste giudiziarie.

C’erano tutti i presupposti che il progetto di autodeterminazione potesse proseguire spedito ed incisivo, se non ché le susseguenti proposte di LIFE APV hanno trovato il diniego della Presidenza Busato e del coordinatore della Commissione Affari Esteri Mauro Fontana.

Bocciate le proposte di istituire un documento di identità sulla falsariga di quello a suo tempo messo a punto da LIFE APV per un costo ipotetico di 10-15 euro che avrebbero contribuito a finanziare le casse delle Istituzioni Venete, ha trovato favore il progetto di una carta veneta dei Servizi (costo più di 100 euro) per il cripto Stato. Progetto troppo avveniristico che non sta trovando il successo sperato.

E’ stata bocciata la proposta di una Costituzione, che LIFE APV aveva già predisposto, con la scusante che la GB non ha mai avuto una Costituzione e la Repubblica Veneta nemmeno. Ma noi non possiamo essere la continuazione della Repubblica Veneta per il semplice fatto che dopo 200 di sospensione, usi costumi e tradizioni, fonti naturali del rapporto cittadini Stato, si sono evoluti mentre le norme no e per di più si sono perse! Presentarsi oggi alla comunità internazionale degli Stati moderni senza una Carta Fondante è la premessa per uno scontato disconoscimento.

E’ stata bocciata la proposta LIFE APV di adottare, come Parlamento Veneto, almeno una ventina di trattati internazionali, senza la cui ratifica, non c’è possibilità alcuna di un preteso, ipotetico, riconoscimento da parte della Comunità degli Stati.

E’ stata bocciata la proposta LIFE APV di inserimento, delle istituzioni Venete, come soggetto terzo nella lite tra i cittadini Veneti che hanno accolto l’invito all’esenzione fiscale del 2014 e le conseguenti richieste di pagamento da parte dello Stato italiano-Agenzia delle Entrate – Equitalia, abbandonandoli in balìa dei saraceni del fisco italiano, rinunciando così anche alla legittima rivendicazione di sovranità territoriale. Cosa che qualche altro ha copiato e ne sta facendo un cavallo di battaglia.

Non si è risposto alla nostra richiesta di un piano B nel caso in cui il ricorso alla CEDU di Strasburgo venga rigettato, se non con la presentazione di un altro ricorso alla CIG dell’AJA.

Dopo di ché, per indotta apatia, LIFE APV ha rinunciato a presentare altri progetti con il risultato che senza l’iniziativa nostra, il Parlamento è fermo mentre il Consiglio dei 10 sembra essersi trasformato in un Comitato di affari e Plebiscito.eu, dopo i clamori iniziali, sta sprofondando nell’oblio.

In queste condizioni di inoperosità, possono le Istituzioni Venete ingenerare simpatia nei loro confronti da parte del Popolo Veneto?

Come facciamo a rivendicare la sovranità territoriale nei confronti della Repubblica italiana se non vengono create le condizioni per esercitarla?

Era questo che si voleva con il Plebiscito del 2014?

Si voleva veramente prendere in giro 2,3 milioni di Veneti certificati, accorsi a votare il Plebiscito.eu nel 2014?

Si voleva veramente prendere in giro un centinaio cittadini eletti Parlamentari nel 2015?

Non è possibile! Qualcosa di molto grave deve pur essere accaduto per procrastinare a tempo indefinito, l’indipendenza del Popolo Veneto che mai, prima, era parsa così vicina.

Presidente Busato: non si sente in obbligo di fornirci qualche risposta?

Daniele Quaglia
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » dom mag 15, 2016 3:01 pm

Popoło ełeto

https://it.wikipedia.org/wiki/Popolo_eletto

Nell'Ebraismo c'è la convinzione che gli ebrei siano il popolo eletto, nel senso che siano stati scelti ("essere eletti, scelti") per far parte di un'alleanza (il Patto) con Dio. Questa idea è riscontrata per la prima volta nella Torah (i cinque libri di Mosè, inclusi anche nella Bibbia cristiana col titolo di Pentateuco) ed è elaborata nei libri successivi della Bibbia ebraica ("Tanakh"). Molto è stato scritto sul tema dell'elezione divina e argomenti correlati, specialmente nella letteratura rabbinica. Le tre maggiori correnti ebraiche – l'Ebraismo ortodosso, l'Ebraismo conservatore e l'Ebraismo riformato – mantengono la convinzione che gli ebrei siano stati scelti da Dio per uno scopo.

Elezione, non superiorità nella differenza etnica
« Se darete attentamente ascolto alla mia voce e osserverete il mio Patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro/possesso particolare, poiché tutta la Terra è mia. Voi sarete per me un regno/popolo di sacerdoti e una nazione santa. Queste sono le parole che dirai ai figli d'Israele... » (Esodo 19.5-6 [2])

Per comprendere giustamente il significato di popolo eletto, come interpretato dalla fede ebraica, bisogna anche esaminare il Talmud, uno dei testi sacri dell'Ebraismo: testo della Torah orale.

Il Talmud narra la seguente parabola:

"Il Santo, Benedetto Egli sia, ha unito il Suo nome a Israele. A questo proposito si può istituire un paragone con un re che aveva la chiave di un piccolo forziere. Diceva il re: «Se la lascio così si perderà. Ecco, io le farò una catena, così che, se si perde, la catena indicherà dov'è». Similmente parlava il Santo Benedetto Egli sia: «Se lascio i figli d'Israele così come sono, saranno "inghiottiti" fra le nazioni pagane. Attaccherò dunque ad essi il Mio grande Nome e vivranno»." (p. Taan. 65 b.).

L'espressione biblica "Dio d'Israele" è spiegata in questo modo:

"Il Santo Benedetto Egli sia disse a Israele: «Io sono Dio per tutti coloro che vengono al mondo, ma soltanto a te ho associato il mio Nome. Non sono chiamato il Dio degli idolatri, ma il Dio d'Israele"[2]

Il concetto di "elezione" non deve essere frainteso. L'elezione, sostengono le autorità rabbiniche, non implica alcuna superiorità nella differenza etnica – Israele non è il popolo di Dio per i propri meriti o per una presunta purezza della razza, bensì per Volontà divina. L'elezione è un mandato, una missione da compiere che non è stata affidata a nessun altro.[2] Anche i non-Ebrei (ovvero i Goym, cioè le altre nazioni) possono vivere secondo giustizia ed avere una relazione con il Creatore:[3] per loro infatti sono stati rivelate le Sette leggi di Noè che andrebbero osservate da tutti i popoli.[4]
Elezione nella Bibbia
Exquisite-kfind.png Lo stesso argomento in dettaglio: Cantico dei Cantici.
Secondo la tradizionale interpretazione ebraica della Bibbia,[5] il carattere di Israele come popolo eletto è incondizionato, poiché Deuteronomio 14.2 afferma:
"Tu sei infatti un popolo consacrato a YHWH tuo Dio e Dio ti ha scelto, perché tu [fossi il] suo popolo privilegiato, fra tutti i popoli che sono sulla terra. "

La Torah inoltre afferma:

"Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete "per me la proprietà/la Mia eredità" tra tutti i popoli, perché mia è tutta la Terra!" (Esodo 19.5).
Dio promette di non scambiare mai il Suo popolo con altri popoli[6]:
"Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te." (Genesi 17.7)

Altri passi biblici sull'elezione:

"Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa." (Esodo 19.6).
"Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più "piccolo" di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri." (Deuteronomio 7.7-8).
"Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio: non cucinerai il capretto nel latte di sua madre."[7] (Deuteronomio 14.21).
L'obbligo imposto agli Israeliti è stato messo in rilievo dal profeta Amos (Amos 3.2):
"Soltanto voi ho eletto tra tutte le stirpi della terra; perciò io "vi farò scontare/vi grazio da/allevierò" tutte le vostre iniquità".
Opinioni rabbiniche sull'elezione
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » dom mag 15, 2016 3:02 pm

???

N'apostata ebraego kel nega ke li ebrei łi sipia on popoło; en Ixraele el pol vivar beato, sel fuse ente on paexe xlamego i ło garia xa copà.

Volevo scrivere un libro che avesse solidità storica ma conclusioni politiche, perché sono uno storico, e in quante tale sono tenuto a cercare la verità, ma rimango comunque un cittadino israeliano, vittima di una politica identitaria statale del tutto catastrofica.

http://www.minimaetmoralia.it/wp/interv ... hlomo-sand

Così Shlomo Sand, professore di Storia contemporanea all’Università di Tel Aviv, ci presenta il suo ultimo lavoro, L’invenzione del popolo ebraico (Rizzoli, pp. 540, euro 21.50, traduzione di Elisa Carandina). Un testo che in Israele, come in molti dei paesi in cui è stato tradotto, ha alimentato discussioni spesso virulente, facendo meritare al suo autore la “ferocia accademica degli storici autorizzati’”. Quelli che continuano a dare per buona la concezione essenzialista del popolo ebraico creata e diffusa, a partire dal diciannovesimo secolo, dai sacerdoti della memoria sionisti, “abili manipolatori del passato”. I quali, assumendo la Bibbia come “libro della ‘memoria’ nazionale”, hanno “costruito un’intera genealogia del popolo ebraico” – “popolo-razza antico sradicato dalla propria patria nel paese di Canaan”-, obliterando il proselitismo di massa del primo ebraismo, che avrebbe compromesso l’idea dell’“antichissima nazione ebraica”, la metanarrazione della solida unità biologica del popolo ebraico e, soprattutto, la sua rivendicazione sulla Terra d’Israele. Per Shlomo Sand, che abbiamo incontrato a Tel Aviv, l’antichissima nazione ebraica non è che “una nazione confusa che finge di essere un popolo-razza errante”, e Israele uno Stato il cui “scopo principale non è essere al servizio di un ‘démos’ civico-egualitario ma di un ‘éthnos’ biologico-religioso assolutamente fittizio”.

Secondo la sua tesi sulle “radici storiche e i cambi di rotta della politica identitaria israeliana”, sin dall’inizio il sionismo avrebbe istituito “una stretta connessione tra la concezione della Bibbia come testimonianza storica affidabile e il tentativo di definire l’identità ebraica moderna in termini protonazionalisti o nazionalisti”. In che senso afferma che la Bibbia rappresenta il “certificato di nascita” che attesta l’origine comune del popolo ebraico?
Per il sionismo, che ha inaugurato il nazionalismo ebraico in senso proprio, è stato fondamentale ancorarsi alla Bibbia per forgiare un’identità collettiva moderna. Questo ancoraggio infatti da un lato legittimava l’idea del popolo ebraico costretto all’esilio, e dall’altro consentiva di rivendicare un diritto sulla “terra d’Israele”. La Bibbia ha rappresentato dunque il certificato di possesso della terra “originaria” e la prova che esistesse un popolo dall’origine comune. Il guaio, però, è che si tratta di un testo teologico, non storico, sebbene nelle scuole israeliane di ogni grado e orientamento continui a essere presentato come tale. Negli anni Novanta del secolo scorso, diversi archeologi israeliani hanno però cominciato a dimostrare che molte delle vicende raccontate nella Bibbia non sono che leggende: per esempio, non esiste alcuna prova che l’esodo dall’Egitto sia realmente avvenuto, né che sia esistito il regno di Davide e Salomone. Tuttavia, tali leggende sono state usate dai sionisti come fondamenta sulle quali edificare ideologicamente l’idea del popolo ebraico, espulso duemila anni fa e poi tornato legittimamente sulla “sua” terra. Senza la Bibbia, la rivendicazione attuale di Netanyahu sui luoghi sacri diventa ridicola, e la stessa definizione di popolo ebraico molto più problematica. I sionisti non hanno fatto altro che adottare, modificandola, una ‘mitostoria’ originariamente elaborata dai cristiani e dai protestanti inglesi, che possiamo considerare i veri inventori del popolo ebraico.

Lei sostiene che gli ebrei di oggi non siano i discendenti del popolo che abitava il regno di Giudea, costretto all’esilio dai Romani nel primo secolo, ma gli eredi di popolazioni provenienti da contesti geografici distanti, convertitesi all’ebraismo nel corso del tempo. Ma se non esiste alcuna “unità biologica” del popolo ebraico, e se l’esilio è stato “sfruttato come mito efficace per introdurre un asse etnico nell’identità ebraica moderna”, viene meno anche la “legittimazione etica alla colonizzazione” di una terra già abitata…
Sono stato accusato di aver voluto rompere il legame tra il popolo ebraico e la “sua” terra. Non è così. All’inizio intendevo scrivere un libro sul rapporto tra la Bibbia e l’invenzione del popolo ebraico (mentre ora sto lavorando a un testo dedicato proprio all’invenzione della terra d’Israele). Nel corso delle ricerche, però, mi sono imbattuto in un saggio che metteva in discussione la veridicità dell’esilio. Dopo averlo letto, e dopo aver compiuto ricerche meticolose, mi sono reso conto che non esiste un solo testo che certifichi la realtà dell’evento fondamentale dell’identità ebraica, e che non c’è prova che Tito, distruttore del Tempio, abbia espulso o deportato gli ebrei. I Romani ne hanno uccisi o fatti schiavi molti, ma non espulsi. Gli ebrei, quindi, non sono i discendenti del popolo errante, ma gli eredi di diverse popolazioni convertitesi all’ebraismo nel corso del tempo. Prima del cristianesimo, infatti, la vera religione del proselitismo era il monoteismo ebraico, che ha sfidato e indebolito il paganesimo romano. Da qui derivano due domande: cosa è successo alla popolazione del luogo, e da dove provengono tutti gli ebrei del mondo? A questo proposito, ho scoperto due cose: che agli inizi del ventesimo secolo alcuni sionisti, tra cui lo stesso David Ben Gurion, ritenevano che i contadini arabi fossero i veri discendenti degli antichi ebrei, e che, prima ancora della ‘seconda’ distruzione del Tempio nel 70 d.C., esistevano numerose comunità ebraiche nella penisola arabica, in Africa settentrionale, nell’Europa orientale, in Asia minore. La maggior parte degli ebrei discende dunque da conversioni di massa, da una pratica di proselitismo, inaugurata già a partire dalla fine dell’era persiana, divenuta ufficiale sotto la dinastia degli Asmonei, rafforzatasi nell’incontro con la cultura ellenistica, al suo apice nel terzo secolo e interrotta soltanto nel quarto secolo dell’era volgare, con l’affermazione del Cristianesimo come religione dell’impero. L’immagine dell’ebraismo come religione chiusa, settaria, esclusiva contraddice il carattere aperto dell’ebraismo delle origini, votato al proselitismo. Un proselitismo negato perché erodeva l’idea dell’unità biologica, e, dunque, della legittimità della proprietà su “Eretz Yisra’el”. Istintivamente, infatti, concediamo il diritto sulla terra a un popolo, non alle comunità religiose. Ecco perché per i sionisti era importante presentare la storia degli ebrei come una storia “popolare nazionale”: per legittimare la colonizzazione della terra abitata dagli arabi, venne promossa l’idea di un popolo-razza, di un’etnia comune.

Tra le pagine più interessanti del suo libro, ci sono proprio quelle dedicate a “sionismo ed ereditarietà genetica”, in cui ricostruisce i legami tra “sangue” e identità nazionale, tra il progetto ideologico sionista e l’idea del popolo ebraico come comunità di sangue (Blutsgemeinschaft), con la biologia ebraica messa “al servizio di un progetto di isolazionismo nazionale ‘etnico’”. Ci spiega le ragioni di questa ricerca di un’antica origine biologica condivisa?
Come abbiamo visto, affinché potesse essere inventato un “popolo ebraico” c’era bisogno da un lato di assumere come fonte storica la Bibbia, e dall’altro di dare per certa la storicità dell’esilio. Eppure, questi due elementi, da soli, non bastavano. Si parla legittimamente di “popolo”, infatti, quando un gruppo d’individui condivide una specifica, comune cultura laica quotidiana. Gli ebrei nel mondo invece – a eccezione degli ebrei dell’Europa orientale – non hanno mai avuto, e continuano a non avere un simile retroterra comune. Questa mancanza rendeva estremamente fragile l’ideale sionista del popolo/nazione. Da qui, la necessità di trovare un elemento ulteriore, individuato da molti sionisti nel “sangue”, nell’omogeneità biologica. E’ così che alla fine del diciannovesimo secolo diversi sionisti arrivarono a sostenere che gli ebrei erano un popolo-razza, sviluppando una nozione etnocentrica di ebraismo in paesi come Germania, Polonia, Ucraina. In altri termini, ci si rivolse al passato, alla presunta unità biologica, per dare fondamento comune alla nazione ebraica. La ricerca di una sorta di marcatore biologico – oggi portata avanti da biologi e genetisti – non è altro però che un sintomo di debolezza identitaria. E le sue conseguenze nefaste si fanno sentire tuttora, nella politica essenzialista dello Stato di Israele.

Nell’ultimo capitolo, scrive infatti che il “permanere di principi di matrice etnocentrica costituisce ancora il principale ostacolo” allo sviluppo democratico di Israele, e che “quella stessa mitologia risultata tanto efficace per la sua fondazione potrebbe mettere a repentaglio la sua esistenza futura”. Cosa intende, e perché definisce Israele “un’etnocrazia ebraica con tratti distintivi liberali”?
A volte, l’immaginario mitico che è servito a creare e consolidare una comunità, una società, uno Stato, finisce per minarne l’esistenza. Oggi, il concetto etnocentrico di ebraismo, il mito-leggenda attraverso il quale è stato creato lo Stato ebraico-israeliano è divenuto pericoloso per la sua stessa sopravvivenza. Questo mito infatti non produce altro che razzismo. Non il razzismo quotidiano, ma una forma di razzismo ufficiale, di Stato, che si fonda e a sua volta alimenta una politica identitaria esclusiva che legittima le discriminazioni e la colonizzazione, respingendo al di fuori della cornice statale il 25 per cento di popolazione israeliana che non è ebrea. L’autodefinizione di matrice etnica di cui è intriso il popolo ebraico, la politica identitaria esclusivista dello Stato israeliano possono condurre alla tragedia: i giovani palestinesi nati in Israele non potranno sopportare ancora a lungo di vivere in uno Stato che dichiara di non appartenergli. Prima o poi la Galilea diventerà più pericolosa della Cisgiordania e di Gaza: un’Intifada degli arabo-israeliani avrebbe effetti molto più seri di quelle avvenute nei Territori occupati. Israele deve appartenere a tutti gli israeliani, non solo agli ebrei. Posso accettare l’idea che sia un rifugio per tutti gli ebrei che subiscono persecuzioni antisemite, non la pretesa che sia lo Stato di tutte le comunità ebraiche del mondo, cosa che Netanyahu pretende che i palestinesi accettino. È questo assunto etnocentrico che nega a Israele la patente di ‘democrazia’: prima ancora di essere liberale, pluralista, uno Stato è democratico se dichiara di esserlo per tutti i suoi cittadini. Israele, invece, è un’etnocrazia, liberale perché può essere criticato dall’interno, che si ostina a negare perfino la semplice ipocrisia della democrazia formale per tutti i suoi abitanti. È uno Stato apertamente etnocratico. E sempre più razzista.

Questo articolo è uscito per il Manifesto.

https://it.wikipedia.org/wiki/Shlomo_Sand


Chiarezza su Shlomo Sand

http://moked.it/blog/2012/05/30/parole- ... hlomo-sand

Liquida.it è un simpatico portale specializzato nel riportare notizie e commenti esclusivamente tratti dalla rete internet. Liquida.it riporta anche un gran numero di blog (definiti dalla redazione “di alta qualità”), dando così loro maggiore visibilità. Negli ultimi mesi i redattori hanno molto gentilmente riportato anche tutti i miei interventi su Moked-UCEI. Nella pagina a me dedicata nel sito (http://www.liquida.it/sergio-della-pergola/), oltre ai miei pezzi da diversi mesi appare anche un link dal titolo: Discussioni su Sergio Della Pergola – Sulla legittimità ideologica e storica di Israele, intervista con Shlomo Sand. Shlomo Sand è il professore dell’Università di Tel Aviv che ha scritto un libro molto controverso ma di notevole successo sulla presunta “invenzione” del popolo ebraico. Ora, io due anni fa fa ho pubblicato sulle colonne del mensile Pagine Ebraiche una recensione di tale libro. Ma essendo Liquida.it specializzato in materiali elettronici, di tale mia opinone sul libro di Sand non vi è traccia nel sito. Vista l’insistente associazione del nome di Sand al mio, ho pensato che fosse utile ripubblicare la mia recensione in rete offrendo a Liquida.it l’opportunità di riprenderlo, così che il colloquio virtuale fra me e Sand potrà avere due interlocutori e non uno solo. Ed ecco il testo originale da Pagine Ebraiche, 2010, 2:

Albert Einstein amava farsi fotografare mentre pedalava in bicicletta nei vialetti di Princeton, ma non è per rinforzare la propria équipe ciclistica che il prestigioso Institute for Advanced Studies aveva offerto la nomina al professore. Ora Shlomo Sand ha scritto un testo di macro-storia e macro-sociologia del popolo ebraico, ma sono i suoi lavori sul cinema e la letteratura francese contemporanea che gli hanno dato la professura all’Università di Tel Aviv.
Il libro di Sand Dove e quando è stato inventato il popolo ebraico? apparso in ebraico presso una piccola casa editrice specializzata in saggistica controcorrente, ha avuto un buon successo di vendite in Israele. L’autore dimostra molte letture e familiarità con il metodo della scrittura scientifica. Tradotto prima in francese e ora in inglese, il libro sta andando altrettanto bene, ha raccolto numerosi elogi ed è valso a Sand il premio Aujourd’hui, oltre a una cascata di recensioni disastrose. In breve, la tesi del libro è che non esiste un popolo ebraico sul piano antropologico, storico o culturale. Pertanto la pretesa degli ebrei di accedere a una propria sovranità politica come qualsiasi altra nazione è infondata e lo stato di Israele non ha ragione di essere – per lo meno non in quanto stato nazionale ebraico. In modo trasparente – e a sgravio dell’autore, anche in parte dichiarato – la procedura seguita per dimostrare questa tesi è quella ben nota nella storia delle idee e in particolare nell’analisi del pensiero politico dell’ingegneria alla rovescia: si parte dal prodotto finale, si vede com’è possibile smontarlo, e poi lo si rimonta in modo tale da farlo apparire assurdo. Alla fine, e dunque all’inizio, del discorso di Sand vi è in effetto una serrata critica dell’attuale situazione esistenziale della società israeliana e del progetto ideale che la sorregge. Sand non ama Israele come stato nazionale degli ebrei e preferirebbe un ipotetico neutrale stato dei cittadini senza distinzione fra ebrei e palestinesi, e se la cose finisse qui non ci sarebbe molto da aggiungere. La critica politica è non solo legittima ma assolutamente necessaria in una polis vigorosamente dialettica com’è quella di Israele, e ciò vale certamente anche all’interno di una ben più longeva tradizione ebraica di dibattito e di dissenso ideologico e culturale. Il problema comincia quanto intorno al punto focale del dissenso politico l’autore si sforza di disegnare dei cerchi concentrici argomentativi di natura per cosí dire scientifica, per poi sostenere di avere con successo scagliato una freccia al centro del bersaglio.
La strategia generale del discorso de-construttivista sulle identità nazionali e religiose è tutt’altro che nuova. Negli anni ’80 fece colpo il libretto dei demografi Le Bras e Todd sull’Invenzione della Francia, subito ripreso dallo storico Pierre Chaunu. Benedict Anderson, un esperto di storia e cultura dell’Asia sud-orientale, aveva scritto uno stimolante e influente saggio sulle Comunità immaginate. In realtà il concetto di nazione monolitica è sempre meno plausibile non solo a causa della globalizzazione ma anche per via della tangibile sopravvivenza nella lunga durata di stratificazioni culturali ampiamente antecedenti la formazione delle identità nazionali dalle quali, in teoria, avrebbero dovuto essere sommerse. D’altra parte, molti dei miti costitutivi delle identità nazionali poggiano su basi evidenziarie a dir poco labili, se non inesistenti. Su questa falsariga sono state scritte molte pagine anche sull’identità dell’Italia (e degli italiani?) – da Bonvesin de la Riva fino ai riti celtici della Padania.
Fin qui, dunque, l’operazione semantica di Sand segue linee critiche oramai super acquisite e applicabili a tutte le identità nazionali. Anche l’identità ebraica si avvale talvolta di concetti e di credenze che non è sempre possibile dimostrare sulla base dell’evidenza documentaria, anche se gioca a suo vantaggio la propensione alla parola scritta e dunque una traccia concreta di gran lunga superiore a quella della maggior parte delle altre civiltà. E comunque rimane il fatto che le identità che si formano su queste fondamenta comuni, esatte o immaginate che siano, non sono per questo meno rilevanti e tenaci e dunque costituiscono un fondamento durevole dei comportamenti collettivi. Emblematica in questo senso è l’identità dei Palestinesi che al di là della memoria degli oltre sessant’anni di conflitto con Israele e al di là di ció che essa stessa ha mutuato da Israele, ha ben poca sostanza culturale ma rappresenta pur sempre una realtà concreta con cui è inevitabile misurarsi.
Ma Shlomo Sand vuol strafare e come prova della supposta fallacia dei miti della storia ebraica non trova di meglio che appoggiarsi ad altre mitologie non meno problematiche. Ecco dunque rispuntare il bidone della commistione fra ebrei e Kazari, reso popolare negli anni ’70 da Arthur Koestler e sostenuto da alcuni linguisti come Paul Wexler ma smentito clamorosamente dagli ultimi studi di genetica delle popolazioni. È come se un fisico riscoprisse l’ipotesi che l’unità minima della materia è la molecola, mentre gli esperti all’acceleratore di Ginevra si interrogano su che cosa ci sia dopo i quanti. Gli studi di Michael Hammer, Karl Skorecki, BatSheva Bonné, Ariella Oppenhein e altri sulla biochimica applicata alla vita umana hanno per sempre cestinato l’ipotesi post-modernista e post-sionista, confermando invece le nozioni convenzionalmente note della storia del popolo ebraico.
È dunque ora dimostrato che la grande maggioranza degli ebrei (sefarditi e ashkenaziti) e delle popolazioni arabe mediorientali hanno origini comuni che vanno indietro nel tempo per quattro millenni. In epoca antica il nucleo ebraico ha esercitato un visibile potere di attrazione su altri ma poi è rimasto a lungo sostanzialmente segregato dalle civiltà circostanti. Il fatto che gli ebrei di oggi siano in gran parte i discendenti di pochi progenitori comuni, uomini e donne, e non il prodotto di frequenti scambi con altre società è confermato dall’incidenza elevata di portatori di specifiche patologie ereditarie. Le differenze interne, in questo caso, riflettono la prolungata segregazione delle diverse comunità ebraiche le une dalle altre.
Finito fuori strada sul tema della continuità delle generazioni, Sand appare ancora più sprovveduto sul tema della continuità culturale. Qui l’evidenza canonica e perfino alternativa è talmente schiacciante che sarebbe bastato aprire un sommario lemma di enciclopedia per documentarsi meglio sulla natura della multi-millenaria produzione culturale ebraica. Ma l’ipotesi dell’invenzione è più forte degli infiniti testi di natura normativa, commentari, scambi di informazione e memorialistica, letteratura di fantasia e poesia, transazioni commerciali e atti giuridici, storiografia, e nella fattispecie soprattutto degli endemici germogli di discorso politico ebraico dell’ultimo millennio, finalmente concretizzati nel secolo dei risorgimenti nazionali.
Le spettacolari trasformazioni sociali e demografiche degli ebrei come le grandi migrazioni internazionali, fra queste l’aliyah verso Israele, o la mobilità sociale e urbana non sono avvenute per caso o in seguito a delle ciniche manipolazioni di masse acefale da parte di sconsiderati capipopolo, ma per via di complesse e a volte intollerabili condizioni esistenziali percepite in larga sintonia da persone ubicate in varie parti del mondo e in cerca di liberazione come individui e come comunità. È dunque all’ebreo sia come produttore di cultura sia come soggetto sociale che Sand nega il diritto all’autodeterminazione.
Di fronte all’impegnato ma assolutamente improbabile e stellarmente incompetente Sand, assieme alle stroncature degli esperti, sono spuntati anche molti giudizi favorevoli. Notevole quello in stile caporalesco di Toni Judt sul Time Literary Magazine che già distribuisce istruzioni agli ebrei europei su come distaccarsi da Israele. Gli ebrei europei sapranno certo gestire con giudizio i loro sentimenti d’identità ebraica senza avere bisogno di Sand. Forse ancora più che per il suo contenuto disinformativo (per gli ignari e gli sprovveduti), il libro costituisce una cartina di tornasole circa lo stato del discorso politico odierno su Israele. La verità è che il libro di Sand non vende copie e vince premi perché è tanto bello: ci sarà sempre un lettore e un premio in attesa per un libro come quello di Sand.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » dom mag 15, 2016 3:40 pm

https://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_v%C3%B6lkisch
Il movimento völkisch è un'interpretazione tedesca del movimento populista, con un accento romantico sul folclore. Il termine völkisch, che significa "etnico", deriva dalla parola tedesca Volk (simile all'inglese "folk"), corrispondente a "popolo", con connotazioni in tedesco di "folclorico" e "folcloristico". Secondo lo storico James Webb, la parola ha anche "connotazioni di 'nazione', 'razza' e 'tribù', …".
L'idea fondamentale intorno a cui ruotava il movimento völkisch era il Volkstum (lett. "carattere nazionale", "nazionalità"; probabilmente una definizione più precisa sarebbe "folklore" ed "etnicità"), da non confondere con Volkssturm. "Populista", o "popolare", in questo contesto sarebbe volkstümlich.
Il movimento völkisch non era un movimento unificato, ma "un calderone di credenze, paure e speranze che trovavano espressione in vari movimenti e spesso erano articolate con un tono emotivo", osservava Petteri Pietikainen nel rintracciare le influenze völkisch su Carl Gustav Jung. Il movimento völkisch fu "probabilmente il gruppo più grande" della Rivoluzione conservatrice in Germania. Ma, come i termini conservatore-rivoluzionario e fascista, völkisch è un termine polisemico. In senso stretto può essere usato per designare solo gruppi che considerano gli esseri umani essenzialmente preformati dal punto di vista genetico, cioè hanno un carattere ereditario.



Saggi
Anno II, 1960, Numero 5, Pagina 249
Riabilitazione del nazionalismo?
HERBERT LÜTHY

http://www.thefederalist.eu/site/index. ... 54&lang=it



1 — Il nazionalismo precede la nazione
Il nazionalismo è uno di quei concetti politici che sono allo stesso tempo inutilizzabili ed indispensabili. Ogni discussione sul nazionalismo in generale ha questo carattere sterile, grouillant e scintillante proprio delle discussioni sull’indefinito e sull’indefinibile: come ad esempio sugli archetipi dell’anima nella psicologia di C.G. Jung, che sono in numero illimitato e che hanno un’essenza indescrivibile, ma la cui presenza oscura nel fondo dell’incosciente appare evidente.
Ora il nostro tema ci porta appunto nel campo nebuloso della psicologia collettiva, che agisce precisamente nella misura in cui ogni coscienza razionale rimane esclusa. Ogni auto-interpretazione della «nazione», della «idea nazionale» o del «sentimento nazionale» sfocia nella mistica o nella mistificazione: non si può coglierla se non mediante immagini e simboli — bandiere, miti, animali totemici, evocazioni, culti, riti — che manifestano un «esser-altro» razionalmente inesprimibile.
Secondo la concezione nazionalista, la nazione è una personalità trascendente essenzialmente distinta dal resto dell’umanità, ma interiormente coerente, provvista d’un’anima, d’una coscienza, d’una volontà proprie e d’una missione sua, incomprensibile nella sua essenza a qualunque altra. O anche, con un banale rovesciamento psicologico: la propria nazione è la nazione «universale», o «nazione umana»; tutte le altre sono aberrazioni barbare, ciò che torna a dire che l’anomalia si erige da sola a norma e a principio. (Era questa, a parte le sfumature particolari, la caratteristica tanto del nazionalismo francese come del nazionalismo tedesco, e non vi sarebbe da cercar molto per scoprire la stessa pretesa in altri nazionalismi).
Il nazionalismo non è una nozione generica: si può analizzare un nazionalismo in tutte le sue manifestazioni e i suoi contenuti di coscienza, senza imparare alcunché su di un altro nazionalismo, poiché ciascuno si afferma precisamente come «altro» e unico. Se cerchiamo di astrarre un concetto di «nazionalismo universalmente valido», non ci resta tra le mani che una serie di negazioni. Negazione dell’universalità, negazione dell’uguaglianza e della ragione umana. Dal punto di vista concettuale il «nazionalismo» sembra non possa significare se non l’affermazione — più o meno radicale ed esclusiva — dell’appartenenza a una nazione. Dal punto di vista storico — e si può rendersene esattamente conto appunto dalla storia contemporanea — il processo è inverso: è il nazionalismo a creare la nazione. Quale che sia il modo in cui esso si è costituito, un gruppo di popolazione diviene una nazione esaltando il proprio nazionalismo. Questo è, ricondotto alla sua formula più concisa, un’affermazione di fede. Tutti i tentativi sterili condotti da 150 anni per stabilire i caratteri generali ed obiettivi di ciò che viene designato col nome di nazione — lingua, cultura, costume, tradizione, storia (cioè contenuto di coscienza); oppure razza e territorio (cioè «Blut und Boden») — non sono sfociati se non in una definizione che costituisce un circolo vizioso: è il sentimento nazionale a formare una nazione; cioè non una qualità constatabile, ma un’adesione che appare in ultima istanza irrazionale.

2 — «Nazionalismo per tutti»
Che nel XIX secolo il termine di nazione sia stato riservato ad alcuni popoli europei «storici» era conseguenza di una pretesa enorme. Soltanto questi popoli avevano «una storia». Il nazionalismo non poteva nascere che da questa storia particolare; il resto dell’umanità non aveva storia e, perciò, non aveva coscienza. All’alba dei nazionalismi europei, quando i paesi di vecchia civiltà (la Germania e l’Italia) stavano costituendosi in nazioni sul modello dei vecchi Stati omogenei dell’Europa occidentale e altri, che non erano mai completamente scomparsi, come la Grecia, l’Ungheria, la Polonia, lottavano per la loro indipendenza, la parola «nazione» era considerata come il titolo di nobiltà di alcuni popoli privilegiati, che possedevano la loro letteratura, la loro tradizione e la loro storia, e sembrava impensabile che potessero crearsi dei nazionalismi in modo arbitrario, dovunque e per così dire ad libitum.
Oggi questa idea di «popoli senza storia», incapaci di sviluppare una coscienza nazionale, è completamente scomparsa. Tutti i gruppi umani hanno una storia e, se non lo sapevano, i colonizzatori europei si sono incaricati di insegnar loro la storia attraverso la pratica. Le popolazioni del Congo hanno una storia almeno altrettanto vecchia e altrettanto agitata quanto quella del Belgio, ma esse hanno impiegato più tempo ad avere dei nazionalisti e degli storici (e ogni nazionalista è uno storico, anche se soltanto un raccontatore di epopee storiche).
Si può seguire la «democratizzazione» dell’idea nazionale (nazionalismo per tutti) attraverso più di un secolo, come una reazione a catena che agisce successivamente sull’Europa centrale, da questa sull’Europa orientale, quindi sui Balcani, poi, raggiungendo il Medio Oriente, sull’Asia e infine sull’Africa, nello stesso modo in cui si può seguire sociologicamente la democratizzazione dell’appellativo aristocratico «Monsieur» e «Madame». Il fatto che gli abitanti del Congo esigano oggi di esser considerati come una nazione, costituisce un processo altrettanto naturale quanto quello per cui tutti pretendono ormai di esser chiamati «Monsieur» e «Madame», il che costituisce meno l’espressione di un «esser-altro» che di una esigenza di eguaglianza.
Il trionfo del nazionalismo è il trionfo di un concetto che attraverso questo processo stesso si vuota di senso; e poiché il concetto di «nazione» ha ormai perso ogni carattere distintivo, ci è facile proclamare a colazione che l’era del nazionalismo è finita, salvo a dichiarare all’ora di pranzo che il progresso irresistibile del nazionalismo è una delle caratteristiche della nostra epoca. E’ facile presentare documenti innumerevoli e argomenti di peso in favore dell’uno o dell’altro punto di vista: il titolo di «Monsieur» o di «Madame», di cui vengono gratificati il facchino o la domestica, costituisce la vittoria del principio aristocratico o la sua sconfitta? Questa questione non è uno scherzo, e io mi asterrò dal rispondervi alla leggera.

3 — «La nazione perfetta»
D’altra parte noi ci siamo da un secolo alquanto familiarizzati con la problematica di questo «nazionalismo per tutti», sì che spiegazioni troppo lunghe appaiono superflue. La nazione perfetta, con la sua unità di territorio alle frontiere naturali, la sua lingua, la sua religione, i suoi costumi, la sua cultura, la sua autosufficienza tanto economica come politica e la sua omogeneità sociale, non esiste e non è mai esistita. Ma almeno le nazioni dell’Europa occidentale si avvicinarono alquanto all’ideale — nazioni di una parte privilegiata della terra, dove, durante un millennio, nessuna grande invasione o migrazione di popoli venne a turbare le strutture lentamente formatisi, e le cui unità relativamente omogenee facevano dell’idea di «nazione perfetta» una idealizzazione abbastanza vicina alla realtà. In ogni altra parte del mondo invece, a cominciare dall’Europa centrale, il nazionalismo dovette appoggiarsi su alcuni frammenti di carattere nazionale, per farne derivare la pretesa all’esistenza nazionale: un gruppo linguistico, degli elementi di storia o di mitologia, una particolarità religiosa, folkloristica o sociale, una disuguaglianza di stato, una tradizione d’ostilità verso gruppi vicini bastano ampiamente a fondare un movimento nazionale. Ma per svilupparsi come nazione sovrana un gruppo così costituito dovrà assimilare après coup le caratteristiche della nazione perfetta che gli mancano, una cultura distinta e una storia comune, se non una lingua nazionale («rinascita» di lingue più o meno morte o scomparse, o metamorfosi artificiale di dialetti in lingue letterarie), un «territorio naturale» militarmente ed economicamente viable, e, ciò che non importa meno, quella «integrazione degli animi» che conferisce efficacia ai simboli ed ai miti nazionali. Perseguendo questo obiettivo conseguentemente i nazionalismi hanno violato tutti i dati della geografia, dell’economia, della ragione, della storia e della coesistenza umana.

4 — Carattere indefinitamente «disgregatore» del nazionalismo
Dopo la tragedia dell’Europa orientale, abbiamo esperimentato altresì la legge della reazione a catena dei nazionalismi che scaturiscono dai nazionalismi e che si moltiplicano come infusori per scissione. Parallelamente abbiamo sperimentato la legge della moltiplicazione dei problemi delle minoranze nazionali attraverso la moltiplicazione degli Stati nazionali, problemi finalmente risolti dalle deportazioni in massa, la cui apparizione nella storia moderna data non dalla fine della seconda guerra mondiale, ma dalla decomposizione dell’impero ottomano.
Una dozzina di nazionalismi contro l’Austria-Ungheria, altrettanti contro la Turchia, altrettanti contro l’Impero russo; poi, dopo la formazione degli «Stati nazionali», nazionalismo croato contro la nuova Grande Serbia, slovacco contro la Cecoslovacchia, ucraino contro la Polonia, transilvano e bessarabico contro la Grande Romania, macedonico contro tutti gli Stati nazionali costituitisi nei Balcani, sempre con l’aiuto attivo di qualche grande potenza, che aveva appunto interesse alla mobilitazione di qualche quinta colonna. L’ingenuità o il cinismo con cui tutti gli Stati belligeranti della prima guerra mondiale hanno sostenuto ogni movimento nazionalista o irredentista in campo nemico è stata il preludio delle catastrofi del periodo fra le due guerre.
Su uno stesso angolo di terra i nazionalismi rivali si intrecciano e si sovrappongono, nelle loro pretese contradditorie, a monopolizzare la lealtà e l’entusiasmo delle medesime popolazioni. Il nazionalismo arabo ci è familiare da molto tempo, ma anche quello egiziano, irakeno, druso e curdo. Il nazionalismo africano è un fatto innegabile, ma anche quello del Camerun e, incastrato in questo, quello del Bamilek; il nazionalismo del Gana, ma anche quello ashanti; quello congolese, ma anche quello lulua; ed ognuno di essi porta in sé la possibilità tanto della disgregazione interna quanto dell’imperialismo. Il nazionalismo indiano è un fatto, ma esso deve affermarsi contro duecento nazionalismi in potenza; il nazionalismo pakistano ha raggiunto l’indipendenza di fronte al nazionalismo indiano, ma i Bengalesi si domandano sempre se il loro nazionalismo è pakistano o bengalese, e, al nord del Belucistan, il nazionalismo pouchtou esige il diritto all’autodeterminazione. Si potrebbe continuare questo gioco di bussolotti: nessun criterio di diritto delle genti o di filosofia politica potrebbe proibire che ciascun frammento del mosaico umano, ciascun emirato della Costa dei pirati, ciascuna tribù o clan africano, ciascun frammento amministrativo d’un antico territorio coloniale arbitrariamente ritagliato sulla carta si erga in nazione, se le circostanze e l’equilibrio esterno delle potenze lo favoriscano.

5 — Una «elite» organizzabile, condizione unica del nazionalismo
Non si vuol con questo fare una satira superficiale della situazione in cui si trovano le popolazioni rimaste senza vera appartenenza morale e politica in seguito alla decomposizione di vecchi imperi plurinazionali e alla formazione instabile di Stati artificiali. Ma questo basta a togliere ogni romanticismo e ogni mistica al processo di nazionalizzazione e a studiarne la funzione reale. Una nazione non nasce dall’azione istintiva dell’anima popolare, così come non nasce dalla libera decisione di una collettività. Noi sappiamo oggi che un nazionalismo, cioè la fondazione di una nazione, non presuppone altra cosa se non l’esistenza di un gruppo organizzabile, in nome del quale una élite attiva — magnati, kniaz, capi tribù, clero, docenti, rapsodi, capi-banda, intelligentia indigena o dinastia locale — può pretendere al self-government, cioè al diritto di comandare.
«Organizzabile» significa suscettibile di esser rappresentato come un’unità quanto alle rivendicazioni, all’inquadramento politico, o anche solo alla propaganda. L’elemento «inquadramento» potrà essere una sopravvivenza dell’organizzazione tribale, una comunità religiosa, linguistica o di costume, una mafia o anche, come nei nuovi Stati africani, una unità amministrativa creata artificialmente dall’esterno da qualche decina di anni. Simili elementi strutturali implicano sempre una élite rappresentativa, sia essa una vecchia cabila o una intelligentia recente.
Oggi si tende ad attribuire la funzione principale nelle fermentazioni nazionalistiche all’intelligentia o alla semi-intelligentia che, sempre e dovunque, esige il diritto naturale ai posti di comando e d’amministrazione, e vede in ogni amministrazione «non nazionale» al tempo stesso una spoliazione naturale e un affronto alla sua dignità.
E tuttavia sono molto spesso in gioco tradizioni ancestrali e prerogative propriamente dinastiche, oggi in Africa come ieri in Europa orientale: Seku Turé, discendente di un conquistatore sudanese, e Modibo Keita, erede della dinastia medioevale dei Mali, sono rientrati in possesso dei loro diritti dopo una deviazione attraverso il quartiere latino. Non vi è alcuna parte dell’umanità che non disponga di élites pronte a rivendicare tradizioni e legittimazioni storiche per fondare un nazionalismo; la disgrazia è che il suolo di tutti i continenti è letteralmente fumé di titoli storici e di virtualità nazionali sovrapposte e intrecciate alla rinfusa.
Nulla di più ridicolo che contestare sul terreno dei principi la legittimità storica di un movimento nazionalista, una volta che esso si è messo in marcia, dichiarando ad esempio che una nazione algerina non è mai esistita: come ogni movimento, il nazionalismo si prova camminando, e anche se nulla di simile a un sentimento nazionale fosse esistito prima, bastano alcuni anni di agitazione e di lotta per creare una tradizione, una leggenda, una coscienza storica e con ciò una legittimità, non esistendo in proposito alcun altro criterio.

6 — Il nazionalismo per un verso è fenomeno identico ai particolarismi medioevali, per l’altro si oppone ad essi
Questo processo si è sempre rinnovato da quando vi è storia: movimento pendolare fra la formazione e la decomposizione dei grandi complessi politici. Di nuovo non c’è che il nome che noi gli diamo e l’ideologia che gli attribuiamo: il «nazionalismo». Quando i notabili delle piccole valli della Svizzera interna fecero una congiura alla fine del XVI secolo contro l’autorità asburgica, la sola rivendicazione politica che fu iscritta nella loro Carta confederale era: noi non accetteremo giudici stranieri nelle nostre valli. Ciò significa che volevano esercitare essi stessi la funzione nazionale della sovranità, quella di dire il diritto, e in questa rivendicazione essi avevano dietro di sé il sentimento popolare. Non si trattava di ottenere una giustizia più alta e più giusta, ma di non essere giudicabili che dal loro diritto consuetudinario. Non di avere un’amministrazione migliore, ma la loro amministrazione: essi preferivano la propria giustizia grossolana e spiccia, pronunciata secondo i loro usi e nel loro dialetto locale, alla giurisprudenza saggia del bailo, anche se formato a Bologna.
La rivendicazione fondamentale del nazionalismo è quella di tutti i particolarismi del Medio Evo: così come noi parliamo oggi del nazionalismo del Camerun o del Togo, potremmo riscrivere i libri di storia e parlare del nazionalismo di Guglielmo Tell, del nazionalismo valdese, brabanzone, frisone o albigese.
Vivere secondo i propri diritti e costumi è il desiderio naturale di ogni gruppo di popolazione che abbia sviluppato una sua particolarità; il resto è questione di circostanze, di possibilità storiche, d’originalità o di testardaggine.
Nel ridotto alpino o prealpino svizzero, nell’angolo morto della politica delle grandi potenze territoriali europee dei secoli successivi, il particolarismo medioevale che non conosceva né il concetto né l’ideologia della nazione, ha potuto sopravvivere fino all’epoca moderna; nella maggior parte d’Europa è stato schiacciato dagli Stati territoriali e dall’assolutismo unificatore. La caratteristica storica delle nazioni dell’Europa occidentale è infatti quella di esser passate attraverso il crogiuolo dell’assolutismo, cioè dello Stato amministrativo centralizzato, in cui innumerevoli particolarismi del mondo medioevale si sono fusi in grandi masse uniformi di sudditi, per ergersi in nazioni di stile nuovo, durante la rivoluzione sociale della fine del ‘700 e del principio dell’800.

7 — Ideologia, nazionalità e democrazia

Proprio perché non erano nate spontaneamente, ma sorte da una sintesi spesso violenta e dolorosa, queste nazioni avevano bisogno — o piuttosto ne aveva bisogno la nuova élite dirigente che assunse l’eredità del sistema statale dinastico — di un’ideologia nazionalistica per mantenere la loro coesione. Il concetto di nazione, estraneo al particolarismo medioevale così come allo Stato dinastico dell’epoca successiva, è il prodotto storico del turbamento avvenuto all’inizio dell’era industriale, è il concetto gemello della democrazia.
L’uno e l’altro derivano dallo stesso cambiamento del principio di legittimità. Quando l’autorità pubblica cessa di imporsi in nome del diritto divino, per esser esercitata in nome del popolo (cioè di tutte le popolazioni fino allora riunite sotto la stessa corona), bisogna postulare l’unità di questo popolo. Il nazionalismo è stata l’ideologia «integratrice» dello Stato democratico.
Una democrazia individualista, quale l’avevano sognata i filosofi razionalisti del ‘700 non è una forma di Stato possibile, ma è un’utopia anarchica che si ritrova all’inizio di ogni rivoluzione. (La formula «governo del popolo, per il popolo e attraverso il popolo» proclama l’identità del popolo e dello Stato, cioè a dire la liquidazione dello Stato come istituzione particolare, esattamente come veniva annunziato dalla dottrina marxista).
Questo Rousseau lo sapeva molto bene, suo malgrado, poiché conosceva le guerre civili endemiche della sua città natale (tutta la dottrina politica e morale di Rousseau è nutrita delle passioni del ginevrino calvinista contro l’irruzione corruttrice della civiltà francese mondana nella sua piccola patria — oligarchia libertina che regnava a Ginevra, grazie all’appoggio di Versailles, spettacolo di commedianti tre volte imposto ai ginevrini dall’intervento diplomatico e militare francese — e quella passione è tanto più patetica in quanto Rousseau è anche lui un figliol prodigo che non ha mai ritrovato l’ovile): se egli è il primo «democratico totalitario», ciò è dovuto al fatto che, trasponendo la città di Calvino nella filosofia politica secolare, egli diviene il fondatore della «religione civica».
Una popolazione di sudditi fa a meno del lealismo nazionale, come un esercito di mercenari fa a meno dell’entusiasmo patriottico. La democrazia aveva bisogno dell’ideologia nazionalista come strumento d’integrazione dei suoi cittadini e del suo esercito popolare: la Rivoluzione francese divenne nazionalista nel momento in cui dovette imporre l’unità mediante il terrore.
Il nazionalismo dell’800 non è un istinto spontaneo, ma un’ideologia unificatrice coscientemente coltivata.
Dopo la rivoluzione francese tutte le costituzioni formicolano di istituzioni e di riti tendenti all’educazione nazionale: consacrazione di bandiere, feste nazionali, giuramenti civici, cerimonie e manifestazioni pubbliche d’unità nazionale; l’educazione pubblica, la scienza storica, i manuali e le imageries, tutto l’insieme delle attività culturali ufficiali o ben pensanti fu messo al servizio di questa «integrazione degli animi».

Il nazionalismo, nella sua azione interna, è una ideologia terrorista che impone la conformità d’opinione e di sentimento alla popolazione di cui esige la lealtà e che conduce una guerra senza tregua contro ogni gruppo particolare, culturale o etnico che sfugga o resista a questa integrazione. In una nazione di gobbi il dovere di ogni cittadino è di portare la gobba, dice Helvetius: cioè di pensare, sentire e reagire nazionalmente.
Nulla è più caratteristico di questa ideologia di espressioni come «undeutsch» (non tedesco) o «un-american» (non americano) che definiscono l’assenza della gobba nazionale come una mostruosità o un delitto. Al limite, ogni particolarismo, ogni individualismo, ogni cosmopolitismo, ogni lealtà non nazionale, pre-nazionale o sovranazionale, debbono essere estirpate dalla comunità. Durante più di un secolo, il fine educativo supremo dell’istruzione scolastica e della storia nazionale fu di interiorizzare la gobba nazionale e di automatizzare la reazione nazionalistica, trasformandola in un riflesso di Pavlov.
Il successo fu considerevole: dove domina un’ideologia nazionale, la caccia alle streghe è sempre sul punto di manifestarsi. Nelle epoche di crisi e di guerre ogni non-conformismo diventa alto tradimento, e i cittadini di tutte le nazioni europee del nostro secolo hanno potuto sperimentare fino ai limiti del suicidio con quale efficacia questo terrore di opinione può eliminare e schiacciare ogni riflessione razionale.

8 — Il nazionalismo britannico
Poiché, per definizione, il nazionalismo è nazionale, è evidentemente difficile intendersi su questo punto, e nella nostra discussione un malinteso potrebbe nascere tra l’uso linguistico del continente e quello dell’Inghilterra. Infatti, fra gli altri vantaggi della ragion politica che si attribuiscono agli inglesi, vi è anche quello d’ignorare il nazionalismo.
Per quanto io so, la parola nationalism viene usata correntemente in inglese come sinonimo di patriottismo o di amore del paese e national significa tutto ciò che costituisce proprietà, utilità o affare pubblico. La terminologia mistica del nazionalismo manca in una lingua che dice this country e Her Majesty’s Government, mentre altrove si invocano la patria ed il popolo. L’assenza di diffidenza con cui gli inglesi considerarono a lungo fenomeni come il nazional-socialismo o il nazionalismo arabo derivano in gran parte dalla loro mancanza di esperienza della patologia nazionalista.
Non vorrei darmi all’esegesi di un «carattere nazionale» particolare; non si tratta di carattere, ma di terminologia particolare nata da un’esperienza storica particolare.
Mi sembra che questa ignoranza di alcune malattie continentali, per quanto simpatica ed invidiabile, ma talvolta pericolosa, sia connessa, come altre virtù inglesi, al dato storico più semplice: l’insularità. L’Inghilterra ha potuto divenire una nazione senza troppe sofferenze e senza chiedersi troppo quali siano i suoi caratteri costitutivi, le sue frontiere e la sua definizione come nazione. Dal 1066 l’unità del Regno inglese non è stata più messa in discussione. Vi furono lotte per il potere e la forma di governo, mai per l’unità del potere e l’unità del governo. E queste lotte poterono svolgersi senza un intervento straniero efficace. Le poche minacce d’invasione provenienti dal Continente, dall’Invincible Armada al Camp de Boulogne, restarono dei buchi nell’acqua. E anche l’unificazione delle isole britanniche fu appena turbata dagli intrighi francesi in Scozia e in Irlanda.
Se, analogamente alla rivoluzione inglese del ‘700, la rivoluzione francese si fosse compiuta in condizioni altrettanto privilegiate e senza una importante ingerenza straniera, forse le sarebbe stato risparmiata l’evoluzione verso il nazionalismo terrorista. Anche senza ideologia di integrazione nazionalista il cittadino inglese, se non era figlio dell’aristocrazia che formava la Grande Tournée d’Europa, restò sempre abbastanza protetto contro le contaminazioni europee anche solo dall’insularità del suo paese. Anche senza il servizio militare obbligatorio l’Inghilterra poteva, sotto la protezione della flotta, sentirsi sufficientemente sicura fino alla nostra epoca, senza aver bisogno di coltivare il militarismo di stile continentale. Essa ha potuto, come nessun altro grande Stato moderno, lasciare i suoi cittadini agire e svilupparsi al di fuori di ogni struttura statale rigida, senza dover temere per il loro lealismo. Gli inglesi sono il solo popolo al mondo i cui membri consentono sempre con fierezza a chiamarsi sudditi, poiché esser suddito britannico è un privilegio più grande che non quello di possedere la cittadinanza sovrana di una qualsiasi repubblica.
Senza dubbio l’Inghilterra ha potuto sviluppare caratteri del nazionalismo e dell’imperialismo altrettanto ripugnanti quanto qualsiasi altra nazione continentale, ma senza la loro problematica: il suo nazionalismo restò un insularismo talvolta arrogante, e il suo imperialismo fu la lotta di una nazione di commercianti e di marinai per la libertà dei mari e l’accesso ai cinque continenti, non per l’integrazione di provincie e di popolazioni limitrofe, rivendicate come membri strappati all’unità nazionale.
L’Inghilterra ha avuto il suo problema di nazionalità, il problema irlandese, che essa ha cercato di risolvere con tutti i mezzi di oppressione, sino al genocidio; ma anche questa restò una questione interna: la storia dell’Irlanda è stata talvolta altrettanto tragica quanto quella della Polonia, ma, diversamente dalla Polonia, l’Irlanda non aveva altro vicino che l’Inghilterra, barriera insormontabile fra la piccola isola e il continente, che impediva a qualsiasi potenza straniera di servirsi di questa quinta colonna in potenza; nessuna coscienza universale si sollevava in lamenti e in accuse; nessun Lord Byron cantava le sofferenze dell’Irlanda. L’Inghilterra non ha risolto il suo problema irlandese meglio di quanto la Francia non abbia risolto il problema algerino; ma l’Irlanda non ebbe mai la fortuna di divenire un punto nevralgico della politica internazionale.
Io non credo di abbassare le qualità del pragmatismo politico inglese e della sua «logica en suspens» se penso che esse derivano in buona parte dall’assenza di certi problemi, e anche da una invidiabile buona coscienza; questa è senza dubbio la ragione per cui l’esempio inglese, «spesso imitato, mai raggiunto», è rimasto sterile sul continente europeo, nonostante tanti sforzi per impararne il segreto: la costituzione inglese è altrettanto poco ripetibile quanto la stessa storia inglese.
Al di fuori dell’Inghilterra l’«appartenenza nazionale» non è stata mai una cosa naturale; dovunque, altrove, l’impiego massiccio dell’ideologia integratrice nazionalista è stato indispensabile per la formazione delle nazioni. Una comunità politica che non sia solo una unione di sudditi non può contentarsi d’un lealismo di circostanza; essa ha bisogno di un lealismo automatico ed incondizionato, e, dove questo non può essere presupposto, deve esser ottenuto attraverso il dressage.

9 — Il nazionalismo americano
Quando le colonie della Nuova Inghilterra si separarono dall’Inghilterra, i capi non si preoccuparono di sapere se l’indipendenza era legittimata dalla loro nazionalità: le ragioni pratiche e tecniche per ribellarsi contro la legislazione d’un parlamento lontano, che considerava i loro bisogni e i loro interessi particolari come questioni secondarie, parve loro del tutto sufficiente. Un nazionalismo americano si formò nella persecuzione dei «lealisti», dunque nella misura in cui la guerra d’indipendenza fu anche una guerra civile; ma si sviluppò molto coscientemente, in quanto ideologia integratrice, via via che aumentò il numero degli immigrati di origine sempre più diversa, come negazione di tutte le nazionalità d’origine di coloro che entravano nel crogiuolo. Tuttavia come la forma inglese del nazionalismo senza problemi, la forma americana, — l’integrazione individuale di «displaced persons» e volontariamente tali, in una nuova associazione che sostituisce tutte le nazionalità d’origine — non è ripetibile e neppure comparabile: questo processo non si è verificato in nessun altro luogo.
Il pensiero politico americano ha considerato a lungo come un’evidenza senza problemi il fatto che il nazionalismo e la democrazia siano inseparabili — e non come i termini d’una contraddizione inerente alle società umane frammentarie, ma come due espressioni equivalenti e quasi identiche di un’armonia prestabilita (così ad esempio il prof. Mac Dougall, The American Nation). Con Wilson questa identificazione di nazionalismo e di democrazia si è presentata come messaggio universale che doveva portare la salvezza al mondo, e il mondo non se n’è ancora riavuto. Il pensiero anglo-sassone sembra non aver mai preso coscienza, salvo che all’occasione di eruzioni di follia assassina, considerati come effetti anormali, del fatto che nel vecchio mondo il nazionalismo è l’esempio estremo dell’azione «distruttrice» delle «religiosità secolarizzate» e di «impulsi morali violenti» deviati.

10 — Il nazionalismo come mobilitazione di istinti atavici contro lo sradicamento industriale
Anzitutto la caratteristica più profonda del nazionalismo presso popoli stabiliti, che vivono a fianco gli uni degli altri e gli uni in dipendenza degli altri, caratteristica che spingeva non solo i marxisti, ma anche i liberali classici a respingerlo come un’ideologia reazionaria — è rimasta estranea all’esperienza anglo-americana: la mobilitazione di istinti atavici della società agraria autarchica contro lo sradicamento e la disintegrazione sociale della società industriale moderna.
Proprio nella misura in cui l’industrializzazione e l’economia di mercato dissolvevano i vecchi legami che univano l’uomo al clan e alla gleba — razza, simboli totemici, «suolo e sangue», venerazione degli antenati, xenofobia e endogamia — si trasformarono in postulati ideologici del nazionalismo insegnato con zelo religioso. Infatti il nazionalismo ha spesso servito da bastione ideologico contro le correnti rivoluzionarie: nell’800 contro la democrazia egualitaria, nel ‘900 contro il comunismo (diritto delle nazionalità contro rivoluzione mondiale, Versailles contro il bolscevismo, Wilson contro Lenin). Il bastione risultò illusorio e i politici bolscevichi capirono ben presto che in quasi tutte le parti del mondo il nazionalismo è più adatto a far da dinamite che da cemento: per questo il nazionalismo come reazione di difesa atavica contro il turbamento sociale della nostra epoca — che non è altro se non una sfeudalizzazione dell’umanità — si ritorce anzitutto contro le società industriali occidentali, poiché sono queste che hanno gettato gli altri paesi nell’ingranaggio dell’economia mondiale trascurando troppo a lungo, in nome della libera impresa, le ripercussioni sociali di un tale processo (tanto nel loro paese quanto nel resto del mondo), mentre il comunismo proponeva una ricetta universale di reintegrazione sociale.
I tentativi del mondo occidentale, cominciati dopo il 1918 nell’Europa orientale e negli altri territori limitrofi della Russia — di opporre l’ideologia nazionalista contro la rivoluzione — erano la confessione che l’Occidente non disponeva d’una visione del mondo né d’un principio d’organizzazione corrispondenti all’era industriale, e che esso cercava di risolvere i problemi del presente con dei feticci preistorici. Era, nonostante successi tattici effimeri, una battaglia perduta in anticipo. Oggi il mondo occidentale cerca lentamente e controvoglia delle forme di organizzazione che siano insieme pluraliste e sovrannazionali. Non si può ancora parlare di una riuscita certa, ma la mia convinzione profonda è che nessun altra via abbia delle possibilità di successo e che una ricaduta sarebbe catastrofica.

11 — Riabilitazione del nazionalismo in funzione antisovietica?
Da qualche anno il titoismo, la rivolta della Germania orientale nel 1953, le rivoluzioni ungherese e polacca del 1956, il sollevamento tibetano e altri avvenimenti e torbidi dell’Est hanno determinato una specie di riabilitazione del nazionalismo nel pensiero occidentale. E’ naturale che si constati con soddisfazione che il sistema sovietico ha anch’esso a che fare con delle reazioni nazionali, e che si simpatizzi spontaneamente con ogni resistenza a una autorità tirannica, brutale e falsa. Ma da questo ad attribuire una caratteristica positiva, non appena si manifesti all’interno del mondo sovietico, al principio che si è rivelato così negativo all’interno del mondo libero, e ciò per il solo fatto che esso turba dei governanti comunisti, corre un passo che non può esser compiuto senza ponderazione. Se fossimo dei tecnici e dei tattici della guerra fredda per i quali, secondo l’esempio del machiavellismo di tutti i tempi, è bene tutto ciò che nuoce all’avversario, potremmo mettere anche l’ideologia nazionalista nel nostro arsenale intellettuale; ma faremmo bene allora a procedere con lo stesso cinismo gelido con cui la propaganda comunista utilizza il nazionalismo nella sua strategia: come un fattore della psicologia collettiva, con cui bisogna fare i conti e che si può giocare contro l’avversario, ma che è inutilizzabile per ogni progetto costruttivo.
E’ indiscutibile e in fondo inevitabile che dei forti elementi nazionalistici siano stati in gioco nelle agitazioni negli Stati satelliti. Una resistenza collettiva a un sistema totalitario solidamente stabilito non può formarsi senza un punto di cristallizzazione, un quadro di organizzazione e un simbolo di unione. Come nei territori coloniali europei, d’Asia e d’Africa, e (cinquant’anni fa, di America) il movimento d’indipendenza si organizzò, necessariamente, anzitutto nell’ambito stesso dei territori coloniali, anche se questo ambito era stato creato in modo completamente artificiale e arbitrario (e almeno in Africa è chiaro che questa non costituisce se non una fase provvisoria che deve esser seguita da una riorganizzazione regionale del Continente nero, se l’Africa deve sfuggire alla balcanizzazione); analogamente, nel mondo sottoposto alla potenza sovietica, la resistenza al potere centrale trova il suo punto d’appoggio naturale nelle unità politiche tradizionali che sopravvivono come unità politiche, amministrative ed anche economiche, e offrono, anche come sezioni nazionali del partito dominante, dei quadri di resistenza.
Vi sono, al di là di ogni mitologia nazionalista, ragioni quasi meccaniche per canalizzare le tendenze all’ammorbidimento e alla differenziazione del regime comunista su queste vie tracciate anticipatamente, ed è altresì naturale che ricordi e simboli di altre lotte storiche servano da bandiere a questi movimenti. Ma queste vie tracciate anticipatamente esistono egualmente nei nostri cervelli, e noi abbiamo l’abitudine fatale di catalogare ogni lotta per l’autonomia di un gruppo umano sotto la rubrica di «movimento nazionalista», senza preoccuparci dei suoi fini e delle sue parole d’ordine.

12 — Non i valori nazionali ma quelli universali dei diritti dell’uomo meritano incondizionata rivalutazione
Io non penso a mettere in dubbio la forza dei sentimenti specificamente nazionali, o che hanno radice nelle tradizioni nazionali, così come non penso a discutere la loro ragione d’essere (per esempio, il fatto che la Polonia e l’Ungheria siano i due popoli cattolici dell’Europa orientale, la cui tradizione religiosa si confuse durante quasi un millennio con la tradizione nazionale e contribuì potentemente a renderli impermeabili alle influenze della propaganda grande-russo-panslava-ortodossa; è d’altra parte dubbio che il «patto nazionale» basti a riassumere un dato storico così complesso). Ma l’esigenza dell’autonomia della comunità culturale, religiosa, o semplicemente regionale, di libertà personale e d’associazione, d’espressione e di informazione, e in una parola questa esigenza d’una società pluralista che conceda uno spazio vitale e un campo di sviluppo all’individuo così come ai gruppi storici e sociali non è, essenzialmente, un’esigenza nazionalista.
Quando i lavoratori ungheresi chiedono il diritto di libera organizzazione sindacale, i contadini ungheresi resistono alla collettivizzazione forzata, io non vedo quale legittimazione supplementare simili rivendicazioni potrebbero trarre dalle tradizioni nazionali dello Stato feudale ungherese; quando gli scrittori ungheresi esigono il diritto di «scrivere la verità», sarebbe un abbassare singolarmente questa esigenza il volerla fondare su una caratteristica specifica dello spirito nazionale ungherese che darebbe diritto a una verità specificamente ungherese. L’esigenza dei diritti dell’uomo e della dignità umana (che implica anche l’esigenza dell’individualità e dell’autonomia delle comunità particolari che compongono il mosaico dell’umanità) non è privilegio nazionale.
Bisogna forse rassegnarsi all’uso del vocabolario attuale, che non conosce più distinzioni tra particolarismo e nazionalismo ma allora bisogna anche trarre le conseguenze di questa svalorizzazione del concetto. Il «nazionalismo per tutti» è incompatibile con le rappresentazioni nazionali della nazione come principio di integrazione supremo, della sovranità nazionale come forma di organizzazione suprema delle società e d’un ordine internazionale che sarebbe esclusivamente un sistema di rapporti fra Stati nazionali sovrani; e questo toglie ogni contenuto storico all’ideologia nazionalista.
L’Europa non ha solo dato al mondo il concetto di nazione, ma anche quello di balcanizzazione. Noi non sfuggiremo allo Stato totalitario universale, né troveremo una via al di là del nichilismo, attraverso un ritorno alla balcanizzazione.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » ven mag 20, 2016 1:38 pm

Edentetà venetà: dimande e resposte
https://www.facebook.com/groups/5527425 ... 1528034761

Par esar veneti ocor esar venesiani ?
No !

Par esar veri veneti co raixe venete fonde ocor esar venesiani ?
No !

Par esar pàreoti veneti ocor esar venesiani ?
No !

Par esar boni veneti e boni pàreoti veneti se ga da esar par forsa cristiani ?
No !

Par esar pàreoti veneti se ga da vołer el torno de ła Serenisima ?
No !

La storia del Veneto xeła ła storia de Venesia e de ła Serenisima ?
No, ła xe ła storia de tuti i veneti e de tute łe çità venete tra cu a ghè anca coeła de Venesia e de ła Serenisima, ma scanviar ła storia de Venesia e dei venesiani par coeła del Veneto e dei veneti łè on xbajo, na falbetà.

I venesiani jerełi pì cristiani de st'altri cristiani veneti e de st'altri cristiani ouropei ?
No !

L'arestograsia venesiana jereła pì cristiana de łe altre nobeltà venete e ouropee ?
No !

Se pol paragonar l'arestograsia venesiana a łi apostołi ?
No !

San Marco jereło on santo pì santo de łi altri santi ?
No !

I venesiani jerełi veneti mejo dei veronexi, dei trevixani, dei pavani, dei vixentini, dei belumat e dei ruigoti?
No !

I venesiani gałi enventà el comoun, łe lebertà comunałi e łi istitudi comunałi come l'arengo, ła concio, el major consejo e tuto el resto?
No !

I venesiani gałi enventà ła Repiovega, łe so lebertà e łe so istitusion ?
No !

I venesiani gałi enventà l'istitudo del Doxe ?
No !

I venesiani gałi fato sù on Stado Federal ?
No!

La Serenisima jereła on stado repiovegan ?
Sì ma arestogratego e castual !

La Serenisima jereła ła Repiovega de tuti i veneti?
No, ła jera ła Repiovega de l'arestograsia venesiana, łi altri veneti łi fea parte del domegno venesian e łi jera suditi !

I venesiani gałi enventà l'ogneversedà de Pava ?
No !

La łengoa veneta dei venesiani gała da deventar ła łengoa veneta de tuti i veneti ?
No !

La grafia doparà dai venesiani par scrivar ła so łengoa venesiana gała da devegner ła grafia de tuti i veneti ?
No !

I venesiani gałi costruio na Nasion Veneta ?
No !

L'endependensa dei veneti del Veneto gała da ver come orixonte, o da pasar traverso el torno de ła Repiovega Serenisima ?
No !

La Pàrea Veneta xeła fata da łe tere venete e no venete ke na 'olta łe jera domegno de Venesia ?
No !

El culto del Mito de ła Venesia Serenisima e de San Marco serveło a ognefegar tuti i veneti ?
No !

El culto del Mito de ła Venesia Serenisima xeło na bona roba e on bon edeal par i xovani e on bon modeło pal Veneto del diman ?
No !

Cosa xeło el venesianixmo ?
Lè el culto fanatego del mito venesian, de Venesia e de ła so Serenisima! Conpagnà dal sprèso e da ła negasion
par i veneti de tera e par ła so storia ke no ła xe venesiana ma veronexe, pavana. ruigota, trevixana, vixentina, belumat.
Sta mitomania ła ghe someja a coeła tałiana par Roma e i romani so cu a xe stà tirà sù l'edentetà edeołojega onedara tałiana; na falbetà orenda a spexe de l'edentetà tałeghe, veneta e de łe nostre raixe oruropee.

Xe justo cognosar ła purpia storia e coeła de tuti i veneti ?
Sì ! Ma no xe justo scanviar ła storia de Venesia e dei venesiani par coela de tuti staltri veneti ke no łi xe venesiani! Tanto manco spresàr, negar o falbar ła storia dei veneti ke no łi xe venesiani.

I venesianisti xełi i veri Pàreoti Veneti ?
No !

La Repiovega Serenisima jereła on Paradixo, on stado edeal?
No ! Se ła ło fuse stà, tuti i veneti, venesiani e non venesiani łi ła garia defendesta co łe onje e co i denti, anvençe, par primi i venesiani e ła so arestograsia łi ga prefaresto mołar el domegno de ła Repiovega pitosto ke conbatar par defenderla, consegnadogheła a Napołeon.

Parké i venesiani o mejo l'arestograsia venesiana no ła ga ognefegà tuti i veneti e trato sù na Repiovega Federal a soranedà de tuti i veneti enpiantando cusì na vera e fraderna Nasion Venetà?
Parké no łi se sentiva dal tuto veneti, spartii come ke łi jera tra i domegni de tera e de mar; parké no łi gheva on gran amor fraderno par i veneti del Veneto, par i lonbardi e i furlani dei so domegni; parké no łi vołea perdar łi so priviłej de casta arestogratega dominante e parké no łi ga savesto ajornarse ai tenpi e vałutar par ben e de bonora ła realtà de ła storia ke canbiava.

E i Serenisimi?
I Serenismi łi se gheva fato ciapar dal mito de Venesia e da coeło dei Serenisimi e ancora ancó no łi xe boni de vegnerghene fora e łi xe restà entrapołà drento sti do miti;
mi ghe so sta amigo e ło so ancora, ma a defarensa de lori go vesto el cogno e ła fortuna de profondir anca ła storia de mi e de tuti i veneti e no solké coeła dei venesiani e de Venesia.
Venesia no ła xe stà na bona mama e na bona marègna, co xe rivà el momento ła ne ga xbandonà tuti, fioli e fiłiastri.
Lo so ka par bruto dirlo e ca xe tristo recognosarlo ma lè on pàso ca ghemo tuti da far sa vołemo cresar e mejorar łe robe.
I Serenisimi łi ga scanvià Venesia e ła so Repiovega Arestogratega ca no ghè pì, par ła Pàrea Veneta; ła Pàrea Veneta lè el Veneto e no Venesia ke lè lomè ona de łe çita venete e ła Repiovega Serenisima ła jera na organixasion połedega a domegnansa venesiana ke no ła ghè pì daromai da 220 ani e no ła jera ła Repiovega de tuti i veneti endoe ke tuti i veneti łi jera sorani.


Venesianisti: na bona parte łi xe połedeganti, caregari, fanfaroni, fiłoleghisti,
...

Ma i veneti xełi on popoło ?
La xe na dimanda a cu se ndaria mejo a respondar par somexansa anałojega e par scartamento, ... ke par definision standare e stereotipà:
dixen ke i veneti łi ga tanti tràti ke łi portaria a dirli/ciamarli on popoło, a scuminsiar da ła pristoria, però se stemo ai fati połedeghi e a ła storia de sti oltemi 6 secołi, a vien pì de coalke pensiero da scorlar ła cràpa. Soto ła Repiovega Serenisima ła pì parte dei veneti łi jera suditi del domegno de Venesia e Venesia no ła ga fato gnente par trar sù na Nasion Veneta co on so Popoło Veneto ognio e soran; dapò a xe rivà Napoleon, l'Aostria e ła Tałia e kel poco ca ghe jera el se ga descołà ancora de pì. Se vardemo ła realtà de ancó, da suditi del stado tałian e pieni de veneti ke łi serca de ciavarse łe scarpe tra de łori e de montarghe so ła skena de łi altri par farse portar, co na majoransa ke ła sente pì tałiana ke veneta a se fa fadiga pexar coanto Popoło Veneto ke łi xe e ke łi se sente i veneti.

El cristianixmo xeło on descremene o na scremadura ke ła caraterixa łe xenti venete e ła difarensia i veneti da łi altri òmani ouropei e tałeghi da farli aparir al mondo come on popoło par lù?
No, parké tute łe xenti ouropee łe xe parlopì cristiane. Caxo mai i veneti łi apartien a ł'ara cristian catołego-romana pì ke a coeła protestante. Prasiò no xe el cristianixmo ke fa dei veneti on popoło come ka xe l'ebraixmo par łi ebrei.

Ke fa dei veneti on popoło a xe al scuminsio l'apartenensa a ła tera veneta e dapò tute łe stratefeganse ca se ga
xontà e xmisià longo i miłegni. E l'ognoła tera veneta ke ła se pol ciàmar cusì łe el Veneto e no altro come i teritori sojeti al domegno de Venesia o coełi ke entel domegno roman łi jera ciamà X Rejo e dapò Venesia e Istria.
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » ven mag 20, 2016 1:40 pm

???

Risoluzione di Sovranità del Veneto
18 maggio 2016

http://www.antonioguadagnini.eu/sovranita-veneta
http://www.antonioguadagnini.eu/veneto- ... %CC%80.pdf

Il Popolo veneto, per tutta la sua storia, ha manifestato palesemente la volontà di autogovernarsi, con l’obiettivo di migliorare il progresso, il benessere e la felicità di tutti i cittadini, rafforzare la cultura e l’identità collettiva.

La rivendicazione dell’autogoverno del Veneto si basa anche sui diritti storici del Popolo veneto, maturati fin dal riconoscimento geografico e amministrativo compiuto dall’Impero Romano nel 42 a.C. con la delimitazione ufficiale della “X Regio Venetia et Histria” che comprendeva i territori abitati stabilmente da almeno un millennio dai Veneti, popolo preromano di antichissima stirpe che si era associato pacificamente alla potenza romana in seguito a una secolare alleanza militare ed economica. La sua legittimità trova conferma nelle istituzioni secolari e nella tradizione giuridica veneta. Il parlamentarismo veneto ha le sue fondamenta nella millenaria storia della Serenissima Repubblica, con le sue istituzioni collegiali che trovano la loro più alta espressione nell’istituzione secolare del Maggior Consiglio.

Inoltre, anche la forte autonomia statutaria dei Comuni esistenti sulle terre venete, riconosciuta tanto nel periodo imperiale – durato fino al 1404 – quanto nel periodo della dedizione al “Dominio dello Stato da Tera” della Repubblica Serenissima di Venezia – nel periodo intercorso tra il 1404 e il 1797 – attesta una vocazione storica innata all’autogoverno, radicata in ogni componente demografica e territoriale della patria veneta.

La caduta della Repubblica veneta nel maggio del 1797 avvenne per l’imposizione delle armi da parte di una entità estranea al Popolo veneto. Da quel momento il libero esercizio dell’autogoverno è stato impedito con la forza, ripetutamente ed ininterrottamente, da agenti esterni quali la tirannia di Napoleone Bonaparte; la monarchia austriaca subentratagli nel 1814 che, nell’agosto del 1849, soffocò la Repubblica di San Marco indipendente, fondata dopo l’insurrezione popolare del marzo del 1848; e infine la monarchia dei Savoia, a partire dal mese di ottobre del 1866. Nel corso di tutto l’Ottocento il Popolo veneto ha continuato a manifestare la propria volontà di autogoverno, come dimostrano le sommosse represse nel sangue del 1809, del 1821 ed il già citato episodio del 1848-1849. L’opinione degli storici è unanime nell’affermare che il plebiscito di annessione all’Italia del 1866 fu un atto truffaldino, senza la minima trasparenza e democraticità, al quale il popolo fu costretto piuttosto sotto la minaccia, ancora una volta, delle armi. Le istituzioni monarchiche prima, e fasciste dopo, hanno impedito e represso ogni forma di autogoverno del Popolo veneto che ha continuato a cercare una via per compiersi attraverso ripetute, seppur disorganizzate, iniziative politiche attestate dai giornali perfino durante l’epoca fascista, fino a giungere alle diverse forme identitarie politiche degli ultimi 40 anni.

Di seguito con l’avvento della Repubblica Italiana, e precisamente tramite la legge n. 340 del 1971, si è istituita la Regione “Veneto”, che all’articolo 2 del proprio Statuto afferma: “L’autogoverno del popolo veneto si attua in forme corrispondenti alle caratteristiche della sua storia”.
D’altra parte, alcuni dei più recenti sforzi atti ad esercitare una condotta di autogoverno del Popolo veneto all’interno dell’egida del diritto internazionale è stata negata dalla Corte Costituzionale.
Successivamente a questa negazione dell’esercizio del diritto di autodeterminazione ed autogoverno del Popolo veneto questo Consiglio ha approvato a larga maggioranza la mozione 19, la mozione 29 ed infine la risoluzione 4.




Coante ensemense kel scrive Goadagnin

1)
Il Popolo veneto, per tutta la sua storia, ha manifestato palesemente la volontà di autogovernarsi ...

2)
La rivendicazione dell’autogoverno del Veneto si basa anche sui diritti storici del Popolo veneto, ???
a
maturati fin dal riconoscimento geografico e amministrativo compiuto dall’Impero Romano nel 42 a.C. con la delimitazione ufficiale della “X Regio Venetia et Histria” che comprendeva i territori abitati stabilmente da almeno un millennio dai Veneti, popolo preromano di antichissima stirpe che si era associato pacificamente alla potenza romana in seguito a una secolare alleanza militare ed economica. ???
b
La sua legittimità trova conferma nelle istituzioni secolari e nella tradizione giuridica veneta. ???
c
Il parlamentarismo veneto ha le sue fondamenta nella millenaria storia della Serenissima Repubblica, con le sue istituzioni collegiali che trovano la loro più alta espressione nell’istituzione secolare del Maggior Consiglio. ???

3
Inoltre, anche la forte autonomia statutaria dei Comuni esistenti sulle terre venete, riconosciuta tanto nel periodo imperiale – durato fino al 1404 – quanto nel periodo della dedizione al “Dominio dello Stato da Tera” della Repubblica Serenissima di Venezia – nel periodo intercorso tra il 1404 e il 1797 – attesta una vocazione storica innata all’autogoverno, radicata in ogni componente demografica e territoriale della patria veneta. ???

Sta vocasion la se catava dapartuto entel çentro de la penixla tałega e ente ł'Ouropa xermana e no ła jera na caraterestega lomè de łe xenti venete.


4
La caduta della Repubblica veneta nel maggio del 1797 avvenne per l’imposizione delle armi da parte di una entità estranea al Popolo veneto. ???

Me despiaxe ma sta Repiovega Veneta no ła jera de tuti i veneti ma a segnoria venesiana e arestogratega, prasiò non se pol parlar de na vera e conpleta Nasion Veneta a soransa de tuti i veneti.
Da sovegnerse ke i segnori venesiani łi ga abdegà e pasà el poder a ła moneçepałedà provixoria

b
Da quel momento il libero esercizio dell’autogoverno è stato impedito con la forza, ripetutamente ed ininterrottamente, da agenti esterni quali la tirannia di Napoleone Bonaparte; la monarchia austriaca subentratagli nel 1814 che, nell’agosto del 1849, soffocò la Repubblica di San Marco indipendente, fondata dopo l’insurrezione popolare del marzo del 1848; e infine la monarchia dei Savoia, a partire dal mese di ottobre del 1866. Nel corso di tutto l’Ottocento il Popolo veneto ha continuato a manifestare la propria volontà di autogoverno, come dimostrano le sommosse represse nel sangue del 1809, del 1821 ed il già citato episodio del 1848-1849. L’opinione degli storici è unanime nell’affermare che il plebiscito di annessione all’Italia del 1866 fu un atto truffaldino, senza la minima trasparenza e democraticità, al quale il popolo fu costretto piuttosto sotto la minaccia, ancora una volta, delle armi. Le istituzioni monarchiche prima, e fasciste dopo, hanno impedito e represso ogni forma di autogoverno del Popolo veneto che ha continuato a cercare una via per compiersi attraverso ripetute, seppur disorganizzate, iniziative politiche attestate dai giornali perfino durante l’epoca fascista, fino a giungere alle diverse forme identitarie politiche degli ultimi 40 anni.

Xe vero ma anca durante el domegno venesian el popoło nol se ga mai espreso
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » lun giu 06, 2016 11:46 am

Anca Sabin Acoaviva e Etore Bejato no li ła conta ben!

“… Questa regione, contrariamente ad altre, possiede una sua lingua, che è stata lingua franca e internazionale per secoli, almeno nel Mediterraneo orientale. È l’unico dialetto-lingua parlato fuori d’Italia in regioni abbastanza vaste e in Stati diversi. Dunque si tratta di un popolo con una forte identità, e fa bene Beggiato a cercare di capire, nel suo libro, perché questo popolo ad un certo punto ha abdicato e alla fine accettato di esserne parte dell’Italia unita. Ma ha accettato o subito l’Unità? A partire dal 1866 il governo centrale ha sistematicamente combattuto, non soltanto nel Veneto ma in ogni regione d’Italia, le identità regionali.”


http://www.raixevenete.com/la-botega/co ... e-truffa-2

È uscita in questi giorni la terza edizione di “1866:la grande truffa. Il plebiscito di 1866 la grande truffa retro - raixe veneteannessione del Veneto all’Italia” di Ettore Beggiato (Edizione Raixe Venete, 150 pagine, 10 euro).
Il prof. Sabino Acquaviva, recentemente scomparso, così ne parla nella prefazione alla prima edizione stampata nel 1999.
“Un libro importante, culturalmente e politicamente. Ci Parla della nostra storia, di quanto è accaduto quando il Veneto è stato annesso all’Italia. Ci narra quel che è veramente successo, oltre ogni descrizione oleografica, falsa e falsata per motivi politici.. Noi tutti sappiamo che l’unificazione del paese è stata più imposta che voluta. Che è arrivata sulla punta delle baionette dell’esercito piemontese, che molti plebisciti sono stati manipolati, che nel 1848 la maggioranza dei veneti si è battuta contro l’Austria in nome di San Marco; che addirittura, dopo la vittoria di Lissa, sulle navi austroungariche, dove quadri e marinai erano in gran parte veneti istriani e dalmati e quindi provenivano da territori appartenuti alla repubblica di Venezia, si gridò “viva San Marco”. Sappiamo anche, purtroppo che una ricostruzione di parte della storia è stata poi travisata nei libri di scuola ed è stata imposta alle nuove generazioni.
Oggi, dopo oltre un secolo e mezzo, è nostro dovere ricostruire la storia della regione in cui viviamo o siamo nati.”
E più avanti, il grande sociologo padovano sottolinea l’importanza della lingua veneta nella battaglia per la difesa dell’identità del popolo di San Marco
“… Questa regione, contrariamente ad altre, possiede una sua lingua, che è stata lingua franca e internazionale per secoli, almeno nel Mediterraneo orientale. È l’unico dialetto-lingua parlato fuori d’Italia in regioni abbastanza vaste e in Stati diversi. Dunque si tratta di un popolo con una forte identità, e fa bene Beggiato a cercare di capire, nel suo libro, perché questo popolo ad un certo punto ha abdicato e alla fine accettato di esserne parte dell’Italia unita. Ma ha accettato o subito l’Unità? A partire dal 1866 il governo centrale ha sistematicamente combattuto, non soltanto nel Veneto ma in ogni regione d’Italia, le identità regionali.”
Già “dal 1866 il governo centrale ha sistematicamente combattuto le identità regionali” … e continua a combatterle…
E ancora, è sempre il prof. Acquaviva che ribadire l’importanza di “riacquistare la memoria”:
“…È giunto il momento di riacquistare la memoria. A questo scopo dobbiamo fare un paziente lavoro di certosini, riscrivere la storia, reintrodurre, affinché non muoia, l’insegnamento della lingua veneta, dopo avere approntato delle grammatiche standardizzate e pubblicato dei vocabolari. Ma tutto questo, ripeto, deve accompagnarsi ad una riscoperta della storia, ed è appunto quanto fa, in queste pagine Ettore Beggiato”
L’autore ha mantenuto intatto l’impianto del volume, diviso in sei parti.
Si parte con il “Quadro storico generale”, seguito dal “19 ottobre 1866, la grande truffa”, da “21 e 22 ottobre 1866, al voto quando tutto è già stato deciso”, dal capitolo dedicato all’arrivo dei Savoja “…E arrivarono i liberatori”, al “Il secolo dei plebisciti” nel quale l’autore descrive brevemente i truffaldini plebisciti sabaudi che precedettero quello veneto. E, non a caso, il grande Indro Montanelli fu “costretto” ad ammettere:
“L’Italia è finita. O forse, nata su plebisciti-burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita”.
Molto ricco è il capitolo dedicato ai documenti nei quali Ettore Beggiato ripropone documenti inediti frutto di oltre trent’anni di ricerche, in particolare si fa riferimento alla “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” che attesta come il 19 ottobre, due giorni prima del voto, il Veneto sia stato ufficialmente annesso al Regno d’Italia; i Veneti andarono a votare il 21 e 22 ottobre quando tutto è già stato deciso…”la grande truffa” appunto.


No xe el "popoło veneto" kel ga abdegà, ma l'arestograsia venesiana ke ła gheva el poder; el "popoło veneto" (ke no lè gnancora stà ben encoadrà) nol gheva gnaon poder parké el jera sudito de Venesia e de ła so arestograsia.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » dom ago 28, 2016 8:55 am

I veneti sono una minoranza nazionale?

Per lo stato italiano NO e nemmeno per la maggioranza degli abitanti del Veneto.
Nessuno al Mondo, nessun Stato, nessuna organizzazione di Stati Nazione come l'ONU, nessuna Corte Giuridica Internazionale, al Mondo, possono riconoscere quello che nemmeno una consistente minoranza degli abitanti del Veneto riconoscono a se stessi, ossia la qualità umana, giuridica e politica di essere un Popolo: cioè di essere Popolo Veneto e non Popolo Italiano.


https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 6219663173



I veneti sono una minoranza nazionale?

Per lo stato italiano NO e nemmeno per la maggioranza degli abitanti del Veneto.

E la Regione del Veneto che è un'articolazione dello Stato Italiano o Nazione Italiana, per l'ordinamento italiano, non ha titolo alcuno per poter decidere se i Veneti siano o meno una minoranza nazionale e come tale una minoranza etno-linguistica da tutelare e a cui riconoscere le diversità e i relativi diritti che per esempio riconosce alle regioni autonome e alle minoranze linguistiche.

Che può decidere in tal senso sono soltanto i Veneti, i cittadini Veneti dello Stato Italiano residenti nella Regione Veneto, in quanto terra preistorica e storica delle genti che da miliaia di anni si definiscono e vengono definite come venete e che si sentono, si riconoscono come Popolo a sè e ben distinto dal resto dei cittadini dello Stato Italiano, e che in quanto popolo distinto riconoscono le loro specificità linguistiche, culturali, religiose, politiche.
Tale decisione ha un peso politico e giuridico internazionale se la quantità dei Veneti che si riconoscono come Popolo Veneto e diversi dagli italiani e/o che decidono di esserlo e di esercitare i loro Diritti Umani Civili e Politici non più come Italiani ma come Veneti sia manifestamente rilevante, ... lo sarebbe pianemente se si trattasse della maggioranza degli abitanti della Regione del Veneto.

Il Italia decidono gli italiani a Roma (tra cui i veneti che sono e si sentono italiani); in Veneto decidono i veneti che si riconoscono e si sentono pù veneti che italiani e diversi dagli italiani e si costituiscono come tali in un numero visibilmente rilevante al mondo intero.

Perché i Veneti possano essere un Popolo devono sentirsi e riconoscersi come tale a centinaia di migliaia, o meglio a milioni.
Finché non si manifesta al mondo questo fantomatico Popolo Veneto non esiste e non può esercitare alcun diritto poiché per esercitare qualsiasi presunto diritto che sia in contrasto con altri presunti diritti ci vuole la forza politica e questa forza si manifesta nella consistensa del Popolo Veneto.

Un fantomatico Popolo Veneto a parole non esiste, potrebbe esistere soltanto nei fatti, qualora questo Popolo si concretizasse manifestandosi al Mondo come tale come in Catalogna quando milioni di Catalani scendono in strada e si mostrano al Mondo, agli altri Popoli del Mondo, alle altre Nazioni del Mondo.

Un Popolo non esiste perché una persona, un gruppo di persone, decine, centinaia o miliaia si dicono tali, su una popolazione di milioni di abitanti, ma per esistere è necessario e fondamentale che una buona parte, almeno la maggioranza degli abitanti di quel territorio si riconosca come Popolo a sè e come tale incominci ad esercitare la sua sovranità politica manifestando al Mondo la propria volontà di Popolo Indipendente e Sovrano.
Se si tratta invece di una minoranza inconsistente il Popolo non esisterà mai, se prima questa minoranza non convincerà la maggioranza a riconoscersi e a costituirsi come Popolo a sè, altro e sovrano.


Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ti-oro.jpg

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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » lun set 12, 2016 10:17 pm

L’indipendentismo è fatto di patrioti
12 Sep 2016
di ENZO TRENTIN
http://www.lindipendenzanuova.com/lindi ... i-patrioti

L’Italia è un paese di patrioti e, tutte le volte che le cose vanno male, che gli affari non funzionano, che l’oppressione burocratica e la fiscalità sono troppo pesanti, basta che il governante di turno si metta ad indicare la necessità di solidarizzare con questa o quella causa, perché questi patrioti si scordino delle loro ragioni di malcontento e ardano dal desiderio di supportare questa o quella causa. Di saltate alla gola del nemico, o di proferir minacce contro un paese straniero, non ci pensa nessuno. Sono cose che ricordano il fascismo. Meglio mandare le forze armate attrezzate di tutto punto in missioni di peacekeeping (mantenimento della pace. Tsz!) È così grande la disponibilità italiana nell’offerta di contingenti militari per operazioni all’estero, senza ritorno di “interessi nazionali”, che pare sia l’unico modo di fare una politica estera.

Tramontata l’era dell’autonomismo sul modello delle Regioni a Statuto speciale; dimenticata la rivendicazione per il federalismo, di cui molti non comprendono l’essenza, e che i politicanti non hanno interesse a praticare; la parola d’ordine di alcuni patrioti che ai giorni nostri si occupano attivamente di politica è diventata: indipendenza. A questo punto, tralasciamo la politica “tradizionale” imperniata sui partiti che con il loro comportamento hanno deluso, tediato e stancato l’opinione pubblica. Ed ecco che i cosiddetti indipendentisti sono diventati tali, perché fallita l’era dell’autonomismo e del federalismo non intravvedono altra via che l’autodeterminazione.

Tuttavia nel fronte patriottico indipendentista si apre una dicotomia: da una parte ci sono coloro che chiedono il voto per entrare nelle istituzioni italiane con il proposito di cambiarle dal loro interno. Metodo sinora sempre fallito. Spesso caldeggiato da persone che hanno già avuto incarichi istituzionali, ma che non hanno mai raggiunto gli scopi per i quali erano stati votati. Se poi a questa fazione viene chiesto: «Che tipo di indipendenza sarà?», rispondono semplicisticamente di volere uno Stato il cui ordinamento sia simile a quello svizzero. E qui molti indipendentisti rizzano le orecchie, perché sanno che le stesse semplificazioni furono adottate anche per il federalismo, e di norme o proposte autenticamente federali non se ne sono mai ottenute da questi rappresentanti. Ciò nonostante costoro hanno un codazzo di plebe che incoraggiano con il «Plaudite cives!» (“applaudite cittadini!”). Ma non c’è da stupirsi, la claque esisteva già nella Roma antica. Era un “servizio” per lo più a pagamento, riservato a chi poteva permettersela. E siccome le istituzioni italiane “pagano bene…”, è diffuso il sospetto che loro vogliano entrarci per poter vivere di rendite politiche.

Dall’altro canto si riscontra una massa di cives che pur non essendo plebe, come per esempio le tifoserie calcistiche, è tuttavia inattiva, attendista. Aspetta gli eventi, o l’uomo della provvidenza, ignorando che se c’è non farà sicuramente i loro interessi quando dovesse apparire all’orizzonte. Infatti quando si conferisce un grande potere a una carica, si ignora quali garanzie avrà il cosiddetto “popolo sovrano” nel momento della crisi. Insomma per dirla in termini commerciali: esiste una domanda di mercato, ma l’offerta per soddisfarla è carente.

I patrioti più sensibili fanno propria un’affermazione di Thomas Jefferson: «Se un popolo crede di poter essere libero e disinteressarsi della politica, immagina qualcosa che non è mai stato né mai sarà.» Si sono convinti che una bozza di progetto istituzionale innovativo, potrebbe soddisfare tale domanda, e contemporaneamente rendere inoffensivi i politicanti.

Ad ogni buon conto quando si parla di autodeterminazione si deve tener presente che il principio fu solennemente enunciato da Woodrow Wilson in occasione del Trattato di Versailles (1919), e avrebbe dovuto fungere da linea guida per il tracciamento dei nuovi confini, ma in realtà fu applicato in modo discontinuo e arbitrario. Il principio di autodeterminazione dei popoli si è poi sviluppato compiutamente a partire dal 1945. In particolare, è stata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a promuoverne lo sviluppo all’interno della Comunità degli Stati.

Si tenga presente che il princìpio di autodeterminazione dei popoli sancisce l’obbligo, in capo alla comunità degli Stati, a consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera (colonizzazione o occupazione straniera con la forza), o facente parte di uno Stato che pratica l’apartheid, possa determinare il proprio destino in uno dei seguenti modi: ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi a un altro Stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Il princìpio, nell’ambito del diritto internazionale, esplica i suoi effetti solo sui rapporti tra gli Stati e non sancisce alcun diritto all’autodeterminazione in capo a un popolo: quest’ultimo, infatti, non è titolare di un diritto ad autodeterminare il proprio destino ma è solo il materiale beneficiario di tale principio di diritto internazionale, i cui effetti, invece, si ripercuotono solo sui rapporti tra Stati.

Invece, ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani, il soggetto titolare del diritto all’autodeterminazione è il popolo come soggetto distinto dallo Stato. Ma in nessuna norma giuridica internazionale c’è la definizione di popolo. Questa reticenza concettuale non è dovuta al caso. Gli Stati giocano sull’ambiguità, non essendo ancora disposti ad ammettere espressamente che i popoli hanno una propria soggettività giuridica internazionale.

Sotto quest’ultimo aspetto, ad oggi, solo la Corte suprema del Canada, valutando le rivendicazioni di indipendenza del Québec rispetto al Canada, ha analizzato attentamente tale principio definendone i limiti: di esso sono autorizzati ad avvalersi ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero, e gruppi sociali cui le autorità nazionali rifiutino un effettivo diritto allo sviluppo politico, economico, sociale e culturale. (Sentenza 385/1996) Insomma, si può rigirarla come si vuole, ma è indispensabile che il soggetto che vuole autodeterminarsi si dia prima una parvenza di soggetto istituzionale, di comunità politica con norme e regole proprie e condivise dalla maggior parte di quella popolazione cui fa riferimento.

Ciò premesso, un primo (fallito) tentativo di autodeterminazione lo possiamo riscontrare nei giorni stessi in cui il princìpio fu determinato. Alla fine della Grande Guerra, la conferenza di pace di Parigi del 1919 stabilì che Fiume non poteva essere Italiana, e a molti nazionalisti italiani questa decisione non piacque, perché contraddiceva uno dei principi della Conferenza stessa, quello della “Autodeterminazione dei Popoli”. D’Annunzio si fece portavoce di questa contraddizione e con i suoi legionari occupò Fiume.

Sotto la sua supervisione il Vate affidò immediatamente la redazione di una Costituzione della reggenza italiana del Carnaro – così si chiamò la Repubblica italiana di Fiume – ad un repubblicano fondatore del sindacalismo rivoluzionario, il socialista Alceste de Ambris. La Costituzione nota come Carta del Carnaro, superava di molto lo Statuto Albertino in termini eversivi; doveva instaurare un nuovo ordine fondato sul lavoro, la tutela dei diritti individuali, la giustizia sociale, la prosperità e l’idea di bellezza. Riportiamo qui solo due degli articoli più significativi:

2 – La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono.

5 – La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.

La democraticità della Carta è attestata anche dall’introduzione del sistema referendario, sia in chiave propositiva che abrogativa (artt. LVI e LVII), nonché dall’incompatibilità, ossia il nostro moderno conflitto d’interessi: “…Nessun cittadino può esercitare più di un potere né partecipare di due corpi legislativi nel tempo medesimo” (art. LIX).

Orbene, nessuno Stato vuole l’autodeterminazione di una parte della sua popolazione, né che questo determini lo smembramento del suo territorio. E adesso che la propaganda è più potente di quanto lo sia mai stata, e che tutti i suoi strumenti sono in mano a chi regge lo Stato; nell’Italia governata dalla partitocrazia non è più possibile per gli indipendentisti autentici far conoscere la verità.

L’autodeterminazione non è prodotta, se mai lo è stata, da forze economiche semplicisticamente analizzabili. Ora l’autodeterminazione è perlopiù progettata da individui singoli, da demagoghi, e da politicanti che giocano sul patriottismo dei loro concittadini per indurli, una volta che le loro millantate pretese non sono riuscite a soddisfare i popoli soggetti al malgoverno dello Stato dal quale vogliono scindersi, a credere in un grande imbroglio. E il colossale raggiro in Italia consiste ed è messo in atto da coloro che vogliono farsi eleggere nelle istituzioni dello Stato, per poi da lì “guidare” l’indipendenza.

Capziosamente portano ad esempio la Scozia, la Catalogna o la Corsica, ma sono molto attenti a non mettere in evidenza le sostanziali differenze di questi tre indipendentismi che, in ogni caso, hanno dei precisi progetti di nuovo assetto istituzionale, e che – ancora più importante – hanno il seguito di una consistente parte dell’opinione pubblica cui fanno riferimento.

La questione dell’assetto istituzionale, è evidenziata anche in una intervista concessa dall’ambasciatore russo in Italia: S. S. Razov, all’emittente Radio Nazionale Veneta [www.radionazionaleveneta.org ], dove tra l’altro afferma: «[…] nella fase attuale nessuno Stato è in grado di funzionare senza il decentramento del potere. Il contenuto reale dello status di autonomia dipende dalla portata dei diritti e dei poteri della regione che naturalmente devono essere sanciti nella corretta forma giuridica».

radio nazionale veneta

Ecco allora che molti patrioti sono “distratti” da pseudo indipendentisti che sono molto prodighi nel ricordare lo splendido passato, ma avari di proposte istituzionali credibili, perché troppo attenti a non privarsi delle cospicue rendite politiche di cui vivono da molti anni.

È invece convinzione di molti che si debba lavorare per prefigurare adesso le nuove istituzioni, e con detto progetto si debba agire sul doppio binario:

1) sull’opinione pubblica alla quale ci si vuole rivolgere per avere l’ampio consenso di cui godono i catalani e gli scozzesi, e in misura minore i corsi;

2) operare sul piano internazionale per i necessari appoggi e riconoscimenti.

Naturalmente si può fare altro; ma prima o poi si dovrà arrivare a questo, perché questo rimane il nocciolo del problema.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: I veneti del Veneto xełi on popoło?

Messaggioda Berto » mar set 13, 2016 6:53 am

Sto kì lè on Popoło!


“Catalogna libera”: più di mezzo milione di persone per la Diada. A settembre annuncio referendum
12 Sep 2016

http://www.lindipendenzanuova.com/catal ... referendum

Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in tutta la Catalogna per chiedere l’indipendenza in occasione della Diada, la festa nazionale della regione. Circa 540mila cittadini si sono riuniti nelle cinque maggiori città catalane (Barcellona, Tarragona, Salt, Berga e Lleida) agitando bandiere gialle e ballando a tempo di musica. Tra loro anche il presidente catalano, il secessionista Carles Puigdemont, la presidente del Parlamento, Carme Forcaldell e il sindaco di Barcellona Ada Colau.

La manifestazione per la festa nazionale catalana, la Diada, è stata occasione per fare pressioni verso l’indipendenza della Catalogna nel 2017, nonostante i continui divieti a suon di leggi da parte del governo centrale di Madrid che però si trova ad affrontare una situazione di stallo. I leader locali sperano infatti di sfruttare questo momento di confusione politica per ribadire le istanze di autonomia della regione. Il parlamento catalano, sfidando il veto della Corte costituzionale spagnola, ha varato in marzo il processo di indipendenza che dovrebbe terminare con l’approvazione delle tre leggi costituenti della futura ‘Repubblica di Catalogna’ nel luglio 2017. Il governo di Madrid del premier uscente Mariano Rajoy si era sempre opposto alle spinte secessionistiche di Barcellona, che considera anti-costituzionali.

Puigdemont ha annunciato che a fine settembre proporrà a Madrid la la convocazione di un referendum sull’indipendenza. Una ipotesi che finora il governo spagnolo ha sempre scartato. Il presidente catalano ha detto anche che prevede di convocare elezioni costituenti della nuova repubblica prima della Diada del 2017. “Io insisto nel dire ancora una volta che questo è un processo che deve essere concordato con il governo spagnolo E un referendum è il meccanismo migliore per scoprire se la gente vuole essere indipendente o no”, ha dichiarato in conferenza stampa Puigdemont. (Fonte Reuters-Traduzione LaPresse)


https://it.wikipedia.org/wiki/Diada_Nac ... _Catalunya

http://www.rsi.ch/news/mondo/In-800000- ... 02649.html
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