El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » sab feb 10, 2018 9:25 am

I disastri economici dell'unificazione dal nazionalismo ottocentesco all'europeismo contemporaneo
di Carlo Lottieri
2018/02/08

http://libertycorner.eu/index.php/2018/ ... temporaneo

Sul piano teorico come su quello storico, l’unificazione politica forzata si rivela quindi causa di gravi conseguenze economiche, moltiplicando irrazionalità, ingiustizia e miserie. Se l’unificazione italiana e quella tedesca hanno ampiamente dato prova di produrre devastazioni di varia natura, la stessa unificazione europea (oggi solo agli inizi) ha già prodotto un gran numero di disastri

I processi di accorpamento politico e territoriale (l’unificazione dell’Italia e della Germania nel corso dell’Ottocento, quella dell’Europa al giorno d’oggi) vengono spesso difesi con argomenti economici. In effetti, non di rado gli uomini politici si vergognano del loro nazionalismo e ancor più della volontà di potenza che li pervade, e quindi tendono ipocritamente ad utilizzare questo genere di maschere. Essi pretendono di farci credere, insomma, che distruggere libertà locali o accorpare interi Stati nazionali sarebbe “vantaggioso”: e non solo per loro (come è facile capire), ma per tutti noi.

Questo breve scritto si propone quindi di mostrare la fragilità teorica delle tesi avanzate da quanti difendono i processi di accorpamento istituzionale e, al tempo stesso, di evidenziare come anche sul piano storico l’unificazione politica abbia creato molti più problemi di quanti non ne abbia risolti.

Alcune considerazioni teoriche


1.1 L’unificazione non crea grandi potenze economiche

Si sente spesso dire, ad esempio, che l’Europa unita sarebbe una potenza economica superiore agli Stati Uniti. In paesi di media grandezza come la Gran Bretagna, la Francia o l’Italia i cittadini godono di un reddito pro-capite più basso di quelli degli statunitensi; ma tale gap – è questa la tesi degli europeisti – potrebbe essere superato se tali sistemi politici venissero unificati, dando vita ad un’unica potenza economica senza eguali al mondo, e con il pil di maggiori dimensioni.

Questo argomento, però, è semplicemente ridicolo. A nessuna persona di buon senso interessa davvero il prodotto interno complessivo: l’insieme delle ricchezze prodotte entro determinate frontiere. Quello che rende benestante un popolo, molto più semplicemente, è l’effettivo benessere dei suoi abitanti. Sommare l’economia dei venticinque paesi europei non significa niente, allora, se non porta ad un miglioramento delle condizioni di quanti vivono e lavorano entro queste realtà.

L’economia reale, poi, non è un fatto di nazioni o macro-aree, ma di individui e imprese: tanto è vero che capita a tutti noi di constatare come vi siano imprese svizzere, olandesi o venete del tutto in condizioni di essere più competitive di imprese russe o americane.

1.2 L’unificazione innalza le barriere doganali

Bisogna sempre ricordare, per giunta, che un’economia può crescere se vi è libertà di scambio e, quindi, se il mercato è aperto: se insomma la proprietà è tutelata e vi è una forte competizione tra i diversi soggetti. Ma i processi di unificazione si muovono esattamente in direzione opposta, dato che rafforzano il potere, creando una massa concentrata di risorse “politiche” e in tal modo ponendo le premesse per un potere “imperiale”.

La stessa esigenza di avvalersi di “economie di scala” appare ingiustificata, poiché non vi è alcuna necessità di unificare politicamente un intero continente per ottenere – quando è necessario – un risultato del genere. Leghe, intese, accordi federali ed alleanze sono in genere la soluzione migliore: quella che evita il consolidarsi di strutture pericolose e gli altissimi costi organizzativi degli apparati burocratici delle istituzioni mastodontiche.

Nell’ambito della difesa, ad esempio, se una piccola comunità politica teme di essere “invasa” o dominata può stipulare patti difensivi senza rinunciare alla propria libertà e ai benefìci correlati alla libertà di autogoverno.

Un’altra analisi ugualmente contestabile è quella secondo cui l’unificazione sarebbe utile e necessaria perché elimina le barriere doganali. Questo argomento viene usato, in particolare, ogni volta che si cerca di mostrare i presunti vantaggi dell’unità italiana. Ma anche questa tesi è infondata, poiché sono proprio le piccole realtà politiche (Montecarlo, il Liechtenstein, l’Estonia o la stessa Svizzera) ad essere le aree più economicamente aperte alle importazioni: con un numero minimo di dazi e barriere.

Se esaminiamo la stessa storia italiana, d’altra parte, è certamente vero che l’unificazione ha eliminato i dazi tra Roma e la Toscana, tra il Piemonte e la Lombardia. Questa, però, è solo una parte della vicenda. Ciò che in genere si omette è che l’unificazione italiana ha posto le premesse per la costruzione di barriere ben più alte tra l’Italia e la Francia, tra l’Italia e la Germania, e via dicendo. E mentre le deboli barriere infra-italiane avrebbero avuto ben poche chances di reggere in un’epoca – quella di metà Ottocento – che conobbe l’aprirsi dei mercati internazionali (si pensi, in particolare, all’accordo Cobden-Chevallier), le nuove barriere nazionali si dimostrarono assai più solide e finirono per segnare la vita economica degli ultimi decenni dell’Ottocento: aggravando, tra l’altro, la povertà del Mezzogiorno italiano (con la conseguente emigrazione) e ponendo le premesse per tensioni e conflitti crescenti.

Non c’è dubbio che lo scambio sia una delle sorgenti fondamentali della prosperità e che ogni barriera doganale aggredisce la libertà dei singoli, impedendo loro di commerciare pacificamente. Ma è tutto da dimostrare che il modo migliore per eliminare dazi, tariffe e altri impedimenti al commercio consista nell’unire tante piccole comunità in un’unica entità politica di grandi dimensioni.

L’esperienza storica ci mostra esattamente l’opposto, dato che solo i paesi grandi che possono permettersi il “lusso” di avere barriere doganali (Stati Uniti ed Unione europea, in particolare), mentre le entità più minuscole sono assai più aperte in quanto hanno bisogno di cooperare con l’esterno e se ne avvalgono nel migliore dei modi. Ogni paese di limitate dimensioni è quindi indotto a rigettare le politiche autarchiche, che lo condannerebbero al sottosviluppo.

Quanto detto è drammaticamente d’attualità per quei paesi che, all’indomani dell’ingresso dei nuovi dieci membri dell’Unione, si sono trovati sui nuovi confini orientali dell’Europa. E del tutto evidente, infatti, che per paesi come l’Ucraina o la Romania l’ingresso in Europa della Polonia e dell’Ungheria ha accresciuto il loro isolamento, dato che le norme europee mettono automaticamente fuori gioco tutta una serie di interscambi che fino ad ora avevano agevolato gli uni e gli altri.

1.3 L’unificazione genera parassitismo

Bisogna anche sottolineare come vi siano comportamenti immorali e volti a sfruttare il prossimo, vivendo di prebende e soldi pubblici, che sono difficili o impossibili all’interno di piccole comunità, ma che sono invece assai frequenti all’interno di quelle strutture più articolate che sono tipiche delle istituzioni di grandi dimensioni.

Nei meandri di bilancio della Repubblica italiana o, meglio ancora, dell’Unione europea è assai facile che trovi spazio ogni genere di clientelismo e protezione. Un’istituzione che dovrebbe rispondere a 60 milioni di persone, alla fine, risponde solo ai giochi di potere di piccoli e piccolissimi gruppi organizzati. E questo stesso discorso vale ancor di più di fronte all’Europa, che ha fatto di Bruxelles il punto d’incontro di ogni genere di lobbismo.

Entro una piccola istituzione, se qualcuno pretende di vivere parassitariamente le sue vittime lo riconoscono subito. E reagiscono di conseguenza.

Quando entro una piccola realtà io cerco di poter disporre di una parte del reddito prodotto da altri, questo comportamento incontra immediatamente la resistenza di chi si riconosce vittima delle mie ingiustificate pretese.

È per questa ragione che la pratica del parassitismo è piuttosto rara all’interno di istituzioni minuscole, i cui bilanci hanno facilmente un alto grado di trasparenza. Entro paesi molto estesi, e quindi in condizione di disporre di bilanci complessi, il gioco della redistribuzione delle risorse rende invece quasi impossibile sapere se si è nel gruppo dei tax-payers (coloro che danno più di ciò che ricevono) o in quello dei tax-consumers (coloro che ricevono più di quanto danno).

Nei paesi di grandi dimensioni, inoltre, la classe politica mostra tutta la sua abilità nel far credere al più alto numero di persone di essere tra quanti si avvantaggiano in maniera parassitaria.
Evidenziando i benefici e minimizzando i costi (occultandoli in vario modo), gli uomini di potere riescono a trasformare un alto numero di categorie – compresi taluni gruppi fortemente danneggiati – in guardie pretoriane schierate a tutela del sistema e dei privilegi che esso garantisce.

Nelle piccole comunità le cose sono assai diverse. Per giunta, nelle istituzioni minuscole la difficoltà ad accettare un sistema di welfare pubblico fa sì che resti vivo il senso della responsabilità personale volontaria verso chi ha davvero bisogno di aiuto. Le piccole comunità rafforzano insomma la solidarietà autentica, favorendo l’emergere di quella forte pressione sociale che spinge ognuno ad agire per prendersi cura del prossimo e ad avere a cuore le sorti dei più sfortunati.

1.4 L’unificazione ci nega i benefici degli “effetti-frontiera”

Alla luce di quanto detto dovrebbe essere chiaro a tutti che ciò che più tutela la libertà, la proprietà e, quindi, la stessa prosperità è il poter scegliere tra differenti istituzioni. Questo dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che la civiltà esige libertà e competizione: ad ogni livello. Quello che è vero per i mercati, è ugualmente vero per le istituzioni.

Tra quanti hanno studiato le ragioni del successo epocale dell’Europa vi è ormai un ampio consenso in merito al fatto che il nostro continente ha avuto un successo senza eguali perché nessun potere è riuscito ad ingabbiare le forze imprenditoriali dei mercati e dei produttori. In età medievale, la frammentazione delle istituzioni e la strutturale debolezza dell’Impero hanno posto le premesse per quel pluralismo sociale che da noi ha permesso l’esplosione economica di Venezia, Firenze, Genova o Milano.

La concorrenza tra governi locali e la competizione economica che accompagna tutto ciò favoriscono bassa tassazione e, al tempo stesso, bassa regolamentazione, dato che individui e capitali tendono a fuggire i regimi più oppressivi e optano per ordinamenti che offrano la migliore tutela della proprietà privata.

Tutto questo è chiarissimo nei contesti istituzionali a potere diffuso. ln una realtà come quella elvetica, ad esempio, è del tutto evidente che il cantone di Uri non potrebbe mai adottare una tassazione “all’italiana” (o “alla francese”), perché se questo dovesse accadere sarebbe molto facile e poco costoso per gli abitanti di quelle località spostarsi nei cantoni limitrofi.
L’unificazione politica, invece, va esattamente nella direzione opposta e condanna i popoli ad un futuro di miseria e servaggio.

1.5 L’ordine spontaneo è da preferirsi all’ordine pianificato

Non c’è alcun dubbio che una buona società è una società ordinata, all’interno della quale i comportamenti altrui sono in larga misura prevedibili e, quindi, non generano timori eccessivi né troppe sorprese. Una società basata sul diritto, in particolare, permette una minimizzazione dei rischi: questo significa che molto di ciò che avviene è in larga misura atteso e previsto.

Vi sono però almeno due concezioni radicalmente opposte di ordine sociale: esiste un ordine “costruito”, imposto e pianificato, elaborato da un decisore autoritario (ed è questo il modello dello Stato e dei regimi centralizzati); ed esiste anche un ordine “spontaneo”, il quale emerge nel corso della storia a seguito delle libere scelte degli attori sociali, e che è elaborato grazie ad un’infinità di accordi e negoziazioni (ed è questo il modello del mercato e dei sistemi federali).

All’interno di ogni società è facile fare esperienza dell’ordine spontaneo in molti e differenti contesti: dal linguaggio al “diritto comune” della tradizione europea, dalla morale alla scienza. Ma questa logica – come si è detto – è propria al tempo stesso dell’economia liberale e delle istituzioni federali, basate sulla libera adesioni dei singoli e delle comunità.

L’esigenza di vivere entro società ordinate, allora, non deve necessariamente spingere sulla strada di istituzioni dispotiche, basate sulla coercizione e su logiche stataliste. Tanto più se si considera che è ormai convinzione accolta dai maggiori studiosi che ogni ordine “imposto” finisce presto per produrre disordine. A tale proposito è straordinariamente efficace l’espressione utilizzata da Ludwig von Mises quale titolo di un suo importante volume: il caos pianificato.

La pretesa statalista di coordinar e organizzare in forma centralista e politico-burocratica l’economia e la vita sociale, in effetti, produce prevalentemente miseria, confusione e inefficienze.
Ma è ugualmente evidente che ogni volontà di unificare una nazione o un continente implica l’aspirazione autoritaria di quanti vogliono gestire e pianificare le libere interazioni tra gli individui.

Alcune testimonianze storiche

2.1 L’Italia di secondo Ottocento: dall’unificazione al protezionismo

È del tutto evidente come la storia sia sempre il risultato di molti fattori e di innumerevole scelte e decisioni individuali. Le vicende dei singoli come quelle delle comunità procedono subendo molteplici influenze ed avvalendosi di innumerevoli contributi. In questo senso, ad esempio, è alquanto scorretto sul piano metodologico affermare che poiché le condizioni economiche dei veneti erano migliori nel 1900 rispetto a quelle del 1700, tale progresso (vero o falso che sia) sia da ricondurre all’unificazione italiana e alla fine delle antiche istituzioni preunitarie.

I progressi tecnologici ed il diffondersi delle conoscenze che si sono avuti nel corso di quei due secoli sono in larga misura indipendenti dal processo che ha portato alla fine della Serenissima e dello stesso Regno Lombardo-Veneto, favorendo la nascita dell’Italia sabauda.

Eppure l’utilizzo di tali argomentazioni, di tutta evidenza inaccettabili, sono assai più frequenti di quanto non si creda.

Quello che però si può certamente affermare è che l’unificazione è la premessa logica necessaria a determinate politiche perverse, le cui conseguenze economiche sono terribili (specialmente per i ceti più deboli).

Un esempio assai evidente di tutto ciò è quello del protezionismo industriale voluto dalla Sinistra storica di secondo Ottocento, soprattutto in risposta alle richieste di taluni industriali del Nord (un nome per tutti, i Rossi dei lanifici vicentini). Quel protezionismo, figlio dell’unificazione e impensabile in un altro contesto, per decenni ebbe gravissime conseguenze sull’agricoltura meridionale, costringendo milioni di abitanti della Campania, della Sicilia e di altre regioni del Mezzogiorno a lasciare le loro terre.

Quelle politiche protezioniste danneggiarono pesantemente anche larghi strati della società settentrionale. A causa dei dazi posti a tutela degli imprenditori “protetti”, infatti, molti settori produttivi furono sottratti agli effetti benefìci della competizione internazionale, senza contare il fatto che molte imprese e famiglie anche del Nord furono obbligate ad acquisire beni locali – magari più cari e di peggiori qualità – invece che prodotti francesi o tedeschi. Il che comportò una qualità della vita più bassa per le famiglie ed una minore competitività per le imprese.

2.2 L’Italia di secondo Novecento: dall’unificazione all’assistenzialismo

Dopo la fine della seconda guerra mondiale e anche a seguito del diffondersi di idee socialiste e welfariste, la classe politica italiana copiò il modello interventistico dell’America rooseveltiana, avviando programmi di investimenti pubblici volti a indurre dall’esterno lo sviluppo economico del Mezzogiorno.
In questa fase storica, l’unificazione italiana produce quelle politiche di aiuto che avranno la loro formulazione esemplare in quello folle sciupio di risorse che fu la Cassa del Mezzogiorno, versione italiana della Tennesse Valley Authority.

Nell’Italia di secondo Novecento le conseguenze di tali politiche economiche sono state gravissime per il Nord, costretto a subire una super-tassazione che per decenni (e ancora oggi) ha reso difficile alle imprese settentrionali reggere il passo di attività produttive straniere, che non hanno dovuto destinare in progetti così irragionevoli una quota così alta dei loro redditi. Ad ogni modo, lo stesso Sud ha patito e continua a patire conseguenze molto gravi, dato che tale statalismo fa sì che da Roma in giù l’economia subisca pesantemente le interferenze dei politici. L’iniziativa privata continua ad essere minoritaria, poiché la logica del parassitismo viene fortemente incentivata dal “denaro facile” profuso dai politici e dai centri di potere da loro controllati: i grandi complessi industriali pubblici, le amministrazioni locali, le banche di Stato.

Il Mezzogiorno contemporaneo, privo di imprese e senza dinamismo produttivo, è in larga misura figlio di tali politiche, impensabili senza l’unificazione nazionale. E mentre piccoli paesi europei con decenni di povertà terribile alle spalle e regimi socialisti tra i peggiori stanno ora conoscendo una crescita straordinaria (si pensi alla Slovenia, all’Estonia, alla Repubblica Ceca, e così via), le regioni meridionali continuano oggi a restare al palo.

Se già nel secondo Ottocento quel protezionismo che si voleva “a favore del Nord” finì per danneggiare in realtà la stessa economia settentrionale, pure la Cassa del Mezzogiorno ha in effetti nuociuto a tutti: a parte qualche piccolo gruppo di parassiti organizzati (si pensi alle grandi industrie private parassitarie, ai sindacati, agli apparati burocratici). L’intervento pubblico ha tolto soldi al Nord, ma quelle stesse risorse sono state usate per favorire la statizzazione della società meridionale, l’aumento delle posizioni “protette” ed il trionfo di politici e funzionari pubblici, producendo l’indebolimento dei corpi intermedi, dello spirito d’iniziativa e dell’autonomia del mondo associativo.

2.3 Il Terzo Millennio e l’Europa unificata

È oggi impossibile dire cosa sarà l’Europa unificata e quali saranno le conseguenze economiche che potrà produrre il processo di svuotamento della libertà di autogoverno. Appare del tutto evidente, ad ogni modo, che l’Europa unificata che si vuole realizzare è – almeno potenzialmente – un’Italia al quadrato, o perfino al cubo.

È d’altra parte del tutto chiaro che le classi politiche europee, nella loro generalità, vogliono l’Europa unita e il Super-Stato: in parte poiché hanno fatto propria la retorica dell’unificazione e in parte perché hanno ben compreso che una progressiva centralizzazione a Bruxelles di tutti i poteri permetterebbe un’espansione del controllo pubblico sulla società, ben al di là di quanto è già stato possibile entro i confini degli Stati nazionali.

Da qualche decennio stiamo vedendo i primi frutti di tutto ciò. Ormai attive da tempo, anno dopo anno le istituzioni europee vanno acquisendo peso ed importanza. In questo senso, la Bruxelles politica si è ormai ben configurata quale luogo di corruzioni, favori e facili arricchimenti. Sono ben note le condizioni ultra-privilegiate degli europarlamentari e degli alti burocrati comunitari, ma oltre a questo bisogna ricordare come le istituzioni comunitarie producano soprattutto aiuti e protezionismo.
Osservando gli ultimi bilanci dell’Unione europea, emerge come la siderurgia e soprattutto l’agricoltura occupino un peso preponderante (superiore al 50% del bilancio). La fondamentale conseguenza di tutto questo è un settore agricolo devastato, assistito, restio ad innovare, sottoposto ad un rigido controllo politico.

I danni di una simile situazione sono assai rilevanti per i consumatori. È stato infatti calcolato come la famiglia media italiana – senza le interferenze e i dazi imposti dall’Unione europea – spenderebbe il 25% in meno dal fruttivendolo. Ma ancora più gravi sono le conseguenze del protezionismo europeo sul Terzo Mondo e specialmente sull’Africa, dove circa l’80% degli occupati lavorano nell’agricoltura. Un recente studio ha perfino affermato che i dazi europei potrebbero essere responsabili, ogni giorno, della morte di circa 6 mila africani, che in assenza delle politiche protezioniste potrebbero esportare da noi i loro prodotti e guadagnarsi da vivere.

Sono sempre i dazi doganali, per giunta, a spingere molti uomini del Terzo Mondo a lasciare i paesi natali e a prendere la dura strada dell’emigrazione. Quando vi sono dazi del 150% sullo zucchero, del 250% sulla carne e del 160% sul burro, è quasi fatale che coloro che non sono in condizione di vivere decentemente in America latina, in Asia o in Africa lascino le loro terre per trasferirsi nell’America settentrionale o in Europa.

Ma oltre a danneggiare i consumatori europei e i lavoratori più poveri del Terzo Mondo, la politica economica dell’Unione europea (focalizzata in larga misura sull’agricoltura) ha avuto la responsabilità di distruggere la libera imprenditorialità del mondo contadino.
Nell’universo artefatto creato dai politici e dai burocrati di Bruxelles, infatti, non ci sono più prezzi liberi, dato che tutto è fissato e manipolato dai pianificatori. Oltre a ciò, quanti posseggono una stalla si vedono imporre “quote” che impediscono loro di accrescere la produzione, perdendo ogni autonomia imprenditoriale e ogni opportunità di far crescere la propria impresa.

Quello che inizialmente aveva la forma di un sostegno, così, finisce presto per convertirsi in un veleno mortale, che sta portando alla morte moltissime aziende: si pensi, ad esempio, a quanti allevano vacche da latte.

L’aiuto pubblico (in forma di sovvenzione) diventa insomma un impedimento, con il risultato che gli agricoltori ricevono soldi ma viene impedito loro di sviluppare le loro attività ed espandersi liberamente. La conseguenza prima è che quello che era un mondo di liberi imprenditori agricoli finisce sotto il controllo di organizzazioni sindacali, che li costringono a piatire l’aiuto del ministro di turno e la benevolenza del commissario europeo con delega sull’agricoltura.

Conclusione

Sul piano teorico come su quello storico, l’unificazione politica forzata si rivela quindi causa di gravi conseguenze economiche, moltiplicando irrazionalità, ingiustizia e miserie. Se l’unificazione italiana e quella tedesca hanno ampiamente dato prova di produrre devastazioni di varia natura, la stessa unificazione europea (oggi solo agli inizi) ha già prodotto un gran numero di disastri.
Non bisogna neppure scordare che tanto l’Europa come l’Italia furono grandi quando non esistevano politicamente. Esse furono universalmente ammirate ed autentici motori di civiltà quando erano divise in un gran numero di giurisdizioni politiche indipendenti, ciascuna dotata di un proprio stendardo e di una piena autonomia di decisione.

In questo senso bisogna sottolineare che l’unificazione dell’Europa – come già è avvenuto per la penisola italiana – non solo rischia di compromettere la prosperità dell’intero continente, ma soprattutto è destinata a tradire la natura di una civiltà (quella europea, appunto) che si è distinta nel mondo per il suo saper essere variegata, articolata, liberale, plurale, ricca di differenze e capace di avvantaggiarsene.

Unificare l’Europa significherebbe ucciderla: negandone lo spirito più autentico.

Riproposizione di un saggio di Carlo Lottieri, originariamente apparso sulla rivista Quaderni Padani, numero 55, anno X, settembre – ottobre 2004.

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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » ven mag 18, 2018 8:47 pm

Ecco perché Fiume sognava di essere un pezzo d'Italia
Matteo Sacchi - Ven, 18/05/

http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 28539.html

A «èStoria» due studiosi raccontano l'epopea di questo porto franco iniziata ben prima dell'impresa del Vate

Quando si parla di Fiume, in Italia, è quasi automatico associare al nome di questa antica città due parole: impresa e D'Annunzio. Come se alla fine questa piccola repubblica marinara che oggi conta più di 175mila abitanti (di cui ormai pochissimi parlano la nostra lingua), nella storia del nostro Paese fosse entrata soltanto per merito, o per colpa, del Vate e della sua spedizione del 12 settembre 1919.

Per rendersi conto che non è così, niente di meglio dell'incontro del festival èStoria di Gorizia che si tiene oggi alle 18 nell'aula magna del polo universitario della città (Via Santa Chiara 1), intitolato proprio Storia di Fiume e tenuto da Fulvio Salimbeni. Fiume, infatti, inizia la sua storia, densa di rapporti con l'Italia come porto romano. All'epoca faceva parte a tutti gli effetti, come l'intera Liburnia, dell'Italia romana ed era un piccolo municipio. E dopo il crollo dell'Impero e le traversie dovute alle molte invasioni barbariche si eresse rapidamente a entità politica autonoma ben determinata a mantenersi slegata dal contesto slavo che la circondava. Come ci spiega uno dei due relatori dell'incontro il dottor Giovanni Stelli (autore del volume Storia di Fiume): «Da quando esistono verbali del consiglio cittadino e documenti vergati in lingua volgare viene utilizzato un dialetto venetofono, il così detto Veneto da mar. Qualcuno ha provato ad obiettare che era una sorta di lingua franca ufficiale, non per forza quella del popolo. Ma si può essere abbastanza sicuri che fosse veramente la lingua parlata in città. C'è un'ordinanza del XV secolo che regola la vendita del pesce. È una sorta di preziario che ovviamente era ad uso e consumo del popolo il fatto che fosse scritto in veneto è più che indicativo».

Anche dal punto di vista politico Fiume si pone da subito come un corpo staccato dal resto del territorio. Continua Stelli: «L'Istria era caratterizzata da una civiltà cittadina che mutuava il suo modo di essere dai comuni italiani. Questo ad esempio non significa che i fiumani non fossero buoni sudditi dell'Impero Austro-ungarico. Ma misero sempre in chiaro che la città dipendeva direttamente dal regno di Ungheria e non dovesse essere assimilata al territorio circostante. Ad esempio nel 1779 si fecero riconoscere con un diploma dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria il loro essere un Corpus Separatum dalla Croazia. Avevano una gestione assolutamente autonoma e rispondevano solo a Buda. Ribadirono la loro volontà di mantenerla a tutti i costi anche quando, dopo i moti del 1848, si cercò di accorparli nuovamente alla Croazia. Portarono avanti una protesta ventennale e la spuntarono nel 1867».

Non si trattava in nessun modo di quello che oggi potremmo chiamare nazionalismo, l'idea di nazione era ancora molto lontana e, di fatto, è figlia dell'Ottocento, ma i Fiumani erano chiaramente coscienti della loro particolarità che si espletava nella lingua italiana e nell'autonomia. Spiegano Stelli e Fulvio Salimbeni (professore di storia contemporanea dell'Università di Udine): «I fiumani difendevano una autonomia. La difesero anche dalla Serenissima che due volte nel Cinquecento mise a ferro e fuoco la città. Del resto lo si vede anche nella pianta. Esattamente come Trieste, Fiume non sembra un sestriere veneziano come, invece, molte altre città dell'adriatico. È diversa. Ma i contatti culturali e linguistici erano prevalentemente rivolti verso l'area italiana. Non significa ovviamente che in città non ci fosse una componente slovena o croata, che magari diventava maggioritaria, nel contado... Ma la propensione della città era chiara. I fiumani hanno sempre e solo voluto dipendere in modo diretto dalla lontana Buda».

E allora come i fiumani divennero irredentisti italiani? Tutto un colpo di testa di Gabriele D'annunzio e i suoi? No. Spiegano i relatori: «Il nazionalismo e l'irredentismo si sono sviluppati nel corso dell'Ottocento, durante il quale ci furono anche episodi di violenza dei panslavisti del Sokol. Di fronte all'impossibilità di essere semplicemente fiumani, impossibilità dettata dagli eventi della Prima guerra mondiale, gli abitanti della città hanno scelto per contiguità culturale di essere italiani. E per altro i principi enunciati dal presidente degli Stati uniti Woodrow Wilson glielo avrebbero consentito in pieno. Poi i trattati hanno preso tutt'altra forma - anche perché Wilson dopo aver parlato di autodeterminazione in realtà favorì il nascente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni - e solo allora è intervenuto D'Annunzio. Ma già nel 1918 il consiglio cittadino di Fiume, che aveva assunto il nome di Consiglio nazionale italiano, dichiarò unilateralmente che Fiume voleva essere italiana. Una volontà che era figlia di una storia culturale e linguistica precisa».

Alla fine questa testarda volontà portò all'annessione di Fiume all'Italia che divenne definitiva nel 1924.

Ma poi ci pensò la Seconda guerra a mettere in crisi l'italianità, quantomeno culturale e linguistica, di Fiume. Dice Salimbeni: «Per gli italiani in città si trattò di scegliere tra un regime comunista e per di più ultranazionalista che impose due anni di governo militare e la fuga. La schiacciante maggioranza se ne andò. Non poterono fare altro». Fu la fine del plurisecolare uso pubblico della lingua italiana nella città di Fiume.



Gino Quarelo
L'Istria era degli Istri e fui conquistata con la violenza dai romani. Fiume fa parte dell'Istria. Se l'Istria è divenuta "romana", alla fine dell'impero romano ha smesso di esserlo ed è divenuta altro come ogni altro territorio conquistato dai romani. Poi passò ai bizantini, ai longobardi, a Carlo Magno, ... fu anche veneziana. I comuni non sono un portato della romanità ma della germanicità, dell'assemblearismo germanico degli uomini liberi.
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » gio lug 12, 2018 3:07 am

Perché non amo l'Italia e non mi sento italiano
viewtopic.php?f=139&t=2611

Prima perché istintivamente mi ripugna, mi fa schifo e orrore,
poi perché approfondendo attentamente questo sentimento a cui non si comanda,
si manifesta chiaramente alla coscienza , in tutto il suo crudo orrore, la realtà malefica di questa entità,
fondata sulla menzogna, sulla violenza, sull'arbitrio, sull'artificio retorico e la falsità dei miti, sul ricatto, ...
sull'estorsione, sull'ipocrisia, ...


La Patria è unicamente là dove si è amati e rispettati.
L'Italia non è la mia Patria e Roma non è la mia Capitale e gli italiani non sono miei fratelli perché
chi non mi ama e non mi rispetta come uomo e come "veneto" non può essere mio fratello e non merita né considerazione, né amore, né rispetto.
Roma non è nemmeno una città Santa e la strada per il Paradiso ma la città più corrotta e parassita dell'occidente cristiano che vive depredando anche i veneti.
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 7404010231




La mia città santa è il mio paese, la mia terra, la terra della mia gente.
viewtopic.php?f=141&t=2714
https://www.facebook.com/permalink.php? ... nref=story
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » dom ago 26, 2018 8:13 am

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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » dom ago 26, 2018 8:13 am

Italia 1918-2018. Chissà cos'è cambiato?
mercoledì 22 agosto 2018
Enzo Trentin

http://www.lindipendenzanuova.com/itali ... e-cambiato

Il 27 ottobre Vicenza ospita l’evento conclusivo di tutte le celebrazioni della Grande Guerra, e noi speriamo che tra le autorità che prenderanno la parola per commemorare l’avvenimento non ci sia qualche patriottardo, poiché abbiamo documentato qui [ https://www.vicenzareport.it/2018/07/gr ... nte-berico ] e qui [ https://www.vicenzareport.it/2018/08/ce ... nde-guerra ] alcune informazioni non molto note, e non a torto Friedrich Dürrenmatt sosteneva: «la Patria è lo Stato se sta per compiere assassini di massa».

Dopo queste premesse – e a beneficio dei patriottardi – vediamo cosa si dice dell’Italia a partire da quella che gli agiografi di regime (ovvero coloro che elaborano la storia arricchendola di elementi favolosi o leggendari a scopo celebrativo), e consideriamo la questione a partire dalla quarta guerra di indipendenza (uno dei nomi dati all’intervento italiano nella prima guerra mondiale) in un’ottica storiografica che individua in quest’ultima la conclusione del Risorgimento e dell’Unità d’Italia.

Di Bruno Pederoda abbiamo già indicato il libro dal titolo: «Tra macerie e miserie di una regione sacrificata – Veneto 1916-1924» © 1999 – Piazza Editore – Silea (TV), dal quale continuiamo a stralciare qualche brano fornendo altre informazioni. In quest’opera è documentato un gruppo di capi d’accusa riguardanti il Ministero delle Terre Liberate: i reati compiuti nella distribuzione di sussidi ai profughi. “Quando sarà possibile avere sott’occhio tutti gli elementi di giudizio, vedrà la Camera che dei molti milioni assegnati al Veneto, non pochi presero altre vie. (…) Per fatale necessità, il Veneto, dopo essere stato il campo di battaglia è diventato il teatro delle gesta più esecrabili dei pescicani”. (…) Terza agenzia malavitosa, i consorzi rottami. “Muniti di fogli di autorizzazione rilasciati dai competenti ministeri, hanno portato via tutto il buono e l’utilizzabile dai teatri di guerra; (…) hanno portato via tutto, tranne i rottami”. Anche in questo particolare, il Trentino segnala su tutti. Non sono necessarie troppe parole “per dimostrare quali ladri siano i signori del consorzio rottami. Ma ladri è un titolo troppo onorifico: fatte rare eccezioni, i soldati venivano corrotti perché spezzassero motori, tubi, gruppi elettrogeni in maniera di far figurare come rottame delle macchine preziose, rese inservibili e quindi asportate. Ma il colmo è stata l’asportazione dei ponti appena danneggiati dei torrenti del Trentino. Così che i Comuni e i capitanati sono oggi costretti a ricomprare dal Consorzio come rottami i ponti quasi intatti”, che erano stati rimossi perché dichiarati inservibili.grande guerra

Il prezzo della politica. – In occasione delle elezioni politiche del 1919, i fondi delle Prefetture per interventi a favore dei profughi si tramutarono in fondi da usare per la propaganda elettorale. Come se si trattasse della cosa più naturale di questo mondo. “Il fondo profughi era diventato una specie di fondo segreto, anzi di pozzo nero nel quale tutti i feudatari elettorali del Nord e del Sud hanno attinto a piene mani, per ingraziarsi i favori di popolazioni povere e danneggiate e per pagare signorilmente i vari galoppini”. Nati dall’incontro tra ideali politici luminosi e oscuri interessi di clan, i partiti politici italiani si muovono nella penombra, con preferenza per quella che precede la notte rispetto a quella che prelude al mattino. Essi rifuggono dalla legalità perché hanno in orrore ogni controllo. E come l’internazionale del crimine prospera sui narcodollari, così essi fondano le loro fortune sulle cleptolire.

Del commercio delle ossa dei caduti della grande guerra abbiamo accennato precedentemente [ https://www.vicenzareport.it/2018/07/gr ... nte-berico ]: “Mentre ogni paese si mobilitava per innalzare un monumento ai propri caduti, – degli operai raccoglievano dagli altipiani, dal Carso, le ossa dei Caduti per lo sfruttamento industriale della fabbricazione dei fosfati – “ (1) E quando fu finalmente posto termine alla profanazione, ecco lo sfruttamento cambiare tipo e direzione: “Tuttora dei turpi vanno rubando le casse di zinco dai cimiteri, le croci, le lamiere delle cappelle votive e persino le pietre dei muri dei sacri recinti”. L’Italia si era lasciata prendere dalla tentazione di diventare grande nazione prima ancora di essere diventata una ‘nazione civile’. Era il pericolo che Giuseppe Prezzolini aveva paventato fin dai tempi della guerra italo-turca e, in fondo, la disgrazia che da sempre ci attanaglia.
C’è anche un altro mercanteggiamento sui poveri resti: “Se il Genio militare aveva rischiato una pessima fama per gli intrallazzi compiuti da alcuni dei suoi ufficiali ed ex ufficiali impegnati nella ricostruzione, la Sanità Militare rischiò invece di macchiarsi di infamia, per l’odiosa speculazione introdotta da non pochi dei suoi nell’opera di riesumazione, trasporto e ricomposizione delle salme dei caduti. La tecnica del malaffare non differisce gran che tra l’una e l’altra delle Armi: in entrambi i casi ci si imbatte in qualcuno che depone le spalline per darsi al mercato e in qualche altro che invece le conserva per dargli man forte e poi dividere gli utili. La voce di infami speculazioni sui cadaveri era presto circolata; scrivendone a poco meno di tre anni dalla cessazione del conflitto, il giornalista vorrebbe far credere il malaffare ‘un ricordo’, legato al comportamento di imprese civili “che ebbero cura delle salme di caduti in guerra (…) in quanto fu da qualcuna di queste speculato sui grandi eroi della Patria, dividendo una salma in più parti, per far figurare un maggior numero di morti” (2).

Va osservato, però, che la certezza dell’esistenza del losco affare si ebbe solo dopo una interrogazione parlamentare e che la conferma dell’orrenda verità venne per bocca del Ministro della Guerra. L’indegno traffico si svolgeva in parecchi cimiteri, ma in modo particolare in quelli del Monte Grappa. È qui che un ex ufficiale della Sanità ‘dei paesi di Roma’ si improvvisa imprenditore ed ottiene dagli ex commilitoni responsabili del settore l’appalto della traslazione dei cadaveri. C’era un tariffario di 60 lire a salma, ma si trovò subito il modo di non sporcarsi le mani subappaltando per ben due volte i lavori, sicché gli operai ricevevano un terzo della cifra pagata dallo Stato.
Il rappresentante del Governo, pur ammettendo davanti alla Camera pesanti responsabilità di persone appartenenti all’esercito, tentò tosto di scaricare il grosso delle colpe sugli operai: (La questione è trattata anche qui: [ https://www.venetostoria.com/?p=2237 ] «Va osservato, però, che la certezza dell’esistenza del losco affare si ebbe solo dopo un’interrogazione parlamentare e che la conferma dell’orrenda verità venne per bocca del Ministro della Guerra. L’indegno traffico si svolgeva in parecchi cimiteri, ma in modo particolare in quelli del Grappa.»

Sulla cima del Monte Grappa, nel 1935 fu completato il sacrario, che è uno dei principali ossari militari della prima guerra mondiale. Vi sono inumati i resti di 22.950 soldati. Nel settore nord, l’ossario austro-ungarico con 10.295 morti di cui solo 295 identificati. Nel settore sud, l’ossario italiano con 12.615 morti dei quali solo 2.283 sono identificati. Qualcuno osserva: «Se all’ossario ci sono 20.372 militi ignoti, una qualche ragione ci sarà…» Il sacrario militare di Asiago, più noto come sacrario del Leiten, è un altro dei principali ossari militari della Grande Guerra. I resti mortali di 21.491 caduti italiani ignoti e 11.762 austro-ungarici senza nome sono raccolti in grandi tombe comuni nelle gallerie centrali più prossime alla cappella. L’ossario del Pasubio, insieme a quelli di Tonezza del Cimone, del monte Grappa e di Asiago compare in uno dei quattro quarti dello stemma della provincia di Vicenza. Il sacello-ossario del Pasubio contiene i resti di 5.146 soldati italiani e 40 austriaci caduti durante la prima guerra mondiale su quel massiccio. Le ossa dei caduti, in molte teche in cui sono custodite, sono a vista, quindi appartengono a militi ignoti. A Redipuglia (il maggiore cimitero militare italiano e uno dei più vasti d`Europa) riposano 100.187 caduti. Di questi solo 40mila soldati hanno nomi, cognomi, grado e corpo di appartenenza che sono incisi sulle placche. Gli sconosciuti giacciono in cima alla collina di Redipuglia, nel sacello sotto le croci nere, senza nemmeno un fiore. Dai vasi di pietra bianca spunta soltanto qualche rametto lasciato seccare. Al Sacrario di Pian di Salesei (Comune di Livinallongo – BL) il conteggio è ancora più tragico, poiché ospita i loculi dei 704 caduti identificati (tra cui 19 austro-ungarici) e di 4.700 militari rimasti senza nome. Si potrebbe continuare per le decine e decine di altri siti simili, ma i visitatori che avessero una visione d’insieme, non potrebbero che chiedersi: “come mai tanti soldati senza nome?”

Se la Grande Guerra appare lontana un secolo, analizziamo – sempre a beneficio dei predetti patriottardi – alcune testimonianze provenienti dalla seconda guerra mondiale (che per gli storici è solo il naturale proseguimento della prima), ed ecco la voce di alcune note personalità che fino al 8 settembre 1943 stavano dalla parte dei nemici dell’Italia. Il resto sono solo chiacchiere da salotto, ed anche i nostri lettori hanno il diritto di crearsi una propria opinione:

«... penso che l’armistizio di Badoglio sia stato il più grande tradimento della storia…». (Dalle “Memorie” del Field Marshal Bernard Law Montgomery).
«… la resa dell’Italia fu uno sporco affare. Tutte la nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l’Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della RSI…». (da “Diario di Guerra” di Dwight “Ike” Eisenhower, Comandante supremo delle Forze USA nello scacchiere europeo).
«Certamente non mi garba l’idea che questi ex nemici mutino opinione quando sanno che stanno per essere battuti e passino dalla nostra parte per ottenere d’essere aiutati a mantenere il potere politico.». (Harry Hopkins, consigliere del presidente USA Franklin Delano Roosevelt).
«… il fatto è che il Governo italiano decise di capitolare non perché si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perché era venuto, come in passato, il momento di saltare dalla parte del vincitore…». (da “Le armate alleate in Italia” del Field Marshal Harold Alexander).
«… l’Italia fu fedele al suo carattere di sciacallo internazionale, sempre in cerca di compenso per i suoi tradimenti…». (da “Storia della diplomazia” di Vladimir Petrovič Potëmkin, ambasciatore sovietico a Roma. Mussolini e l’ambasciatore Potemkin avevano firmano il trattato di non aggressione e neutralità, a Palazzo Venezia, il 2/09/1933).

Qualche ben pensante dirà: «ma sono cose lontane nel tempo, oggi l’Italia si comporta assai diversamente, nel contesto internazionale.» Ai lettori l’ardua sentenza:

Il 24 marzo 1999, poco dopo le ore 20, i bombardieri NATO colpivano i primi obiettivi Serbi a Pristina, Pogdorica e alla periferia di Belgrado. Cominciò così la guerra del Kosovo.

[http://www.massimodalema.it/doc/16361/kosovo-fu-un-errore-bombardare-belgrado.htm ] Per la seconda volta dal 1945 – la prima era stata la Guerra del Golfo nel 1991 – l’Italia partecipò con propri mezzi e truppe a una operazione militare offensiva. E lo fece per decisione di un governo di centrosinistra guidato da Massimo D’Alema, insediatosi nell’ottobre del 1998, quando lo scenario di un conflitto armato era già un’ipotesi concreta. E ciò con una interpretazione alquanto singolare dell’Art. 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.»

La guerra di Silvio Berlusconi, invece, comincia il 25 aprile 2011 dopo quarantotto ore di silenzio e alla vigilia di un delicato vertice a Roma con il presidente francese Nicolas Sarkozy. [ http://www.ilfoglio.it/articoli/2011/05 ... e_c133.htm ] Berlusconi sa bene di andare incontro – sul fronte interno – a una possibile crisi di nervi della Lega, sa pure che il passato coloniale italiano suggerirebbe una maggiore flemma, così come è avvertito della cogenza del trattato di amicizia da lui stesso stipulato con il colonnello libico Mu’ammar Gheddafi.

Ai persistenti benpensanti non resta che riflettere su quanto scrive il quotidiano on line “Affaritaliani.it” del 10 gennaio 2014, che titola: “I cittadini italiani non esistono. Altro che Unità… La verità nei geni” [ http://www.affaritaliani.it/roma/i-citt ... 12014.html ] l’articolo ci informa su una ricerca dell’Università di Roma, La Sapienza: «Ha analizzato il Dna di 57 popolazioni locali e scopre che la differenza di “patrimonio” tra un sardo e un abitante delle Alpi è maggiore di quella tra un ungherese e un portoghese, distanti migliaia di chilometri. E che il ceppo italico non esiste: lo Stivale è da sempre un porto di mare per le genti. Gli effetti del Risorgimento e del Paese unito non si vedono ancora nella popolazione. La nostra struttura genetica è figlia del Medioevo. Altro che Unità d’Italia. A leggere il Dna degli italiani, sembra quasi che il Risorgimento non ci sia mai stato e che Garibaldi e i suoi Mille, girando per le campagne abbiamo fatto più una passeggiata che una conquista.

Preso atto di tutto ciò, si dovrebbe ben comprendere (se non proprio giustificare) il perché esistono numerosi movimenti politici che sostengono il diritto morale a secedere, benché alcuni argomenti pro secessione non siano del tutto accettabili a livello internazionale. Inclusi quelli basati sul consenso e sulla pura autodeterminazione. Nondimeno vi sono varie considerazioni che, complessivamente ponderate, costituiscono un valido supporto per un diritto morale a secedere sotto determinate circostanze. Tra gli argomenti più convincenti a favore del diritto alla secessione figurano quello fondato sulla giustizia rettificatoria. Il Veneto, per esempio, fu annesso all’Italia con un referendum farsesco e fraudolento non dissimile dagli altri che hanno preteso l’accasamento sotto i Savoia. Una conferma la troviamo in svariate applicazioni nei moti secessionisti del mondo contemporaneo e in particolare nei paesi ex comunisti. Esso afferma che una regione ha diritto a secedere se è stata ingiustamente incorporata nella più ampia unità da cui intende separarsi.

Allen Buchanan scrive nel Capitolo II, di “Secessione – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi”: «dimostro che un gruppo può lecitamente opporsi allo Stato con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello Stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, in assenza di una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento. In terzo luogo, ritengo che, a certe condizioni, un gruppo sia legittimato a secedere quando ciò risulti necessario alla tutela della sua particolare cultura o forma di vita comunitaria. Ciascuna di queste conclusioni rappresenta una brusca dipartita rispetto a quella che spesso viene ritenuta una fondamentale caratteristica dell’individualismo liberale: l’esclusiva preoccupazione per i diritti individuali e il conseguente insuccesso nel valutare l’importanza della comunità o dell’appartenenza al gruppo per il benessere e per la stessa identità dell’individuo.»

Insomma, i Veneti, i lombardi, i sud tirolesi, i sardi ed altri ancora, non hanno particolari interessi ad essere italiani; né a difendere uno specifico orgoglio ad essere tali. La disuguaglianza sociale si amplifica e stabilizza solo con il monopolio statuale della forza. Afferma Quinto Leprai: “Senza l’azione coercitiva, legislativa, normativa e burocratica dello stato italiano le variazioni sociali fra gli individui sarebbero tanto repentine e caotiche da rendere trascurabile il valore di questa disuguaglianza nel lungo periodo”. I popoli della penisola hanno solo la necessità di un progetto istituzionale concreto, innovativo e fattibile. Infatti, come sosteneva Richard Buckminster Fuller [https://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Buckminster_Fuller ]: “Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.” E nello scegliere nuovi soggetti politici autenticamente democratici, li si stimoli alla redazione aprioristica di un nuovo ‘Patto Sociale’ su cui basare le proprie scelte elettorali. Questo, poiché un altro argomento sostiene che la secessione è giustificata quando la divisione dell’unione politica esistente aumenterebbe l’efficienza. Genova e ponte Morandi docet.


Note:

(*) Più sopra abbiamo parlato di guerre; troviamo calzante aggiungere che mentre “il Re Soldato” (diventerà “re fellone” dopo l’8 settembre 1943), trattava per ottenere maggiori possedimenti territoriali, che costarono 1.240.000 di morti tra civili e militari, e che l’Asburgo gli avrebbe regalato purché non intervenisse – attraverso un cambio di alleanze – nella Prima Guerra Mondiale scoppiata il 28 luglio 1914; il poeta Trilussa (pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri (Roma 1871–1950) in quello stesso tempo scisse la «Ninna Nanna De La Guerra» che troviamo calzante proporre qui: https://www.youtube.com/watch?v=5fywn3HN-x0

(1) Il Risorgimento, 22-23 febbraio 1922, nr. 4 – Cappellano insieme ai soldati, sul Grappa
(2) Il Risorgimento, 16 giugno 1921, nr. 142 – Cappellano insieme ai soldati, sul Grappa


Gino Quarelo
Letto volentieri.
Non tutti gli Stati hanno compiuto assassini di massa; per esempio lo Stato Svizzero che è una buona Patria per gli svizzeri e un buon esempio per i veneti che desiderano l'indipendenza dallo stato italiano e costruirsi un loro stato che per me deve essere altro dall'esperienza della Serenissima, finita da 220 anni.





Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial
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Re: El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » dom mag 19, 2019 9:37 am

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El mito resorxemental e łe so falbarie tałego romane

Messaggioda Berto » dom mag 19, 2019 9:38 am

Domenico Pittarini (farmacista borghese vicentino che sapeva leggere e scrivere) è l'esempio più lampante dei veneti che nell'ottocento si fecero prendere dal mito risorgimentale, che furono più che favorevoli all'annessione allo Stato italiano e che votarono per l'annessione nel 1866 ma che poi si pentirono avendone sperimentate e pagate le conseguenze sulla loro pelle con l'emigrazione a causa della miseria provocata dalla tassazione italiana, aumentata a dismisura per pagare le guerre e i parassiti del nuovo stato che si era così formato.


Domenico Pittarini, vicentino, nel 1866 votò per l'annessione allo Stato italiano
https://www.facebook.com/groups/2376236 ... 7841205626



Domenico Pittarini (Sandrigo, 28 agosto 1829 – El Trebol, 28 novembre 1901) è stato uno scrittore e poeta italiano.

https://it.wikipedia.org/wiki/Domenico_Pittarini
Venne chiamato “L’Omero dei poveri”. Scrive Ferdinando Bandini nelle note introduttive alla ristampa del 1980 che “la politica dei villani venne letta da due generazioni di contadini, durante le veglie nelle stalle, alla scarsa luce della lampada a petrolio. Mandata a memoria da molti, ci sono ancor oggi dei vecchi contadini che ne ricordano larghi brani. Alcuni versi, pronunciati a modo di proverbio, sono diventati i cavalli di battaglia della saggezza campagnola”.

Nacque ad Ancignano di Sandrigo nel 1829. Compì gli studi ginnasiali a Bassano del Grappa, si laureò all'Università di Padova nel 1849 e a Vicenza fece le prime esperienze di farmacista. Membro del “Comitato Liberale Vicentino”, associazione segreta, fu arrestato nel 1859 dalle autorità austriache.

Rimesso in libertà trovò lavoro prima nella farmacia di San Pietro in Gu, poi a Fara Vicentino poté finalmente aprire una propria farmacia e divenne presto, per la generosità e l'arguzia, l'idolo del paese. Fondò con Vittorio Ciscato di Thiene il giornale Summano e collaborò a diversi giornali locali. Visse a Fara per una quindicina d'anni, anni di miseria per la gente di quel paese, consumata dalla pellagra, soffocata dalle tasse e dai debiti: egli dava a credito medicine, zolfo e solfato di rame.

Indebitato e non riuscendo a riscuotere i numerosi crediti, nel 1888 partì per l'America Latina con la vana speranza di fare fortuna. Lì visse stentamente per tredici anni e il 28 novembre 1901 morì a El Trebol (Cordoba). In una lettera inviata al nipote pochi giorni prima della morte scrisse:

«Morirò lontano dalla patria, senza poter rivedere i parenti e gli amici che ancora mi restano, conviene che mi rassegni. Quello che soprattutto mi rode l'anima, si è di non aver potuto, in tredici anni d'America, soddisfare i miei creditori, unico scopo per cui ebbi l’ardire di attraversare l’Atlantico a sessant’anni.»




Ecco come ha presentato Pittarini il venetista Ettore Beggiato, dimenticandosi di ricordarci che il vicentino Pittarini era stato arrestato dagli austriaci per aver fatto parte delle associazioni segrete italiane e repubblicane antiaustriache e che si era fatto prendere e illuso dal mito risorgimentale e favorevole all'annessione allo stato italiano.


L’Omero dei veneti, il vicentino Domenico Pittarini
di ETTORE BEGGIATO

http://www.lindipendenzanuova.com/lomer ... -pittarini

“Ghe cago ai talgiani”, “ste sènache porche” (sènache, persone magre e patite), “i ne monde, i ne tosa, i n’inciòa, gnancora saemo un fiol de na scroa” (ci mungono, ci tosano, ci inchiodano come un figlio di una scrofa), “marsoni” (massoni), “dente salvadega che magna i cris-ciani, pì pedo dei Truchi e dei Luterani” (gente selvaggia che mangia i cristiani, peggio dei turchi e dei luterani): non sono le imprecazioni di un pericoloso indipendentista veneto del terzo millennio, ma le potete trovare citate in un prestigioso volume “Il Veneto” di una prestigiosa casa editrice “Giulio Einaudi Editore” stampato nel 1984 nella collana “Le regioni dall’unità a oggi”.

A pagina 8 l’autorevolissimo prof. Silvio Lanaro parla di “secca avversione per –Talgia- e –talgiani- che dilaga dopo l’annessione del 1866”: e prende ad esempio le colorite espressioni di Andola nella commedia “La politica dei villani” di Domenico Pittarini; una commedia che ebbe una grandissima diffusione nelle campagne venete a cavallo fra l’ottocento e il novecento. Ma chi è l’autore che ha tale coraggio e tale passione civile da denunciare le pessime condizioni dei nostri veneti che passano da un padrone all’altro (dall’Austria all’Italia) e si ritrovano sempre più disperati? La Sua è proprio una storia emblematica…

E’ Domenico (Menego) Pittarini e il suo nome, come al solito, dice poco o nulla alla stragrande maggioranza dei veneti che invece sanno tutto sulle oche del Campidoglio… Domenico Pittarini nasce ad Ancignano di Sandrigo il 28 agosto 1829, compie gli studi ginnasiali a Bassano, si laurea in farmacia a Padova nel 1849 e a Vicenza fa le prime esperienze di farmacista. Membro del “Comitato Liberale Vicentino”, associazione segreta, è arrestato nel 1859 dalle autorità austriache: non ci troviamo quindi di fronte a un’austriacante ma a un patriota veneto che ben presto si accorge come il Veneto sia diventato una colonia del neonato Regno d’Italia.

Rimesso in libertà trova lavoro prima nella farmacia di S. Piero in Gù (Pd), poi a Fara Vicentino ove rimane dal 1878 al 1888; travolto dai debiti dovuti fondamentalmente alla sua generosità e all’incapacità di riscuotere i crediti, parte per l’Argentina dove vive stentamente per tredici anni e dove muore il 28 novembre 1901 a El Trebol (Cordoba). In una lettera inviata pochi giorni prima della dipartita al nipote scrive: “Morirò lontano dalla patria, senza poter rivedere i parenti e gli amici che ancora mi restano, conviene che mi rassegni. Quello che soprattutto mi rode l’anima, si è di non aver potuto, in tredici anni d’America, soddisfare i miei creditori, unico scopo per cui ebbi l’ardire di attraversare l’Atlantico a sessant’anni”.

La sua opera più conosciuta è sicuramente “La politica dei villani”, commedia in due atti scritta a S. Piero in Gù negli anni 1868-69 e ristampata già nel 1884; la fama del Pittarini è notevole e viene chiamato “L’Omero dei poveri”. “-La politica dei villani- venne letta da due generazioni di contadini, durante le veglie nelle stalle, alla scarsa luce della lampada a petrolio. Mandata a memoria da molti, ci sono ancor oggi dei vecchi contadini che ne ricordano larghi brani. Alcuni versi, pronunciati a modo di proverbio, sono diventati i cavalli di battaglia della saggezza campagnola”; così il prestigioso Ferdinando Bandini nelle note introduttive alla ristampa del 1960, Neri Pozza Editore.

Altra commedia di successo del Nostro fu “Le elezioni comunali in villa” stampate a Schio nel 1912 presso la tipografia dei fratelli Miola, nella quale l’autore sembra proprio descrivere i fatti tragicomici che caratterizzarono il plebiscito-truffa di annessione del Veneto all’Italia il 21-22 ottobre 1866 e le successive elezioni. Ecco un dialogo estremamente significativo:

I° contadino: Ciò, chi ghetu metesto ti sulle schene ?

II° contadino: Mi gnente, me le ga consegnà el cursore scrite e tuto.

I° contadino: E anca mi istesso, manco fadiga.

II° contadino: Manco secade.

Anche questa commedia ha un percorso… accidentato; solo nel 1981 vengono ristampate diverse copie ciclostilate per iniziativa della “Fraja Vixentina Menego Pitarini” dell’Union Veneta; nel 1989 ristampo l’opera come “Union del Popolo Veneto” e la stessa viene ripresa dalla Cooperativa Teatrale Ensemble di Vicenza dell’amico Roberto Giglio grazie al quale l’opera ritorna in scena ed è stata rappresentata anche recentemente: emblematico come alle volte basta qualche fotocopia per rimettere in gioco una commedia della quale si erano smarrite le traccie… Nel 1980 Neri Pozza Editore ristampa “Laude a Molvena e altre poesie in lingua rustica”; degne altresì di nota le collaborazioni del Pittarini ai giornali dell’epoca “Il Summano”, “L’iride” e “El visentin” dove a volte si firma “Niccodemo”

Dai suoi lavori emerge un profondo conoscitore della realtà che lo circonda, degli umori e delle convinzioni del popolo veneto, ma soprattutto il Pittarini, con i gustosi dialoghi dei suoi contadini, anticipa le conclusioni che gli storici più obiettivi saranno costretti a trarre dopo oltre un secolo: il risorgimento fu nel Veneto un fatto elitario, che coinvolse quattro massoni e quattro liberali e che vide la stragrande maggioranza del nostro popolo del tutto estranea, se non ostile, agli eventi che segnarono in maniera decisiva la storia della nostra regione; significativo in questo contesto che il Pittarini inserisca nella sua opera le ribellioni di Thiene e di San Germano (Ciene e San Dreman nella lingua dell’epoca) nei quali fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine per reprimere la protesta popolare: due dei numerosi episodi anti Savoja che caratterizzarono i primi anni della cosiddetta unificazione e dei quali la storiografia ufficiale si è sempre ben guardata di parlarne …

Altro dato fondamentale di tutta l’opera del Pittarini è la lingua parlata dai protagonisti: “un dialetto rustico” lo definisce lo stesso autore che non ha ancora subito gli effetti devastanti e massificanti della lingua italiana. Lo stesso Bandini sottolinea come “la lingua patria rimane uno strumento ignoto al contado”; la lingua veneta del Pittarini è una lingua viva, di una espressività unica, a volte tragica, a volte comica, sempre permeata di buonsenso, di acuta osservazione, di dignità. Interessante poi osservare come nella “Politica dei villani” venga inserito un vocabolarietto con tre tipi di parlata: l’italiano, il vernacolo (parlato dalle persone più in vista come il sindaco, il segretario ecc.) e il rustico (parlato dalla maggioranza della popolazione).

Del tutto particolare l’attenzione dello scrittore nel riportare con estrema attenzione le parole nuove che vengono sistematicamente “storpiate” dai nostri contadini (quasi un rifiuto della lingua italiana). E così carabinieri diventa “carbonieri”, scrutinio “grustinio”, mappamondo “nacamondo” ecc. Un’ultima sottolineatura, giusto per evitarmi qualche rimbrotto da parte dei cultori del “Menego”; l’espressione completa usata dalla battagliera “Andola” è: “Ghe cago ai talgiani, li mando a Teolo”; Teolo, oggi suggestivo borgo degli Euganei, nell’ottocento per gli abitanti della pianura vicentina era proprio un posto fuori del mondo…


Furono molti i veneti che si fecero prendere dal mito risorgimentale italiano e che poi si pentirono amaramente, ma allora fu una loro libera scelta, certamente una grande illusione e per molti una tragedia.

Il mito risorgimentale e le sue falsità italico-romane
viewtopic.php?f=139&t=2481


I veneti venetisti debbono imparare ad assumere le responsabilità e le colpe storiche proprie dei veneti e smetterla con il vittimismo infantile e con il complottismo demenziale. I veneti sono sempre stati responsabili del loro destino, ieri come oggi e non riconoscerlo significa/implica dare/attribuire ai veneti dell'infantilismo o del demenzialismo irresponsabile o del vilismo vergognoso che contrasta con la storia dei veneti e di cui non si potrebbe certo essere orgogliosi e andarne fieri.
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