L'ultima fase della serenissima - La politica: LA FINE DELLA REPUBBLICA ARISTOCRATICA
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II parte
2. Venezia e "i funesti progressi di quella Rivoluzione": diplomazia e opinione pubblica
di fronte alle prime fasi della crisi francese (1787-1792)
In un'Esposizione per la consulta estraordinaria convocatasi per decreto 20 luglio 1793 il giorno 23 luglio 1793, allo scopo di decidere se il governo veneziano dovesse o no respingere le credenziali presentate dal nuovo ministro plenipotenziario della Repubblica francese Jean-François-Michel Noël, erano individuate dall'anonimo savio di Terraferma, che l'aveva compilata, tre "epoche" della rivoluzione d'Oltralpe: "dalla convocazione degli Stati Generali sino alla fuga del re da Parigi", "dalla fuga sino alla di lui morte" e "dalla morte sino il dì d'oggi". L'Esposizione non era, né voleva essere, una storia della "più sorprendente rivoluzione, che la posterità averà pena a credere" (così l'aveva definita l'ambasciatore Capello nella relazione presentata al senato nel dicembre 1790 e approvata dall'assemblea il 17 marzo successivo), ma unicamente un promemoria, in cui erano registrate "le cose esterne", l'impatto che quelle vicende avevano avuto fuori dell'esagono e in modo particolare sui rapporti diplomatici tra Venezia, la Francia e gli Stati che avevano cercato di opporsi alla marea rivoluzionaria.
Nel luglio del 1793 il governo giacobino, che poche settimane prima si era installato a Parigi, appariva stretto in una morsa terribile tra le rivolte interne e gli eserciti della coalizione. Non meraviglia quindi che l'Esposizione intitolasse la terza epoca "nuovo rigore di tutti contro la Francia", che portasse, a prima vista, il suo cero all'altare della reazione. Ma la cronistoria non poteva evitare di registrare i reiterati rifiuti che la Serenissima aveva opposto ai tentativi dell'Impero e dei maggiori Stati italiani di farla aderire alle alleanze dirette contro i Transalpini. Non solo il regime aristocratico non era mai uscito dai binari di una politica di neutralità, ma l'aveva per di più interpretata in maniera talmente meticolosa che nel gennaio del 1793 aveva riconosciuto la Repubblica francese e aveva quindi rotto, di fatto, il fronte del "rigore".
Anche se l'autore dell'Esposizione cercava di trovare un compromesso di facciata tra la crociata antirivoluzionaria di "tutti", Venezia compresa, e la "volontà del Senato di non meschiarsi" in faccende comunque rischiose, mettendo in rilievo non senza una buona dose d'ipocrisia che, "quando si accettarono le credenziali" rilasciate dalla Repubblica francese all'incaricato d'affari Etienne Félix d'Hénin, "il Re, comunque decaduto, era ancora vivo" e che inoltre "non si crede offendente l'accettazione delle credenziali la neutralità e pare Vienna così giudicarne" (30), è tuttavia evidente che era quanto mai difficile, se non impossibile, mediare a lungo tra due prospettive e due linee di condotta così divaricate, fare blocco con la coalizione reazionaria sul piano ideologico e ad un tempo conservare rapporti diplomatici immacolati con un governo rivoluzionario.
Questa contraddizione di fondo della politica veneziana avrebbe pesato in misura non secondaria sulle relazioni con la Francia, la quale avrebbe sempre potuto accusare, a ragione, la Repubblica veneta di mascherare le proprie convinzioni reazionarie dietro il velo di una condotta formalmente declinata in base al paradigma della "perfetta neutralità", così come a sua volta la Serenissima non s'ingannava affatto quando temeva - come avrebbero ammesso a posteriori gli stessi Transalpini - che "la résidence d'une légation française à Venise facilitait la propagation des principes révolutionaires" (31). Che fin dall'estate del 1789 la rivoluzione d'Oltralpe avesse partorito un'"orribile anarchia" (32) e che per di più dopo la metamorfosi della monarchia in una Repubblica "questi principi francesi, che combattono tutt'i governi, nei quali tendono a portare la rivolta, combatt[essero] ancor più il nostro", dal momento che "alla democrazia niente è di più opposto quanto l'aristocrazia" (33), l'aveva o l'avrebbe lucidamente argomentato Capello dalle ambasciate di Parigi e di Roma, riassumendo in maniera esemplare i fondamenti di quella "indisposition marquée contre la révolution qui s'opère en France" condivisa, come era costretto ad ammettere Hénin all'indomani del fallimento del tentativo di Luigi XVI di fuggire all'estero, da "la plus grande partie des nobles vénitiens" (34).
Tuttavia contemporaneamente il governo - e prima del governo lo stesso Capello, che aveva insistito su questo aspetto nel già ricordato dispaccio del 14 agosto 1788 - aveva vissuto la rivoluzione di Francia come un preoccupante cedimento degli equilibri internazionali, una crisi che rischiava di lasciare l'Impero padrone assoluto dell'Italia. Di qui la propensione, che non doveva essere del tutto smarrita neppure nei mesi del Terrore, a guardare alla Francia senza i paraocchi dell'ideologia, a considerarla, nonostante tutto, un attore di primo piano sulla scena europea, una potenza con la quale era, a seconda delle circostanze e delle congiunture, opportuno oppure necessario fare i conti e che in ogni caso meritava di essere adeguatamente coltivata. Fu anche per questo motivo che, quando i dispacci assai critici riguardo alla rivoluzione transalpina, che Capello indirizzava al senato, furono messi in circolazione a Venezia da qualche patrizio o segretario poco scrupoloso e divennero "l'entretien des cafés de cette ville", "tous les principaux de la République" disapprovarono che "un ambassadeur près d'une cour étrangère" lasciasse "apercevoir si peu politiquement et sans nécessité sa manière de penser" (35).
Nell'Esposizione si sottolineava che nella prima epoca della rivoluzione francese "le cose esterne servono alle operazioni dell'Assemblea" nazionale: "Russia ed Imperatore occupati sulla guerra co' Turchi", "insurrezione del Brabante. Guerra tra la Spagna e l'Inghilterra che non progredì". "In somma", in questa fase, "gli altri o storditi od occupati o deboli o contenti" (36). In quale categoria degli "altri" il savio di Terraferma collocasse implicitamente la stessa Serenissima, non è agevole precisarlo. È scontato che appartenesse alla classe dei "deboli" così come si può escludere per le ragioni esposte in precedenza che fosse uno degli Stati "contenti" delle disgrazie della Francia. Il governo marciano era senza dubbio ῾occupato' a modo suo dal conflitto di terz'ordine che l'opponeva a Tunisi, ma soprattutto preoccupato dall'ultima fase della questione d'Oriente, dalla guerra che gli Austro-Russi stavano combattendo contro i Turchi.
Infine, ῾stordito': se si interpreta questo aggettivo nei significati usuali di spensierato o di intontito, non mi sembra che qualifichi in modo pertinente l'atteggiamento della diplomazia, della stampa e dell'opinione pubblica della Serenissima. Venezia non solo guardò con la massima attenzione, quanto meno a partire dalla presa della Bastiglia, allo "spettacolo" d'Oltralpe (la circolazione di gazzette, fogli volanti, opuscoli, poesie, ecc. fu talmente fitta e, forse ciò che contava maggiormente, così poco simpatetica nel riferire "le nuove di Francia" che nel settembre del 1789 l'ambasciata transalpina nella città lagunare invitò il governo a stringere le maglie della censura) (37), ma, come si è visto, ne colse assai per tempo gli aspetti più inquietanti sia per la stessa Francia che per l'Europa.
Certo, non erano mancate alcune aperture di credito quando erano stati riuniti a Parigi gli Stati Generali e perfino all'indomani del 14 luglio anche da parte di chi sarebbe poi rapidamente rifluito su posizioni più o meno decisamente critiche. Ad esempio, il "Prospetto degli Affari Attuali dell'Europa" aveva inizialmente accolto la convocazione dell'assemblea come un anello di una catena riformatrice che in quegli anni sembrava unire il regno di Luigi XVI alla Polonia, alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, tutti paesi che sperimentavano nuovi equilibri costituzionali. Anche gli Stati Generali dovevano consentire, secondo il compilatore del periodico, Domenico Caminer, in quei decenni il più impegnato giornalista politico veneziano, di "liberare i popoli da quell'oppressione, di cui senza interruzione si dolgono" e di "rendere comuni e bilanciati i pesi pubblici e la universale tranquillità" (38). Perfino Capello, colui che sarebbe diventato il più intransigente nemico della rivoluzione, presentò "la strepitosa rivolta di Parigi" del 14 luglio come il risultato dell'"accordo meraviglioso di tutti i cittadini che vollero difendere la loro causa", un evento "nobile" che, "si può dire senza effusione di sangue", aveva trasformato la Francia in "una democrazia sotto un Re" (39).
Ma la piega presa dalla rivoluzione a partire dall'agosto del 1789 doveva sospingere tanto Caminer quanto Capello così come, in generale, la stampa e il governo veneziani verso tutt'altre spiagge. L'ambasciatore non si limitò a deprecare e a condannare la mostruosità di "un governo senza governo", ma offrì anche un tentativo di interpretazione della rivoluzione, che ascrisse - in primissima fila tra i commentatori delle vicende transalpine - all'influenza degli "spiriti forti", dei "lumi", così come segnalò anche i rischi che avrebbe certamente corso "la tranquillità d'Europa" nel caso in cui "questo male epidemico" dilagasse al di fuori dell'esagono (40). A sua volta Caminer, che era con tutta probabilità al corrente dei giudizi assai critici di Capello, avrebbe ben presto denunciato, sempre dalle colonne del "Prospetto", lo "spirito di vertigine", che "si era sparso per tutta la Francia" (41).
Se le gazzette - con la parziale eccezione delle "Notizie del Mondo" dirette da Giuseppe Compagnoni - e i periodici politici, una stampa abituata a tenere conto dei desideri del potere, si allinearono ben presto sulle posizioni di Caminer, i giornali letterari conservarono invece più a lungo - come attesta il più influente tra essi, il "Nuovo Giornale Enciclopedico d'Italia" di Elisabetta Caminer Turra - un atteggiamento più o meno favorevole a quegli aspetti della rivoluzione che incarnavano lo spirito riformatore. Volendo tirare le somme, si può affermare che fino alla fallita fuga di Luigi XVI all'estero prevalsero i giudizi critici nei riguardi di quanto succedeva nell'esagono, ma senza che si traducessero nel loro insieme in una vera e propria crociata antirivoluzionaria. Quanto al patriziato, salvo Capello e qualche altro lungimirante conservatore (ad esempio, Girolamo Ascanio Molin), così come, sul fronte opposto dello schieramento ideologico, un'esigua minoranza ῾progressista' ai margini della vita politica (in prima fila i fratelli Ippolito e Giovanni Pindemonte, Alessandro Pepoli e Francesco Gritti), "ne voyait les commencements de la révolution de France que comme un point d'histoire" (42).
Nulli o quasi gli echi di queste prime fasi della rivoluzione al di fuori della cerchia delle classi colte. Merita anche per questo di essere segnalata la frase pronunciata da un "omaccio lacero e scalzo, di coloro che formano la feccia del popolo", che aveva commentato un rincaro del prezzo dell'olio - come avrebbe riferito una spia agli inquisitori di Stato il 2 agosto 1789 - con un "Sì, sì, che i cressa, eh, in Franza, in Franza, cospetton de B[acco], no i xe minga vis de ... come nu", facendo chiaramente capire che - come avrebbe commentato il confidente - lo stesso popolo veneziano poteva "in delirio immaginarsi collega" di quello d'Oltralpe (43). Ma questo sfogo, che testimonia - al pari della decisione presa nel 1792 dagli abitanti di Motta di ribattezzare assemblea nazionale la locale riunione dei capi famiglia (44) e di altri episodi analoghi di quegli anni - più la rapida circolazione delle nuove di Francia che una qualche adesione all'ideologia dei "partitanti della libertà", fu senza domani. A Venezia più ancora che nella Terraferma le classi popolari rimasero estranee, quando non furono decisamente avverse, ad un progetto rivoluzionario, che del resto prima dell'occupazione francese dei territori della Repubblica trovò ben pochi fautori anche negli ambienti (nobiltà di Terraferma e intellettualità ῾progressista') più disponibili ad accogliere le nuove idee libertarie.
Allo scopo di bloccare la propagazione dei "principi di libertà, uguaglianza ed indipendenza, spregiatori degli uomini e delle cose di religione e nemici dichiarati dell'ordine sociale" (45) si mobilitarono per tempo, fin dal gennaio del 1790, gli inquisitori di Stato, dapprima contro singole opere eversive e per controllare l'afflusso degli emigrati francesi (il Veneto fu la meta italiana preferita dalle varie ondate di aristocratici in fuga dall'esagono), poi, a partire dall'estate di quell'anno, per far fronte all'attività di un fantomatico club della propaganda che si diceva fosse stato istituito a Parigi con il compito di esportare la rivoluzione. Ma, come indica anche la curva delle spese del magistrato, che nel periodo novembre 1790-ottobre 1791 aumentarono solo del 10% rispetto alla media degli anni precedenti (46), si deve constatare che a Venezia prima dell'episodio di Varennes il tentativo dei "fanatici del sistema popolare" di diffondere "da per tutto" "la loro venefica dottrina", un proselitismo che Capello aveva denunciato nella sua applauditissima relazione (47), non innescò una risposta isterica, anche perché non vi era un reale motivo di preoccuparsi per le ripercussioni di un evento che, come era accaduto quindici anni prima per la rivoluzione americana, calamitava di regola unicamente una superficiale curiosità.
La fallita fuga di Luigi XVI dalla Francia non solo mise a nudo il radicale contrasto tra il re e l'assemblea nazionale, ma facilitò anche la costituzione di un fronte controrivoluzionario, alla testa del quale si posero, con la dichiarazione di Pillnitz dell'agosto 1791, l'Impero e la Prussia. Quando l'ambasciatore francese a Venezia Louis de Durfort informò il serenissimo governo di quanto era avvenuto al re e di ciò che aveva deciso in proposito l'assemblea nazionale, la memoria fu "restituita sul fatto, come quella che dava grado ad un corpo non riconosciuto", un episodio che - come avrebbe commentato tutto soddisfatto l'autore dell'Esposizione - non solo non aveva "avuta alcuna mala conseguenza", ma che dimostrava anche che, quando s'era dovuta confrontare con la più grave crisi della monarchia costituzionale transalpina, la Repubblica veneziana non aveva avallato i nuovi equilibri politici francesi (48).
Anche perché sollecitate dagli emigrati francesi le stamperie veneziane pubblicarono in quell'anno alcune opere più o meno critiche nei riguardi della rivoluzione. Spicca tra esse l'Essai philosophico politique sur les Etats Généraux et la Révolution de la France de l'année 89 du dixhuitième siècle dell'abate Giannantonio Pedrini, un veneziano confidente degli inquisitori, che aveva vissuto una decina d'anni in Francia, dove era diventato un convinto ammiratore di Rousseau. Di qui una curiosa interpretazione della rivoluzione, a prima vista affatto allineata sulle posizioni reazionarie (denuncia dell'"esprit mutin", che minacciava "l'Univers", condanna della "licence, antipode de 1a liberté", difesa della religione, accuse contro "les esprits forts" tutti - se si eccettua Rousseau - giudicati responsabili della crisi...), ma che in realtà ruotava intorno alla tesi che il popolo non era stato che uno strumento nelle mani dei "Gros-Sires de la Nation", che l'"Apocalypse de nouvelle espèce", che si stava consumando al di là delle Alpi, aveva sì demolito la società d'antico regime, ma per sostituirla con una società altrettanto, se non maggiormente, disuguale fondata sulla proprietà (49).
Da parte loro gli inquisitori intensificarono la vigilanza sulla stampa filorivoluzionaria, sugli stranieri sospettati di condividere la "venefica dottrina" e sui partigiani veneti dell'assemblea: non a caso il budget a loro disposizione aumentò, nel biennio 1791-1793, di quasi la metà rispetto a quello degli anni ῾normali'. Il senato autorizzò anche gli inquisitori a collaborare con le autorità della Lombardia austriaca "ad oggetto di fornirsi scambievolmente quei lumi che riusciva ad ognuno dei due principi di scoprire in linea di seduttori" ῾. Tuttavia quando, nel novembre del 1791, il governo di Torino invitò la Repubblica, tramite il suo residente nella capitale sabauda Rocco Sanfermo, ad aderire ad "una coalizione de' Principi Italiani" (compresi la Spagna e l'Impero) per "impedire la propagazione nell'Italia degli attuali funesti principi di libertinaggio ne' Popoli" e per "scambievolmente soccorrersi al caso, che qualche esplosione fosse per manifestarsi violenta", il senato fece rispondere che "la Repubblica provava la soddisfazione d'aver potuto con li buoni ordini conservare la più imperturbata tranquillità fra li propri sudditi" e si lusingava quindi di non correre anche per il futuro "nessun ragionevole pericolo dalle insidiose arti degli emissari francesi".
Venezia temeva che la lega prospettata da Torino permettesse agli Asburgo di consolidare ulteriormente la loro egemonia in Italia. Vienna - aveva preannunciato il ministro degli esteri sabaudo - stava per inviare altre truppe in Lombardia: se il senato avesse dato una risposta positiva all'avance e quindi avallato un intervento contro una Francia che era, tra l'altro, ancora in pace, avrebbe concorso a promuovere una crociata, dalla quale poteva ragionevolmente attendersi più danni che benefici. D'altra parte - come avrebbe sottolineato il senato - Venezia era nell'"inscienza delli principi, che sieno per adottarsi non solo dagli altri Principi d'Italia, ma da quella Potenza singolarmente, che con vasti Domini in questa Provincia separa dal Piemonte il Veneto Territorio" (51), vale a dire dalla stessa Austria: spettava a quest'ultima - era il suggerimento avanzato tra le righe - farsi carico della questione francese.
Quando, nell'aprile del 1792, la Francia dichiarò guerra al re di Boemia e d'Ungheria (una formula con la quale Parigi sperava di evitare il coinvolgimento degli Stati tedeschi), "tutti gli altri", "tranne la Russia che [diede] soccorsi agli emigrati" e la Prussia che intervenne militarmente a fianco dell'Impero, "non [furono]" - come avrebbe sottolineato l'autore dell'Esposizione - "che spettatori". Ma Venezia non poté rimanere a lungo ad osservare tranquilla la guerra in corso alle frontiere belga e renana della Francia, in quanto in giugno l'imperatore Francesco II e suo fratello Ferdinando III granduca di Toscana rilanciarono il progetto della lega italica, chiedendo anche alla Serenissima di inviare la flotta a proteggere Civitavecchia e Livorno da eventuali attacchi della squadra francese di Tolone. Una consulta nera non solo ribadì la direttiva strategica dell'"imparziale neutralità", ma decise anche di informare le altre corti di tale determinazione con un "promemoria e circolare ai ministri" e, ad ogni buon conto, ordinò al grosso della flotta veneziana di retrocedere da Malta a Corfù, di tenersi il più lontano possibile da quello che poteva diventare il teatro di una guerra marittima (52).
Questa strategia, ribadita agli inizi di settembre quando il piano della "confederazione italica" fu riproposto ancora una volta, in questo caso da Napoli (53), fu recepita dal senato in maniera affatto passiva. Secondo lo storico americano George B. McClellan, che attribuiva una notevole importanza all'incremento, proprio dall'estate del 1792, del numero delle ῾comunicate non lette', vale a dire delle ῾carte' degli inquisitori e dei diplomatici tenute nascoste al senato dai savi del consiglio, questi ultimi in tale fase "frankly seized dictatorial powers" (54). Una conclusione certamente sopra le righe, che tuttavia ha il merito di mettere a fuoco un aspetto della politica veneziana di regola rimosso dai cronisti e dagli storici della caduta della Repubblica (55), i quali hanno invece preferito proiettare a monte le contrapposizioni interne al gruppo dirigente della Serenissima esplose nel 1797: la compattezza dei savi del consiglio, favorita dalle consulte nere, intorno a "quell'antico metodo, al quale era dovuta fino a quel momento la sua sicurezza e la sua tranquillità", la politica di non "urtare, né favorire alcuna Potenza" (56), e di conseguenza, data la tradizione politica veneziana, l'assenza di un dibattito e di un confronto in senato.
3. Una nuova Repubblica in Francia. La guerra ai confini d'Italia (1792-1795)
Nel settembre del 1792 la proclamazione della Repubblica in Francia e la coeva invasione e occupazione della Savoia e del Nizzardo da parte dei Transalpini costrinsero il governo veneziano a interrogarsi nuovamente circa la validità della politica, che aveva seguito fino ad allora. Sono stati conservati i sommari degli interventi ad alcune consulte, che si tennero dall'ottobre del 1792 al luglio del 1793 (57) in risposta all'evoluzione della situazione internazionale e dei rapporti con la Francia, una serie di documenti che permette non solo di ricostruire il retroterra e le motivazioni di alcune scelte puntuali della Repubblica, ma anche di precisare, accantonando gli stereotipi sulla fine della Serenissima in buona parte frutto della lotta politica successiva, le scelte strategiche, in cui si riconobbero nella nuova temperie politico-ideologica i patrizi alla testa del governo marciano.
Nicolò 2° Guido Erizzo, un patrizio conservatore che avrebbe analizzato tra i primi, all'indomani di Campoformido, "l'avvenimento della distruzione del Veneto Governo Aristocratico", era convinto che, se si fosse dato ascolto a Francesco Pesaro, nel 1796-1797 il capo dell'ala misogallica dell'establishment lagunare (non a caso il democratico Balbi lo presentava come il Pitt veneziano, un omologo dell'allora leader dei tories), e, invece di adottare "la massima d'una Neutralità disarmata, ch'è quanto dire di un abbandono di Territorio al primo occupante", si fossero prese "le più adeguate misure, onde difender la Veneta Terra Ferma dai mali inevitabili d'una Guerra", la Repubblica di Venezia si sarebbe salvata o quanto meno non sarebbe crollata così rapidamente ed ingloriosamente (58).
In questo caso Erizzo insisteva - come del resto avrebbero insistito dopo di lui quasi tutti i cronisti e gli storici che avrebbero ricostruito le vicende della caduta della Repubblica - su una radicale contrapposizione tra due linee politiche, la neutralità disarmata adottata dal governo veneziano e la neutralità armata invocata da Pesaro, che in effetti erano rimaste, a causa dei limiti del procuratore, soltanto virtualmente lontane. Risulta in ogni caso dagli interventi di Pesaro alle consulte dei savi che si tennero in quei mesi che l'influentissimo procuratore di San Marco (Giovanni Andrea Spada gli avrebbe addirittura attribuito un'"autorità più che dittatoria") (59) concordava con i suoi colleghi riguardo ad una serie di punti qualificanti, che si possono così riassumere: 1) lo scontato rigetto del "mostruoso governo della Francia" (tale "odio" - sottolineava Piero Zen nel gennaio del 1793 - era "un sentimento comun a tutti"); 2) di regola la recisa condanna ideologica non faceva velo, quando i savi dovevano giudicare circa la potenza francese (un realismo, che induceva tra l'altro a respingere la consolante interpretazione della rivoluzione transalpina come un fenomeno entropico, che non avrebbe mancato di far rapidamente collassare la Repubblica democratica su se stessa: nell'ottobre del 1792 Nicolò Michiel "guarda[va] la Francia come governo ch'à ancora principi, saran non buoni, ma [ha] un piano", le truppe "si portano con bravura", "tutte le direzioni fino ad ora compariscono consigliate, non condotte da fanatismo, da entusiasmo, da furore"; "convien dunque rifletter" - invitava da parte sua Zaccaria Valaresso, il quale dichiarava anche che aveva "più paura della paura del Senato che de' Francesi" - "alla dimostrazione solenne del consenso di tutta la Francia a mantener il sistema di libertà", "stabilito avendo decadimento della Monarchia ed instituzione [della] Repubblica democratica"); 3) anche per questa ragione tutti i savi condividevano, sia pure con motivazioni diverse a seconda delle congiunture politiche e della percezione che avevano della minaccia francese, la "massima di sostener neutralità perfetta" (Zen nel gennaio del 1793). Non era soltanto per supina obbedienza a "tutte le ragion da un secolo e mezzo stabilite" che si doveva "restar nel stato ove siamo" (Valaresso): la neutralità era imposta non tanto o non soltanto dalla storia quanto dalla diffusa convinzione che si riteneva la Serenissima affatto "impari alla difesa" (Zen); 4) come sottolineava Valaresso, "da Crema a Fusina" era uno "stato troppo lungo, troppo stretto, difficilissimo a garantir": "piazze sproviste, opere esteriori mancanti, depositi vuoti, non artiglieria, non munizioni"; "fa tristezza lo stato della Terra Ferma", ripeteva Francesco Battagia, che "riflette[va] anche sulla mancanza d'un comandante che imprima stima, considerazione", mentre Pesaro ricordava che "la Repubblica ha li suoi stati d'Italia abbandonati": "né truppa né uomini né fortezze né artiglierie", anche le cernide, le milizie rurali, erano "rese inefficaci"; 5) il procuratore era convinto che si dovesse rimediare in qualche modo a questo disastroso assetto militare (in ogni caso arruolando Svizzeri e altri mercenari, non certo armando i sudditi, come invece avrebbero voluto, con il senno di poi, alcuni del suo partito), ma si rendeva anche conto che, in ogni caso, era utopico sperare che "una forza portata alla frontiera" veneziana potesse opporsi con una qualche speranza di successo all'esercito di una grande potenza; 6) Pesaro ripiegava conseguentemente su una linea più realistica: si doveva "pensar almeno [alle] città murate", riprendere, di fatto, la politica militare seguita durante la guerra di successione spagnola, quando "la sola massima" della Repubblica era stata quella di "guardar le piazze" e il resto della Terraferma era stato in buona sostanza abbandonato all'arbitrio degli eserciti occupanti, anche allora francesi e imperiali (60); 7) tuttavia i Francesi del 1792 (e, nonostante Termidoro, anche quelli del 1796-1797) erano ben diversi dai Francesi del 1701, dal momento che - sottolineava il procuratore - avevano "gioco non colle truppe ma colle massime portate da dette truppe" e, anche se gli eserciti della Repubblica transalpina fossero stati arrestati sulle Alpi, non bisognava dimenticare che la loro "guerra [era] da popolo a popolo": "oggi li francesi fanno una guerra ne' stati colla bandiera seduzione"; 8) secondo Pesaro e la maggioranza dei savi era conseguentemente necessario privilegiare l'"interna custodia", vale a dire "prima di tutto poner i popoli in istato di neutralità e che corrispondino alle massime" della Repubblica e quindi far intervenire gli inquisitori di Stato ("Tribunal faccia") per controllare strettamente la Terraferma: in conclusione una "neutralità [...] accompagnata da misure di premunimento", che impedissero soprattutto alla propaganda rivoluzionaria di "turbar li sudditi".
"Il Senato sia neutrale ma lo sia non con abbandono", era la linea invocata da Pesaro e in larga misura recepita dal governo marciano, quanto meno sul versante della vigilanza (nel 1792-1795 gli inquisitori ῾investirono' nell'intelligence somme nettamente superiori a quelle impiegate negli anni che avevano preceduto la rivoluzione: il tetto, quasi 60.000 ducati, vale a dire più di tre volte il livello precedente il 1789, fu raggiunto nel 1793-1794, nei mesi del Terrore) (61). Dove invece Pesaro fallì, ma più per demerito suo che per la resistenza oppostagli dalla maggioranza dei savi, fu sul fronte del "premunimento" militare. Il procuratore, come del resto anche gli altri savi del consiglio, non aveva nel suo cursus honorum alcuna esperienza in divisa, né aveva al suo fianco un consigliere che potesse suggerirgli un piano militare di un qualche respiro: anche a causa dei limiti di Giuseppe Priuli, un suo fedele seguace cui aveva fatto affidare il saviato alla scrittura (la versione veneziana del segretariato alla guerra), la parola d'ordine della neutralità armata rimase uno slogan, cui non corrispose un vero e proprio programma di riarmo.
Questioni chiave come la necessità di costituire un valido esercito da campagna e di affidarlo ad un comandante in capo che, diversamente dagli alti ufficiali veneziani, avesse avuto modo di distinguersi in guerra, furono tutt'al più sfiorate. Sia sul finire del 1792 che nella primavera del 1794, nei due momenti in cui perorò con maggior energia la causa della neutralità armata, il procuratore si accontentò che fossero presi alcuni provvedimenti (spostamento di truppe dalla Dalmazia in Terraferma, arruolamento di tremila miliziani, ecc.) (62) affatto inadeguati se non nella prospettiva dell'"interna custodia", di una repressione degli "assembleisti" e degli altri simpatizzanti per le esperienze politiche d'Oltralpe.
La decisione del governo veneziano - nei fatti più che nelle dichiarazioni d'intenti - di lasciare inerme la Repubblica non deve indurre a ritenere, come ha invece preteso una storiografia superficiale, che i savi del consiglio fossero affatto ciechi di fronte alla prospettiva di un'invasione dei Transalpini. Al contrario essi mettevano in conto il "pericolo ch'un'orda francese s'introduca a Brescia, Bergamo, Verona a piantar [lo] stendardo della libertà" (Valaresso); in particolare Pesaro prevedeva assai lucidamente che "quando saranno vicini, oppugneranno e niente basterà" e "se si lascerà piantar l'albero, i Francesi saranno avversi", che, in poche parole, una volta che i Transalpini avessero messo piede in Terraferma, lo schermo della neutralità non avrebbe in alcun modo protetto il regime aristocratico dalle fiamme dell'incendio rivoluzionario. Ma la minaccia ῾giacobina' era percepita come una sorta di punizione, che il Signore voleva infliggere all'antico regime ("soggiaceremo al destin comun, che Dio vuol sottometter l'Europa", era il lamento degno di Giobbe, che usciva dalle labbra di Valaresso), non come una laica sfida alla costituzione materiale veneziana.
Appare chiaro dai sommari delle consulte che né Pesaro né gli altri savi si riconoscevano in un progetto che non fosse quello di una mera conservazione dell'esistente, della salvaguardia di un'identità ontologica, che per di più il potente procuratore continuava a rivestire dei panni della più tradizionale mitologia della Serenissima, arrivando al punto di affermare che i Francesi "l'anno colla Repubblica perché il miglior governo". Certo, non tutti i membri del nucleo dirigente condividevano questa visione politica ispirata da un inossidabile orgoglio patrizio. Ma i savi più realisti e pragmatici erano anche i meno disposti a varare misure energiche e i più inclini alla rassegnazione. Ad esempio Giovanni Querini "teme mali dall'avvanzamento delle truppe francesi in Italia, conosce tutto ciò, ma riflette e trova che niente si può far e che, se si facesse, tardo sarebbe il soccorso". Era la linea di un immobilismo ῾piagnone' teorizzata soprattutto da Battagia, per molti aspetti (origine, studi, carriera politica, legami massonici, idee economiche) l'anti-Pesaro: "piange sulla costituzion infelice della Repubblica, trova minor pericolo nel continuar a farsi quello che si è sempre fatto più tosto che altrimenti".
Battagia si opponeva ai provvedimenti militari anche nell'ipotesi che fossero diretti esclusivamente all'"interna custodia": la sua tesi era che "la custodia da massime [rivoluzionarie] non se fa colla guerra, ma con la forza sobriamente esercitata e colla dolcezza [del] Governo" e che la "prima base della sicurezza è il non abusar dell'impero". Mentre il conservatore Pesaro insisteva a favore dell'adozione di una politica repressiva, il ῾progressista' Battagia era convinto che qualsiasi "premunimento" avrebbe paradossalmente aggravato la crisi della Serenissima: le tasse, che bisognava imporre per poter armare la Repubblica, e le misure poliziesche non solo non avrebbero modificato in tempo utile e nella misura necessaria "la costituzion infelice della Repubblica", ma l'avrebbero per di più privata del consenso dei sudditi. E i Francesi? "Si deve confidar delle circostanze varie non appartenenti a noi", sperare che in un modo o nell'altro la coalizione antirivoluzionaria togliesse a Venezia le castagne dal fuoco.
In ogni caso secondo Battagia le scelte della Repubblica non dovevano essere decise in base a sentimenti e risentimenti ideologici, ma alla luce di un calcolo spassionato, che riconoscesse nella "giusta probabilità" l'unico criterio razionale nelle "cose umane". Da un paio di secoli quasi tutte le case abbienti del patriziato puntavano, nel tentativo di conservare intatto patrimonio e peso politico, ad un solo matrimonio per generazione, sapendo bene che in tal modo mettevano spesso a repentaglio la loro stessa sopravvivenza. La "giusta probabilità" invocata da Battagia rilanciava per un certo verso questa rischiosa scommessa a carico di tutto lo stato-corpo aristocratico veneziano: il "continuar a farsi quello che si è sempre fatto", se non offriva alcuna garanzia per il futuro, presentava l'indubbio vantaggio di non costringere a rimettere in discussione la forma politica e le pratiche tradizionali di quella piramide di case che era la società patrizia.
Va da sé che non erano né le convinzioni liberal né i calcoli razionali di Battagia che potevano pesare sull'atteggiamento della maggioranza degli altri savi del consiglio, anche se va tenuto presente che la linea politica ῾rinunciataria' del futuro provveditore generale in Terraferma era condivisa in larga misura da uomini di primo piano quali Girolamo Zulian, Valaresso e Piero Donà. Se la strategia immobilista doveva avere la meglio, era soprattutto perché andava incontro sia al diffuso misoneismo ("non si faccia cose nuove, non si alteri, va tanto bene", dichiarava ad esempio Giannantonio Ruzzini) che a quell'"hideuse avarice" della classe dirigente veneziana, che Giacomo Casanova avrebbe stigmatizzato all'indomani della caduta della Repubblica marciana (se Battagia, che apparteneva ad una casa della media nobiltà, non voleva ulteriori "pesi all'erario" per non gravare sui sudditi, alcuni savi assai ricchi erano avversi alla neutralità armata e, a maggior ragione, ad una partecipazione di Venezia alla "viva guerra" perché temevano "di dover essi pagare le conseguenti imposizioni") (63).
Non stupisce pertanto che tra i savi tendesse sempre a prevalere l'opinione che "le precauzioni possono esser domandate da circostanze che qui non vi sono", che apparisse ragionevole, di fronte agli alti e ai bassi della politica internazionale e ad una situazione interna che non dava alcuna preoccupazione, continuare a procrastinare o comunque ad annacquare qualsiasi "premunimento" consigliato da Pesaro. Come avrebbe riassunto Vittorio Barzoni, "l'imperizia era in concorrenza colle vane speranze, coll'amore del suddito, col piacere del riposo, col sentimento della propria impotenza, colla mancanza di patriotismo, col riguardo di non turbare il senato, colla scioperataggine universale e, per una tacita transazione fra la debolezza di tutti, la patria si trovò immolata all'improvidenza d'ognuno". I savi del consiglio "speravano, ed era l'unica loro speranza, che qualche fausto avvenimento mutar facesse l'aspetto delle cose e dalla faccia dell'Italia rimovesse il turbine, che le romoreggiava sopra" (64).
Nell'attesa del "fausto avvenimento" la Repubblica si aggrappava alla ciambella della "perfetta neutralità" nei confronti dei belligeranti, una linea politica che tendeva tuttavia ad interpretare come una prudente e realistica presa d'atto degli equilibri del momento. Di qui una serie di mezze misure, di scelte congiunturali che, in luogo di rendere - come era nelle intenzioni del governo marciano - ancora più perfetta la neutralità, non potevano che contribuire ad appannare i rapporti, a seconda dei casi, con la Francia o con l'Impero e di conseguenza offrivano alle due potenze dei motivi o dei pretesti per recriminazioni e rivendicazioni. Volendo evitare di inimicarsi i belligeranti (questa l'interpretazione ῾negativa' che fu data alla neutralità), la Serenissima ne attizzò paradossalmente l'ostilità, così come la sua arrendevolezza nei confronti delle loro richieste aprì la strada a ulteriori cedimenti. In questo modo la Repubblica compromise di fatto la possibilità di evitare di essere direttamente coinvolta nel conflitto: quando, nel maggio del 1796, i territori marciani diventarono un teatro di guerra, Venezia aveva già perduto da tempo, se mai l'aveva avuto, quello scudo, che la professata neutralità avrebbe dovuto garantirle.
Anche se o, meglio, proprio perché si rifiutò di accogliere i reiterati inviti di Vienna di aderire alla coalizione antifrancese (l'ultimo di essi fu respinto il 17 novembre 1792), la Repubblica si guardò bene dal negare agli Austriaci una serie di concessioni, che l'agganciavano, di fatto, al carro imperiale e che quindi erano destinate quanto meno ad irritare Parigi e ad indurre quel governo a considerare la neutralità marciana una maschera ipocrita. In particolare Venezia non denunciò la convenzione che consentiva alle truppe degli Asburgo di transitare per quella strada di Campara, che collegava Borghetto con Goito, vale a dire il Trentino con il Mantovano (e di conseguenza il Milanese). Inoltre il governo marciano aderì alle richieste degli Imperiali e dei loro alleati sardi di consentire loro "di far co' sudditi veneti qualunque privato contratto di armi, viveri, cavalli ecc." (65). In terzo luogo collaborò con Milano, come abbiamo visto, con l'intento di erigere un cordone sanitario contro la propaganda sovversiva. Infine consentì a parecchi emigrati francesi, tra i quali vi era perfino il conte di Lilla, il futuro Luigi XVIII, di rifugiarsi nei suoi Domini.
Nello stesso tempo Venezia cercò di conservare, pagando il necessario pedaggio, buoni rapporti con la Francia. Quando l'ambasciatore veneziano Almorò 1° Alvise Pisani fu costretto dalle sanguinose giornate dell'agosto 1792 ad abbandonare Parigi e a rifugiarsi a Londra, il governo marciano non prese neppure in considerazione l'ipotesi di approfittare dell'occasione per chiudere l'ambasciata, ma preferì rimanere in quella sorta di limbo diplomatico che era garantito da un'ambasciata priva di ambasciatore. Il più importante e discusso passaggio successivo della politica veneziana nei confronti della Francia rivoluzionaria fu, il 26 gennaio 1793, il riconoscimento del cambiamento di regime. Come abbiamo visto, l'Esposizione del luglio 1793 avrebbe cercato di minimizzare la portata traumatica dell'evento e di ricondurlo, nonostante tutto, sul terreno della continuità statuale: le credenziali a Hénin "in nome della Repubblica" erano state "rilasciate a Parigi prima della morte del Re" e, "quando s'accettarono", "il Re, comunque decaduto, era ancor vivo" (in effetti, era stato decapitato il 21 gennaio, ma la notizia della sua esecuzione non aveva ancora raggiunto Venezia) (66).
In realtà, la questione del riconoscimento fu sviscerata dai savi del consiglio in tutte le sue eventuali ricadute, politiche e ideologiche, senza preoccuparsi affatto del destino di Luigi XVI. Piero Pesaro, un fratello minore di Francesco, cui era accomunato anche da una scelta conservatrice, ricordò che, "riconoscendo con sollennità il Governo Francese", "si riconosce li principi francesi", vale a dire la triade eversiva "empietà, eguaglianza, libertà", e che ciò avrebbe necessariamente avuto un "effetto orribile per la Repubblica" veneta, mentre Ruzzini, che era invece favorevole al riconoscimento, invitò a condizionarlo all'impegno di Parigi di "tener lontana la guerra di seduzion". Prevalse, alla fin fine, l'impostazione esclusivamente politico-diplomatica di Valaresso: "l'accoglier [Hénin quale incaricato d'affari del nuovo regime] lascia la Repubblica" veneta "nel stato ove si trova ora", mentre "il rifiutarlo ci separa dalla Francia" (67).
Questa tesi fu ribadita di fronte al senato dal savio in settimana Zulian, che fece presente che, "quantunque cambiatasi effettivamente dalla Francia la forma del suo governo, non si è giammai perciò interrotta la corrispondenza con essa" e che questa "medesima corrispondenza si era pur mantenuta col fatto fino a questi ultimi giorni da alcune altre principali Corti d'Europa, Napoli, Spagna, Toscana, Genova, perfino Inghilterra". "Le massime di antica amicizia verso la Francia" e il pericolo "di un rifiuto" consigliavano pertanto di accettare Hénin nella sua nuova veste: in ogni caso Zulian avvertì che bisognava considerare "come semplice in tale circostanza" la richiesta francese, in quanto gli appariva - e voleva far apparire - affatto naturale "la nuova destinazione di ministri in relazione al nuovo sistema di governo" (68).
Secondo il reazionario Tentori, "il Senato [fu] abbagliato dalle insidiose [...] riflessioni" di Zulian "sostenute ed avvalorate da quelli della di lui lega" (69). In realtà, se si prende in considerazione il risultato della votazione del senato (193 voti a favore, 7 tra contrari e ῾non sinceri'), appare chiaro che il consiglio non fu vittima di una qualche congiura ispirata dai massoni (la società cui aveva appartenuto Zulian) e dai filogiacobini, ma si limitò a ratificare una scelta precedentemente adottata da tutti i savi, ivi compresi i conservatori fratelli Pesaro. Va del resto tenuto presente che l'unico senatore che prese la parola contro la parte "accettante le credenziali segnate dal Consiglio esecutivo provisionale di Parigi all'incaricato degli affari della nuova Repubblica di Francia" fu Angelo Querini, un tradizionale avversario dell'establishment veneziano, ma da posizioni, quanto meno in passato, ispirate dai Lumi (70).
La scelta della "perfetta neutralità" fu ufficialmente comunicata ai sudditi con un proclama datato 23 febbraio 1793 (71). Un mese più tardi fu accolta dal senato, ancora una volta in seguito ad un intervento di Zulian, la richiesta francese di poter esporre le armi del nuovo regime: questa volta "fu generale la disapprovazione, e sì numeroso fu il concorso del popolo accorso a riguardare l'odiato Stemma, che fu d'uopo di tutta la vigilanza degl'inquisitori di Stato, e delle Guardie da essi stabilite per impedire gl'insulti dell'adirata popolazione" (72). Nonostante la reazione popolare, che del resto lo stesso governo aveva favorito, in modo particolare all'indomani dell'esecuzione di Luigi XVI, da un lato impedendo la pubblicazione di qualsiasi scritto sulla rivoluzione (una decisione drastica che mirava ad evitare che la stessa propaganda controrivoluzionaria potesse contrabbandare i messaggi eversivi dei giacobini) (73) e dall'altro mobilitando le gazzette contro la Repubblica transalpina (anche le moderate "Notizie del Mondo" di Compagnoni avrebbero dipinto la Francia come "una foresta di bestie feroci sitibonde d'umano sangue") (74), nonostante che quasi tutti i principali Stati europei si fossero alleati, tra febbraio e marzo, allo scopo di schiacciare l'idra rivoluzionaria francese, i savi non si allontanarono dalla retta via precedentemente tracciata.
Ad esempio quando, in maggio, Angelo Querini propose di richiamare da Londra Pisani, un "assurdo ambasciatore a chi sfortunatamente più non esisteva" - si riferiva al re di Francia - in modo che apparisse chiaro a tutti che anche la Serenissima prendeva le distanze da "un popolo paricida e regicida" e, se la sua scelta neutrale le impediva di impugnare le armi, era comunque ideologicamente vicina alla "giusta coalizione di tutti li maggiori potentati del mondo", che combattevano "quel governo di mostri", fu paradossalmente il convinto antirivoluzionario Piero Pesaro che chiese al senato di concedere ai savi carta bianca su questo tema e convinse una larga maggioranza dei pregadi (133 i voti a suo favore contro 23 tra negativi e ῾non sinceri', uno scarto, in ogni caso, meno favorevole di quello ottenuto in gennaio) a bloccare il tentativo di modificare i rapporti con la Francia (75).
Fu soltanto nel luglio 1793, quando fu posta all'ordine del giorno la questione se accettare o meno le credenziali presentate da Noël in qualità di inviato straordinario della Repubblica transalpina, che la Serenissima si permise uno strappo nei confronti della Francia. Nella consulta nera del 23 luglio Zulian spiegò che Pisani non era stato richiamato "per non dar motivo alla C[onvenzione] N[azionale] di dimandar altro Ministro". Che fare di fronte all'inattesa mossa di Parigi? Zulian e Piero Donà erano convinti che, "se la Francia non è quale era il 26 gennaro, ella è ancora grande e da considerare assai per li tempi avvenire" e che quindi, "se è pericoloso per i tempi presenti l'accettare il Signor Noël, lo sarebbe ancora di più per li futuri il riffiutarlo". Ma prevalse la tesi del procuratore Pesaro e di Nicolò Foscarini del "poco timore in oggi di dispiacere alla Francia in vista delle attuali circostanze" (la Repubblica, invasa dagli eserciti della coalizione e minacciata dalle rivolte dei nemici del nuovo regime, attraversava la fase più difficile della sua breve storia) e la consulta decise di respingere le credenziali, informando l'incaricato d'affari Jean Jacob che Venezia non poteva "prestarsi a veruna alterazione diplomatica" e quindi doveva "astenersi nelle circostanze attuali da ogni cambiamento nella forma di ministeriale corrispondenza" (76).
Questa interpretazione della "perfetta neutralità" in quanto ibernazione dei rapporti diplomatici fu ribadita da Battagia un paio di mesi più tardi, quando Angelo Querini cercò di approfittare delle difficoltà della Francia rivoluzionaria (anzi il senatore dava già per "avvenuto" il "totale sfasciamento" della Repubblica transalpina) per riproporre il richiamo di Pisani. Battagia affermò in tale occasione che "non conveniva in minima parte alterar le cose, mentre nello stato attuale si poteva esser contenti": in questo modo si era riusciti ad evitare i pericoli "nelle variazioni" e si era "dimostrata fermezza di non volersi mescolare nelle attuali turbazioni, ripulsando" tutti gli inviti ad aderire alla lega italica. Anche questa volta Querini uscì sconfitto, sia pure con uno scarto negativo assai più onorevole del precedente, così come andò incontro ad un clamoroso fallimento - soltanto 12 i voti avversi ai savi - un analogo tentativo promosso nel gennaio successivo dal più influente Daniele 1° Andrea Dolfin (77).
Su quest'ultimo esito pesarono certamente i più recenti sviluppi della guerra in corso. La Francia non solo si era arrestata sull'orlo del "totale sfasciamento", ma tra l'autunno e l'inverno i suoi eserciti erano passati all'offensiva riconquistando Tolone (e quindi riaffacciandosi prepotentemente sul Mediterraneo), schiacciando le più pericolose rivolte interne e ricacciando i nemici sulla linea delle cosiddette frontiere naturali. Di conseguenza nelle lagune i savi ritennero prudente adoperare la parola d'ordine di non "prestarsi a veruna alterazione diplomatica" a vantaggio e non più a danno della Repubblica d'Oltralpe. In dicembre fu bloccato il maldestro tentativo del residente inglese presso la Repubblica, che dalla sua ambasciata romana Capello cercò di appoggiare presso gli inquisitori di Stato, di allontanare da Venezia un incaricato d'affari francese accusato di essere il perno di una rete eversiva. Nel febbraio del 1794, quando da Napoli giunse l'ennesima offerta alla Serenissima di aderire ad una lega italica, di fatto fu lasciata cadere senza essere neppure discussa, il che accadde, tre mesi più tardi, anche ad una memoria austriaca, che invitava Venezia a difendere il golfo dalla flotta nemica (78).
Nello stesso tempo i preparativi della Francia giacobina in vista della campagna di primavera e i suoi primi successi sulle Alpi indussero il procuratore Pesaro a riproporre il programma della neutralità armata. Era "necessario" - come avrebbe riassunto Romanin - "che le autorità veglianti fossero fornite di opportune forze e tali presidii che guarentissero l'obbedienza e la tranquillità del paese" (79); ancora una volta l'obbiettivo non era la difesa della Repubblica da un'invasione, ma quello di "poner i popoli in istato di neutralità". Nonostante l'opposizione della gran maggioranza dei savi (la banca era allora dominata da Zulian) e degli altri sostenitori, da Battagia a Valaresso, della tesi che in quelle condizioni il riarmo non solo era inutile, ma anche dannoso, in quanto avrebbe costretto la Serenissima ad indebitarsi ulteriormente e, soprattutto, l'avrebbe resa pericolosamente visibile sul piano internazionale, il 3 maggio l'"eccitamento" del procuratore a favore della neutralità armata fu accolto da una confortante maggioranza di senatori (119 contro 67 i rapporti di forza tra i due schieramenti) e i savi furono costretti a presentare tra maggio e giugno una serie di decreti destinati, in realtà, più a rabberciare (come è già stato sottolineato) che a dare un nuovo, valido assetto alle strutture militari della Repubblica (80).
Gli avvenimenti dell'estate-autunno 1794 - la caduta di Robespierre e le vittorie al nord (in luglio fu conquistato il Belgio, in ottobre fu invasa l'Olanda), a nord-est (occupazione del Palatinato) e a sud (invasione della Catalogna e dei Paesi Baschi) - consolidarono ulteriormente la posizione internazionale della Francia. La guerra sulle Alpi segnò invece il passo (i Francesi riuscirono in aprile-maggio ad occupare i passi più importanti, ma poi furono costretti a rimanere sulla difensiva a causa del trasferimento di quindici battaglioni sul fronte renano), il che indusse a ritenere eccessive le preoccupazioni di Pesaro. Inoltre la coalizione antirivoluzionaria cominciò a scricchiolare a causa delle sconfitte e delle rivalità attizzate dalla questione polacca: molti indizi facevano capire che fosse ormai agli sgoccioli quella stagione del "nuovo rigore di tutti contro la Francia", che si era aperta all'indomani dell'esecuzione di Luigi XVI.
Non stupisce quindi che in questa temperie la Serenissima interpretasse la regola di non "prestarsi a veruna alterazione diplomatica" con maggiore flessibilità, stiracchiandola a tutto vantaggio della Francia, e che, più in generale, cercasse di dare un timido contributo ad un processo di ῾normalizzazione', se non di pacificazione internazionale, che, una volta coronato da successo, avrebbe santificato a posteriori la politica della "perfetta neutralità". Di qui alcuni episodi significativi quali la sostituzione di Jacob con Jean Baptiste Lallement, l'invio di un nuovo ambasciatore a Parigi e la ῾mediazione' del diplomatico veneziano Rocco Sanfermo nelle trattative franco-prussiane di Basilea. Nel novembre 1794 il Comitato di salute pubblica destinò Lallement a Venezia in quanto inviato della Repubblica francese, facendo chiaramente capire che da un lato "il Popolo Francese vincitore di tutti Principi coalizzati contro la sua Libertà [voleva] finalmente conoscere i suoi Amici" (e quindi un altro rifiuto delle credenziali dopo quello opposto a Noël sarebbe stato pagato caro) e che dall'altro si accontentava di un qualsiasi titolo diplomatico: anzi, "se il Signor Pisani ricevesse l'ordine di ritornar a Parigi [...] niente gli costerebbe per compiacere al senato di dare al suo Agente in Venezia il titolo, che più soddisfacesse il voto" del governo marciano (81).
Nonostante che il residente inglese e gli inquisitori di Stato cercassero di mettere il bastone tra le ruote, i savi riuniti in consulta nera e nella loro scia il senato non solo accreditarono senza particolari patemi e divisioni Lallement quale inviato, ma pochi mesi più tardi, in febbraio, quando la Francia fece capire tramite Sanfermo che avrebbe preferito che Venezia ponesse fine all'῾esilio' di Pisani e destinasse un ambasciatore alla Repubblica ῾sorella', si affrettarono a procedere all'elezione di un nobile a Parigi nella persona del savio di Terraferma Alvise Querini. Come osservò Piero Donà, che avrebbe preferito che l'incarico fosse affidato ad un segretario come Sanfermo, era alquanto curioso che ci si facesse rappresentare presso uno Stato, che aveva proscritto la nobiltà, da un patrizio con il titolo di nobile. Querini ricevette le sue credenziali agli inizi di marzo, ma fu soltanto in luglio che raggiunse Parigi, un intervallo che almeno in parte va imputato al desiderio del governo veneziano di stare per un po' alla finestra per vedere quale piega prendessero le operazioni militari (82).
La campagna del 1795 iniziò tardi e soltanto in autunno registrò qualche episodio di un certo rilievo sul suo fronte più importante, quello renano. Sulle Alpi i Francesi rimasero sulla difensiva fino a novembre inoltrato. Ma, se la guerra segnò il passo, la diplomazia fu assai attiva. A Basilea la Francia stipulò dei trattati di pace in aprile con la Prussia e in luglio con la Spagna: fallirono invece le trattative con l'Impero imperniate sullo scambio tra il Belgio (che Vienna avrebbe dovuto cedere definitivamente alla Francia) e la Baviera (una vecchia aspirazione asburgica). Nella città svizzera, dove si trovava fin dalla fine del 1792 con il mandato di riferire circa gli sviluppi della situazione francese, Sanfermo mise la sua residenza e, a quanto pare, anche i suoi buoni uffici a disposizione delle "negoziazioni, che l'interesse delle Potenze [aveva] intavolate per ridonare la quiete all'Europa" (avrebbe fatto capire, a posteriori, che si era anche attivato affinché "il Re di Sardegna [...] pure facesse la pace e neutralizzasse l'Italia"), attirandosi le ire dell'Austria e dell'Inghilterra, che in maggio ne richiesero il richiamo (83). Nonostante che un insolito fronte composto da Francesco Pesaro, Piero Donà e Battagia prendesse le difese di Sanfermo (84), il senato decise di dare soddisfazione ai nemici della Francia.
Con il richiamo di Sanfermo da Basilea si chiuse l'unico tentativo di Venezia di influire in una qualche misura sugli sviluppi del conflitto. Come avrebbe scritto Cristoforo Tentori, "nulla di memorabile accadde nel rimanente di quest'anno 1795", salvo che "si rendeva sempre più osservabile", soprattutto dopo la morte di Luigi XVII, "la dimora nella città di Verona del [...] Conte di Provenza sotto il nome di Conte di Lilla" (85). Anche se cercava di non dare particolarmente nell'occhio, il fatto stesso che il futuro Luigi XVIII si fosse proclamato in giugno re di Francia e tenesse stretti rapporti con alcuni rappresentanti delle potenze in guerra contro la Repubblica transalpina e con gli altri emigrati rappresentava un oggettivo elemento di disturbo nei rapporti tra Venezia e il Direttorio, tanto più dopo che la vittoria di Loano del 24 novembre 1795 "in discapito degli Austro-Sardi sulla Riviera" aveva posto le premesse di un'invasione dell'Italia. Di qui l'intervento degli inquisitori di Stato nel gennaio 1796, che indusse i savi a porre il problema all'ordine del giorno del senato. Se in questa occasione Francesco Pesaro riuscì ad evitare la cacciata del conte di Lilla, quattro mesi più tardi le pressioni del governo francese su Querini convinsero la maggioranza dei senatori, nonostante che Pesaro rimanesse di diverso parere, ad espellere il compromettente "re di Verona" (86).
III parte