Tutte le guerre di Putin dal 1999 all'Ucraina di oggiBarbara Massaro
30 marzo 2022
https://www.panorama.it/news/dal-mondo/ ... na-di-oggiDa quando lo scorso 24 febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina dichiarando, di fatto, guerra all’Occidente (attraverso la Nato) i riflettori del mondo sono tornati a puntare – ancora una volta- sulla cosiddetta polveriera balcanica.
Dal crollo dell’ex Unione Sovietica, infatti, l’intero territorio è stato soggetto a una serie di conflitti, tensioni, guerre e battaglie che – purtroppo - nulla hanno da invidiare al mezzo secolo di Guerra Fredda che ha contrapposto l’Occidente all’ex blocco comunista, contrapposizione, di fatto, mai risolta.
Più o meno sono una ventina i conflitti armati cui la Russia post URSS ha partecipato negli ultimi 30 anni e la maggior parte di questi ha il sigillo della Z di Putin in calce.
A riavvolgere a ritroso il nastro della storia dalla fine dell’URSS la Russia ha firmato una guerra ogni 18 mesi; conflitti giustificati dalla necessità di ristabilire la pace, di sostenere fazioni filo russe o di aiutare alleati in difficoltà, ma in realtà guerre che mal celano il desiderio russo di tornare a dominare l’intero territorio che si snoda al di là degli Urali e di sedare le spinte centrifughe della costellazione di repubbliche nate dal crollo dell’URSS.
La fine dell’era Eltsin
All’alba dell’era Eltsin i cannoni puntati sulla Georgia hanno portato allo scoppio della prima guerra cecena (1994-1996) un genocidio finito con un armistizio che non piaceva a Mosca. Dopo la fine ufficiale degli scontri a fuoco la Cecenia si è trasformata in un far west dove mafia, corruzione e criminalità impedivano il ritorno di qualsivoglia forma di controllo pubblico sul paese. Putin, al momento della sua ascesa al Cremlino – 9 agosto 1999 - senza esitazione, ha preso in mano lo scettro del potere e la guerra è stata la lingua attraverso la quale lo Zar ha regolato le sue relazioni internazionali sia con l’Occidente sia con la costellazione delle repubbliche ex sovietiche.
Il terreno Putin se lo stava coltivando bene già da un pezzo. Gioco facile per l’ex tenente colonello del Kgb arrivato a Mosca nel 1996 per ricoprire la carica di capo delegato per la gestione della Proprietà presidenziale. Eltsin allora, alcolizzato e malato, stava affondando la neonata federazione russa con una politica economica scellerata che aveva ridotto i russi in uno stato di povertà assoluta permettendo il dilagare di corruzione e criminalità.
La seconda guerra cecena: 1999-2009
E così Putin ha visto bene di chiudere la questione cecena sedando ogni spiraglio indipendentista della piccola repubblica caucasica. L’occasione è stata fin troppo ghiotta. L’8 agosto 1999 – giorno prima dell’insediamento ufficiale di Putin – erano state inviate truppe russe nella regione caucasica del Daghestan, una della 85 entità amministrative che componevano la Federazione russa per sedare la guerriglia islamista cecena che aveva occupato quattro villaggi. Due giorni dopo i 4 villaggi avrebbero dichiarato l’indipendenza dando il là al via della marcia russa sulla Cecenia. Dopo 4 settimane il Daghestan era riconquistato. Meno di un mese dopo una serie di attentati sospetti a Mosca e in altre città russe furono imputati alle milizie filo islamiste cecene e furono il bottone rosso schiacciato per avviare la macchina da guerra di Putin. Certo, come dimenticare che la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia Alexander Litvinenko rivelarono come ci fosse l’Fsb, l’ex Kgb, dietro quegli attentati, ma Anna e Alexander vennero ammazzati e con loro anche la verità sull’inizio del massacro ceceno.
L’offensiva russa fu brutale. L’episodio più noto fu la pioggia di bombe sul mercato di Grozny, capitale cecena, il 21 ottobre 1999. Morirono 140 civili, per lo più donne e bambini. Durante un decennio la Russia mosse la sua crociata contro il terrorismo ceceno massacrando la popolazione in nome del ritorno all’ordine. L'esatta stima delle perdite di questa guerra è tuttora sconosciuta, anche se fonti non ufficiali contano un numero di circa 25.000 - 50.000 vittime tra morti, feriti e dispersi, molti dei quali tra i civili.
Il fronte kosovaro
Mentre il fronte ceceno rimaneva aperto Putin (che nel frattempo, nel 2000, era stato confermato al Cremlino con il 53% dei voti) aveva già deciso che la seconda questione da chiudere era quella kosovara. Mosca da un anno faceva parte, insieme ai paesi Nato della Kosovo Force, un’operazione di peacekeeping volta a trovare una soluzione alle tensioni belliche in corso da un decennio tra gli indipendentisti filo albanesi e i fedeli Ortodossi filo serbi vicini alla Russia. Se però i paesi Nato puntavano a favorire l’indipendentismo albanese, il peso sulla Kosovo Force e soprattutto il timore di incendiare un’altra volta la polveriera balcanica hanno determinato la scelta di appoggiare gli ortodossi a scapito degli albanesi. In questo periodo la Russia si è avvicinata tanto all’Occidente da entrare a far parte del G8.
La prima guerra del nuovo millennio: la Georgia
La prima guerra del XXI secolo è rapidissima e violenta. La Georgia cercava da tempo di liberarsi dall’influenza di Mosca, ma per farlo avrebbe dovuto affrancarsi dalle regioni russofile dell’Abkhazia dell’Ossezia del Sud. E così la notte del 7 agosto 2008 la Georgia bombardò la capitale sud-osseta Tskhinvali provocando centinaia di morti e enormi distruzioni.
Mosca non aspettava altro: la mattina dopo la Russia intervenne a fianco dei secessionisti e la Georgia dichiarò lo stato di guerra, nei giorni successivi il conflitto si allargò in Abkhazia. Con la mediazione dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy il 12 agosto fu raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco.
Due settimane dopo Mosca riconobbe l’indipendenza delle due repubbliche separatiste.
In quel periodo in realtà al Cremlino la poltrona presidenziale era occupata da Medvedev, stretto collaboratore di Putin. L’ex presidente non aveva potuto ricandidarsi per la terza volta perché non previsto dalla costituzione. Putin era rimasto, però, al Cremlino in qualità di primo ministro ma, di fatto, non aveva mai perso le redini del potere. Alle presidenziali del 4 marzo 2012 Putin si ricandidò vincendo a mani basse con il 64% dei voti. Da allora è sempre stato presidente e ha visto bene di mettere mani alla costituzione garantendosi la poltrona almeno fino al 2035.
Mosca e le guerre degli altri
Oltre ai conflitti diretti intrapresi da Mosca c’è anche da tenere conto delle volte in cui il Cremlino ha fornito appoggi più o meno indiretti a conflitti in corso determinandone la sorte come nel caso della Siria. Putin scese in campo a gamba tesa a favore del Presidente Assad in un momento che, il numero uno siriano, ormai fiaccato avrebbe perso a breve le redini del Paese. Dopo undici anni di guerra, 400mila morti, undici milioni di profughi grazie a Putin il dittatore di Damasco riuscì a ribaltare il fronte e a ricacciare fazioni ribelle e jihadisti.
Ripercorrendo tutti gli interventi armati di questi decenni Putin con le sue armate era sempre presente dalla contesa del Batken fra kirghizi e tagiki (1999), agli scontri etnici nel sud del Kirgizistan (2010) il Cremlino ha utilizzato la guerra come canale di comunicazione del suo potere sul mondo
La guerra in Crimea 2014
Per capire come si è arrivati alla guerra in Ucraina di queste settimane bisogna però ricordare quanto accaduto a Sochi, in Russia, nel 2014 durante lo svolgimento dei primi giochi olimpici in territorio russo della storia. In quell’occasione gli scontri presso la tendopoli pro-Ue di Maidan a Kiev provocarono il ribaltamento del governo filo-russo di Yanukovic.
La reazione di Putin – come sempre immediata - fu quella di mandare soldati russi senza mostrine né bandiere – i cosiddetti mercenari del Gruppo Wagner - a occupare militarmente la penisola di Crimea, annettendola ufficialmente il 18 marzo.
Le conseguenze di questi fatti, con gli anni di guerriglia separatista nel Donbass e i mercenari a orologeria intervenuti sullo scacchiere sono la premessa delle bombe di oggi su Kiev.
Il penultimo intervento militare russo risale solo a due mesi fa, quando Putin è intervenuto a favore dell’enorme area ex sovietica del Kazakhstan. A gennaio (e i piani per l’Ucraina erano già in fase di avanzata composizione) il Cremlino ha inviato le forze armate ad aiutare il presidente Kassym-Jomart Tokayev a far rientrare i violenti moti di protesta innescati dall’aumento dei prezzi dell’energia. Una mossa astuta che ha permesso a Mosca di sedare il clima teso nella zona e mantenere gli equilibri della regione come richiesto dalla vicina Cina che, guarda caso, oggi si dimostra morbida e dialogante sul tema Ucraina..
Le guerre di Putin: dalla Cecenia alla Georgia, tutti i conflitti della Russia dopo la fine dell'Unione SovieticaEnrico Franceschini
10 marzo 2022
https://www.repubblica.it/esteri/2022/0 ... 340897694/Quando crollò l’Unione Sovietica, nel 1991, sembrò che l’evento fosse avvenuto senza atroci spasmi, senza violenza, senza sangue. Certo, negli anni precedenti la repressione dell’Armata Rossa nel Baltico e nel Caucaso aveva causato vittime; e anche nel fallito golpe contro Mikhail Gorbaciov nell’estate di quello stesso anno avevano perso la vita tre giovani saliti sulle barricate per ostacolarlo.
Ma la scomparsa dell’Urss, formalizzata a dicembre, facendo sorgere al suo posto quindici nazioni indipendenti compresa la Russia, era stata una faccenda per lo più indolore. Si diceva che la Rivoluzione del 2017, al di là della retorica un golpe della minoranza bolscevica pressoché incruento e circoscritto a Pietrogrado, come si chiamava allora l’ex-San Pietroburgo e la futura Leningrado, era stata comunicata al resto dell’impero degli zar “con un telegramma”: e la fine di quel colossale e per molti versi mostruoso esperimento chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era stata simile.
“Abbiamo detto troppo presto che l’Urss era implosa senza spari e senza sangue”, commenta in questi giorni, di fronte alla brutale invasione russa in Ucraina, un diplomatico italiano che era a Mosca in quei giorni di trenta e passi anni fa. Del resto, dopo la rivoluzione del ’17 venne una spaventosa guerra civile fino al 2022, che ebbe per epicentro, corsi e ricorsi della storia, la guerra tra rossi e bianchi proprio in Ucraina. In modo analogo, nei tre decenni trascorsi dalla scomparsa dell’impero sovietico, di sanguinosi conflitti ce ne sono state tanti. Ecco quali sono state le guerre di Vladimir Putin.
Ha cominciato Putin a lanciare iniziative militari, dopo il crollo dell’Urss?
No. Già sotto Boris Eltsin, presidente della Russia, di fatto il successore di Gorbaciov e il predecessore di Putin, Mosca ha mandato le sue truppe a combattere in altre ex-repubbliche sovietiche, per reprimere rivolte o partecipare a conflitti locali: in Georgia nel ’91-’93, in Moldavia nel ’92 (dove si consolidò la Repubblica di Transnistria, un eclave russofono tuttora fedele alla Russia e separato dal resto della piccola nazione), in Inguscezia (una regione russa ai confini del Caucaso) sempre nel ’92, in Tagikistan nel ’92-’97, e soprattutto nella prima guerra cecena nel ’94.’96, quando Eltsin tentò di piegare la ribellione separatista della Cecenia, regione autonoma che produce l’1 per cento del petrolio russo e dunque di cruciale importanza.
L’ultimo conflitto ordinato da Eltsin fu in un’altra regione autonoma separatista russa, il Daghestan, nell’agosto ’99, ma è il caso di notare che dal mese prima al Cremlino, come primo ministro, c’era già anche Putin, che sarebbe diventato presidente a interim, su designazione di Eltsin, il 31 dicembre, poi confermato da un voto popolare tre mesi più tardi.
Dunque quale è stata la prima guerra di Putin?
La seconda guerra cecena, anche quella in realtà iniziata nell’estate del ’99 quando Putin era primo ministro, ma andata avanti con una ferocia senza precedenti fino al 2000 e poi ancora con operazioni limitate contro la guerriglia cecena fino al 2009. La capitale cecena Grozny (che in russo significa “la terribile”, nome imposto dagli zar dopo una guerra dei secoli precedenti) fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti russi: un modello per quello che Putin ha fatto in seguito ad Aleppo, in Siria, e per quanto sta facendo in Ucraina. Usando la forza senza limiti, e corrompendo alcuni capi ceceni per portarli dalla propria parte, Putin riuscì a vincere un conflitto che sembrava irrisolvibile.
C’è da notare che a scatenare la seconda guerra cecena o meglio l’attacco russo, violando accordi firmati dopo la prima guerra, furono una serie di attentati che fecero centinaia di morti a Mosca: vari osservatori, tra cui il difensore dei diritti umani Sergej Kovalev e l’ex-agente del Kgb Aleksandr Litvinenko (più tardi assassinato a Londra con il polonio radioattivo nel tè da agenti collegati al Cremlino), sostengono che fu l’Fsb, il servizio segreto russo erede del Kgb sovietico, del quale Putin aveva fatto parte per sedici anni e di cui era stato il capo prima di diventare premier e presidente, a mettere le bombe in edifici di civili, per accusare poi “terroristi ceceni”, suscitare indignazione nella popolazione russa e avere una scusa per ricominciare la guerra con metodi più duri di prima. Si calcola che ci furono tra 50 mila e 80 mila morti.
Ma la prova generale per l’invasione dell’Ucraina è stata un’altra?
Sì, è stata la guerra in Georgia nel 2008. Le somiglianze sono impressionanti. Un governo filo-occidentale, che era stato eletto democraticamente a Tbilisi al posto di uno filo-russo, aveva chiesto di entrare nella Nato per proteggersi dall’onnipresente minaccia di Mosca. Putin reagì invadendo due regioni autonome georgiane, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, dove un conflitto a intermittenza era in corso fin dai tempi dell’Urss, ufficialmente giustificando l’intervento con la necessità di proteggere la popolazione delle due regioni, a maggioranza russa, da discriminazioni del governo georgiano.
Da allora Abkhazia e Ossezia del Sud sono praticamente sotto il controllo del Cremlino e a Tbilisi, come risultato della guerra, si è insediato un governo di nuovo filo-russo. Tuttavia di fronte all’invasione dell’Ucraina ci sono state in Georgia manifestazioni di protesta talmente massicce contro Mosca da indurre l’attuale governo a chiedere, proprio nei giorni scorsi, l’adesione all’Unione Europea, sebbene i commentatori ritengano che si tratti più di una mossa politica per calmare la piazza che di una intenzione reale, poiché il procedimento di adesione richiederebbe comunque molti anni e non è chiaro come si concluderebbe, specie con due aree della Georgia ancora in stato di guerra contro Tbilisi. Un caso da manuale di quello che Putin ha fatto successivamente in Ucraina a partire dal 2014 a oggi.
Come si è svolta la “prima guerra” contro l’Ucraina, se così si può definire?
Con le stesse ragioni usate per l’intervento in Georgia, la protezione della minoranza russa, e le medesime motivazioni reali, impedire la richiesta di adesione alla Nato presentata dal governo filo-occidentale eletto a Kiev dopo un governo filo-russo, Putin ha invaso con le proprie truppe la penisola della Crimea, annettendola quasi immediatamente, e ha usato forze non regolari ma controllate dal Cremlino per invadere parte del Donbass, le regioni autonome di Donetsk e Lugansk, la zona mineraria dell’Ucraina che confina con la Russia ed è storicamente da sempre abitata in prevalenza da una popolazione di etnia e lingua russa. Quella “prima guerra ucraina” ha fatto 7 mila morti e decine di migliaia di feriti, suscitando in Occidente proteste un po’ più forti di quelle che avevano accompagnato l’invasione russa della Georgia nel 2008, ma non abbastanza forti da impensierire Mosca o da causare danni alla sua economia.
Perché la “seconda guerra” contro l’Ucraina è scoppiata proprio ora?
Ci sono varie ipotesi. In Ucraina la situazione era praticamente invariata rispetto al 2014. Ma altrove sono successe cose che possono avere spinto Putin a decidere che fosse il momento giusto per prendersi tutta l’Ucraina o perlomeno per prendersene un pezzo e installare un governo fantoccio a lui fedele nella parte che rimane formalmente indipendente: l’imbarazzante ritiro americano dall’Afghanistan; la Brexit che ha indebolito e diviso l’Europa, separando il Regno Unito dall’Unione Europea; un cancelliere appena insediato in Germania dopo il lungo governo di Angela Merkel; le imminenti elezioni presidenziali in Francia, potenziale distrazione per Parigi. La convinzione, insomma, di poterla fare franca, con una facile vittoria militare sul campo e senza pagare un prezzo troppo alto in sanzioni occidentali.
Ci sono state altre avventure militari sul fronte interno nell’era Putin?
Insurrezioni in varie regioni del Caucaso settentrionale, tra il 2009 e il 2017, hanno provocato l’intervento delle forze russe: non solo in Cecenia, come già detto, ma anche in Daghestan, Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Ossezia del Nord. Inoltre Putin ha inviato truppe in Bielorussia e Kazakistan, l’anno scorso e quest’anno, per aiutare il regime autoritario locale a reprimere vaste rivolte popolari, così rimettendo sotto il controllo di Mosca anche quelle due ex-repubbliche sovietiche.
Nel frattempo Putin è entrato in guerra anche all’estero?
Sì, in Siria, in Libia, nella Repubblica Centroafricana, nel Mali, in modo diretto e manifesto oppure occulto, attraverso il dispiegamento del Gruppo Warner, unità di soldati mercenari che in realtà secondo molto osservatori dipendono dal ministero della Difesa e dal ministero degli Interni russo. Ma pure l’Unione Sovietica ha partecipato direttamente o indirettamente a numerosi conflitti durante la guerra fredda, dalla guerra di Corea a quella del Vietnam.
Le guerre di Putin nell’ex-Urss, in conclusione, sono una cosa diversa?
Le guerre di Putin nei territori dell’ex-Urss hanno un altro significato: sono la coda sanguinosa e violenta del crollo dell’Unione Sovietica, il tentativo di Mosca di riprendersi quello che considera suo. L’ossessione del capo del Cremlino: riparare “la più grande tragedia geopolitica del ventunesimo secolo”, come lui definisce la fine dell’impero dei Soviet, che altri leader e altri popoli consideravano invece la liberazione da una dittatura durata settant’anni, il tramonto dell’ultimo impero multi-etnico della terra.
La guerra in Ucraina, ultimo episodio del disegno imperialista di PutinVoxEurop
Andrea Pipino - Internazionale (Roma)
30 marzo 2022
https://voxeurop.eu/it/la-guerra-in-ucr ... -di-putin/Il cerchio si è chiuso. Dal crollo dell’Unione Sovietica è bastata una generazione per far precipitare la nuova Russia all’inferno. Trent’anni di promesse mancate, speranze bruciate, segnali mal interpretati, da Eltsin che si arrampica sui carri armati nell’estate del 1991 e ferma il golpe dei sostenitori del regime sovietico fino alla messa in scena del 18 marzo 2022 allo stadio Lužniki: un carnevale ultranazionalista in cui il kitsch patinato dei video della musica pop russa degli anni duemila si è fuso con il gigantismo posticcio delle parate nordcoreane di Kim Jong-il. La fine di un’epoca.
Il compimento di una transizione che a un certo punto è impazzita e si è messa a girare all’incontrario, trasformando un paese post-sovietico, imperfetto ma curioso e vivace, in un mostro imperialista e neosovietico. Non doveva per forza andare così. E per quanto si voglia insistere sulle responsabilità e gli errori dell’occidente, è difficile pensare che quello che è successo a Mosca negli ultimi dieci anni sia esclusivamente il risultato di un’aggressiva strategia fondata sul mercato e delle interferenze occidentali nel delicato periodo della trasformazione degli anni Novanta.
Se così fosse, oggi ci troveremmo di fronte tante piccole Russie putiniane sparse in tutta l’Europa centro-orientale. Cosa che fortunatamente – pur con tutti i difetti delle democrazie dei paesi ex comunisti – non è la realtà.
Passaggio sanguinario
Tante volte, nelle analisi e nei tentativi di capire le motivazioni dell’attacco russo all’Ucraina, si è parlato di “umiliazione della Russia”. E spesso si è puntato il dito sull’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa centro-orientale, spiegato come allargamento o espansione dell’alleanza, con quella tipica mentalità occidente-centrica che tende sempre a privare ogni soggetto di una capacità decisionale autonoma. Tale espansione c’è stata perché a volerla sono stati gli europei dell’est, per i quali la fine della Seconda Guerra mondiale non è stata una liberazione ma il passaggio dal più sanguinario dei totalitarismi a un nuovo assetto politico, che dopo la prima fase rivoluzionaria si è dimostrato brutalmente autoritario.
L’ingresso nella Nato l’hanno chiesto, come garanzia alla propria sovranità e integrità territoriale, i paesi baltici, che dopo l’appartenenza all’impero zarista e i vent’anni d’indipendenza tra le due guerre furono nuovamente risucchiati nell’universo sovietico in seguito alla firma del patto Molotov-Ribbentrop (la loro appartenenza all’Urss non è mai stata formalmente riconosciuta dagli Stati Uniti). O i cechi, che nel 1968 avevano visto i carri armati del Patto di Varsavia distruggere l’esperimento delle primavere di Praga. O gli ungheresi, che dodici anni prima avevano vissuto un’esperienza simile, perfino più violenta. O i polacchi, memori delle repressioni dei moti operai del 1956 e del 1970 e della legge marziale del 1981I rapporti tra i russi e la Nato sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti
Il compimento di una transizione che a un certo punto è impazzita, si è messa a girare al contrario, trasformando un paese post-sovietico, imperfetto ma curioso e vivace, in un mostro imperialista e neosovietico
Spesso si cita il vertice Nato di Bucarest del 2008 come prova dell’avventuristico espansionismo dell’alleanza. Ma in effetti la dichiarazione con cui quel summit si chiuse sembra più una generica dichiarazione d’intenti, forzata dall’amministrazione statunitense, che una vera road map politica: “La Nato accoglie le aspirazioni euroatlantiche di Georgia e Ucraina. […] Oggi abbiamo concordato che questi paesi diventeranno membri della Nato”. Già allora era chiaro che i paesi europei dell’alleanza non avrebbero accolto volentieri l’ingresso di altre nazioni dell’est, soprattutto ex repubbliche sovietiche.
In soldoni, anche se la Russia non avesse invaso la Georgia nell’agosto del 2008, ufficializzando il suo controllo delle due repubbliche non riconosciute dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, che controllava già da sedici anni, difficilmente Tbilisi sarebbe entrata nella Nato in un arco di tempo relativamente breve.Lo stesso si può dire dell’Ucraina. Prima dell’intervento russo in Crimea e nel Donbass del 2014 i cittadini favorevoli all’ingresso nella Nato erano una netta minoranza, intorno al 20 per cento del totale.
E se il vero obiettivo di Mosca fosse stato tenere Kiev lontano dall’alleanza atlantica, per raggiungerlo sarebbe bastato limitarsi all’applicazione dei protocolli di Minsk. Qualcuno potrebbe ribattere che negli ultimi anni sul territorio ucraino si sono svolte diverse esercitazioni militari con la presenza di paesi Nato, per la comprensibile preoccupazione di Mosca. Va aggiunto, però, che mentre l’Ucraina e altri 23 stati, non solo della Nato, partecipavano nel luglio 2021 alle esercitazioni militari Sea breeze (cinquemila soldati coinvolti, organizzate dal 1997), Mosca aveva già ammassato decine di migliaia di soldati ai confini orientali dell’Ucraina.
Inoltre, quattro mesi prima le navi russe avevano partecipato insieme a quelle di diversi paesi Nato a una serie di manovre militari nel mare del Pakistan. I rapporti tra i russi e la Nato, insomma, sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti. Senza scomodare Pratica di mare o i vari protocolli e accordi siglati tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, per avere un quadro più veritiero della situazione basta ricordare come gran parte del secondo conflitto ceceno (1999-2009) è stato combattuto dalla Russia sotto il cappello della cosiddetta guerra al terrore lanciata dagli Stati Uniti contro il jihadismo internazionale.
Un percorso verso la democrazia
Quanto all’Ucraina, di motivi per pretendere garanzie di protezione dal suo ingombrante fratello maggiore ne avrebbe diversi. Oltre all’attacco alla sua integrità territoriale del 2014, risultato della violazione del Memorandum di Budapest del 1994, e alle continue interferenze politiche del Cremlino, che hanno innescato prima la Rivoluzione arancione del 2004 poi la rivolta di Euromaidan del 2014, ci sono le ferite di un secolo terribile: l’occupazione sovietica dei territori della Galizia orientale e della Volinia nel 1939, la collettivizzazione forzata e i più di tre milioni di morti dell’Holodomor nel biennio 1932-33.
Comprensibile quindi che in questi trent’anni l’Ucraina indipendente abbia cercato, pur tra mille difficoltà e battute d’arresto, un suo percorso verso la democrazia e la formazione di un’identità nazionale plurale (multireligiosa e multilinguistica) al riparo dalle mire di Mosca.
2014: un “colpo di stato”?
A tale proposito, due parole vanno spese sui fatti del 2014. Se, come è scritto nell’Enciclopedia italiana Treccani, il “colpo di stato” è una trasformazione dell’ordinamento dei pubblici poteri “operata da uno degli stessi organi costituzionali”, allora quanto è successo a Kiev tra il novembre 2013 e il febbraio 2014 è tutto fuorché un golpe. Perché la natura della mobilitazione è popolare, quindi semmai rivoluzionaria.
Proviamo a ricostruire rapidamente gli eventi: le proteste cominciano spontaneamente quando il presidente Viktor Janukovič (le stesso deposto nel 2004 dalla Rivoluzione arancione per i gravissimi brogli alle elezioni presidenziali, poi riletto nel 2010) fa un’improvvisa marcia indietro e rifiuta di firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea (che, è bene sottolinearlo, non significava affatto l’ingresso di Kiev nell’Ue).
Il motivo sta nelle fortissime pressioni del Cremlino, che promette a Kiev anche sconti sul gas e sostanziosi investimenti. I manifestanti chiedono le dimissioni del presidente e respingono il progetto politico e sociale incarnato dal suo regime, fatto di corruzione, autoritarismo sempre più scoperto e asservimento alla Russia.
“È impensabile che in Russia ci sia una rivoluzione democratica, come è inimmaginabile che l’Ucraina possa accettare un governo autoritario”.
Jaroslav Hrytsak, storico ucraino
La risposta del governo è brutale – rapimenti, pestaggi, omicidi – ma invece di fiaccare le proteste, ne rafforza la determinazione. Dopo tre mesi di mobilitazione, violenze, repressione, Janukovič scappa in Russia e a Kiev si insedia un governo d’emergenza guidato dal premier ad interim Arsenyj Jatsenjuk, che convoca subito elezioni presidenziali per il mese di maggio.
Negli stessi giorni il parlamento approva la proposta di abolire la legge del 2012 che attribuiva al russo lo status ufficiale di “lingua regionale”, proposta però bocciata dal presidente facente funzioni, Oleksandr Turčinov. A nessuno viene impedito di parlare il russo, come invece sostiene la propaganda di Mosca. Come tutto questo possa essere definito un golpe non è chiaro.
La risposta della Russia non si fa attendere. Il momento è propizio per mettere in pratica un progetto che il Cremlino cova da tempo – riprendersi la Crimea – e per appoggiare, con invio di miliziani e armi, la nascita di due repubbliche separatiste nell’est russofono del paese, la regione del Donbass. Il pretesto per l’intervento è la protezione dei russi dal governo di Kiev e l’obiettivo è lo stesso degli altri conflitti congelati seminati da Mosca nelle ex repubbliche sovietiche (oltre ad Abkhazia e Ossezia del Sud, c’è anche la Transnistria, in Moldova): indebolire la sovranità del paese colpito, creando elementi di instabilità nel suo territorio e mettendo quasi un’ipoteca sulle sue future scelte geopolitiche.
A chi sostiene che l’annessione della Crimea sia il risultato di un pronunciamento popolare, occorre ricordare che il referendum sulla sovranità della regione (già repubblica autonoma all’interno dell’Ucraina) è stato organizzato in due settimane sotto l’occupazione militare dei famigerati omini verdi, militari russi senza mostrine e simboli di appartenenza, mentre gli attivisti tatari e ucraini venivano fatti sparire e senza la possibilità di un seppur minimo dibattito pubblico. Che questo possa essere considerato un sistema accettabile per ridisegnare i confini di un paese sovrano è quantomeno singolare.
L’Ucraina fa storia a sé
Detto dei fatti di Euromaidan, vanno messe nella giusta prospettiva anche le accuse all’Ucraina di essersi radicalmente spostata a destra, perfino su posizioni neonaziste. Sono accuse chiaramente amplificate e diffuse dalla propaganda russa, ma non basate su elementi reali. È vero che nel paese esistono alcune sigle minoritarie di estrema destra. E l’ormai celebre battaglione Azov ha avuto un ruolo importante nei combattimenti nell’est del paese nel 2014, ed è poi stato integrato nella guardia nazionale ucraina. Ma si tratta di circa 1.000 soldati, che hanno una capacità di mobilitazione che non supera le 10mila persone. L’Ucraina ha 44 milioni di abitanti, e il suo esercito conta 125mila effettivi.
A livello politico, invece, il picco del successo dell’estrema destra (che ovviamente non vuol dire neonazisti) è stato raggiunto nel 2014, con l’1,8 per cento di Pravyj Sektor e il 4,7 per cento dei nazionalisti di Svoboda alle elezioni legislative. Nel 2019 il fronte nazionalista (Svoboda, Pravyj Sektor e altre due sigle minoritarie) ha raccolto il 2,1 per cento dei voti. L’unico deputato portato in parlamento è stato eletto in un collegio uninominale. Senza dover ricordare le origine ebraiche di Volodymyr Zelenskyj, e il fatto che diversi suoi parenti siano morti nella la Shoah, è evidente che chi definisce nazista un paese in base a criteri simili lo fa in malafede o perché completamente vittima della bugie del Cremlino (che peraltro i neonazisti e i suprematisti bianchi li ha ampiamente utilizzati nella guerra del Donbass, dove hanno combattuto diverse sigle dell’estremismo di destra russo – Gioventù eurasiatica, Unità nazionale russa, Altra Russia – e dove i primi leader delle repubbliche non riconosciute di Donetsk e Luhansk erano estremisti di destra e nazionalisti radicali russi).
Poi, a voler essere onesti, è abbastanza prevedibile che ogni violazione dell’integrità territoriale di un paese e della sua sovranità possano spostarne l’asse politico verso il nazionalismo. Ma anche qui il caso ucraino fa storia a sé: nonostante il Donbass separatista e la Crimea perduta, nel 2019 l’ex comico Zelenskyj ha sconfitto il presidente uscente Petro Porošenko proprio grazie alla scelta di non cavalcare l’etnonazionalismo e gli istinti bellicisti inevitabilmente presenti in parte della società. L’Ucraina precedente all’invasione russa era meno nazionalista di quella del 2015. E se c’è una cosa che questa mistificazione su nazisti ed estremisti di destra dimostra è la capacità della propaganda russa di avvelenare il dibattito e far circolare informazioni false o scorrette.
Il problema insomma, non è cosa ha fatto, cosa ha desiderato, cosa ha deciso l’Ucraina. Il problema è a Mosca. In quella miscela di autoritarismo sempre più sfacciato, ortodossia religiosa, revanscismo, nazionalismo e tradizionalismo che negli ultimi dieci anni sembra essersi impossessata delle élite del Cremlino. Il problema è l’ideologia che vuole negare agli ucraini il diritto di avere un paese indipendente e sovrano, che li cancella dalla storia e ne fa un’appendice della nazione russa.
La Russia è precipitata in una spirale autoritaria senza via d’uscita. Gli oppositori sono diventati dissidenti, e i dissidenti sono finiti in prigione
Più volte in questi giorni si è scritto e si è detto che dietro alla decisione di nvadere l’Ucraina ci siano le informazioni errate che Putin avrebbe ricevuto sul paese, la sua forza militare e la sua determinazione a difendere la propria sovranità. Gli errori dell’intelligence contano senz’altro. Ma al Cremlino c’è soprattutto una profonda incomprensione dei tratti salienti di una società che i leader russi immaginavano pronta a piegarsi e ad accogliere il “liberatore” moscovita e che invece sta dimostrando una straordinaria capacità di resistenza.
I rapporti tra i russi e la Nato sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti
Non per il culto della bandiera o per un astratto ideale di patria, ma per difendere la propria esistenza, per non rinunciare alla libertà di vivere in un paese che sia in grado di determinare in autonomia le proprie scelte e la propria posizione nel mondo. Come ha spiegato sul New York Times lo storico ucraino Jaroslav Hrytsak, i due paesi hanno cultura e lingua quasi comuni, ma tradizioni politiche diverse. Il risultato è che oggi “è impensabile che in Russia ci sia una rivoluzione democratica, come è inimmaginabile che l’Ucraina possa accettare un governo autoritario”.
Tutto questo le élite russe non l’hanno capito semplicemente perché non potevano capirlo. È come se Putin e la sua cerchia più ristretta, ex uomini dei servizi che al leader devono la ricchezza e il potere, fossero rimasti vittime della loro stessa propaganda, del genietto malefico del nazionalismo che ai tempi di Euromaidan hanno deciso di far uscire dalla lampada e che ha finito per fagocitare ogni loro pensiero e azione. Alla radice di questa radicalizzazione può esserci stato un freddo calcolo politico che poi ha portato a conseguenze inattese – Putin può aver cercato una contronarrazione dal basso da contrapporre alle parole d’ordine della democrazia e da usare come strumento di mobilitazione dopo l’ondata di proteste in Russia del 2011-12 – oppure la sincera adesione alle teorie eurasiste e imperialiste di Lev Gumilëv e più recentemente di Aleksandr Dugin. Ma il risultato non cambia: la Russia è diventata – o è tornata a essere – una potenza aggressiva, tradizionalista, nazional-imperiale.
Traiettorie perdute
Vent’anni fa non era detto che le cose dovessero prendere questa piega. All’inizio degli anni Duemila, la prima fase della presidenza dell’allora sconosciuto Vladimir Putin, il paese aveva di fronte a sé diverse possibili traiettorie. E aveva un grande bisogno di stabilità, modernizzazione economica e aperture compiutamente democratiche. In un tempo relativamente breve il primo obiettivo – che era senz’altro il più urgente – è stato raggiunto e per un certo periodo è perfino sembrato possibile che il paese prendesse la strada delle riforme politiche ed economiche, anche se con grande prudenza e in base alle proprie inclinazioni nazionali.
Con il passare degli anni è successo invece il contrario: gli spazi di libertà hanno cominciato a restringersi, le voci discordanti nel governo e al Cremlino hanno cominciato a essere marginalizzate, la repressione del dissenso si è fatta sempre più brutale, la diffidenza verso il mondo esterno ha raggiunto livelli mai conosciuti da decenni, la retorica ufficiale ha rispolverati i miti della missione storica, della grandezza e dell’unicità della Russia.
Il paese è così precipitato in una spirale autoritaria senza via d’uscita. Gli oppositori sono diventati dissidenti, e i dissidenti sono finiti in prigione. E si è capito definitivamente che, più delle armi della Nato, il vero spauracchio del Cremlino era la democrazia. In particolare quella che cercava faticosamente di affermarsi nelle vecchie terre dell’impero zarista e poi sovietico.
La Russia è diventata – o è tornata a essere – una potenza aggressiva, tradizionalista, nazional-imperiale
Oggi nelle università di Mosca s’incoraggiano gli studenti alla delazione di chiunque osi criticare la guerra di Putin, e in tutto il paese le "Z" simbolo dell’invasione compaiono sulle giacche dei bravi cittadini timorosi del potere e nei video della propaganda di stato. Il tutto mentre in tv il capo denuncia traditori e quinte colonne. Chi non ci sta, chi non accetta il progetto di “purificazione nazionale” avviato da Putin abbassa la testa e tace, protesta e viene arrestato, o decide di lasciare il paese.
Nonostante tutti gli errori che l’Europa, e soprattutto gli Stati Uniti, possano aver commesso nel rapporto con Mosca nel periodo successivo alla fine della guerra fredda, a umiliare la Russia non è stato l’ingresso dell’Estonia o della Lettonia nella Nato. E nemmeno l’intervento di Washington in Serbia nel 1999. In questi ultimi vent’anni, in fondo, Mosca ha fatto quel che le è parso e piaciuto in politica estera e all’interno del paese, dalla Cecenia alla Siria, dalla Georgia alla Crimea. E non ne ha mai pagato il prezzo.
A umiliare la Russia e i russi sono stati gli omicidi di Anna Politkovskaja, Natalia Estemirova, Boris Nemtsov; gli ostaggi morti nel teatro sulla Dubrovka; i rapimenti, gli stupri e le esecuzioni nella Cecenia di Ramzan Kadyrov; la morte in carcere di Sergej Magnitskij; l’avvelenamento e la persecuzione giudiziaria di Aleksej Navalnyj; la chiusura di Memorial e di tante altre ong. E oggi le bombe. Su Mariupol, su Kiev, su Charkiv.
ROSSOBRUNO CARDINIANONiram Ferretti
12 giugno 2022
https://www.facebook.com/niram.ferretti ... 9216938854Nel mondo di cartapesta di Franco Cardini, fu medievalista e poi ideologo e fabbricatore di fiction in cui i fatti e la realtà si dissolvono per lasciare apparire al loro posto immagini tra l’onirico e il fantastico, c’è una costante che non delude mai i suoi lettori, il cattivo, infatti, è sempre l’Occidente e il buono è sempre ciò che ad esso si contrappone.
Nulla di che meravigliarsi, già ragazzo, Cardini venne folgorato dall’ex collaborazionista e ardente ammiratore del Terzo Reich, Jean Thiriart, fondatore dell’organizzazione Giovane Europa che aveva come finalità quella di sganciare il vecchio continente dagli Stati Uniti e dal Patto Atlantico. Da allora e forse anche prima, non è dato saperlo, gli USA, agli occhi di Cardini, come a quelli del suo assai più celebre omologo americano, Noam Chomsky, sono diventati come Mordor ne “Il Signore degli Anelli”.
Tutto è buono quando si tratta di resistere all’impero del denaro, all’arrembaggio del Weltmarket. Non importa se oggi l’ex Cina comunista vi si sia convertita, sono gli USA la minaccia maggiore alla sopravvivenza del pianeta. E Cardini, che, nella sua vita è stato uomo di intersecazioni, in modo particolare quella tra gli “ismi”, di cui, l’Islam è l’ultima folgorazione dopo le amorevoli inclinazioni fascio-catto-comuniste che lo hanno preceduto, ha trovato anche in esso un buon antidoto.
Lo si comprende. L’Islam è l’approdo di tutto ciò che sanamente si contrappone alla tabe occidentale, ed è, infondo, la soluzione ultima, anche se iniziale (essendo esso, per i suoi seguaci, la religione primigenia dell’umanità), a ogni alienazione.
Lo scrisse chiaramente un eroe cardiniano, l’ayatollah Khomeini a Gorbaciov, il 1 1°gennaio del 1989: “Dichiaro chiaramente che la Repubblica Islamica dell’Iran, che è il bastione più saldo dell’Islam nel mondo, può facilmente riempire il vuoto ideologico del vostro sistema”. Ed è davvero un peccato che Cardini non sia giunto prima di ora a queste stesse conclusioni, si sarebbe risparmiato molta fatica, deviazioni e strade senza uscita.
Leggerlo fa sempre gusto. Il campionario è vintage, ma come il classici non delude mai. Così, in una intervista di un paio di anni concessa al sito, Osservatorio globalizzazione impariamo che:
“Il Patto di Varsavia, l’alleanza politico-militare tra URSS e i paesi suoi “satelliti”, è stata la necessaria risposta al patto NATO, a sua volta determinato dal fatto che gli statunitensi, rompendo una loro consuetudine politica che datava dalla cosiddetta “dottrina Monroe”, hanno preso a impegnarsi sempre di più come potenza egemone non solo sul Pacifico, ma anche sull’Atlantico. Una volta disintegrata l’Unione Sovietica, anche grazie all’impegno politico, diplomatico e culturale statunitense e allo strumento propagandistico degli ideali della “società del benessere”, vale a dire del consumismo, quella politica si è procurata altri nemici, sempre più agguerriti nella misura nella quale essa, provocando una sempre maggior concentrazione di ricchezza, determinava un generale impoverimento dei popoli”.
Nemmeno Gianni Minà o Lucio Manisco. L’URSS virtuosa con i suoi alti ideali di eguaglianza e fraternità che ha dovuto soccombere contro il Weltmarket, il peggiore flagello che ha colpito l’umanità e di cui Adam Smith, Ludwig Von Mises, Friederich Hayek sono stati i sacerdoti. Esemplare.
La politica imperialista economica americana che impoverisce i popoli e arricchisce se stessa è filastrocca assai stantia, ma sempre efficace nonostante i fatti la smentiscano inesorabilmente. Basta guardare i dati concreti (ma gli ideologhi hanno sommo orrore della realtà) dal dopoguerra ad oggi per quanto riguarda il livello di povertà nel mondo. Come ha dichiarato recentemente il presidente del World Bank Group, Jim Yong Kim, “Negli ultimi 25 anni, più di un miliardo di persone sono uscite dall’estrema povertà e il livello globale della povertà è oggi inferiore a quello mai storicamente registrato. Questo è uno dei più grandi conseguimenti umani della nostra epoca ”. Ma non c’è nulla da fare, “I fatti non hanno accesso nel regno delle nostre fedi”, scriveva Marcel Proust. E la fede di Cardini è granitica, la sua ortodossia non ammette smagliature. Nella stessa intervista può infatti proclamare:
“Le potenze occidentali sottoposte all’egemonia statunitense hanno largamente provato di aver bisogno, per sopravvivere a se stesse conferendosi valori etici e culturali che evidentemente non sono più in grado di promuovere, di un “nemico metafisico”. L’Occidente contemporaneo, dopo aver battuto il “Male assoluto” nazista e l’”Impero del Male” comunista e sovietico (espressione coniata da Ronald Reagan nel 1983), aveva bisogno d’inventarsi un altro nemico, il “Terrore islamico”. Questa espressione si diffuse globalmente nel 2001, dopo l’11 settembre, e fu poi adottata dal governo di George W. Bush jr. a proposito del rais iracheno Saddam Hussein, precipitosamente derubricato da alleato nella tensione contro l’Iran a “nuovo Hitler” nella seconda guerra del Golfo.. L’adozione del passepartout ideologico costituito dal libro The clash of civilizations di Samuel Huntington e i movimenti neoconservative e theoconservative statunitensi, facilmente impiantati anche da noi, hanno fatto il resto, favorendo un ridicolo clima da “nuova crociata”.
È questo il feuiletton preferito del cantastorie rossobruno. Torvo, cupo. Un po’ Dumas, un po’ Eugène Sue. L’Occidente a traino americano che si inventa i mali, prima il nazismo, poi il comunismo, e poi, sì, poi, l’Islam nella forma del “terrore islamico”. Perché anche questa è una fola. Certo. Il jihad non fu mai praticato dai seguaci di Maometto se non come tenzone spirituale, è cosa nota. L’Islam è sempre stato pacifico e se, a volte, è stato guerriero, lo è sempre stato per reazione, per necessità, mai per vocazione. Fu solo e unicamente per reazione che nel settimo secolo il jihad detonò dall’Arabia. L’imperialismo islamico si impose solo per difesa, in Occidente come in Asia e in Africa. Certamente reazione fu, a chi non voleva e non vuole sottomettersi al Verbo del Profeta. Ma, per Cardini, le crociate sono solo state cristiane, e i cattivi da copione sono caucasici, europei in primis e poi, in seconda battuta, ameriKani. Quanto a Samuel Huntington è un vero villain, va bene per tutte le occasioni. I terzomondisti, o alterglobalisti, ne hanno fatto una caricatura, come gli atei militanti alla Hitchens e Dawkins l’hanno fatta dell’Altissimo. Colui che scrisse un libro rimasto negli annali della politologia della seconda metà de Novecento, ben sapeva che, “Fintanto che l’Islam resterà l’Islam (cosa che farà) e l’Occidente resterà l’Occidente (che è più dubbio) il fondamentale conflitto tra queste due civiltà e modi di vita continuerà a definire le loro relazioni nel futuro come le ha definite nel passato per quattordici secoli“. E a Bernard Lewis non pareva proprio che la violenza perpetrata in nome dell’Islam fosse una conseguenza della protervia occidentale, ma un dispositivo intrinseco alla sua stessa vocazione, quando scriveva: “La divisione tradizionale islamica del mondo in Casa dell’Islam e Casa della Guerra, due gruppi necessariamente opposti, dei quali il primo ha l’obbligo collettivo della lotta continua contro il secondo, ha ovvi paralleli con la visione comunista degli affari mondiali…il contenuto delle credenze è del tutto diverso, ma il fanatismo aggressivo del credente è il medesimo”.
Di nuovo nulla di tutto ciò nel dispositivo concettuale del burbanzoso fiorentino. L’Islam è solo palingenesi e umiliati e offesi, sublimi porte e angelologia. L’intervista in questione contiene altre perle.
“La grande crisi nasce nel 1979 dal susseguirsi di due eventi precisi e quasi contemporanei. Primo: l’impiantarsi in Iran della repubblica islamica nata coralmente da una grande rivoluzione di popolo contro la tirannia interna e l’umiliazione esterna imposta alla sua gente dallo shah Mohammed Reza Palhevi che aveva inaugurato un regime di dura repressione con introduzione coatta dei costumi occidentali in Iran e aveva nel contempo consentito agli statunitensi di spadroneggiare nel suo regno, provocando un sentimento di quasi unanime esasperata reazione dal quale fu cacciato a furor di popolo. Secondo: la necessità di cacciare i sovietici dall’Afghanistan e di metter fine all’esperimento socialista afghano, obiettivi che si sarebbero potuti ottenere in modo relativamente facile se gli afghani avessero accettato l’aiuto della repubblica islamica dell’Iran, vicina e disposta a muoversi (com’era nei voti del capo militare afghano comandante Massud, che pur era un musulmano sunnita mentre gli iraniani sono sciiti). Per “liberare” l’Afghanistan senza ricorrere agli iraniani, gli USA scelsero di appoggiarsi al loro principale alleato musulmano, il wahhabita re dell’Arabia saudita, che inviò in Afghanistan i suoi combattenti-missionari. Questi ultimi immisero in quel Paese un tipo d’Islam fanatico e retrivo, estraneo alle tradizioni afghane e tipico invece della setta wahhabita, fino ad allora confinata nel sud dell’Arabia. Da allora il wahhabismo ha innervato l’intero Islam, dilagando e distorcendone il carattere, fino a giungere al punto al quale siamo adesso: i wahhabiti, egemonizzati dal primo alleato degli USA nel mondo arabo, intendono egemonizzare a loro volta l’intero Islam sunnita sostenendo una guerra civile (fitna) contro gli sciiti in genere e gli iraniani in particolare. Tale guerra ha purtroppo il supporto sia degli USA, sia d’Israele, per ragioni e considerazioni di carattere politico-strategico che personalmente ritengo infauste”.
È stato necessario riportarla tutta intera questa infilata esorbitante di grotesqueries. Per Cardini è irrilevante che la guerra fratricida tra sunniti e sciiti cominci con la morte stessa di Maometto e perduri fino ad oggi. La colpa dell’estremismo islamico sarebbe solo dei wahhabiti a seguito della guerra in Afghanistan. E, ovviamente, ça va sans dire, i mandanti sarebbero loro, gli Stati Uniti, promotori anche del terribile Scià di Persia. Il fatto che il jihad, nella sua versione moderna, nasca in Egitto nel 1928 grazie ad Hassan al Banna e alla Fratellanza Musulmana, è un altro di quei fatti scomodi, che vanno doviziosamente rimossi dalla scena onde possano intaccare la fiction cardiniana. Quanto ai missionari, chi fu più missionario dell’ayatollah Khomeini il quale innestò l’Islam sull’impianto ideologico rivoluzionario marxista, la cui ispirazione trovò in Alì Shariati? Ce lo ricorda Melanie Phillips in The World Upside Down: The Global battle over God, Truth and Power:
“Ali Shariati, un prominente ideologo della rivoluzione islamica in Iran, era un islamo-marxista che si basò cospicuamente sull’estremista anticolonialista Franz Fanon e la sua concezione di creare ‘un uomo nuovo’. Shariati mutuò da Fanon la descrizione dei ‘diseredati della terra’ e la tradusse in persiano rivitalizzando il termine coranico, mostazafin, o ‘il diseredato’. Sotto l’influenza di Shariati, gli estremisti iraniani diventarono marxisti e lessero Che Guevara, Regis Debray e il terrorista della guerriglia urbana, Carlos Marighela…Sotto l’influenza di Shariati, l’ayatollah Khomeini introdusse nel pensiero islamico radicale il fondamentale concetto marxista del mondo diviso in oppressi e oppressori…Nel 1980 Khomeini aveva stabilito una ‘rivoluzione islamica’ culturale di stile comunista per purgare ogni traccia di influenza occidentale dai licei e dalle università”.
Ma guai a incolpare l’Islam sciita, così puro e nobile e soprattutto antagonista degli amerikani, mentre, come è noto, i sunniti, soprattutto la Casa di Saud, sono intrecciati agli USA dal 1945.
Occorre fermarsi. Prendere respiro. Gli ebrei sono alle porte, ma Cardini è scaltro, evita accuratamente di cadere in un antisemitismo troppo corrivo. Gli ebrei restano in filigrana, presunti e non desunti. E sempre nella medesima intervista, a un certo punto, ecco aprirsi l’uscio su Israele:
“L’alleanza statunitense-israeliana-saudita, alla quale si sono accodati tanto la NATO quanto paesi arabi quali Egitto e Giordania, sta seriamente minacciando la pace, nel Vicino Oriente e nel mondo…La lotta ai migranti dall’Africa condotta senza combattere le vere cause della migrazione, ovvero l’alleanza tra le lobbies multinazionali che depredano suolo e sottosuolo africano, i governi locali tirannici e corrotti loro complici e la copertura internazionale che Francia e Gran Bretagna forniscono loro utilizzando sistematicamente lo strumento del veto in sede di consiglio di sicurezza ONU a tutte le risoluzioni che potrebbero fornire qualche via d’uscita al problema continentale africano, è il secondo grande problema del nostro mondo. Politica degli USA ed egemonia delle lobbies finanziarie internazionali sono le prime responsabili della situazione internazionale odierna”.
Questo è il nadir. C’è tutto, ma proprio tutto l’armamentario. Le calcificazioni, le ossidazioni della mente. Israele, gli Usa, i sunniti, le lobbies delle multinazionali, gli immigrati africani. Mancano gli Illuminati, il gruppo Bilderberg, i Savi. Sono impliciti, dentro nell’impasto. I topoi sono vecchi, stantii, puzzano di muffa, ma Cardini non demorde. La pace nel mondo sarebbe a rischio a causa di Israele, gli USA e gli arabi sunniti. Attenzione all’incastro. Non è Israele da solo che mette a repentaglio la sicurezza mondiale, rodato paradigma di antisemiti e antisionisti pluridecorati, ma lo è insieme agli USA e alla Casa di Saud. Se voglio lanciare il sasso contro gli ebrei e gli israeliani, lo lancio contemporaneamente contro altri bersagli. Mi limitassi al solo Israele, si noterebbe troppo, e Cardini non è un Blondet o un Fusaro qualunque.
Il Medioriente non sarebbe in tensione perenne da settanta anni a causa delle opposte mire arabo-islamiche, delle lotte intestine e tribali per conseguire il basto del potere, unicamente convergenti e solidali quando si tratta di unirsi nel tentativo di distruggere Israele. Il problema attuale non sarebbe l’espansionismo neo-imperiale sciita che si protende sulla Siria, in Libano, in Iraq, in Yemen, con appendice a Gaza. Non sarebbe l’impulso millenarista della rivoluzione islamica congiunto alla dichiarata intenzione di volere distruggere Israele. No. Anche qui gli sciiti sono rimossi dalla scena. I puri buoni sciiti. L’ultima frase del pistolotto brilla di luce propria.
Sembra uscita da un comunicato radio di Berlino o di Roma degli anni Trenta. Chi c’è dietro le lobbies finanziare internazionali e la politica degli USA? Chi gobierna el mundo? Cardini non lo dice, anche se in un suo feuilleton sulla seconda guerra del Golfo, Astrea e i Titani, scriveva a proposito degli USA
“Politica degli USA ed egemonia delle lobbies finanziarie internazionali sono le prime responsabili della situazione internazionale odierna”.
“Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là delle forme giuridiche preposte a legittimarlo. È sua la detenzione del potere imperiale o dietro ad esso ed altre forze, attualmente ‘in presenza’ nel mondo, si cela un ‘impero invisibile’-nel senso etimologico del termine, che cioè non è responsabile, non deve rispondere alle sue azioni-dinanzi ai suoi sudditi, i quali neppure sanno-o almeno, non con chiarezza-essere tali?“
Basta una leggera spinta, un tocco in più, ed ecco apparire I Protocolli.