Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:04 am

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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:05 am

4)
Caso Ucraina e il dovere di aiutarla



Patriottismo, indipendentismo, nazionalismo e nazismo in Ucraina e in Russia
e la Russia nazi fascista e comunista, suprematista e imperialista del falso cristiano Putin il violento e criminale dittatore russo
viewtopic.php?f=143&t=3004
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 9263248411

La Russia nazi fascista di Putin
La Russia di Putin e l'Ucraina e la putinlatria
viewtopic.php?f=92&t=2990

Ucraina e Russia, non sono una stessa grande famiglia
viewtopic.php?f=143&t=3002

Dov'è il nazismo e chi è il nazista in Ucraina e in Russia?
viewtopic.php?f=143&t=3003
Dove sta il nazismo e chi è il nazista nella questione Ucraina Russia?
Non è difficile e non ci vuole molto per capirlo.
https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... 1493516620

Il Donbass è degli ucraini e dell'Ucraina e non dei russi e della Russia
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 143&t=3000
https://www.facebook.com/profile.php?id=100078666805876
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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:05 am

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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:05 am

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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:06 am

5)
Le demenzialità, le menzogne e le calunnie contro gli USA e la NATO



Le demenzialità, le menzogne e le calunnie contro gli USA e la NATO
viewtopic.php?f=143&t=3005
https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... 1061722663

La Russia nazi fascista di Putin
La Russia di Putin e l'Ucraina e la putinlatria

viewtopic.php?f=92&t=2990

Dov'è il nazismo e chi è il nazista in Ucraina e in Russia?
viewtopic.php?f=143&t=3003
Dove sta il nazismo e chi è il nazista nella questione Ucraina Russia?
Non è difficile e non ci vuole molto per capirlo.
https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... 1493516620

La vergogna dei veneti e dei leghisti che stanno con la Russia di Putin e contro l'Ucraina
viewtopic.php?f=143&t=3001
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 9003863100

https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... 5947747508



QUANDO I VECCHI TIC RITORNANO
di Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera
20 aprile 2022

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Ci sono gli interessi lesi di coloro che facevano business con la Russia o di quelli che in Europa Putin finanziava fino a poco tempo fa.
Ci sono poi i tanti che non accettano l’idea di dover fare sacrifici a causa della congiuntura economica negativa creata dalla guerra. C’è anche la tentazione di altri, per paura, di darla vinta a Putin («si prenda pure l’Ucraina purché lasci in pace noi»). Ma tutto ciò detto, il singolo fattore politico-ideologico che può togliere compattezza all’Occidente, che può fare vacillare il fronte interno in alcuni Paesi europei, è l’anti-americanismo.

Declinato in vari modi, a seconda delle tradizioni del Paese. Si coniuga col nazionalismo in Francia. In Italia, invece, ha per lo più altre fonti di alimentazione: come i cascami del vecchio internazionalismo comunista o come l’antica, e mai realmente sradicata, ostilità di parti del mondo cattolico nei confronti delle democrazie protestanti. Poiché però quasi nessuno vuole più parlare in nome di ideologie usurate i più si mimetizzano, sventolano bandiere pacifiste. Mentre il loro vero desidero sarebbe quello di bruciare la bandiera americana.
Va tenuto distinto dagli altri antiamericani oggi in azione in Italia, tesi ad erodere il fronte interno, lo storico dell’antichità Luciano Canfora.
Canfora non si mimetizza, non si traveste da pacifista. Nella sua visione, come risulta dai suoi scritti, le democrazie occidentali sono pseudo-democrazie dominate da spietate oligarchie finanziarie. Gli Stati Uniti sono il vertice di questa specie di cupola mafiosa. Per Canfora la storia insegna che i tiranni, o per lo meno alcuni di loro, che di tanto in tanto si affermano, da Giulio Cesare a Stalin, sono i liberatori o i campioni di classi subalterne sfruttate dalle oligarchie. I loro crimini sono imposti dalla necessità e non sono comunque più gravi o più condannabili di quelli praticati quotidianamente dalle oligarchie di volta in volta al potere.
È superfluo dire che chi scrive non condivide nulla di questa visione. Ciò che per Canfora è pseudo-democrazia, ossia la democrazia liberale occidentale, per chi scrive è una approssimazione, certamente imperfetta, della politeia aristotelica, un governo misto che combina, in modo passabilmente accettabile, partecipazione popolare, preminenza delle classi medie, ruolo delle élite e protezione delle libertà personali.
I liberali europei sono filo-americani per la stessa ragione per cui Canfora è anti-americano: senza la presenza statunitense forse varie democrazie europee, e sicuramente quella italiana, sarebbero finite da molto tempo a gambe all’aria.
La posizione di Canfora, comunque, non va confusa con quella di coloro che, per l’occasione, hanno indossato abiti pacifisti. Dicono «no alla guerra» sottintendendo «no alla Nato». Quando sostengono che non bisogna mandare armi agli ucraini «per non prolungare le loro sofferenze» stanno in realtà dicendo: condividiamo con Putin l’ostilità e la repulsione per la democrazia (quella che il dittatore russo vuole sopprimere in Ucraina) e, massimamente, per il Paese guida delle democrazie, gli Stati Uniti. Non c’è bisogno di spendere molte parole su di loro. In modo diverso 5 Stelle e Lega, pur con le prudenze necessarie per chi fa parte della coalizione di governo, cercano di intercettare gli elettori più influenzati da questo orientamento.
C’è un altro aspetto che invece vale la pena di considerare con una certa attenzione. I due partiti oggi favoriti dai sondaggi, Pd e Fratelli d’Italia, per merito dei loro segretari, hanno fatto una scelta netta, con l’Occidente contro Putin. C’è da notare però una differenza. Fratelli d’Italia rivendica il suo atlantismo mentre sull’Europa, in linea con altri gruppi conservatori europei, ha una posizione che, se andasse al governo, renderebbe difficile all’Italia collaborare con Francia e Germania.
Il Pd, per contro, ha fatto dell’europeismo una bandiera, rivendica la sua sintonia con i Paesi-guida dell’Europa ma, scelte sulla guerra a parte, sembra restio al dichiararsi apertamente atlantista. A causa, verosimilmente, dei sentimenti anti-americani che continuano a circolare nella sua base di riferimento (Anpi, Cgil, eccetera). Dal Pd vengono dette cose apprezzabili sull’Europa (Enrico Letta su il Foglio dell’11 aprile) ma si nota anche una certa reticenza a proposito degli Stati Uniti. Il Pd, per esempio, è un deciso sostenitore della necessità di una difesa europea. Ma non è del tutto chiaro come risponderebbe alla seguente domanda: la difesa europea può avere un senso (militarmente e politicamente parlando) se non viene intesa come la gamba europea della Nato? La sensazione è che il Pd, che è certamente schierato con la Nato, sia tuttavia costretto a glissare il più possibile su questi argomenti per non suscitare reazioni e opposizioni interne.
C’è poi il mondo cattolico. Forse qualche storico delle religioni è in grado di spiegare perché una parte di quel mondo preferisca di gran lunga dialogare con gli ortodossi russi (tradizionalmente asserviti al potere politico) piuttosto che con i protestanti anglosassoni. L’anti-americanismo cattolico ha radici antiche, è già presente nell’Ottocento. Dopo la Seconda guerra mondiale certe correnti non hanno mai perdonato al cattolico liberale Alcide De Gasperi la scelta atlantica.
I vecchi tic sono riaffiorati con l’aggressione all’Ucraina. Dalla difficoltà di definire apertamente e chiaramente la guerra difensiva degli ucraini come una «guerra giusta» all’accusa all’Occidente (leggi: agli Stati Uniti) di non volere la fine della guerra e, comunque, di non fare abbastanza per portare Putin al tavolo di pace.
Ebbene sì: l’Occidente non è soltanto democratico, è anche una società capitalista, un sistema di economia di mercato tenuto insieme dalla leadership politica, economica e militare americana. Per alcuni, che delle società occidentali stigmatizzano i tanti errori, e che sono ben rappresentati in Italia, dovremmo vergognarcene. Per altri invece, guarda un po’, l’Occidente è come la democrazia per Churchill: la peggiore civiltà, eccezion fatta per tutte le altre.



Il Giornale di Vicenza è filo Russia di Putin e censura i messaggi contro la Russia e Putin

https://www.facebook.com/GdV.it/posts/1 ... &ref=notif

Roberto Mezzina ha scritto
Il paese democratico che esporta pace e amore ….


Alberto Pento risponde
Roberto Mezzina Gli USA fondati dagli europei migranti nelle Americhe (a partire dal sedicesimo secolo) e resisi indipendenti dal dominio degli imperi europei e fattisi democratici prima ancora che i paesi Europei nel diciottesimo secolo, sono nostri degnissimi fratelli e cugini.
Eterna riconoscenza agli USA
per avere accolto i nostri migranti europei affamati e in cerca di fortuna lungo i secoli
e per averci hanno liberato dal nazi fascismo,
aiutato nella ricostruzione post bellica,
difesi per 40 anni dall'internazi comunismo dell'URSS grazie alla NATO,
per aver mantenuto in pace l'Europa promuovendone l'unione politica,
per aversi fatto carico dell'ordine civile mondiale e per aver aiutato il progresso dell'umanità.
Grazie all'America USA nostra alleata per sempre nonostante Biden e il suo Politicamente Corretto che sono un prodotto demenziale del sinistrismo europeo.
Non vi è paragone tra la civile e democratica America USA e l'incivilissima e infernale dittatura della Russia di Putin.
Essa è uno dei pilastri dell'Occidente a cui guardano gli uomini da ogni parte del Mondo, come luogo dell'umanità e della dignità, della speranza e della libertà, della civiltà del progresso e della giustizia da cui si sentono naturalmente e comprensibilmente attratti anche gli ucraini.


Roberto Mezzina scrive
Alberto Pento questo è il pensiero che si legge sui libri di scuola e con il quale ci hanno fatto il lavaggio del cervello …


Alberto Pento risponde
Il lavaggio del cervello cone le demenziali ideologie antiamericane di sinistra, di destra, illiberali e cattoliche l'hanno fatto a te e a tanti come te con gravi danni al criterio di riconoscimento e di giudizio del bene e del male.
Le demenzialità, le menzogne e le calunnie contro gli USA e la NATO
viewtopic.php?f=143&t=3005
https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... 1061722663

Roberto Mezzina scrive
Alberto Pento non è questione di teorie antiamericane … ma di saper valutare e non credere alle favolette che si raccontano …. Le verità sono sempre più elaborate … oltre a questo se parliamo di seconda guerra mondiale … senza il sacrificio dei russi…. I tedeschi comandavano l Europa …. Ops .. già lo fanno scusa ho sbagliato … Ma dire che gli americani non sono santi e non fanno i nostri interessi ma i propri … non significa essere a favore di Putin …. Che comunque era Putin anche 2 anni fa ma quando aumentavamo i contratti del gas .. o quando tutti gli leccavano …… era sempre Putin .. non madre teresa di Calcutta …

Alberto Pento risponde
Roberto Mezzina
Se non fosse stato per gli USA e l'UK l'Europa continentale sarebbe finita nell'inferno totalitario dell'URSS e invece grazie a loro abbiamo avuto 70 anni di pace, di progresso, di sviluppo e di benessere e l'URSS si è disfatta (oggi il criminale del Cremlino vorrebbe rescuscitarla mescolata all'Impero zarista).
Poi le ricordo che l'URSS è stata aiutata dagli USA e dall'UK per combattere il nazismo tedesco:
https://it.wikipedia.org/wiki/Corridoio_persiano

Ecco chi è il suo idolo russo:
Il demenziale bullo nazifascista del Cremlino.
Il macellaio del Cremlino è un criminale assassino,
un brigante, un grassatore, un mafioso, un oligarca ladro e farabutto,
un suprematista e imperialista russo come gli Zar e Stalin.
Il bullo del Cremlino è un demenziale fallito,
fallito come uomo, come cristiano, come statista.
Questo bullo criminale con il suo Impero del male minaccia il Mondo di sterminio nucleare.
Il macellaio del Cremlino come ha detto Trump è un genio ma del male
e per questo verrà ricordato come un criminale assassino,
uno stupratore di popoli e di cristiani,
come Moametto, Hitler e Stalin,
come i peggiori dittatori e assassini della storia,
una vergogna dei cristiani e dell'umanità.
E come per lui vi sarà grande vergogna anche per tutti coloro che demenzialmente lo hanno eletto a eroe, a santo, a paladino, a messia, a redentore dei cristiani e dell'umanità.
Costui dovrà essere bannato dall'ONU (già bandito dal Consiglio per i Diritti Umani) e da tutti i paesi del Mondo Libero e condannato dalla Corte Internazionale dell'Aia per gravi crimini contro l'umanità (sono già iniziate le pratiche sia all'ONU che all'Aia), dovrà essere braccato e arrestato da tutte le polizie dei paesi civili, sulla sua testa si dovrà mettere una taglia adeguata vivo o morto e i paesi che gli daranno rifugio dovranno essere boicottati in tutto come si fece con l'Afganistan che diede rifugio al criminale Osama Bin Laden
https://it.wikipedia.org/wiki/Corridoio_persiano

Roberto Mezzina scrive
Alberto Pento pensa da solo non con le storielle degli altri .. avere fatto qualcosa di buono non significa farlo sempre a prescindere … comunque dai il nobel a bidè … se L ha preso Obama con 7 guerre impiantate ..lo prenderà anche lui magari …. Magari usando il nucleare … ah .. dimenticavo … gli unici che abbiano avuto il coraggio di usarla contro in altra nazione chi è ???? saluti non mi interessa parlare con chi dialoga con Wikipedia …


Alberto Pento risponde
Roberto Mezzina E meno male che la bomba atomica l'hanno avuta per primi gli USA perché se l'avessero avuta Hitler o Stalin probabilmente l'umanità sarebbe già scomparsa.
Agli USA solo grazie, tante grazie!
Le due bombe sul Giappone nazifascista che aveva attaccato gl USA e poi fatto milioni di morti in tutta l'Asia con la sua guerra imperialista, sono servite a far finire la guerra costringendo il Giappone ad arrendersi senza condizioni, altrimenti la guerra sarebbe andata avanti ancora chissà quanto causando molte altre vittime e distruzioni.
Solo Grazie agli USA!
Poi l'esperienza delle due bombe atomiche sul Giappone con le centinaia di migliaia di morti è servita all'umanità intera per evitare la guerra nucleare fino ai nostri giorni che solo il criminale nazifascista del Cremlino oggi minaccia di usare (assieme al suo gemello eterozigote Kim-Jong-un).
https://it.wikipedia.org/wiki/Crimini_d ... giapponesi

Roberto Mezzina scrive e poi banna Alberto Pento
Alberto Pento alzo le mani .. non sei obiettivo se giustifichi L utilizzo del nucleare e dunque non mi interessa parlare con te … saluti

Alberto Pento ripropone lo scambio di commenti o discussione.




Demenzialità dei nazi fascisti italiani a giustificazione dell'aggressione di Putin all'Ucraina e della sua politica imperialista e guerrafondaia

DALLA PACE ALLA GUERRA/ Così in 20 anni gli Usa hanno spinto la Ue contro la Russia
Paolo Raffone
02.05.2022

https://www.ilsussidiario.net/news/dall ... a/2333722/

All’inizio degli anni Duemila, Javier Solana, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune della Ue, disse chiaramente che non era più pensabile un rapporto tra la Nato e la Russia modellato sul rapporto tra la Nato e l’Unione Sovietica. Una volta terminata la Guerra fredda, era necessario identificare gli interessi comuni tra europei e russi. E visto che loro erano alla ricerca di una collocazione, bisognava creare “un sistema di sicurezza e di difesa comune fondato sugli interessi vitali di europei, russi e americani”.

Su queste basi, il 28 maggio 2002 a Pratica di Mare, nella base militare Nato, fu firmata la “Dichiarazione di Roma”, che sanciva la nascita di un Consiglio a 20 comprendente anche la Russia e che, pur ponendosi in primo luogo il compito di annientare il terrorismo internazionale (la ferita dell’11 settembre era ancora viva), era considerata propedeutica all’ingresso effettivo di Mosca nell’Alleanza atlantica.

Il 2003 segnò un cambio di passo americano. Mentre era ancora calda la stretta di mano tra Vladimir Putin e George W. Bush, gli Stati Uniti inaugurarono la strategia della “diplomazia vigorosa”, voluta da Dick Cheney: da un lato, si assecondava l’attivismo polacco con l’accelerata adesione alla Nato dei Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e di Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia (in base ai principi del 1995 sulle loro credenziali democratiche, sulla capacità di contribuire alla sicurezza collettiva e sul contributo che la loro adesione può apportare alla sicurezza e alla stabilità della zona euro-atlantica); dall’altro, l’invasione americana dell’Iraq con le sue tragiche conseguenze.

Per comprendere il cambio di passo americano, vale la pena ricordare che nel 1997, dopo l’adesione alla Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, l’allora senatore Joe Biden dichiarò che “annettere alla Nato gli Stati Baltici” sarebbe l’unica mossa che rischierebbe di provocare una “riposta vigorosa e ostile” da parte della Russia. Evidentemente, Biden era preoccupato della reazione russa alla firma del 9 luglio 1997 della Commissione Nato-Ucraina (Nuc), che poi nel 2014 fu essenziale per trasformare Euromaidan in una “piazza d’armi antirussa” (definizione del 30 marzo 2022 del capo delegazione russa, Vladimir Medinsky, durante i negoziati russo-ucraini). Biden, probabilmente, era anche a conoscenza della lettera del 1993 dell’allora presidente russo Boris Eltsin che, dopo un incontro con Lech Walesa, scriveva al presidente americano Bill Clinton: pur comprendendone le ragioni, l’allargamento della Nato ad Est “avrebbe potuto portare a incomprensioni nell’opinione pubblica e all’ostilità persino di circoli moderati, che avrebbero visto in queste mosse un tentativo per condannare la Russia a un nuovo isolamento”.

Era chiaro che per rendere accettabile a Mosca l’allargamento della Nato si dovevano trovare escamotages istituzionali per mascherare l’unilateralismo americano post 11 settembre, i doppi standard adottati da Washington in materia di sovranità, diritti e legalità internazionale, e l’abbandono statunitense di alcuni dei pilastri dell’ordine internazionale, tra cui l’uscita nel 2001 dal fondamentale trattato Abm che limitava le capacità di difesa missilistica e formalizzava, anche simbolicamente, il meccanismo della deterrenza nucleare. Per queste ragioni, preso atto che l’allargamento della Nato ai paesi dell’ex Patto di Varsavia era cosa fatta, nel 2004, il presidente della Commissione europea, Romano Prodi, scriveva che l’allargamento dell’Unione Europea a 10 dei 13 Paesi candidati (Cipro, Estonia, Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, Slovenia, Lettonia, Lituania, Malta, Slovacchia, perché Bulgaria, Romania e Turchia non soddisfacevano le condizioni necessarie per l’adesione, come stabilito nel Consiglio europeo di Copenaghen del dicembre 2002) è guidato dagli stessi motivi che ispirarono Jean Monnet, Robert Schuman e Konrad Adenauer dopo la Seconda guerra mondiale. Si tratta, scriveva Prodi, di estendere la pace, la stabilità, la democrazia e la prosperità, che l’Unione Europea ha sperimentato con tanto successo, all’intera area compresa tra il Mar Baltico, l’Adriatico e il Mar Nero.

La crisi finanziaria (americana) del 2008 e le sue conseguenze nel 2009 hanno contribuito a un nuovo cambio di passo degli Stati Uniti: da un lato, mentre la crisi finanziaria per gli Stati Uniti poteva rivaleggiare con quella degli anni Trenta, o almeno gettare un’ombra scura sul lungo periodo di crescita economica degli Stati Uniti dalla Seconda guerra mondiale, la Russia ha vissuto una crisi molto più profonda di quella degli anni 90, per di più aggravata dal prezzo del petrolio in costante discesa; dall’altro, il momento di indebolimento della Russia fu colto dagli Stati Uniti, nonostante i lucidi e lungimiranti consigli di dissuasione di Fiona Hill, approfittando del vertice Nato a Bucarest (2008) per invitare ufficialmente nell’alleanza militare Georgia e Ucraina. L’irritazione della Russia si fece subito sentire con l’intervento militare in Georgia.

L’allargamento della Nato fece coppia con una nuova e poderosa arma fiscale e monetaria: il Quantitative easing (Qe), cioè la decisione politica di facilitare l’aumento della quantità di moneta sostenendone il valore di cambio. Il combinato disposto allargamento della Nato/Qe ha mantenuto la Russia in una situazione di grave declino socioeconomico fino al 2014, l’anno delle Olimpiadi di Sochi, che segnò il momento del riscatto russo con la rivitalizzazione delle industrie e delle infrastrutture, facilitato anche dai ricavi del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 1 (inaugurato nel 2012).

La reazione americana fu immediata, in Ucraina. Infatti, non fu casuale che certi settori dell’apparato americano legati ai neocon e neolib (tra cui la famosa Victoria Nuland) assestarono nel febbraio 2014 un nuovo colpo alla Russia con il noto sostegno che trasformò la rivolta spontanea popolare di Euromaidan in una rivoluzione nazionalista ucraina, culminata con la fuga del presidente filorusso, l’ultra corrotto Viktor Janukovyč, e l’elezione del nazionalista filoatlantico Petro Poroshenko, che intendeva riconquistare la Crimea annessa dalla Russia nel marzo 2014 e combattere le forze pro-russe indipendentiste nelle due autoproclamate repubbliche del Donbass. La stessa Victoria Nuland in varie audizioni richieste dal Congresso americano (2016-2022) ha dovuto ammettere che sin dal 2013 gli Stati Uniti hanno finanziato “tutte” le formazioni di opposizione in Ucraina, inclusi vari gruppi paramilitari ultranazionalistici e neonazisti, e che da 2014 gli Stati Uniti e il Regno Unito finanziarono e attuarono il programma di formazione, addestramento e rifornimento delle forze armate ucraine nelle quali erano stati “riconvertiti” molti esponenti paramilitari.

Gli accordi e protocolli di Minsk del 2014 e 2015 promossi dall’Unione Europea con il coinvolgimento di Francia e Germania e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) non colsero che dal febbraio 2014 si era verificato un cambio di passo nell’architettura di sicurezza europea. Infatti, la strategia di pace e prosperità dell’allargamento dell’Unione Europea fu, da quel momento, subordinata alla strategia americana che tramite la Nato assicurava la “profonda cooperazione” dell’Ue (si veda la Joint Declaration Eu-Nato del 2016, poi riaffermata e rinforzata nel 2018). Il cambio di passo significava che, come settant’anni prima, è l’America che fa l’Europa.

L’ex ministro della difesa tedesca (2013-2019) Ursula von der Leyen, nel suo discorso di insediamento del 2019, prometteva che la sua Commissione europea aveva come obiettivo di “proteggere il nostro stile di vita europeo, un’Europa più forte nel mondo e una nuova spinta per la democrazia europea”. Complice la tumultuosa presidenza americana di Donald Trump e la gravità della pandemia Covid-19, nel 2020 Ursula von der Leyen operò una metamorfosi, cambiando il discorso dell’insediamento nel concetto di “autonomia strategica” dichiarando la sua intenzione di avere una “Commissione geopolitica”: i membri della Commissione, tra cui Josep Borrell e Thierry Breton, affermarono che il soft power dell’Europa doveva essere integrato da una dimensione di potere più dura.

L’Operazione militare speciale della Russia in Ucraina, lanciata con l’invasione delle forze armate russe il 24 febbraio 2022, ha imposto un ulteriore cambio di passo della strategia dell’Unione Europea, che ha risposto risolutamente attivando i fondi e i meccanismi programmati nel 2021: adozione rapida di misure per sostenere finanziariamente l’Ucraina e la crisi umanitaria; invio di armamenti al governo ucraino nel rispetto del principio dell’autodifesa sancito dall’articolo 51 della Carta Onu; applicazione di contromisure economiche molto restrittive alla Russia (presentate come sanzioni, ma che tecnicamente sono ritorsioni e forme di embargo). Evidentemente, è stata un’inaugurazione della “Commissione geopolitica” in un’inedita unitarietà d’azione attorno a una strategia coordinata con e dagli Stati Uniti.

D’altra parte, non si può dimenticare che gli Stati Uniti, in forza della leadership che esercitano sul continente europeo, bilateralmente e attraverso la Nato, “lungi dall’essere il fuoco della guerra in Europa sono l’argine vero contro l’estensione del conflitto nel continente che storicamente è stato tormentato per secoli da lunghi massacri tra vicini”. La sintesi mediana d’azione finora trovata dall’ambiziosa “Commissione geopolitica” non risolve la scomposizione d’interessi e percezioni degli Stati europei che restano divisi tra posizioni inconciliabili e capaci di odiose alleanze a geometria variabile: la difesa dello statu quo con la Russia per perpetuare i benefici energetici ed economici; la rabbiosa e atavica avversione alla Russia; la scelta di campo pro-americana o pro-russa a prescindere dai vantaggi/perdite.

Indubbiamente, il 2022 ha segnato un profondo cambio di passo dell’Ue rispetto all’impostazione dei primi anni Duemila: “per noi europei si è esaurita la lunga stagione di pace”, ha dichiarato Giuliano Amato, che ha aggiunto di “avvertire il peso di un fallimento europeo e dell’intero Occidente” per non aver fatto nulla per costruire la pace in Europa seguendo l’impostazione strategica del 2002. Si è tornati alle modalità della Guerra fredda nella quale la leadership è americana e l’Europa occidentale è al suo seguito.

Anche padre Antonio Spadaro SJ di Civiltà Cattolica esprime dubbi pesanti sull’impostazione dell’Europa geopolitica che pare muoversi secondo il manicheismo che distingue (col coltello) l’impero del bene e l’impero del male: noi e loro. Una retorica eretica della civiltà dello scontro metafisico e necessario, al quale non si risponde con l’equidistanza, ma con la volontà di risolvere i conflitti, non di vincere sull’altro.

Confondere le due cose è davvero fatale. Spostare tutto il male da un lato e tutto il bene dall’altro è operazione che trasforma la politica in religione. È l’operazione metafisica promossa dal Patriarca Kirill, che noi ora rischiamo di replicare dall’altra parte.

Dunque, una cosa è la scelta di campo e un’altra il manicheismo. Se la scelta di campo politico diventa credo religioso, individuando l’impero del bene dei valori puri incarnato in terra, conclude Spadaro, allora questo non serve affatto a negoziare, ma solo ad esacerbare il conflitto, una volta che è divenuto metafisico.

In questa situazione, gli Stati europei hanno annunciato un generale riarmo al 2% del Pil con l’eccezione tedesca, annunciata dal cancelliere Olaf Scholz, di un punto di svolta (Zeitenwende) per la difesa tedesca, che beneficerà di un fondo di oltre 100 miliardi di euro. Quale sia l’effettiva direzione strategica di tutto questo riarmo non è al momento chiara. L’eco dell’estate del 1914 è assordante!

Intanto, il 26 aprile gli Stati Uniti hanno convocato a Ramstein (simbolicamente, una base americana in Germania/Ue) un vertice di coordinamento logistico per l’invio degli armamenti all’Ucraina. Piuttosto è sembrato un “consiglio di guerra” dei volenterosi, per contare numericamente la forza politica della leadership americana. Un vertice che va al di là dei rituali e della portata effettiva della Nato, il famoso Occidente a guida americana ha raccolto una quarantina di paesi contro il resto del mondo, che è la maggioranza per popolazione, crescita e numero. Il messaggio del segretario alla Difesa americano è stato finalmente chiarissimo: “la guerra in Ucraina è una guerra americana contro la Russia per indebolirla e rendere impossibili le sue offensive” (probabilmente, la strategia americana a lungo termine riguarda le attività della Russia in Medio Oriente e nel Sahel ma soprattutto nell’Artico. La presidenza di turno del Consiglio dell’Artico è della Russia fino al 2023 e dal 3 marzo scorso, una settimana dopo l’inizio del conflitto ucraino, tutti i cinque membri non russi si sono autosospesi quindi il Consiglio non opera più). Questo è chiaramente l’obiettivo americano che segna l’emarginazione dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri, che stanno subendo una guerra sul loro territorio (a loro insaputa) e senza obiettivi comuni.

Rimane la gravità dell’azione delle autorità governative nazionali ed europee che non hanno spiegato ai loro popoli, e Parlamenti, quali saranno le conseguenze in caso di vittoria o sconfitta in questa guerra. Il 28 aprile, il presidente americano Biden ha annunciato un ulteriore piano di assistenza militare all’Ucraina per 33 miliardi di dollari, approvato dal Congresso con una legge che velocizza i rifornimenti. Ad oggi, dopo circa due mesi dall’inizio del conflitto, il totale degli aiuti militari americani all’Ucraina totalizzano 47 miliardi di dollari. Le retoriche contrapposte americane e russe ci dicono che “l’Ucraina vincerà” e che “la Russia non può perdere”. L’Europa sonnambula scivola nella follia del Giano bifronte!



Alberto Pento
Quante demenzialità che scrive questo. I liberi e sovrani paesi europei UE e non UE avevano e hanno il pieno diritto di scegliere di associarssi o meno alla NATO che è una libera associazione di stati a scopo difensivo.
Al contrario la Federazione russa non è una libera associazione di Stati ma una associazione forzata come è evidente nella politica imperialista e suprematista russa da venti anni a oggi.

Associarsi e armarsi per difendersi rientra pienamente nella libertà delle persone e dei paesi, è legittima difesa preventiva che non comporta alcuna aggressione di chichessia, alcuna violazione di leggi naturali e di trattati politici internazionali.
Diversamente aggrediree il prossimo perché liberamente si associa e si arma per difendersi se necessario, non rientra nell'ambito della legittima difesa ma è una vera e propria aggressione criminale che non ha alcuna giustificazione etica e giuridica ma che rientra a pieno titolo nei comportamenti criminali dei delinquenti comuni e politici spiegabile con la logica paranoica del criminale che come tale si sente colpevole e agisce preventivamente contro la potenziale vittima che si sta organizzando per difendersi o per cacciare il delinquente e renderlo innoffensivo o per assicurarlo alla giustizia.



Le guerre imperialiste e suprematiste di Putin

Dalla Cecenia nel 1999, le prime settimane di Putin primo ministro, con la strage al mercato della capitale cecena Grozny e le bombe sulla colonna di profughi ai bombardamenti sulla Siria che hanno provocato
8 marzo 2022

https://www.vita.it/it/article/2022/03/ ... do/162111/

centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Passando dagli sconfinamenti aggressivi in Georgia, Crimea e Kazakhinstan

La passione per la guerra a Putin inizio poche settimane dopo essere stato indicato come primo ministro e suo successore da Eltin nel 1999. La Cecenia, piccola repubblica caucasica perseguiva l’indipendenza da Mosca dal 1991 la ottenne solo Il 30 agosto 1996 con la firma degli Accordi di Khasavyur.

Il 9 agosto del 1999 Putin viene indicato da Eltsin come nuovo premier, e come suo successore in vista delle elezioni presidenziali previste l’anno successivo. Putin si sarebbe insediato ufficialmente solo il 16 agosto, ma da subito agì come fosse già nel pieno delle sue funzioni risolvendo la crisi daghestana (gli islamici ceceni avevano occupato la parte settentrionale del Daghestan, territorio russo) entro due settimane. Restava però da porre rimedio allo smacco del ’96, e non perse tempo. Ebbe gioco facile a riaprire le ostilità con la Cecenia anche per via degli attentati esplosivi che colpirono tra il 4 e il 16 settembre del 1999 diverse edifici residenziali a Mosca e nelle città meridionali di Buynaksk e Volgodonsk. I morti furono 307. Alcune evidenze suggerirono che a mettere le bombe sarebbe stato il servizio segreto federale, per incolpare gli insorti ceceni. Tra chi supportò questa versione dei fati ci furono la giornalista Anna Politkovskaya, uccisa a colpi di pistola nell’ascensore del suo condominio il 7 ottobre 2006, e l’ex agente segreto Alexander Litvinenko, morto per avvelenamento il 4 dicembre dello stesso anno.

Il 1 ottobre 1999 Putin diede inizio a una nuova, feroce e brutale, offensiva di terra e di aria sulla Cecenia. I militari russi non si facevano scrupoli a colpire la popolazione civile. L’episodio più noto avvenne il 21 ottobre, quando un missile russo bersagliò il mercato della capitale cecena Grozny: morirono 140 persone, tra cui donne e bambini, centinaia furono ferite. Otto giorni dopo un aereo russo bombardò un convoglio di profughi, tra i 25 morti c’erano volontari della croce rossa e giornalisti. Emersero racconti di stupri e violenze sulla popolazione civile, di stragi a sangue freddo.

Il 31 dicembre 1999, a guerra ancora in corso, Boris Eltsin, malato e screditato per i suoi problemi di alcolismo, si dimise e Putin assunse l’interim. Le elezioni anticipate, svoltesi nel marzo 2000, lo confermeranno al Cremlino con il 53% dei voti. Giurò come presidente il 7 maggio 2000, un mese dopo insediò un uomo di fiducia a capo dell’amministrazione cecena. Le polemiche sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia andarono avanti per qualche tempo, ma la Comunità internazionale non intraprese alcuna azione a riguardo.

Non c’è da stupirsi. Il Caucaso non era infatti l’unico scenario bellico che vedeva impegnata la Russia: da un anno faceva parte, insieme ai paesi Nato, della Kosovo Force (Kfor), l’operazione di peacekeeping nell’ultima delle guerre balcaniche iniziate un quasi un decennio prima.

I rapporti della Russia con i paesi atlantici sarebbero rimasti buoni a lungo, tanto che nel 2007 il G7, il gruppo dei paesi più industrializzati del mondo di cui fa parte anche l’Italia, si allargò alla Russia diventando G8.

Putin restò presidente fino al 2008: allora la costituzione della Federazione non consentiva un ulteriore mandato, così al Cremlino salì il suo stretto collaboratore Dmitrij Medvedev, mentre Putin fu nominato primo ministro, mantenendo di fatto ben salde in mano le leve del potere.

In questa fase, si accese un'altra crisi nel Caucaso. La Georgia, che faceva parte della Comunità degli stati indipendenti, l’organizzazione internazionale che raggruppava buona parte delle ex repubbliche sovietiche, cercava da tempo di affrancarsi dall’influenza di Mosca, ma doveva fare i conti con le regioni russofile dell’Abkhazia dell’Ossezia del Sud, con cui vigeva un precario cessate il fuoco dopo tre anni di scontri terminati nel 1994 e che nel frattempo avevano raggiunto un’autonomia de facto.

La notte del 7 agosto 2008 la Georgia bombardò la capitale sud-osseta Tskhinvali provocando centinaia di morti e enormi distruzioni. L’indomani Mosca intervenne a fianco dei secessionisti e la Georgia dichiarò lo stato di guerra, nei giorni successivi il conflitto si allargò in Abkhazia. Con la mediazione dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy il 12 agosto fu raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco. Due settimane dopo Mosca riconobbe l’indipendenza delle due repubbliche separatiste, facendo leva sul riconoscimento del Kosovo di pochi mesi prima da parte di numerosi stati: di nuovo, Putin si avvalse di quel che avveniva nel conflitto balcanico per rafforzare la sua posizione nel Caucaso.

Putin si ricandidò alla presidenza alle elezioni del 4 marzo 2012, vincendole con il 64% dei voti. Da allora è sempre stato presidente, due anni fa ha anche ottenuto la riforma costituzionale che gli consente di candidarsi per altri due mandati e restare al Cremlino potenzialmente fino al 2035.

Due anni dopo, nel 2014, mentre si chiudevano le Olimpiadi invernali che per la prima volta si tenevano in Russia, a Sochi, si infiammò l’Ucraina: la tendopoli pro-Ue di piazza Maidan a Kiev, gli scontri, il governo filo-russo di Yanukovic rovesciato. La reazione di Putin fu mandare soldati russi senza mostrine né a bandiere a occupare militarmente la penisola di Crimea, annettendola ufficialmente il 18 marzo. Le conseguenze di questi fatti, e dei lunghi anni di guerriglia separatista in Donbass sono la tetra cronaca di questi giorni.

Negli otto anni passati da quei fatti i rapporti con l'Occidente si sono guastati, il G8 non si è mai più riunito, l'Occidente ha opposto all'espansionismo di Mosca le prime sanzioni, molto meno pesanti di quelle attuali.

Frattanto, Putin ha continuato a fare la guerra, in altri scenari. A settembre 2015 la Russia entra attivamente nel conflitto in Siria, a fianco del governo di Bashar Assad e contro le fazioni ribelli, che dopo oltre quattro anni di conflitto, erano finite per essere egemonizzate da gruppi islamisti radicali. L’intervento russo fu determinante nel permettere al regime di Damasco dato per prossimo alla sconfitta, di riconquistare gran parte del paese a spese della popolazione civile massacrata dai bombardamenti. In Siria in 11 anni di guerra ci sono stati più di 400mila morti e 11 milioni di profughi. Troppe immagini di questi primi 13 giorni di aggressione all’Ucraina sono simoli alle immagini che negli anni scorsi arrivavano dalla Siria, le città rase al suolo, i civili uccisi sull’asfalto.

Il penultimo intervento militare russo, prima dell'aggressione all'Ucraina, risale solo a due mesi fa, quando con tutta probabilità i piani per l’invasione dell’Ucraina erano già in fase avanzata, e ha riguardato un’altra enorme repubblica ex sovietica, il Kazakhinstan . Lo scorso gennaio Putin ha inviato le forze armate ad aiutare il presidente Kassym-Jomart Tokayev a far rientrare i violenti moti di protesta innescati dall’aumento dei prezzi dell’energia. Anche qui Mosca ha avuto il suo tornaconto: cementare i rapporti non solo con il Kazakhistan e altri stati asiatici nati dalla dissoluzione dell’Urss, ma anche con la Cina, interessata al mantenimento degli equilibri regionali. E Pechino, di fronte all’invasione dell’Ucraina, ha mantenuto un approccio morbido e dialogante.


Le guerre di Putin: dalla Cecenia alla Georgia, tutti i conflitti della Russia dopo la fine dell'Unione Sovietica
Enrico Franceschini
10 marzo 2022

https://www.repubblica.it/esteri/2022/0 ... 340897694/

Quando crollò l’Unione Sovietica, nel 1991, sembrò che l’evento fosse avvenuto senza atroci spasmi, senza violenza, senza sangue. Certo, negli anni precedenti la repressione dell’Armata Rossa nel Baltico e nel Caucaso aveva causato vittime; e anche nel fallito golpe contro Mikhail Gorbaciov nell’estate di quello stesso anno avevano perso la vita tre giovani saliti sulle barricate per ostacolarlo.

Ma la scomparsa dell’Urss, formalizzata a dicembre, facendo sorgere al suo posto quindici nazioni indipendenti compresa la Russia, era stata una faccenda per lo più indolore. Si diceva che la Rivoluzione del 2017, al di là della retorica un golpe della minoranza bolscevica pressoché incruento e circoscritto a Pietrogrado, come si chiamava allora l’ex-San Pietroburgo e la futura Leningrado, era stata comunicata al resto dell’impero degli zar “con un telegramma”: e la fine di quel colossale e per molti versi mostruoso esperimento chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era stata simile.

“Abbiamo detto troppo presto che l’Urss era implosa senza spari e senza sangue”, commenta in questi giorni, di fronte alla brutale invasione russa in Ucraina, un diplomatico italiano che era a Mosca in quei giorni di trenta e passi anni fa. Del resto, dopo la rivoluzione del ’17 venne una spaventosa guerra civile fino al 2022, che ebbe per epicentro, corsi e ricorsi della storia, la guerra tra rossi e bianchi proprio in Ucraina. In modo analogo, nei tre decenni trascorsi dalla scomparsa dell’impero sovietico, di sanguinosi conflitti ce ne sono state tanti. Ecco quali sono state le guerre di Vladimir Putin.

Ha cominciato Putin a lanciare iniziative militari, dopo il crollo dell’Urss?

No. Già sotto Boris Eltsin, presidente della Russia, di fatto il successore di Gorbaciov e il predecessore di Putin, Mosca ha mandato le sue truppe a combattere in altre ex-repubbliche sovietiche, per reprimere rivolte o partecipare a conflitti locali: in Georgia nel ’91-’93, in Moldavia nel ’92 (dove si consolidò la Repubblica di Transnistria, un eclave russofono tuttora fedele alla Russia e separato dal resto della piccola nazione), in Inguscezia (una regione russa ai confini del Caucaso) sempre nel ’92, in Tagikistan nel ’92-’97, e soprattutto nella prima guerra cecena nel ’94.’96, quando Eltsin tentò di piegare la ribellione separatista della Cecenia, regione autonoma che produce l’1 per cento del petrolio russo e dunque di cruciale importanza.

L’ultimo conflitto ordinato da Eltsin fu in un’altra regione autonoma separatista russa, il Daghestan, nell’agosto ’99, ma è il caso di notare che dal mese prima al Cremlino, come primo ministro, c’era già anche Putin, che sarebbe diventato presidente a interim, su designazione di Eltsin, il 31 dicembre, poi confermato da un voto popolare tre mesi più tardi.

Dunque quale è stata la prima guerra di Putin?

La seconda guerra cecena, anche quella in realtà iniziata nell’estate del ’99 quando Putin era primo ministro, ma andata avanti con una ferocia senza precedenti fino al 2000 e poi ancora con operazioni limitate contro la guerriglia cecena fino al 2009. La capitale cecena Grozny (che in russo significa “la terribile”, nome imposto dagli zar dopo una guerra dei secoli precedenti) fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti russi: un modello per quello che Putin ha fatto in seguito ad Aleppo, in Siria, e per quanto sta facendo in Ucraina. Usando la forza senza limiti, e corrompendo alcuni capi ceceni per portarli dalla propria parte, Putin riuscì a vincere un conflitto che sembrava irrisolvibile.

C’è da notare che a scatenare la seconda guerra cecena o meglio l’attacco russo, violando accordi firmati dopo la prima guerra, furono una serie di attentati che fecero centinaia di morti a Mosca: vari osservatori, tra cui il difensore dei diritti umani Sergej Kovalev e l’ex-agente del Kgb Aleksandr Litvinenko (più tardi assassinato a Londra con il polonio radioattivo nel tè da agenti collegati al Cremlino), sostengono che fu l’Fsb, il servizio segreto russo erede del Kgb sovietico, del quale Putin aveva fatto parte per sedici anni e di cui era stato il capo prima di diventare premier e presidente, a mettere le bombe in edifici di civili, per accusare poi “terroristi ceceni”, suscitare indignazione nella popolazione russa e avere una scusa per ricominciare la guerra con metodi più duri di prima. Si calcola che ci furono tra 50 mila e 80 mila morti.

Ma la prova generale per l’invasione dell’Ucraina è stata un’altra?

Sì, è stata la guerra in Georgia nel 2008. Le somiglianze sono impressionanti. Un governo filo-occidentale, che era stato eletto democraticamente a Tbilisi al posto di uno filo-russo, aveva chiesto di entrare nella Nato per proteggersi dall’onnipresente minaccia di Mosca. Putin reagì invadendo due regioni autonome georgiane, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, dove un conflitto a intermittenza era in corso fin dai tempi dell’Urss, ufficialmente giustificando l’intervento con la necessità di proteggere la popolazione delle due regioni, a maggioranza russa, da discriminazioni del governo georgiano.

Da allora Abkhazia e Ossezia del Sud sono praticamente sotto il controllo del Cremlino e a Tbilisi, come risultato della guerra, si è insediato un governo di nuovo filo-russo. Tuttavia di fronte all’invasione dell’Ucraina ci sono state in Georgia manifestazioni di protesta talmente massicce contro Mosca da indurre l’attuale governo a chiedere, proprio nei giorni scorsi, l’adesione all’Unione Europea, sebbene i commentatori ritengano che si tratti più di una mossa politica per calmare la piazza che di una intenzione reale, poiché il procedimento di adesione richiederebbe comunque molti anni e non è chiaro come si concluderebbe, specie con due aree della Georgia ancora in stato di guerra contro Tbilisi. Un caso da manuale di quello che Putin ha fatto successivamente in Ucraina a partire dal 2014 a oggi.

Come si è svolta la “prima guerra” contro l’Ucraina, se così si può definire?

Con le stesse ragioni usate per l’intervento in Georgia, la protezione della minoranza russa, e le medesime motivazioni reali, impedire la richiesta di adesione alla Nato presentata dal governo filo-occidentale eletto a Kiev dopo un governo filo-russo, Putin ha invaso con le proprie truppe la penisola della Crimea, annettendola quasi immediatamente, e ha usato forze non regolari ma controllate dal Cremlino per invadere parte del Donbass, le regioni autonome di Donetsk e Lugansk, la zona mineraria dell’Ucraina che confina con la Russia ed è storicamente da sempre abitata in prevalenza da una popolazione di etnia e lingua russa. Quella “prima guerra ucraina” ha fatto 7 mila morti e decine di migliaia di feriti, suscitando in Occidente proteste un po’ più forti di quelle che avevano accompagnato l’invasione russa della Georgia nel 2008, ma non abbastanza forti da impensierire Mosca o da causare danni alla sua economia.

Perché la “seconda guerra” contro l’Ucraina è scoppiata proprio ora?

Ci sono varie ipotesi. In Ucraina la situazione era praticamente invariata rispetto al 2014. Ma altrove sono successe cose che possono avere spinto Putin a decidere che fosse il momento giusto per prendersi tutta l’Ucraina o perlomeno per prendersene un pezzo e installare un governo fantoccio a lui fedele nella parte che rimane formalmente indipendente: l’imbarazzante ritiro americano dall’Afghanistan; la Brexit che ha indebolito e diviso l’Europa, separando il Regno Unito dall’Unione Europea; un cancelliere appena insediato in Germania dopo il lungo governo di Angela Merkel; le imminenti elezioni presidenziali in Francia, potenziale distrazione per Parigi. La convinzione, insomma, di poterla fare franca, con una facile vittoria militare sul campo e senza pagare un prezzo troppo alto in sanzioni occidentali.

Ci sono state altre avventure militari sul fronte interno nell’era Putin?

Insurrezioni in varie regioni del Caucaso settentrionale, tra il 2009 e il 2017, hanno provocato l’intervento delle forze russe: non solo in Cecenia, come già detto, ma anche in Daghestan, Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Ossezia del Nord. Inoltre Putin ha inviato truppe in Bielorussia e Kazakistan, l’anno scorso e quest’anno, per aiutare il regime autoritario locale a reprimere vaste rivolte popolari, così rimettendo sotto il controllo di Mosca anche quelle due ex-repubbliche sovietiche.

Nel frattempo Putin è entrato in guerra anche all’estero?

Sì, in Siria, in Libia, nella Repubblica Centroafricana, nel Mali, in modo diretto e manifesto oppure occulto, attraverso il dispiegamento del Gruppo Warner, unità di soldati mercenari che in realtà secondo molto osservatori dipendono dal ministero della Difesa e dal ministero degli Interni russo. Ma pure l’Unione Sovietica ha partecipato direttamente o indirettamente a numerosi conflitti durante la guerra fredda, dalla guerra di Corea a quella del Vietnam.

Le guerre di Putin nell’ex-Urss, in conclusione, sono una cosa diversa?

Le guerre di Putin nei territori dell’ex-Urss hanno un altro significato: sono la coda sanguinosa e violenta del crollo dell’Unione Sovietica, il tentativo di Mosca di riprendersi quello che considera suo. L’ossessione del capo del Cremlino: riparare “la più grande tragedia geopolitica del ventunesimo secolo”, come lui definisce la fine dell’impero dei Soviet, che altri leader e altri popoli consideravano invece la liberazione da una dittatura durata settant’anni, il tramonto dell’ultimo impero multi-etnico della terra.
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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:07 am

Tutte le guerre di Putin dal 1999 all'Ucraina di oggi
Barbara Massaro
30 marzo 2022

https://www.panorama.it/news/dal-mondo/ ... na-di-oggi

Da quando lo scorso 24 febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina dichiarando, di fatto, guerra all’Occidente (attraverso la Nato) i riflettori del mondo sono tornati a puntare – ancora una volta- sulla cosiddetta polveriera balcanica.

Dal crollo dell’ex Unione Sovietica, infatti, l’intero territorio è stato soggetto a una serie di conflitti, tensioni, guerre e battaglie che – purtroppo - nulla hanno da invidiare al mezzo secolo di Guerra Fredda che ha contrapposto l’Occidente all’ex blocco comunista, contrapposizione, di fatto, mai risolta.

Più o meno sono una ventina i conflitti armati cui la Russia post URSS ha partecipato negli ultimi 30 anni e la maggior parte di questi ha il sigillo della Z di Putin in calce.

A riavvolgere a ritroso il nastro della storia dalla fine dell’URSS la Russia ha firmato una guerra ogni 18 mesi; conflitti giustificati dalla necessità di ristabilire la pace, di sostenere fazioni filo russe o di aiutare alleati in difficoltà, ma in realtà guerre che mal celano il desiderio russo di tornare a dominare l’intero territorio che si snoda al di là degli Urali e di sedare le spinte centrifughe della costellazione di repubbliche nate dal crollo dell’URSS.

La fine dell’era Eltsin

All’alba dell’era Eltsin i cannoni puntati sulla Georgia hanno portato allo scoppio della prima guerra cecena (1994-1996) un genocidio finito con un armistizio che non piaceva a Mosca. Dopo la fine ufficiale degli scontri a fuoco la Cecenia si è trasformata in un far west dove mafia, corruzione e criminalità impedivano il ritorno di qualsivoglia forma di controllo pubblico sul paese. Putin, al momento della sua ascesa al Cremlino – 9 agosto 1999 - senza esitazione, ha preso in mano lo scettro del potere e la guerra è stata la lingua attraverso la quale lo Zar ha regolato le sue relazioni internazionali sia con l’Occidente sia con la costellazione delle repubbliche ex sovietiche.

Il terreno Putin se lo stava coltivando bene già da un pezzo. Gioco facile per l’ex tenente colonello del Kgb arrivato a Mosca nel 1996 per ricoprire la carica di capo delegato per la gestione della Proprietà presidenziale. Eltsin allora, alcolizzato e malato, stava affondando la neonata federazione russa con una politica economica scellerata che aveva ridotto i russi in uno stato di povertà assoluta permettendo il dilagare di corruzione e criminalità.
La seconda guerra cecena: 1999-2009

E così Putin ha visto bene di chiudere la questione cecena sedando ogni spiraglio indipendentista della piccola repubblica caucasica. L’occasione è stata fin troppo ghiotta. L’8 agosto 1999 – giorno prima dell’insediamento ufficiale di Putin – erano state inviate truppe russe nella regione caucasica del Daghestan, una della 85 entità amministrative che componevano la Federazione russa per sedare la guerriglia islamista cecena che aveva occupato quattro villaggi. Due giorni dopo i 4 villaggi avrebbero dichiarato l’indipendenza dando il là al via della marcia russa sulla Cecenia. Dopo 4 settimane il Daghestan era riconquistato. Meno di un mese dopo una serie di attentati sospetti a Mosca e in altre città russe furono imputati alle milizie filo islamiste cecene e furono il bottone rosso schiacciato per avviare la macchina da guerra di Putin. Certo, come dimenticare che la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia Alexander Litvinenko rivelarono come ci fosse l’Fsb, l’ex Kgb, dietro quegli attentati, ma Anna e Alexander vennero ammazzati e con loro anche la verità sull’inizio del massacro ceceno.

L’offensiva russa fu brutale. L’episodio più noto fu la pioggia di bombe sul mercato di Grozny, capitale cecena, il 21 ottobre 1999. Morirono 140 civili, per lo più donne e bambini. Durante un decennio la Russia mosse la sua crociata contro il terrorismo ceceno massacrando la popolazione in nome del ritorno all’ordine. L'esatta stima delle perdite di questa guerra è tuttora sconosciuta, anche se fonti non ufficiali contano un numero di circa 25.000 - 50.000 vittime tra morti, feriti e dispersi, molti dei quali tra i civili.
Il fronte kosovaro

Mentre il fronte ceceno rimaneva aperto Putin (che nel frattempo, nel 2000, era stato confermato al Cremlino con il 53% dei voti) aveva già deciso che la seconda questione da chiudere era quella kosovara. Mosca da un anno faceva parte, insieme ai paesi Nato della Kosovo Force, un’operazione di peacekeeping volta a trovare una soluzione alle tensioni belliche in corso da un decennio tra gli indipendentisti filo albanesi e i fedeli Ortodossi filo serbi vicini alla Russia. Se però i paesi Nato puntavano a favorire l’indipendentismo albanese, il peso sulla Kosovo Force e soprattutto il timore di incendiare un’altra volta la polveriera balcanica hanno determinato la scelta di appoggiare gli ortodossi a scapito degli albanesi. In questo periodo la Russia si è avvicinata tanto all’Occidente da entrare a far parte del G8.

La prima guerra del nuovo millennio: la Georgia

La prima guerra del XXI secolo è rapidissima e violenta. La Georgia cercava da tempo di liberarsi dall’influenza di Mosca, ma per farlo avrebbe dovuto affrancarsi dalle regioni russofile dell’Abkhazia dell’Ossezia del Sud. E così la notte del 7 agosto 2008 la Georgia bombardò la capitale sud-osseta Tskhinvali provocando centinaia di morti e enormi distruzioni.

Mosca non aspettava altro: la mattina dopo la Russia intervenne a fianco dei secessionisti e la Georgia dichiarò lo stato di guerra, nei giorni successivi il conflitto si allargò in Abkhazia. Con la mediazione dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy il 12 agosto fu raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco.

Due settimane dopo Mosca riconobbe l’indipendenza delle due repubbliche separatiste.

In quel periodo in realtà al Cremlino la poltrona presidenziale era occupata da Medvedev, stretto collaboratore di Putin. L’ex presidente non aveva potuto ricandidarsi per la terza volta perché non previsto dalla costituzione. Putin era rimasto, però, al Cremlino in qualità di primo ministro ma, di fatto, non aveva mai perso le redini del potere. Alle presidenziali del 4 marzo 2012 Putin si ricandidò vincendo a mani basse con il 64% dei voti. Da allora è sempre stato presidente e ha visto bene di mettere mani alla costituzione garantendosi la poltrona almeno fino al 2035.

Mosca e le guerre degli altri

Oltre ai conflitti diretti intrapresi da Mosca c’è anche da tenere conto delle volte in cui il Cremlino ha fornito appoggi più o meno indiretti a conflitti in corso determinandone la sorte come nel caso della Siria. Putin scese in campo a gamba tesa a favore del Presidente Assad in un momento che, il numero uno siriano, ormai fiaccato avrebbe perso a breve le redini del Paese. Dopo undici anni di guerra, 400mila morti, undici milioni di profughi grazie a Putin il dittatore di Damasco riuscì a ribaltare il fronte e a ricacciare fazioni ribelle e jihadisti.

Ripercorrendo tutti gli interventi armati di questi decenni Putin con le sue armate era sempre presente dalla contesa del Batken fra kirghizi e tagiki (1999), agli scontri etnici nel sud del Kirgizistan (2010) il Cremlino ha utilizzato la guerra come canale di comunicazione del suo potere sul mondo
La guerra in Crimea 2014

Per capire come si è arrivati alla guerra in Ucraina di queste settimane bisogna però ricordare quanto accaduto a Sochi, in Russia, nel 2014 durante lo svolgimento dei primi giochi olimpici in territorio russo della storia. In quell’occasione gli scontri presso la tendopoli pro-Ue di Maidan a Kiev provocarono il ribaltamento del governo filo-russo di Yanukovic.

La reazione di Putin – come sempre immediata - fu quella di mandare soldati russi senza mostrine né bandiere – i cosiddetti mercenari del Gruppo Wagner - a occupare militarmente la penisola di Crimea, annettendola ufficialmente il 18 marzo.

Le conseguenze di questi fatti, con gli anni di guerriglia separatista nel Donbass e i mercenari a orologeria intervenuti sullo scacchiere sono la premessa delle bombe di oggi su Kiev.

Il penultimo intervento militare russo risale solo a due mesi fa, quando Putin è intervenuto a favore dell’enorme area ex sovietica del Kazakhstan. A gennaio (e i piani per l’Ucraina erano già in fase di avanzata composizione) il Cremlino ha inviato le forze armate ad aiutare il presidente Kassym-Jomart Tokayev a far rientrare i violenti moti di protesta innescati dall’aumento dei prezzi dell’energia. Una mossa astuta che ha permesso a Mosca di sedare il clima teso nella zona e mantenere gli equilibri della regione come richiesto dalla vicina Cina che, guarda caso, oggi si dimostra morbida e dialogante sul tema Ucraina..



Le guerre di Putin: dalla Cecenia alla Georgia, tutti i conflitti della Russia dopo la fine dell'Unione Sovietica
Enrico Franceschini
10 marzo 2022

https://www.repubblica.it/esteri/2022/0 ... 340897694/

Quando crollò l’Unione Sovietica, nel 1991, sembrò che l’evento fosse avvenuto senza atroci spasmi, senza violenza, senza sangue. Certo, negli anni precedenti la repressione dell’Armata Rossa nel Baltico e nel Caucaso aveva causato vittime; e anche nel fallito golpe contro Mikhail Gorbaciov nell’estate di quello stesso anno avevano perso la vita tre giovani saliti sulle barricate per ostacolarlo.

Ma la scomparsa dell’Urss, formalizzata a dicembre, facendo sorgere al suo posto quindici nazioni indipendenti compresa la Russia, era stata una faccenda per lo più indolore. Si diceva che la Rivoluzione del 2017, al di là della retorica un golpe della minoranza bolscevica pressoché incruento e circoscritto a Pietrogrado, come si chiamava allora l’ex-San Pietroburgo e la futura Leningrado, era stata comunicata al resto dell’impero degli zar “con un telegramma”: e la fine di quel colossale e per molti versi mostruoso esperimento chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era stata simile.

“Abbiamo detto troppo presto che l’Urss era implosa senza spari e senza sangue”, commenta in questi giorni, di fronte alla brutale invasione russa in Ucraina, un diplomatico italiano che era a Mosca in quei giorni di trenta e passi anni fa. Del resto, dopo la rivoluzione del ’17 venne una spaventosa guerra civile fino al 2022, che ebbe per epicentro, corsi e ricorsi della storia, la guerra tra rossi e bianchi proprio in Ucraina. In modo analogo, nei tre decenni trascorsi dalla scomparsa dell’impero sovietico, di sanguinosi conflitti ce ne sono state tanti. Ecco quali sono state le guerre di Vladimir Putin.

Ha cominciato Putin a lanciare iniziative militari, dopo il crollo dell’Urss?

No. Già sotto Boris Eltsin, presidente della Russia, di fatto il successore di Gorbaciov e il predecessore di Putin, Mosca ha mandato le sue truppe a combattere in altre ex-repubbliche sovietiche, per reprimere rivolte o partecipare a conflitti locali: in Georgia nel ’91-’93, in Moldavia nel ’92 (dove si consolidò la Repubblica di Transnistria, un eclave russofono tuttora fedele alla Russia e separato dal resto della piccola nazione), in Inguscezia (una regione russa ai confini del Caucaso) sempre nel ’92, in Tagikistan nel ’92-’97, e soprattutto nella prima guerra cecena nel ’94.’96, quando Eltsin tentò di piegare la ribellione separatista della Cecenia, regione autonoma che produce l’1 per cento del petrolio russo e dunque di cruciale importanza.

L’ultimo conflitto ordinato da Eltsin fu in un’altra regione autonoma separatista russa, il Daghestan, nell’agosto ’99, ma è il caso di notare che dal mese prima al Cremlino, come primo ministro, c’era già anche Putin, che sarebbe diventato presidente a interim, su designazione di Eltsin, il 31 dicembre, poi confermato da un voto popolare tre mesi più tardi.

Dunque quale è stata la prima guerra di Putin?

La seconda guerra cecena, anche quella in realtà iniziata nell’estate del ’99 quando Putin era primo ministro, ma andata avanti con una ferocia senza precedenti fino al 2000 e poi ancora con operazioni limitate contro la guerriglia cecena fino al 2009. La capitale cecena Grozny (che in russo significa “la terribile”, nome imposto dagli zar dopo una guerra dei secoli precedenti) fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti russi: un modello per quello che Putin ha fatto in seguito ad Aleppo, in Siria, e per quanto sta facendo in Ucraina. Usando la forza senza limiti, e corrompendo alcuni capi ceceni per portarli dalla propria parte, Putin riuscì a vincere un conflitto che sembrava irrisolvibile.

C’è da notare che a scatenare la seconda guerra cecena o meglio l’attacco russo, violando accordi firmati dopo la prima guerra, furono una serie di attentati che fecero centinaia di morti a Mosca: vari osservatori, tra cui il difensore dei diritti umani Sergej Kovalev e l’ex-agente del Kgb Aleksandr Litvinenko (più tardi assassinato a Londra con il polonio radioattivo nel tè da agenti collegati al Cremlino), sostengono che fu l’Fsb, il servizio segreto russo erede del Kgb sovietico, del quale Putin aveva fatto parte per sedici anni e di cui era stato il capo prima di diventare premier e presidente, a mettere le bombe in edifici di civili, per accusare poi “terroristi ceceni”, suscitare indignazione nella popolazione russa e avere una scusa per ricominciare la guerra con metodi più duri di prima. Si calcola che ci furono tra 50 mila e 80 mila morti.

Ma la prova generale per l’invasione dell’Ucraina è stata un’altra?

Sì, è stata la guerra in Georgia nel 2008. Le somiglianze sono impressionanti. Un governo filo-occidentale, che era stato eletto democraticamente a Tbilisi al posto di uno filo-russo, aveva chiesto di entrare nella Nato per proteggersi dall’onnipresente minaccia di Mosca. Putin reagì invadendo due regioni autonome georgiane, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, dove un conflitto a intermittenza era in corso fin dai tempi dell’Urss, ufficialmente giustificando l’intervento con la necessità di proteggere la popolazione delle due regioni, a maggioranza russa, da discriminazioni del governo georgiano.

Da allora Abkhazia e Ossezia del Sud sono praticamente sotto il controllo del Cremlino e a Tbilisi, come risultato della guerra, si è insediato un governo di nuovo filo-russo. Tuttavia di fronte all’invasione dell’Ucraina ci sono state in Georgia manifestazioni di protesta talmente massicce contro Mosca da indurre l’attuale governo a chiedere, proprio nei giorni scorsi, l’adesione all’Unione Europea, sebbene i commentatori ritengano che si tratti più di una mossa politica per calmare la piazza che di una intenzione reale, poiché il procedimento di adesione richiederebbe comunque molti anni e non è chiaro come si concluderebbe, specie con due aree della Georgia ancora in stato di guerra contro Tbilisi. Un caso da manuale di quello che Putin ha fatto successivamente in Ucraina a partire dal 2014 a oggi.

Come si è svolta la “prima guerra” contro l’Ucraina, se così si può definire?

Con le stesse ragioni usate per l’intervento in Georgia, la protezione della minoranza russa, e le medesime motivazioni reali, impedire la richiesta di adesione alla Nato presentata dal governo filo-occidentale eletto a Kiev dopo un governo filo-russo, Putin ha invaso con le proprie truppe la penisola della Crimea, annettendola quasi immediatamente, e ha usato forze non regolari ma controllate dal Cremlino per invadere parte del Donbass, le regioni autonome di Donetsk e Lugansk, la zona mineraria dell’Ucraina che confina con la Russia ed è storicamente da sempre abitata in prevalenza da una popolazione di etnia e lingua russa. Quella “prima guerra ucraina” ha fatto 7 mila morti e decine di migliaia di feriti, suscitando in Occidente proteste un po’ più forti di quelle che avevano accompagnato l’invasione russa della Georgia nel 2008, ma non abbastanza forti da impensierire Mosca o da causare danni alla sua economia.

Perché la “seconda guerra” contro l’Ucraina è scoppiata proprio ora?

Ci sono varie ipotesi. In Ucraina la situazione era praticamente invariata rispetto al 2014. Ma altrove sono successe cose che possono avere spinto Putin a decidere che fosse il momento giusto per prendersi tutta l’Ucraina o perlomeno per prendersene un pezzo e installare un governo fantoccio a lui fedele nella parte che rimane formalmente indipendente: l’imbarazzante ritiro americano dall’Afghanistan; la Brexit che ha indebolito e diviso l’Europa, separando il Regno Unito dall’Unione Europea; un cancelliere appena insediato in Germania dopo il lungo governo di Angela Merkel; le imminenti elezioni presidenziali in Francia, potenziale distrazione per Parigi. La convinzione, insomma, di poterla fare franca, con una facile vittoria militare sul campo e senza pagare un prezzo troppo alto in sanzioni occidentali.

Ci sono state altre avventure militari sul fronte interno nell’era Putin?

Insurrezioni in varie regioni del Caucaso settentrionale, tra il 2009 e il 2017, hanno provocato l’intervento delle forze russe: non solo in Cecenia, come già detto, ma anche in Daghestan, Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Ossezia del Nord. Inoltre Putin ha inviato truppe in Bielorussia e Kazakistan, l’anno scorso e quest’anno, per aiutare il regime autoritario locale a reprimere vaste rivolte popolari, così rimettendo sotto il controllo di Mosca anche quelle due ex-repubbliche sovietiche.

Nel frattempo Putin è entrato in guerra anche all’estero?

Sì, in Siria, in Libia, nella Repubblica Centroafricana, nel Mali, in modo diretto e manifesto oppure occulto, attraverso il dispiegamento del Gruppo Warner, unità di soldati mercenari che in realtà secondo molto osservatori dipendono dal ministero della Difesa e dal ministero degli Interni russo. Ma pure l’Unione Sovietica ha partecipato direttamente o indirettamente a numerosi conflitti durante la guerra fredda, dalla guerra di Corea a quella del Vietnam.

Le guerre di Putin nell’ex-Urss, in conclusione, sono una cosa diversa?

Le guerre di Putin nei territori dell’ex-Urss hanno un altro significato: sono la coda sanguinosa e violenta del crollo dell’Unione Sovietica, il tentativo di Mosca di riprendersi quello che considera suo. L’ossessione del capo del Cremlino: riparare “la più grande tragedia geopolitica del ventunesimo secolo”, come lui definisce la fine dell’impero dei Soviet, che altri leader e altri popoli consideravano invece la liberazione da una dittatura durata settant’anni, il tramonto dell’ultimo impero multi-etnico della terra.



La guerra in Ucraina, ultimo episodio del disegno imperialista di Putin
VoxEurop
Andrea Pipino - Internazionale (Roma)
30 marzo 2022

https://voxeurop.eu/it/la-guerra-in-ucr ... -di-putin/

Il cerchio si è chiuso. Dal crollo dell’Unione Sovietica è bastata una generazione per far precipitare la nuova Russia all’inferno. Trent’anni di promesse mancate, speranze bruciate, segnali mal interpretati, da Eltsin che si arrampica sui carri armati nell’estate del 1991 e ferma il golpe dei sostenitori del regime sovietico fino alla messa in scena del 18 marzo 2022 allo stadio Lužniki: un carnevale ultranazionalista in cui il kitsch patinato dei video della musica pop russa degli anni duemila si è fuso con il gigantismo posticcio delle parate nordcoreane di Kim Jong-il. La fine di un’epoca.

Il compimento di una transizione che a un certo punto è impazzita e si è messa a girare all’incontrario, trasformando un paese post-sovietico, imperfetto ma curioso e vivace, in un mostro imperialista e neosovietico. Non doveva per forza andare così. E per quanto si voglia insistere sulle responsabilità e gli errori dell’occidente, è difficile pensare che quello che è successo a Mosca negli ultimi dieci anni sia esclusivamente il risultato di un’aggressiva strategia fondata sul mercato e delle interferenze occidentali nel delicato periodo della trasformazione degli anni Novanta.

Se così fosse, oggi ci troveremmo di fronte tante piccole Russie putiniane sparse in tutta l’Europa centro-orientale. Cosa che fortunatamente – pur con tutti i difetti delle democrazie dei paesi ex comunisti – non è la realtà.

Passaggio sanguinario

Tante volte, nelle analisi e nei tentativi di capire le motivazioni dell’attacco russo all’Ucraina, si è parlato di “umiliazione della Russia”. E spesso si è puntato il dito sull’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa centro-orientale, spiegato come allargamento o espansione dell’alleanza, con quella tipica mentalità occidente-centrica che tende sempre a privare ogni soggetto di una capacità decisionale autonoma. Tale espansione c’è stata perché a volerla sono stati gli europei dell’est, per i quali la fine della Seconda Guerra mondiale non è stata una liberazione ma il passaggio dal più sanguinario dei totalitarismi a un nuovo assetto politico, che dopo la prima fase rivoluzionaria si è dimostrato brutalmente autoritario.

L’ingresso nella Nato l’hanno chiesto, come garanzia alla propria sovranità e integrità territoriale, i paesi baltici, che dopo l’appartenenza all’impero zarista e i vent’anni d’indipendenza tra le due guerre furono nuovamente risucchiati nell’universo sovietico in seguito alla firma del patto Molotov-Ribbentrop (la loro appartenenza all’Urss non è mai stata formalmente riconosciuta dagli Stati Uniti). O i cechi, che nel 1968 avevano visto i carri armati del Patto di Varsavia distruggere l’esperimento delle primavere di Praga. O gli ungheresi, che dodici anni prima avevano vissuto un’esperienza simile, perfino più violenta. O i polacchi, memori delle repressioni dei moti operai del 1956 e del 1970 e della legge marziale del 1981I rapporti tra i russi e la Nato sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti

Il compimento di una transizione che a un certo punto è impazzita, si è messa a girare al contrario, trasformando un paese post-sovietico, imperfetto ma curioso e vivace, in un mostro imperialista e neosovietico

Spesso si cita il vertice Nato di Bucarest del 2008 come prova dell’avventuristico espansionismo dell’alleanza. Ma in effetti la dichiarazione con cui quel summit si chiuse sembra più una generica dichiarazione d’intenti, forzata dall’amministrazione statunitense, che una vera road map politica: “La Nato accoglie le aspirazioni euroatlantiche di Georgia e Ucraina. […] Oggi abbiamo concordato che questi paesi diventeranno membri della Nato”. Già allora era chiaro che i paesi europei dell’alleanza non avrebbero accolto volentieri l’ingresso di altre nazioni dell’est, soprattutto ex repubbliche sovietiche.

In soldoni, anche se la Russia non avesse invaso la Georgia nell’agosto del 2008, ufficializzando il suo controllo delle due repubbliche non riconosciute dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, che controllava già da sedici anni, difficilmente Tbilisi sarebbe entrata nella Nato in un arco di tempo relativamente breve.Lo stesso si può dire dell’Ucraina. Prima dell’intervento russo in Crimea e nel Donbass del 2014 i cittadini favorevoli all’ingresso nella Nato erano una netta minoranza, intorno al 20 per cento del totale.

E se il vero obiettivo di Mosca fosse stato tenere Kiev lontano dall’alleanza atlantica, per raggiungerlo sarebbe bastato limitarsi all’applicazione dei protocolli di Minsk. Qualcuno potrebbe ribattere che negli ultimi anni sul territorio ucraino si sono svolte diverse esercitazioni militari con la presenza di paesi Nato, per la comprensibile preoccupazione di Mosca. Va aggiunto, però, che mentre l’Ucraina e altri 23 stati, non solo della Nato, partecipavano nel luglio 2021 alle esercitazioni militari Sea breeze (cinquemila soldati coinvolti, organizzate dal 1997), Mosca aveva già ammassato decine di migliaia di soldati ai confini orientali dell’Ucraina.

Inoltre, quattro mesi prima le navi russe avevano partecipato insieme a quelle di diversi paesi Nato a una serie di manovre militari nel mare del Pakistan. I rapporti tra i russi e la Nato, insomma, sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti. Senza scomodare Pratica di mare o i vari protocolli e accordi siglati tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, per avere un quadro più veritiero della situazione basta ricordare come gran parte del secondo conflitto ceceno (1999-2009) è stato combattuto dalla Russia sotto il cappello della cosiddetta guerra al terrore lanciata dagli Stati Uniti contro il jihadismo internazionale.

Un percorso verso la democrazia

Quanto all’Ucraina, di motivi per pretendere garanzie di protezione dal suo ingombrante fratello maggiore ne avrebbe diversi. Oltre all’attacco alla sua integrità territoriale del 2014, risultato della violazione del Memorandum di Budapest del 1994, e alle continue interferenze politiche del Cremlino, che hanno innescato prima la Rivoluzione arancione del 2004 poi la rivolta di Euromaidan del 2014, ci sono le ferite di un secolo terribile: l’occupazione sovietica dei territori della Galizia orientale e della Volinia nel 1939, la collettivizzazione forzata e i più di tre milioni di morti dell’Holodomor nel biennio 1932-33.

Comprensibile quindi che in questi trent’anni l’Ucraina indipendente abbia cercato, pur tra mille difficoltà e battute d’arresto, un suo percorso verso la democrazia e la formazione di un’identità nazionale plurale (multireligiosa e multilinguistica) al riparo dalle mire di Mosca.
2014: un “colpo di stato”?

A tale proposito, due parole vanno spese sui fatti del 2014. Se, come è scritto nell’Enciclopedia italiana Treccani, il “colpo di stato” è una trasformazione dell’ordinamento dei pubblici poteri “operata da uno degli stessi organi costituzionali”, allora quanto è successo a Kiev tra il novembre 2013 e il febbraio 2014 è tutto fuorché un golpe. Perché la natura della mobilitazione è popolare, quindi semmai rivoluzionaria.

Proviamo a ricostruire rapidamente gli eventi: le proteste cominciano spontaneamente quando il presidente Viktor Janukovič (le stesso deposto nel 2004 dalla Rivoluzione arancione per i gravissimi brogli alle elezioni presidenziali, poi riletto nel 2010) fa un’improvvisa marcia indietro e rifiuta di firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea (che, è bene sottolinearlo, non significava affatto l’ingresso di Kiev nell’Ue).

Il motivo sta nelle fortissime pressioni del Cremlino, che promette a Kiev anche sconti sul gas e sostanziosi investimenti. I manifestanti chiedono le dimissioni del presidente e respingono il progetto politico e sociale incarnato dal suo regime, fatto di corruzione, autoritarismo sempre più scoperto e asservimento alla Russia.

“È impensabile che in Russia ci sia una rivoluzione democratica, come è inimmaginabile che l’Ucraina possa accettare un governo autoritario”.

Jaroslav Hrytsak, storico ucraino

La risposta del governo è brutale – rapimenti, pestaggi, omicidi – ma invece di fiaccare le proteste, ne rafforza la determinazione. Dopo tre mesi di mobilitazione, violenze, repressione, Janukovič scappa in Russia e a Kiev si insedia un governo d’emergenza guidato dal premier ad interim Arsenyj Jatsenjuk, che convoca subito elezioni presidenziali per il mese di maggio.

Negli stessi giorni il parlamento approva la proposta di abolire la legge del 2012 che attribuiva al russo lo status ufficiale di “lingua regionale”, proposta però bocciata dal presidente facente funzioni, Oleksandr Turčinov. A nessuno viene impedito di parlare il russo, come invece sostiene la propaganda di Mosca. Come tutto questo possa essere definito un golpe non è chiaro.

La risposta della Russia non si fa attendere. Il momento è propizio per mettere in pratica un progetto che il Cremlino cova da tempo – riprendersi la Crimea – e per appoggiare, con invio di miliziani e armi, la nascita di due repubbliche separatiste nell’est russofono del paese, la regione del Donbass. Il pretesto per l’intervento è la protezione dei russi dal governo di Kiev e l’obiettivo è lo stesso degli altri conflitti congelati seminati da Mosca nelle ex repubbliche sovietiche (oltre ad Abkhazia e Ossezia del Sud, c’è anche la Transnistria, in Moldova): indebolire la sovranità del paese colpito, creando elementi di instabilità nel suo territorio e mettendo quasi un’ipoteca sulle sue future scelte geopolitiche.

A chi sostiene che l’annessione della Crimea sia il risultato di un pronunciamento popolare, occorre ricordare che il referendum sulla sovranità della regione (già repubblica autonoma all’interno dell’Ucraina) è stato organizzato in due settimane sotto l’occupazione militare dei famigerati omini verdi, militari russi senza mostrine e simboli di appartenenza, mentre gli attivisti tatari e ucraini venivano fatti sparire e senza la possibilità di un seppur minimo dibattito pubblico. Che questo possa essere considerato un sistema accettabile per ridisegnare i confini di un paese sovrano è quantomeno singolare.

L’Ucraina fa storia a sé

Detto dei fatti di Euromaidan, vanno messe nella giusta prospettiva anche le accuse all’Ucraina di essersi radicalmente spostata a destra, perfino su posizioni neonaziste. Sono accuse chiaramente amplificate e diffuse dalla propaganda russa, ma non basate su elementi reali. È vero che nel paese esistono alcune sigle minoritarie di estrema destra. E l’ormai celebre battaglione Azov ha avuto un ruolo importante nei combattimenti nell’est del paese nel 2014, ed è poi stato integrato nella guardia nazionale ucraina. Ma si tratta di circa 1.000 soldati, che hanno una capacità di mobilitazione che non supera le 10mila persone. L’Ucraina ha 44 milioni di abitanti, e il suo esercito conta 125mila effettivi.

A livello politico, invece, il picco del successo dell’estrema destra (che ovviamente non vuol dire neonazisti) è stato raggiunto nel 2014, con l’1,8 per cento di Pravyj Sektor e il 4,7 per cento dei nazionalisti di Svoboda alle elezioni legislative. Nel 2019 il fronte nazionalista (Svoboda, Pravyj Sektor e altre due sigle minoritarie) ha raccolto il 2,1 per cento dei voti. L’unico deputato portato in parlamento è stato eletto in un collegio uninominale. Senza dover ricordare le origine ebraiche di Volodymyr Zelenskyj, e il fatto che diversi suoi parenti siano morti nella la Shoah, è evidente che chi definisce nazista un paese in base a criteri simili lo fa in malafede o perché completamente vittima della bugie del Cremlino (che peraltro i neonazisti e i suprematisti bianchi li ha ampiamente utilizzati nella guerra del Donbass, dove hanno combattuto diverse sigle dell’estremismo di destra russo – Gioventù eurasiatica, Unità nazionale russa, Altra Russia – e dove i primi leader delle repubbliche non riconosciute di Donetsk e Luhansk erano estremisti di destra e nazionalisti radicali russi).

Poi, a voler essere onesti, è abbastanza prevedibile che ogni violazione dell’integrità territoriale di un paese e della sua sovranità possano spostarne l’asse politico verso il nazionalismo. Ma anche qui il caso ucraino fa storia a sé: nonostante il Donbass separatista e la Crimea perduta, nel 2019 l’ex comico Zelenskyj ha sconfitto il presidente uscente Petro Porošenko proprio grazie alla scelta di non cavalcare l’etnonazionalismo e gli istinti bellicisti inevitabilmente presenti in parte della società. L’Ucraina precedente all’invasione russa era meno nazionalista di quella del 2015. E se c’è una cosa che questa mistificazione su nazisti ed estremisti di destra dimostra è la capacità della propaganda russa di avvelenare il dibattito e far circolare informazioni false o scorrette.

Il problema insomma, non è cosa ha fatto, cosa ha desiderato, cosa ha deciso l’Ucraina. Il problema è a Mosca. In quella miscela di autoritarismo sempre più sfacciato, ortodossia religiosa, revanscismo, nazionalismo e tradizionalismo che negli ultimi dieci anni sembra essersi impossessata delle élite del Cremlino. Il problema è l’ideologia che vuole negare agli ucraini il diritto di avere un paese indipendente e sovrano, che li cancella dalla storia e ne fa un’appendice della nazione russa.

La Russia è precipitata in una spirale autoritaria senza via d’uscita. Gli oppositori sono diventati dissidenti, e i dissidenti sono finiti in prigione

Più volte in questi giorni si è scritto e si è detto che dietro alla decisione di nvadere l’Ucraina ci siano le informazioni errate che Putin avrebbe ricevuto sul paese, la sua forza militare e la sua determinazione a difendere la propria sovranità. Gli errori dell’intelligence contano senz’altro. Ma al Cremlino c’è soprattutto una profonda incomprensione dei tratti salienti di una società che i leader russi immaginavano pronta a piegarsi e ad accogliere il “liberatore” moscovita e che invece sta dimostrando una straordinaria capacità di resistenza.

I rapporti tra i russi e la Nato sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti

Non per il culto della bandiera o per un astratto ideale di patria, ma per difendere la propria esistenza, per non rinunciare alla libertà di vivere in un paese che sia in grado di determinare in autonomia le proprie scelte e la propria posizione nel mondo. Come ha spiegato sul New York Times lo storico ucraino Jaroslav Hrytsak, i due paesi hanno cultura e lingua quasi comuni, ma tradizioni politiche diverse. Il risultato è che oggi “è impensabile che in Russia ci sia una rivoluzione democratica, come è inimmaginabile che l’Ucraina possa accettare un governo autoritario”.

Tutto questo le élite russe non l’hanno capito semplicemente perché non potevano capirlo. È come se Putin e la sua cerchia più ristretta, ex uomini dei servizi che al leader devono la ricchezza e il potere, fossero rimasti vittime della loro stessa propaganda, del genietto malefico del nazionalismo che ai tempi di Euromaidan hanno deciso di far uscire dalla lampada e che ha finito per fagocitare ogni loro pensiero e azione. Alla radice di questa radicalizzazione può esserci stato un freddo calcolo politico che poi ha portato a conseguenze inattese – Putin può aver cercato una contronarrazione dal basso da contrapporre alle parole d’ordine della democrazia e da usare come strumento di mobilitazione dopo l’ondata di proteste in Russia del 2011-12 – oppure la sincera adesione alle teorie eurasiste e imperialiste di Lev Gumilëv e più recentemente di Aleksandr Dugin. Ma il risultato non cambia: la Russia è diventata – o è tornata a essere – una potenza aggressiva, tradizionalista, nazional-imperiale.


Traiettorie perdute

Vent’anni fa non era detto che le cose dovessero prendere questa piega. All’inizio degli anni Duemila, la prima fase della presidenza dell’allora sconosciuto Vladimir Putin, il paese aveva di fronte a sé diverse possibili traiettorie. E aveva un grande bisogno di stabilità, modernizzazione economica e aperture compiutamente democratiche. In un tempo relativamente breve il primo obiettivo – che era senz’altro il più urgente – è stato raggiunto e per un certo periodo è perfino sembrato possibile che il paese prendesse la strada delle riforme politiche ed economiche, anche se con grande prudenza e in base alle proprie inclinazioni nazionali.

Con il passare degli anni è successo invece il contrario: gli spazi di libertà hanno cominciato a restringersi, le voci discordanti nel governo e al Cremlino hanno cominciato a essere marginalizzate, la repressione del dissenso si è fatta sempre più brutale, la diffidenza verso il mondo esterno ha raggiunto livelli mai conosciuti da decenni, la retorica ufficiale ha rispolverati i miti della missione storica, della grandezza e dell’unicità della Russia.

Il paese è così precipitato in una spirale autoritaria senza via d’uscita. Gli oppositori sono diventati dissidenti, e i dissidenti sono finiti in prigione. E si è capito definitivamente che, più delle armi della Nato, il vero spauracchio del Cremlino era la democrazia. In particolare quella che cercava faticosamente di affermarsi nelle vecchie terre dell’impero zarista e poi sovietico.
La Russia è diventata – o è tornata a essere – una potenza aggressiva, tradizionalista, nazional-imperiale

Oggi nelle università di Mosca s’incoraggiano gli studenti alla delazione di chiunque osi criticare la guerra di Putin, e in tutto il paese le "Z" simbolo dell’invasione compaiono sulle giacche dei bravi cittadini timorosi del potere e nei video della propaganda di stato. Il tutto mentre in tv il capo denuncia traditori e quinte colonne. Chi non ci sta, chi non accetta il progetto di “purificazione nazionale” avviato da Putin abbassa la testa e tace, protesta e viene arrestato, o decide di lasciare il paese.

Nonostante tutti gli errori che l’Europa, e soprattutto gli Stati Uniti, possano aver commesso nel rapporto con Mosca nel periodo successivo alla fine della guerra fredda, a umiliare la Russia non è stato l’ingresso dell’Estonia o della Lettonia nella Nato. E nemmeno l’intervento di Washington in Serbia nel 1999. In questi ultimi vent’anni, in fondo, Mosca ha fatto quel che le è parso e piaciuto in politica estera e all’interno del paese, dalla Cecenia alla Siria, dalla Georgia alla Crimea. E non ne ha mai pagato il prezzo.

A umiliare la Russia e i russi sono stati gli omicidi di Anna Politkovskaja, Natalia Estemirova, Boris Nemtsov; gli ostaggi morti nel teatro sulla Dubrovka; i rapimenti, gli stupri e le esecuzioni nella Cecenia di Ramzan Kadyrov; la morte in carcere di Sergej Magnitskij; l’avvelenamento e la persecuzione giudiziaria di Aleksej Navalnyj; la chiusura di Memorial e di tante altre ong. E oggi le bombe. Su Mariupol, su Kiev, su Charkiv.




ROSSOBRUNO CARDINIANO
Niram Ferretti
12 giugno 2022

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Nel mondo di cartapesta di Franco Cardini, fu medievalista e poi ideologo e fabbricatore di fiction in cui i fatti e la realtà si dissolvono per lasciare apparire al loro posto immagini tra l’onirico e il fantastico, c’è una costante che non delude mai i suoi lettori, il cattivo, infatti, è sempre l’Occidente e il buono è sempre ciò che ad esso si contrappone.
Nulla di che meravigliarsi, già ragazzo, Cardini venne folgorato dall’ex collaborazionista e ardente ammiratore del Terzo Reich, Jean Thiriart, fondatore dell’organizzazione Giovane Europa che aveva come finalità quella di sganciare il vecchio continente dagli Stati Uniti e dal Patto Atlantico. Da allora e forse anche prima, non è dato saperlo, gli USA, agli occhi di Cardini, come a quelli del suo assai più celebre omologo americano, Noam Chomsky, sono diventati come Mordor ne “Il Signore degli Anelli”.
Tutto è buono quando si tratta di resistere all’impero del denaro, all’arrembaggio del Weltmarket. Non importa se oggi l’ex Cina comunista vi si sia convertita, sono gli USA la minaccia maggiore alla sopravvivenza del pianeta. E Cardini, che, nella sua vita è stato uomo di intersecazioni, in modo particolare quella tra gli “ismi”, di cui, l’Islam è l’ultima folgorazione dopo le amorevoli inclinazioni fascio-catto-comuniste che lo hanno preceduto, ha trovato anche in esso un buon antidoto.
Lo si comprende. L’Islam è l’approdo di tutto ciò che sanamente si contrappone alla tabe occidentale, ed è, infondo, la soluzione ultima, anche se iniziale (essendo esso, per i suoi seguaci, la religione primigenia dell’umanità), a ogni alienazione.
Lo scrisse chiaramente un eroe cardiniano, l’ayatollah Khomeini a Gorbaciov, il 1 1°gennaio del 1989: “Dichiaro chiaramente che la Repubblica Islamica dell’Iran, che è il bastione più saldo dell’Islam nel mondo, può facilmente riempire il vuoto ideologico del vostro sistema”. Ed è davvero un peccato che Cardini non sia giunto prima di ora a queste stesse conclusioni, si sarebbe risparmiato molta fatica, deviazioni e strade senza uscita.
Leggerlo fa sempre gusto. Il campionario è vintage, ma come il classici non delude mai. Così, in una intervista di un paio di anni concessa al sito, Osservatorio globalizzazione impariamo che:
“Il Patto di Varsavia, l’alleanza politico-militare tra URSS e i paesi suoi “satelliti”, è stata la necessaria risposta al patto NATO, a sua volta determinato dal fatto che gli statunitensi, rompendo una loro consuetudine politica che datava dalla cosiddetta “dottrina Monroe”, hanno preso a impegnarsi sempre di più come potenza egemone non solo sul Pacifico, ma anche sull’Atlantico. Una volta disintegrata l’Unione Sovietica, anche grazie all’impegno politico, diplomatico e culturale statunitense e allo strumento propagandistico degli ideali della “società del benessere”, vale a dire del consumismo, quella politica si è procurata altri nemici, sempre più agguerriti nella misura nella quale essa, provocando una sempre maggior concentrazione di ricchezza, determinava un generale impoverimento dei popoli”.
Nemmeno Gianni Minà o Lucio Manisco. L’URSS virtuosa con i suoi alti ideali di eguaglianza e fraternità che ha dovuto soccombere contro il Weltmarket, il peggiore flagello che ha colpito l’umanità e di cui Adam Smith, Ludwig Von Mises, Friederich Hayek sono stati i sacerdoti. Esemplare.
La politica imperialista economica americana che impoverisce i popoli e arricchisce se stessa è filastrocca assai stantia, ma sempre efficace nonostante i fatti la smentiscano inesorabilmente. Basta guardare i dati concreti (ma gli ideologhi hanno sommo orrore della realtà) dal dopoguerra ad oggi per quanto riguarda il livello di povertà nel mondo. Come ha dichiarato recentemente il presidente del World Bank Group, Jim Yong Kim, “Negli ultimi 25 anni, più di un miliardo di persone sono uscite dall’estrema povertà e il livello globale della povertà è oggi inferiore a quello mai storicamente registrato. Questo è uno dei più grandi conseguimenti umani della nostra epoca ”. Ma non c’è nulla da fare, “I fatti non hanno accesso nel regno delle nostre fedi”, scriveva Marcel Proust. E la fede di Cardini è granitica, la sua ortodossia non ammette smagliature. Nella stessa intervista può infatti proclamare:
“Le potenze occidentali sottoposte all’egemonia statunitense hanno largamente provato di aver bisogno, per sopravvivere a se stesse conferendosi valori etici e culturali che evidentemente non sono più in grado di promuovere, di un “nemico metafisico”. L’Occidente contemporaneo, dopo aver battuto il “Male assoluto” nazista e l’”Impero del Male” comunista e sovietico (espressione coniata da Ronald Reagan nel 1983), aveva bisogno d’inventarsi un altro nemico, il “Terrore islamico”. Questa espressione si diffuse globalmente nel 2001, dopo l’11 settembre, e fu poi adottata dal governo di George W. Bush jr. a proposito del rais iracheno Saddam Hussein, precipitosamente derubricato da alleato nella tensione contro l’Iran a “nuovo Hitler” nella seconda guerra del Golfo.. L’adozione del passepartout ideologico costituito dal libro The clash of civilizations di Samuel Huntington e i movimenti neoconservative e theoconservative statunitensi, facilmente impiantati anche da noi, hanno fatto il resto, favorendo un ridicolo clima da “nuova crociata”.
È questo il feuiletton preferito del cantastorie rossobruno. Torvo, cupo. Un po’ Dumas, un po’ Eugène Sue. L’Occidente a traino americano che si inventa i mali, prima il nazismo, poi il comunismo, e poi, sì, poi, l’Islam nella forma del “terrore islamico”. Perché anche questa è una fola. Certo. Il jihad non fu mai praticato dai seguaci di Maometto se non come tenzone spirituale, è cosa nota. L’Islam è sempre stato pacifico e se, a volte, è stato guerriero, lo è sempre stato per reazione, per necessità, mai per vocazione. Fu solo e unicamente per reazione che nel settimo secolo il jihad detonò dall’Arabia. L’imperialismo islamico si impose solo per difesa, in Occidente come in Asia e in Africa. Certamente reazione fu, a chi non voleva e non vuole sottomettersi al Verbo del Profeta. Ma, per Cardini, le crociate sono solo state cristiane, e i cattivi da copione sono caucasici, europei in primis e poi, in seconda battuta, ameriKani. Quanto a Samuel Huntington è un vero villain, va bene per tutte le occasioni. I terzomondisti, o alterglobalisti, ne hanno fatto una caricatura, come gli atei militanti alla Hitchens e Dawkins l’hanno fatta dell’Altissimo. Colui che scrisse un libro rimasto negli annali della politologia della seconda metà de Novecento, ben sapeva che, “Fintanto che l’Islam resterà l’Islam (cosa che farà) e l’Occidente resterà l’Occidente (che è più dubbio) il fondamentale conflitto tra queste due civiltà e modi di vita continuerà a definire le loro relazioni nel futuro come le ha definite nel passato per quattordici secoli“. E a Bernard Lewis non pareva proprio che la violenza perpetrata in nome dell’Islam fosse una conseguenza della protervia occidentale, ma un dispositivo intrinseco alla sua stessa vocazione, quando scriveva: “La divisione tradizionale islamica del mondo in Casa dell’Islam e Casa della Guerra, due gruppi necessariamente opposti, dei quali il primo ha l’obbligo collettivo della lotta continua contro il secondo, ha ovvi paralleli con la visione comunista degli affari mondiali…il contenuto delle credenze è del tutto diverso, ma il fanatismo aggressivo del credente è il medesimo”.
Di nuovo nulla di tutto ciò nel dispositivo concettuale del burbanzoso fiorentino. L’Islam è solo palingenesi e umiliati e offesi, sublimi porte e angelologia. L’intervista in questione contiene altre perle.
“La grande crisi nasce nel 1979 dal susseguirsi di due eventi precisi e quasi contemporanei. Primo: l’impiantarsi in Iran della repubblica islamica nata coralmente da una grande rivoluzione di popolo contro la tirannia interna e l’umiliazione esterna imposta alla sua gente dallo shah Mohammed Reza Palhevi che aveva inaugurato un regime di dura repressione con introduzione coatta dei costumi occidentali in Iran e aveva nel contempo consentito agli statunitensi di spadroneggiare nel suo regno, provocando un sentimento di quasi unanime esasperata reazione dal quale fu cacciato a furor di popolo. Secondo: la necessità di cacciare i sovietici dall’Afghanistan e di metter fine all’esperimento socialista afghano, obiettivi che si sarebbero potuti ottenere in modo relativamente facile se gli afghani avessero accettato l’aiuto della repubblica islamica dell’Iran, vicina e disposta a muoversi (com’era nei voti del capo militare afghano comandante Massud, che pur era un musulmano sunnita mentre gli iraniani sono sciiti). Per “liberare” l’Afghanistan senza ricorrere agli iraniani, gli USA scelsero di appoggiarsi al loro principale alleato musulmano, il wahhabita re dell’Arabia saudita, che inviò in Afghanistan i suoi combattenti-missionari. Questi ultimi immisero in quel Paese un tipo d’Islam fanatico e retrivo, estraneo alle tradizioni afghane e tipico invece della setta wahhabita, fino ad allora confinata nel sud dell’Arabia. Da allora il wahhabismo ha innervato l’intero Islam, dilagando e distorcendone il carattere, fino a giungere al punto al quale siamo adesso: i wahhabiti, egemonizzati dal primo alleato degli USA nel mondo arabo, intendono egemonizzare a loro volta l’intero Islam sunnita sostenendo una guerra civile (fitna) contro gli sciiti in genere e gli iraniani in particolare. Tale guerra ha purtroppo il supporto sia degli USA, sia d’Israele, per ragioni e considerazioni di carattere politico-strategico che personalmente ritengo infauste”.
È stato necessario riportarla tutta intera questa infilata esorbitante di grotesqueries. Per Cardini è irrilevante che la guerra fratricida tra sunniti e sciiti cominci con la morte stessa di Maometto e perduri fino ad oggi. La colpa dell’estremismo islamico sarebbe solo dei wahhabiti a seguito della guerra in Afghanistan. E, ovviamente, ça va sans dire, i mandanti sarebbero loro, gli Stati Uniti, promotori anche del terribile Scià di Persia. Il fatto che il jihad, nella sua versione moderna, nasca in Egitto nel 1928 grazie ad Hassan al Banna e alla Fratellanza Musulmana, è un altro di quei fatti scomodi, che vanno doviziosamente rimossi dalla scena onde possano intaccare la fiction cardiniana. Quanto ai missionari, chi fu più missionario dell’ayatollah Khomeini il quale innestò l’Islam sull’impianto ideologico rivoluzionario marxista, la cui ispirazione trovò in Alì Shariati? Ce lo ricorda Melanie Phillips in The World Upside Down: The Global battle over God, Truth and Power:
“Ali Shariati, un prominente ideologo della rivoluzione islamica in Iran, era un islamo-marxista che si basò cospicuamente sull’estremista anticolonialista Franz Fanon e la sua concezione di creare ‘un uomo nuovo’. Shariati mutuò da Fanon la descrizione dei ‘diseredati della terra’ e la tradusse in persiano rivitalizzando il termine coranico, mostazafin, o ‘il diseredato’. Sotto l’influenza di Shariati, gli estremisti iraniani diventarono marxisti e lessero Che Guevara, Regis Debray e il terrorista della guerriglia urbana, Carlos Marighela…Sotto l’influenza di Shariati, l’ayatollah Khomeini introdusse nel pensiero islamico radicale il fondamentale concetto marxista del mondo diviso in oppressi e oppressori…Nel 1980 Khomeini aveva stabilito una ‘rivoluzione islamica’ culturale di stile comunista per purgare ogni traccia di influenza occidentale dai licei e dalle università”.
Ma guai a incolpare l’Islam sciita, così puro e nobile e soprattutto antagonista degli amerikani, mentre, come è noto, i sunniti, soprattutto la Casa di Saud, sono intrecciati agli USA dal 1945.
Occorre fermarsi. Prendere respiro. Gli ebrei sono alle porte, ma Cardini è scaltro, evita accuratamente di cadere in un antisemitismo troppo corrivo. Gli ebrei restano in filigrana, presunti e non desunti. E sempre nella medesima intervista, a un certo punto, ecco aprirsi l’uscio su Israele:
“L’alleanza statunitense-israeliana-saudita, alla quale si sono accodati tanto la NATO quanto paesi arabi quali Egitto e Giordania, sta seriamente minacciando la pace, nel Vicino Oriente e nel mondo…La lotta ai migranti dall’Africa condotta senza combattere le vere cause della migrazione, ovvero l’alleanza tra le lobbies multinazionali che depredano suolo e sottosuolo africano, i governi locali tirannici e corrotti loro complici e la copertura internazionale che Francia e Gran Bretagna forniscono loro utilizzando sistematicamente lo strumento del veto in sede di consiglio di sicurezza ONU a tutte le risoluzioni che potrebbero fornire qualche via d’uscita al problema continentale africano, è il secondo grande problema del nostro mondo. Politica degli USA ed egemonia delle lobbies finanziarie internazionali sono le prime responsabili della situazione internazionale odierna”.
Questo è il nadir. C’è tutto, ma proprio tutto l’armamentario. Le calcificazioni, le ossidazioni della mente. Israele, gli Usa, i sunniti, le lobbies delle multinazionali, gli immigrati africani. Mancano gli Illuminati, il gruppo Bilderberg, i Savi. Sono impliciti, dentro nell’impasto. I topoi sono vecchi, stantii, puzzano di muffa, ma Cardini non demorde. La pace nel mondo sarebbe a rischio a causa di Israele, gli USA e gli arabi sunniti. Attenzione all’incastro. Non è Israele da solo che mette a repentaglio la sicurezza mondiale, rodato paradigma di antisemiti e antisionisti pluridecorati, ma lo è insieme agli USA e alla Casa di Saud. Se voglio lanciare il sasso contro gli ebrei e gli israeliani, lo lancio contemporaneamente contro altri bersagli. Mi limitassi al solo Israele, si noterebbe troppo, e Cardini non è un Blondet o un Fusaro qualunque.
Il Medioriente non sarebbe in tensione perenne da settanta anni a causa delle opposte mire arabo-islamiche, delle lotte intestine e tribali per conseguire il basto del potere, unicamente convergenti e solidali quando si tratta di unirsi nel tentativo di distruggere Israele. Il problema attuale non sarebbe l’espansionismo neo-imperiale sciita che si protende sulla Siria, in Libano, in Iraq, in Yemen, con appendice a Gaza. Non sarebbe l’impulso millenarista della rivoluzione islamica congiunto alla dichiarata intenzione di volere distruggere Israele. No. Anche qui gli sciiti sono rimossi dalla scena. I puri buoni sciiti. L’ultima frase del pistolotto brilla di luce propria.
Sembra uscita da un comunicato radio di Berlino o di Roma degli anni Trenta. Chi c’è dietro le lobbies finanziare internazionali e la politica degli USA? Chi gobierna el mundo? Cardini non lo dice, anche se in un suo feuilleton sulla seconda guerra del Golfo, Astrea e i Titani, scriveva a proposito degli USA
“Politica degli USA ed egemonia delle lobbies finanziarie internazionali sono le prime responsabili della situazione internazionale odierna”.
“Di quale potere sovrano esso è rappresentante, di quale sovrana volontà esso è l’esecutore, al di là delle forme giuridiche preposte a legittimarlo. È sua la detenzione del potere imperiale o dietro ad esso ed altre forze, attualmente ‘in presenza’ nel mondo, si cela un ‘impero invisibile’-nel senso etimologico del termine, che cioè non è responsabile, non deve rispondere alle sue azioni-dinanzi ai suoi sudditi, i quali neppure sanno-o almeno, non con chiarezza-essere tali?“
Basta una leggera spinta, un tocco in più, ed ecco apparire I Protocolli.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:07 am

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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:07 am

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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:10 am

6)
Il paradiso del Sogno americano e l'inferno del Sol dell'Avvenire, separati dal Muro di Berlino che impediva l'ingresso nell'URSS e l'uscita dall'URSS nella Germania divisa tra l'Europa libera e quella a dominio sovietico.



America
L'America asilo, rifugio, speranza per l'umanità di tutta la terra, è stata ed è ancora la Svizzera del Mondo.
Nessuno vuole migrare in Russia in cerca di fortuna ma tanti migrano e vorrebbero migrare nell'Occidente della UE e degli USA

L'America liberal democratica USA non è certo il Paradiso Celeste in terra che è il luogo perfetto, ma è sicuramente uno dei luoghi della terra che più gli si avvicina dove l'uomo di buona volontà ha potuto sognare, operare e sperare.


Negli USA vi sono quasi 3milioni di russi in Russia non si trova nemmeno un americano.
Demografia negli USA
https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_Uniti_d%27America
14) russi 2 843 400 0,9% della popolazione USA


Quelli che il male è l'America USA e la Russia il bene

La demonizzazione dei bianchi, dei cristiani e dell'Occidente euroamericano non viene solo dal sinistrato Politicamente Corretto (con il suo suprematismo utopico comunista, con la sua Cancel culture e l'esaltazione LGBT, con i suoi suprematismi nero e nazi maomettano), ma anche dal Politicamente Corretto cristiano di Bergoglio e dal Politicamente Corretto dell'estrema destra nazi fascista antiamericana, anticapitalista e schierata con la Russia violenta imperialista, autoritaria e totalitaria di Putin e generalmente questa destra nazi fascista un po' cristiana, un po' pagana e un po' atea è anche immancabilmente e profondamente antisemita e antisraeliana e demenzialmente filo nazi maomettana in funzione antiamericana.

Se così fosse, se il male è l'America USA e la Russia il bene,
bisognerebbe però chiedersi e spiegarsi come mai da tutto il Mondo, gli uomini preferiscono migrare negli USA piuttosto che in Russia e perché dalla Federazione russa stessa preferiscono andarsene e in Europa e negli USA, lo stesso capita nei paesi nazi maomettani dove la popolazione preferisce andarsene nell'Occidente euroamericano cristiano, laico e ateo come mai non restano nei loro santi paesi dove vige la legge coranica.
Anche i paesi e i popoli europei dell'ex impero zarista e dell'ex impero sovietico dell'URSS preferiscono il male europeo e americano al bene e al paradiso della Russia imperiale degli zar, dell'URSS e di Putin, ma come mai?

Rifugiato bianco è un termine politico principalmente usato in Francia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna per indicare un russo emigrato durante la rivoluzione russa e la conseguente guerra civile russa per motivi politici, dopo la sconfitta dei russi bianchi a opera dei bolscevichi. Un termine meno politicamente scorretto usato dagli stessi emigrati in quei paesi era emigrato della prima onda (Эмигрант первой волны). Nell'URSS il termine emigrato bianco (Белоэмигрант) tra gli anni venti e gli anni ottanta denotava una connotazione negativa. Dagli anni ottanta in poi, anche in Russia si preferisce il termine più politicamente corretto.
https://it.wikipedia.org/wiki/Rifugiato_bianco



Gli italiani comunisti migrati in Unione Sovietica miraggio del Sol dell'Avvenire si ritrovarono in un inferno e la più parte morì malamente.

L’emigrazione italiana in URSS: storia di una repressione
Elena Dundovich, Francesca Gori ed Emanuela Guercetti
“Difendi tu la mia memoria, io sono innocente”.
Vincenzo Baccalà a Pia Piccioni, Odessa, 1937

https://www.sitocomunista.it/stalinismo ... _urss.html

Furono imprigionati e morirono in molti nei campi più tristemente famosi del sistema concentrazionario sovietico, ma anche in quelli minori, disseminati nelle regioni più remote dell’immenso territorio dell'URSS. Nei campi del nord-ovest: Soloveckij, Belomoro-Baltijskij, Severnyj _eleznodoro_nyj, Mineral'nyj, Severo-Pe_orskij, Re_noj, a Vorkuta, Sege_a, Lok_im, Ust’-Vym, Uchta-Pe_ora, Uchta-I_ma, Inta, Vjatka; in quelli delle regioni centrali: nel Dubravnyj, Temnikovskij, Sibirskij, Severo-Ural’skij e Obskij, a Krasnojarsk e a Karaganda, nonché nella colonia di lavoro dell'NKVD presso il complesso metallurgico di _eljabinsk; altri conobbero i lager della Russia nord orientale: il Severo-Vosto_nyj e il Beregovoj 2.
In questi luoghi scomparvero, stremati dal freddo, dalla fame e dalle torture, molti degli italiani che, soprattutto tra il 1935 e il 1939, rimasero vittime del terrore staliniano. In totale 27 furono i lager in cui vennero imprigionati, 19 le località di confino o i luoghi di deportazione in cui è stato sinora possibile rintracciare la loro presenza. Altri non giunsero mai né ai campi di transito né tantomeno alle destinazioni finali. Subito dopo l’arresto, infatti, soprattutto negli anni del Grande Terrore, cioè tra il 1937 e il 1938, vennero fucilati, quasi sempre senza processo, in base alla sentenza di una trojka o dell'OSO (Consulta speciale) dell'NKVD. Molti dei loro corpi giacciono nelle fosse comuni di Butovo o della Kommunarka 5, due luoghi nei pressi di Mosca tristemente noti dopo il 2000, anno della loro scoperta. Altri forse giacciono fra i trentamila corpi della fossa comune di San Pietroburgo individuata di recente6. Complessivamente furono circa 1000 gli italiani che, tra il 1919 e il 1951, subirono una qualche forma di repressione latu sensu: fucilazione, internamento in un campo di concentramento, deportazione, confino, espulsione, privazione dei diritti civili.



Gli italiani traditi da Stalin
Edoardo Castagna
martedì 17 settembre 2013
https://www.avvenire.it/agora/pagine/gl ... -da-stalin
La lista di Robotti è il ribaltamento della lista di Schindler: sommersi anziché salvati, rossi anziché neri, il punto di vista dei carnefici anziché delle vittime. Quella stilata da Paolo Robotti elencava centoventicinque nomi: tutti comunisti come lui, come lui emigrati in Unione Sovietica, come lui finiti nel mirino della Nkvd. A differenza di lui, però, inghiottiti dal Terrore staliniano, fucilati dalla polizia politica o morti in gulag (capitoli a sé sono quelli della comunità italiana di Crimea, qualche migliaio di emigranti principalmente pugliesi, e dei prigionieri di guerra, internati a migliaia dopo il collasso dell’Armir e rientrati in pochissimi). Le loro storie e quella di centinaia di altri italiani, attratti dalle sirene del “paradiso rosso” e accorsi alla costruzione del Paese del socialismo ma da questo traditi, le racconta Arrigo Petacco in A Mosca solo andata. La tragica avventura dei comunisti italiani in Russia, che esce oggi per Mondadori (pagine 158, euro 19,00). Allo stesso Robotti, presidente del Club degli emigrati, nemmeno l’essere cognato di Togliatti (allora potente numero due del Comintern) bastò per evitare la visita della polizia politica, che lo tenne per mesi in detenzione; torturato (dovette portare per tutta la vita un rigido busto), non cedette alla tentazione di confessare e alla fine la spuntò. Rientrato in Italia nel dopoguerra, tenne per sé la memoria dell’orrore staliniano che pure aveva toccato con mano: ligio alla disciplina di un partito al quale non aveva mai smesso di credere, soltanto dopo la destalinizzazione kruscioviana narrò alle massime sfere del Pci quel che sapeva.Ricevendo in risposta (dallo stesso Togliatti) l’ordine di continuare a tacere. Soltanto dopo la morte del “Migliore” pubblicò le sue memorie, che Petacco usa come bussola per raccogliere le fila delle centinaia di storie individuali, per lo più frammentarie e incerte, dei comunisti italiani che avevano sperato di trovare nella casa madre sovietica la realizzazione delle loro utopie. Il primo impatto era in effetti incoraggiante: gli emigranti erano accolti con calore, venivano subito impiegati (la Russia aveva fame di operai specializzati), trovavano casa e amicizie. Così come, ovviamente, gli alti papaveri del Pci in esilio – Togliatti, Longo, Pastore, Di Vittorio, ... – ospitati dal famoso (e, dopo gli anni Trenta, famigerato) Hotel Lux. Gli altri si barcamenarono alla meno peggio, delusi dal socialismo reale ma ancora fiduciosi nel socialismo in costruzione, fino al dicembre del 1934, quando Stalin avviò le purghe. A quelle contro gli italiani – i pesci piccoli, i grossi furono risparmiati in un’eccezione solo italiana – diede il suo zelante contributo proprio chi avrebbe dovuto difenderli, come Robotti o Antonio Roasio dell’Ufficio quadri. Molte delle “note caratteristiche” del Pci, che descrivevano ogni emigrante e le sue passate “deviazioni”, finirono nella mani dell’Nkvd, diventando ipso facto altrettante sentenze di condanna. Sospetti erano tutti gli emigranti della prima ondata, comunisti ma anche socialisti e anarchici, approdati in Russia perché braccati dalle polizie di mezza Europa. Erano per lo più operai delle grandi città del Nord, ma tra loro c’erano anche figure singolari come il barbiere cuneese Giovanni Germanetto o il giornalista napoletano Edmondo Peluso. Molti presero la cittadinanza sovietica, un un atto di adesione ideologica che si sarebbe rivelata, al tempo del Terrore, un errore: con il passaporto avevano rinunciato a ogni tutela da parte della madrepatria e subirono tutte le vessazioni cui erano soggetti gli altri sovietici. Petacco racconta le loro storie attraverso i frammenti disponibili: qualche lettera, qualche reticente documento ufficiale, le scarse testimonianze di chi ebbe notizie sulla loro sorte e non ne subì una uguale. Come Dante Corneli, il principale testimone italiano del Terrore: veniva da Tivoli, alle porte di Roma, dove nel 1922 aveva ucciso il locale segretario del fascio. In Russia si stabilì a San Pietroburgo e aderì alla fazione anti-staliniana di Trotsky, Zinov’ev e Kamenev. Dopo la loro sconfitta fece autocritica, sposò una donna russa, lavorò in una fabbrica di cuscinetti a sfera. Ma nel 1936 alla sua porta bussò la Nkvd. Sopravvisse a dieci anni di gulag nell’Artico, nel dopoguerra continuò a essere un sorvegliato speciale con tanto di confino, e solo nel 1970 rientrò stabilmente in Italia. Anche le sue memorie, che riuscì a pubblicare solo nel 1977, ebbero vita tormentata, osteggiate o ignorate dal Pci. I centoventicinque che Robotti nel 1961 propose di riabilitare non erano che un frammento del quadro d’insieme molto più ampio. Petacco rievoca la conversazione che ebbe all’epoca con il dirigente comunista: «“Forse erano più di centoventicinque...”, commentai. E lui serafico: “Sì, è vero, ma gli altri non erano compagni: erano anarchici, socialisti, provocatori...”, e liquidò la cosa con un gesto di sufficienza». E comunque nemmeno i centoventicinque furono riabilitati: «Queste sono cose da dimenticare», aveva sentenziato Togliatti. «A differenza degli altri “partiti fratelli” – osserva Petacco – il Pci non riabilitò i comunisti italiani decimati dalle purghe staliniane e impedì anche in seguito, finché gli fu possibile, ogni ricerca negli archivi sovietici. Si voleva cancellare anche la loro memoria e purtroppo ci riuscirono».


Morti al Muro - Berlin.de

https://www.berlin.de/mauer/it/storia/morti-al-muro/
Più di 100.000 cittadini della RDT cercarono di fuggire oltrepassando il confine tra le due Germanie o il Muro di Berlino tra il 1961 e il 1988. Più di 600 di loro furono uccisi dal fuoco dai soldati delle truppe di frontiera della RDT oppure morirono nel corso del tentativo di fuga tra il 1961 e il 1989. Annegarono nei corsi d’acqua, rimasero vittima di incidenti mortali o si suicidarono vedendosi scoperti.
Solo al Muro di Berlino almeno 140 persone vennero uccise a fucilate o persero la vita in diretta relazione con il regime di confine della RDT tra il 1961 e il 1989: 100 fuggiaschi dalla RDT che nel tentativo di superare gli impianti di confine vennero uccisi, morirono in un incidente o si tolsero la vita; 30 persone dall’est o dall’ovest che non volevano fuggire ma vennero uccise a fucilate o morirono in un incidente, 8 soldati delle truppe di frontiera della RDT uccisi in servizio da disertori, da camerati, da un fuggiasco, da un aiutante dei fuggiaschi o da un poliziotto di Berlino ovest . Inoltre morirono almeno 251 viaggiatori dall’est o dall’ovest durante o dopo i controlli ai passaggi di confine berlinesi. Innumerevoli sono le persone che morirono per preoccupazione e disperazione derivanti dagli effetti della costruzione del Muro sulla loro vita.
Ordine di sparare
Leggi, disposizioni e ordini regolavano l’uso delle armi da fuoco anche ai confini esterni della RDT. Così un ordine del Ministero della Difesa della RDT dell’ottobre 1961 diceva che è permesso usare le armi da fuoco “per arrestare persone che non obbediscono alle intimazioni delle sentinelle di frontiera, quando queste persone al grido “Fermo – Rimanga fermo – Sentinella di frontiera!” o dopo lo sparo di un colpo di avvertimento in aria non rimangono fermi, ma invece cercano in modo evidente di infrangere il confine di stato della RDT” e quando “non ci sono altre possibilità per l’arresto”.
Un ordine di sparare nel senso di un dovere a uccidere non c’era, dal punto di vista giuridico. Ma elogi e premi per chi sparava ed uccideva, influenza ideologica sui soldati di leva e sugli altri soldati, leggi penali che definivano il tentativo di fuga come un crimine entro determinate condizioni, tutto questo nella vita quotidiana dei soldati delle truppe di frontiera faceva sì che il permesso dell’uso delle armi venisse portato nelle immediate vicinanze del dovere.
Solo il 3 aprile 1989 le truppe di frontiera der RDT con un annuncio del Segretario Generale Erich Honecker ricevettero l’ordine di non impiegare più “l’arma da fuoco per impedire lo sfondamento del confine”.



Italiani migrati negli USA con i loro discendenti
https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_Uniti_d%27America
5) Italia italiani 17 285 619 = 5,5% della popolazione americana degli States


Quanti abitanti italiani ci sono il Russia?
https://www.habitante.it/habitare/livin ... 482941.285
Secondo l’AIRE, stando all’ultimo aggiornamento del 2016/2017, sono 3607 gli abitanti italiani che vivono in Russia. Perciò, sembra che la Russia sia uno dei paesi in cui gli italiani scelgono di andare, soprattutto per motivi attinenti a questioni lavorative.

https://it.wikipedia.org/wiki/Anagrafe_ ... l%27estero




La Russia e non solo questa del nazifascista, ex internazi comunista e macellaio Putin, suprematista e imperialista, ma anche quella degli Zar e poi quella dell'URSS di Stalin è uno dei luoghi della terra che più assomigliano all'Inferno che il luogo più imperfetto che si possa concepire, nonostante l'illusione del sol dell'avvenir e del suo paradiso socialista in terra con i suoi muri, gulag e i milioni di morti.
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Re: Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE

Messaggioda Berto » gio mag 05, 2022 8:10 am

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