Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

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Messaggioda Berto » mar mag 03, 2022 8:12 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » mar mag 03, 2022 8:13 pm

8)
Nella incessante e perenne lotta o guerra del bene contro il male, della vita contro la morte, della salute contro la malattia, di Abele contro Caino, sono sempre possibili gli errori, gli imprevisti, gli effetti e i danni collaterali;
ciò è connaturato in tutte le cose in cui il bene e il male sono intrecciati, connessi, impastati ma non per questo il bene non deve combattere il male estirpandolo, eliminandolo e deve cedere e arrendersi a questo.

Così è sempre nella legittima difesa in cui l'aggressore carnefice viene verito o ucciso dall'aggredito vittima che giustamente si difende e può capitare che nel corso di questa aggressione e difesa si distruggano cose e si faccia del male anche a qualcuno che si trova nei paraggi o che interviene a difesa della vittima aggredita.
In ogni caso il male prodotto dal bene che si difende dal male, dovuto agli imprevisti, agli errori, agli effetti collaterali è da imputare sempre al male che ha provocato la reazione del bene poi sta al bene imparare a difendersi dal male riducendo il più possibile il male dovuto agli imprevisti, agli errori e agli effetti collaterali.
Anche le guerre degli USA e della NATO rientrano in questo ambito e i rilievi messi in luce da Assange non denotano la malvagità degli USA, della CIA e della NATO ma solo gli aspetti relativi agli imprevisti, agli errori e agli effetti non voluti e collaterali che sono una conseguenza della provocazione maligna che ha costretto gli USA e la NATO a intervenire a difesa del bene.


Alberto Pento
Assange è un criminale che va estradato, processato, condannato e imprigionato proprio perché è schierato
dalla parte del male rendendosi complice del male, calunniando il bene e ingannando le persone, facendo passare per malvagio il bene, omettendo di specificare che queste conseguenze maligne indirette, impreviste, non volute e collaterali del bene che si difende sono diretta conseguenza del male che ha costretto il bene a difendersi.
Gli USA/UE/NATO non hanno mai fatto guerre predatorie, per depredare popoli e paesi delle loro risorse economiche, per sottomettere e soggiogare economicamente e politicamente, per sterminare chichessia, sono sempre intervenuti per cercare di risolvere conflitti, per difendere i più deboli dai sopraffattori, per contrastare il male il terrorismo degli imperialismi comunisti e nazi maomettani dal Vietnam, all'Afganistan, all'Irak, alla Siria, alla Somalia, alla Libia, alla Serbia.
E così hanno fatto gli USA con la Germania, l'Italia e il Giappone nazi fascisti eppoi con l'URSS fino al suo crollo.


Chi difende Assange - Caratteri Liberi
Niram Ferretti
2019/04/12

http://caratteriliberi.eu/2019/04/12/in ... r2FGsCTA_c

Ieri, dopo sette anni, è terminata per Julian Assange la sua permanenza al riparo dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove si era rifugiato nel 2012.
Il “combattente per la libertà“, cocco della sinistra radicale, è stato arrestato ieri da Scotland Yard dietro mandato americano con l’accusa di avere cospirato nel 2010 insieme a Bradley Manning, poi, con il cambio di sesso, diventato Chelsa, nel tentativo di ottenere illegalmente documenti secretati militari e diplomatici, la cui diffusione avrebbe potuto essere utilizzata per danneggiare gli Stati Uniti.

Dopo che l’inchiesta nei suoi confronti per un presunto stupro avvenuto in Svezia è stata archiviata nel 2017, Assange ora rischia l’estradizione negli Stati Uniti. Nel 2010, il patron di Wikileakes, totalmente incurante delle conseguenze divulgò, grazie a Manning, chi fossero gli informatori locali degli Stati Uniti, durante la guerra in Afghanistan. L’allora Segretario alla Difesa, Robert Gates e il Capo di Stato Maggiore, Mike Mullen dichiararono: “Il signor Assange può dire quello che vuole sul bene maggiore che lui e la sua fonte stanno procurando, ma la verità è che potrebbero già avere sulle loro mani il sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana“.

Ma per una personalità patologicamente narcisista come quella dell’hacker australiano, tutto ciò era irrilevante, l’importante era mostrare al mondo gli arcana imperii, soprattutto se si trattava di quelli americani, e non, quelli di dittature e satrapie, o teocrazie, non avendo lì informatori adeguati a svelare al mondo i loro commerci più segreti.

Di lui, Rich Trzupek, in un articolo pubblicato su Frontpage Magazine, nel 2010, all’epoca dei leakes sull’Afghanistan, scrisse:

“Assange è un esempio primario di quel prodotto peculiarmente specifico delle istituzioni democratiche occidentali: un talento così accecato dalla propria intelligenza, da non vedere nulla di male nel fare a pezzi la società che gli consente la libertà di potere esercitare la propria arroganza, mentre resta beatamente incurante del fatto che le sue azioni forniscano aiuto e agevolazione a un nemico che non tollererà la sua stessa esistenza”.

Non può dunque suscitare meraviglia se in difesa dell’utile idiota antiamericano Assange giunga l’accorato appello del Cremlino attraverso il ministro degli Esteri russo Maria Zakharova, la quale ha fatto sapere che “l’arresto a Londra del fondatore di Wikileaks è un duro colpo alla democrazia”. In un mondo come il nostro, in cui per citare Heinrich Heine, “Dio esiste ed è Aristofane“, capita che arrivino da un paese retto da un cleptocrate autoritario lezioni di democrazia. Non contenta, la Zakharova, ha poi aggiunto su Facebook che “La mano della democrazia strangola la gola della libertà”, quella libertà che in Russia è, come noto, splendidamente garantita.

Alla Zarkharova si può aggiungere Evo Moraels, altro grande liberista e assiduo compulsatore di John Locke, il quale esprime via tweet la sua solidarietà per il “fratello perseguitato dagli Stati Uniti per avere rivelato la loro violazione dei diritti umani, l’assassinio di civili e lo spionaggio diplomatico”. In attesa della solidarietà di Nicolas Maduro, si registra, nek frattempo, l’indignazione di una grande fan di Assange, l’ex bagnina di Baywatch, Pamela Anderson, da tempo anche lei guerriera delle cause giuste e visitatrice assidua del perseguitato all’ambasciata dell’Ecuador a Londra, la quale si scaglia veemente contro il Regno Unito, “puttana dell’America”

Tuttavia la Anderson ha colto nel segno. Assange è l’eroe dei chomskiani impenitenti, e dei vecchi e giovani “anti-imperialisti”, è lo scoperchiatore delle nequizie americane, è il puro e indomito paladino del Bene costi quel che costi, soprattutto se costa agli USA, la vecchia baldracca a stelle e strisce, (per restare nei pressi della Anderson), è il vendicatore dei torti commessi dall’Occidente e dalla sua più grande superpotenza, ed è forse anche per questo motivo che, secondo Il Guardian, nel 2017, alcuni diplomatici russi avevano in mente un piano per farlo fuggire dall’ambasciata dell’Ecuador e portarlo in Russia. Nulla di sorprendente, visto che già nel 2010 dava mandato a un suo collaboratore, Israel Shamir, noto antisemita e negazionista, di procurargli un visto russo.
Dalla Russia con amore, per la libertà e la democrazia, di cui Assange è stato ed è, un grande e disinteressato sostenitore.




Il caso Giappone, bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
Il caso Germania, bombardamento di Dresda
Il caso Vietnam
Il caso Afganistan
Il caso Irak
Il caso Serbia
Il caso Siria
Il caso Libia
Il caso Yemen
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Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » mar mag 03, 2022 8:14 pm

Il caso Giappone, bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
Bombe atomiche sul Giappone
E meno male che la bomba atomica l'hanno avuta per primi gli USA perché se l'avessero avuta Hitler o Stalin probabilmente l'umanità sarebbe già scomparsa.
Agli USA solo grazie, tante grazie!
Le due bombe sul Giappone nazifascista che aveva attaccato gl USA e poi fatto milioni di morti in tutta l'Asia con la sua guerra imperialista, sono servite a far finire la guerra costringendo il Giappone ad arrendersi senza condizioni, altrimenti la guerra sarebbe andata avanti ancora chissà quanto causando molte altre vittime e distruzioni.
Solo Grazie agli USA!
Poi l'esperienza delle due bombe atomiche sul Giappone con le centinaia di migliaia di morti è servita all'umanità intera per evitare la guerra nucleare fino ai nostri giorni che solo il criminale nazifascista del Cremlino oggi minaccia di usare (assieme al suo gemello eterozigote Kim-Jong-un).
https://it.wikipedia.org/wiki/Crimini_d ... giapponesi


«L'onorevole morte dei cento milioni» - Il Post
Davide Maria De Luca
15 agosto 2015

https://www.ilpost.it/2015/08/15/resa-giappone/

Il 15 agosto del 1945 l’imperatore del Giappone si rivolse per la prima volta direttamente al suo popolo e in un messaggio radiofonico annunciò la resa agli Alleati. La Seconda guerra mondiale era ufficialmente terminata, ma non tutti i giapponesi appresero con sollievo la fine di quattro anni di bombardamenti, privazioni e sofferenze. La propaganda diffusa dalla fanatica leadership militare aveva preparato il popolo giapponese a quella che era chiamata «l’onorevole morte dei cento milioni», un suicidio di massa in cui l’intero popolo giapponese sarebbe dovuto morire per evitare l’umiliazione della resa.

L’imperatore trasmise il suo storico discorso intorno a mezzogiorno, sei giorni dopo il bombardamento di Nagasaki. Il paese era allo stremo e da almeno tre anni aveva perso ogni possibilità di ottenere una pace negoziata con i suoi nemici: per convincere il governo militare ad accettare la resa c’erano volute due bombe nucleari, una dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica e le pressioni dello stesso imperatore, una figura considerata semi-divina anche se con pochi poteri effettivi. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto, tuttavia, il tenente Kenji Hatanaka, 33 anni, e altri cospiratori tentarono di compiere un colpo di stato occupando il palazzo imperiale per impadronirsi dei nastri con la registrazione del discorso prima che fosse trasmesso. Per tutta la notte Hatanaka interrogò i funzionari imperiali minacciandoli con una spada da samurai per farsi rivelare dove fossero nascoste le registrazioni. Hatanaka e i suoi uomini erano un gruppo isolato e furono rapidamente neutralizzati, ma le loro idee erano così diffuse negli ambienti militari giapponesi che alcuni loro colleghi avevano studiato dei piani per portare al suicidio l’intera nazione.

Il moderno esercito giapponese, nato alla fine dell’Ottocento durante la rapida modernizzazione del paese, era imbevuto dell’ideologia cavalleresca degli antichi samurai. Ne aveva dato dimostrazione in occasione della guerra russo-giapponese del 1904-05 e durante la Prima guerra mondiale, rispettando i prigionieri di guerra e comportandosi nobilmente con i propri avversari. Quando negli anni Venti il Giappone cominciò ad essere governato da una successione di regimi militari sempre più autoritari – il periodo noto come “Tennosei-fashizumu”, o “fascismo del sistema imperiale” – il codice dei samurai divenne qualcosa di più di un semplice codice di condotta per ufficiali-gentiluomini. Gli ideali cavallereschi del “bushido”, l’antico codice dei samurai, furono estremizzati e trasformati nell’ideologia fanatica che di lì a poco avrebbe prodotto i kamikaze, i famosi piloti suicidi della marina e dell’esercito giapponese. L’idea della “morte onorevole”, presente in tutte le culture cavalleresche, fu trasformata in una macabra e totale devozione e nell’orrore per la resa. Quando nel dicembre del 1941 il Giappone attaccò Pearl Harbour, questi nuovi ideali erano stati inculcati in una nuova generazione di ufficiali fanatici, gli stessi che avrebbero tentato di rapire l’imperatore nella notte del 14 agosto e che negli anni precedenti avevano assassinato ministri e generali considerati “poco patriottici”.

I primi a sperimentare cosa significava in pratica questa nuova ideologia furono i prigionieri di guerra alleati, catturati a decine di migliaia nei primi anni di successi militari del Giappone. I prigionieri furono quasi ovunque trattati con una brutalità selvaggia: aver gettato le armi li aveva resi automaticamente indegni di ogni rispetto. Si calcola che circa un quarto di tutti i prigionieri occidentali catturati dai giapponesi siano morti durante la loro custodia. Per i prigionieri asiatici, come i cinesi, il tasso fu probabilmente diverse volte più alto. Molto presto gli alleati scoprirono che i giapponesi applicavano anche a loro stessi il medesimo tasso di brutalità. I primi sospetti emersero nel 1942, quando dopo la conquista delle Filippine l’esercito giapponese liberò alcuni prigionieri catturati dagli americani all’inizio della campagna. I soldati di truppa furono distribuiti in varie unità, come a voler far dimenticare la loro esistenza. Gli ufficiali, invece, si suicidarono o furono costretti a suicidarsi fino all’ultimo, per fare ammenda del disonore di essere stati catturati vivi. Mano a mano che le fortune della guerra volgevano a sfavore del Giappone, questi gesti divennero un’inquietante normalità. Quando nel luglio del 1944 gli americani conquistarono l’isola di Saipan, più di mille civili giapponesi, insieme a quasi tutti i militari della guarnigione, si suicidarono gettandosi dalle scogliere dell’isola. Quattro mesi dopo l’ammiraglio Takijirō Ōnishi propose la creazione di uno speciale corpo aereo che avrebbe avuto il compito di schiantarsi contro le navi americane. Entro la fine della guerra, circa quattromila giovani piloti giapponesi sarebbero morti nelle operazioni “kamikaze”.

La devozione alla morte non era un patrimonio soltanto dei piloti di aerei e migliaia di fanti seguirono il loro esempio nel corso delle battaglie per la conquista delle isole del Pacifico. A Iwo Jima e Okinawa gli americani presero prigionieri soltanto poche decine di giapponesi, rispetto alle decine di migliaia che difendevano le isole. Tutti gli altri si suicidarono caricando le mitragliatrici americane armati solo di spade e bastoni o facendosi saltare in aria stretti alle proprie bombe a mano nei cunicoli sotterranei. Questa determinazione fanatica fu una delle molte giustificazioni che gli americani utilizzarono per spiegare l’utilizzo della bomba atomica. Soltanto un’arma dal potere distruttivo inimmaginabile, scrissero in molti all’epoca, poteva risparmiare agli Stati Uniti il sanguinoso compito di conquistare le isole del Giappone fanaticamente difese da milioni di militari e decine di milioni di civili pronti a morire.

I timori americani trovavano un corrispettivo nei discorsi fatti negli ultimi giorni di guerra dai più fanatici tra i militari giapponesi, quelli che ritenevano che suicidarsi fosse il dovere di ogni suddito dell’imperatore. I piani per la difesa del Giappone nell’estate del 1945 prevedevano misure di una follia demenziale. Donne, bambini e anziani avrebbero dovuto essere armati di lance di bambù e mandati all’attacco degli americani. Bombe volanti di legno pilotate da ragazzini quattordicenni, per risparmiare sul peso, avrebbero dovuto essere trasportate sulle colline e quindi catapultate contro le forze di invasione. Dove non fosse stato possibile organizzare una qualche forma di difesa, la popolazione avrebbe dovuto semplicemente suicidarsi, come avevano fatto un anno prima i civili di Saipan. In quei giorni, il diario ufficiale del quartier generale delle forze armate giapponese riportava: «L’unica via che rimane al Giappone è che i suoi cento milioni di abitanti sacrifichino le loro vite caricando il nemico per fargli perdere la volontà di combattere».

Nelle sue memorie, il regista giapponese Akira Kurosawa, che all’epoca aveva 35 anni, ricorda che a quel piano la propaganda aveva dato un nome poetico e popolare: «L’onorevole morte dei cento milioni». Quando fu annunciato il messaggio dell’imperatore, in molti credettero che fosse arrivato il momento: il paese non poteva più continuare a combattere, quindi l’intera nazione giapponese avrebbe dovuto scomparire per evitare il disonore della resa. Kurosawa ricordò che la mattina del 15 agosto i negozianti aspettavano seduti in strada occhieggiando le sciabole da samurai in vendita nelle loro vetrine. Poi l’imperatore parlò, in un giapponese arcaico ed elaborato che, come ha ricordato un articolo su Linkiesta, non fu compreso immediatamente da tutti gli ascoltatori. Ma i più istruiti colsero le parti più importanti: il popolo giapponese doveva deporre le armi e questo significava, ricorda ancora Kurosawa, che non ci sarebbero dovuti essere suicidi di massa.

Non sapremo mai fino a che punto il popolo giapponese sarebbe stato pronto a portare avanti i piani suicidi della sua leadership. Probabilmente molto meno di quanto speravano i generali. In ogni caso, molti di loro furono fedeli fino alla fine al loro folle codice d’onore. Poche ore dopo l’annuncio, ad esempio, l’ammiraglio Matome Ugaki, 55 anni, salì su uno degli aerei al suo comando stringendo in mano una sciabola da samurai per compiere un’ultima missione suicida. Il pilota dell’aereo protestò e Ugaki acconsentì a farlo salire insieme a lui, stringendosi nella cabina dell’aereo monoposto. Ugaki e il suo compagno di viaggio insieme a tutti gli altri aerei dello squadrone furono abbattuti pochi minuti dopo. Poche ore prima, il tenente Hatanaka, l’ufficiale che aveva guidato il fallito colpo di stato, si suicidò insieme agli altri cospiratori con un colpo di pistola alla testa davanti al Palazzo Imperiale. Il giorno successivo cento marinai morirono quando uno di loro fece esplodere una grossa carica di esplosivo in uno dei depositi della base. Pochi giorni dopo la resa, l’allora primo ministro giapponese Hideki Tojo cercò di suicidarsi per evitare l’arresto sparandosi al cuore. Tojo si era opposto al piano della “onorevole morte” e fu impiccato nel 1948 dopo aver chiesto scusa per le atrocità compiute del Giappone. La notte stessa della resa anche Onishi, l’inventore dei kamikaze, si uccise. Intorno alle tre di notte si aprì il ventre con la sua spada da ufficiale, secondo l’antico e doloroso rituale suicida dei samurai. La sua agonia durò fino alle 18 del giorno dopo – secondo alcuni testimoni Onishi aveva cercato di ritardare la morte tagliandosi con una spada poco affilata. Nella sua ultima lettera chiese scusa ai familiari dei piloti kamikaze e lasciò la sua ultima poesia:

Limpida e fresca, la luna ora splende
dopo la spaventosa tempesta
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Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » mar mag 03, 2022 8:17 pm


Il caso Germania, bombardamento di Dresda e i bombardamenti tedeschi dell'Inghilterra


Il bombardamento di Dresda fu un bombardamento aereo attuato da Regno Unito e Stati Uniti sull'omonima città della Germania tra il 13 e il 15 febbraio 1945, durante la seconda guerra mondiale.
https://it.wikipedia.org/wiki/Bombardamento_di_Dresda
Distrusse l'intero centro storico di Dresa e uccise varie decine di migliaia di persone, servì ad accelerare la sconfitta della Germania e a far termoinare la guerra iniziata dai nazistoi tedeschi.


Il cosiddetto Baedeker Blitz fu una campagna di bombardamenti strategici attuata dalla Luftwaffe tedesca tra il maggio e l'aprile 1942 ai danni dell'Inghilterra.

https://it.wikipedia.org/wiki/Baedeker_Blitz
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Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » mar mag 03, 2022 8:17 pm

Il caso Vietnam
Fu una guerra ambigua e malata dove si mescolarono elementi positivi contro l'espansione dell'imperialismo comunista di Russia e Cina ed elementi negativi di neocolonialismo francese
che gli USA persero perché vi fu una mobilitazione di massa dei cittadini americani ed europei attivati dalla propaganda comunista filo russa

Guerra del Vietnam
https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_del_Vietnam
La guerra del Vietnam (in inglese Vietnam War, in vietnamita Chiến tranh Việt Nam), nota nella storiografia vietnamita come guerra di resistenza contro gli Stati Uniti (in vietnamita Kháng chiến chống Mỹ) o anche come guerra statunitense (Chiến Tranh Chống Mỹ Cứu Nước, letteralmente “guerra contro gli statunitensi per salvare la nazione”) fu un conflitto armato combattuto in Vietnam fra il 1º novembre 1955 (data di costituzione del Fronte di Liberazione Nazionale filo-comunista) e il 30 aprile 1975 (con la caduta di Saigon, il crollo del governo del Vietnam del Sud e la riunificazione politica di tutto il territorio vietnamita sotto la dirigenza comunista di Hanoi). Il conflitto si svolse prevalentemente nel territorio del Vietnam del Sud e vide contrapposte le forze insurrezionali filocomuniste – sorte in opposizione al governo autoritario filostatunitense costituitosi nel Vietnam del Sud – e le forze governative della cosiddetta Repubblica del Vietnam – creata dopo la conferenza di Ginevra del 1954, successiva alla guerra d'Indocina contro l'occupazione francese.
Il conflitto, iniziato fin dalla metà degli anni cinquanta con il primo manifestarsi di un'attività terroristica e di guerriglia in opposizione al governo sudvietnamita, vide il diretto coinvolgimento degli Stati Uniti d'America, che incrementarono progressivamente secondo la strategia dell'escalation le loro forze militari in aiuto al governo del Vietnam del Sud, fino ad impegnare un'enorme quantità di forze terrestri, aeree e navali dal 1965 al 1972, con un picco di 550.000 soldati nel 1969. Nonostante questo spiegamento di forze, il governo degli Stati Uniti non riuscì a conseguire la vittoria politico-militare, ma subì al contrario pesanti perdite, finendo per abbandonare nel 1973 il governo del Vietnam del Sud. In appoggio alle forze statunitensi parteciparono al conflitto anche contingenti inviati dalla Corea del Sud, dalla Thailandia, dall'Australia, dalla Nuova Zelanda e dalle Filippine. Sull'altro versante, intervenne direttamente in aiuto delle forze filocomuniste dell'FLN (definite Viet Cong dalle autorità statunitensi e sudvietnamite) l'esercito regolare del Vietnam del Nord, che infiltrò, a partire dal 1964, truppe sempre più numerose nel territorio del Vietnam del Sud, impegnandosi in duri combattimenti contro le forze statunitensi nel corso di offensive culminate nella campagna di Ho Chi Minh nel 1975. La Cina e l'Unione Sovietica, inoltre, appoggiarono il Vietnam del Nord e le forze Viet Cong con continue e massicce forniture di armi e con il loro appoggio politico-diplomatico.

Nella terminologia statunitense dell'epoca, si parlò di "aggressione" delle forze comuniste del Vietnam del Nord, sulla base di direttive concrete dei due giganti Cina e Unione Sovietica, al libero e democratico stato del Vietnam del Sud (aggressione considerata naturalmente solo come il primo passo della teoria del domino in tutto il Sud-est asiatico e forse nel Pacifico[50]); in tal modo l'intervento militare statunitense poté essere definito dalla propaganda come un "nobile impegno" per aiutare il governo sudvietnamita.[51] Anche se la guerra del Vietnam fu dipinta dalla propaganda statunitense come lo sforzo di una coalizione di stati democratici in lotta contro la sovversione comunista, la gran parte delle nazioni coinvolte a fianco del Vietnam del Sud mandò pro forma solo contingenti simbolici, per onorare gli obblighi con gli Stati Uniti previsti dai patti di mutua difesa della SEATO. Il più significativo di essi fu senza dubbio il contingente della Corea del Sud, che arrivò a contare ben 48 000 soldati, combattivi e particolarmente temuti[52]; a seguire, subito dopo, l'Australia (7 000 combattenti al 1967[53]), la Thailandia (una divisione nel 1968), le Filippine (2 000 uomini al 1966), Taiwan (altri 2 000 uomini) e la Nuova Zelanda (552).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » sab mag 14, 2022 11:10 am

Il caso Afganistan

WikiLeaks e i segreti della guerra in Afghanistan
Stefania Maurizi
26 Agosto 2021
https://www.micromega.net/wikileaks-e-i ... ghanistan/

[…] Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli «Afghan War Logs», che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […]
Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. In quel periodo i due paesi europei avevano i contingenti più grandi in Afghanistan, dopo quelli di Stati Uniti e Inghilterra: un ritiro delle loro truppe sarebbe stato a dir poco problematico per il Pentagono. Uno dei fattori su cui la Cia faceva più affidamento era proprio l’indifferenza che questa guerra generava nella pubblica opinione occidentale: se ne parlava rarissimamente nei giornali e si vedeva ancora meno in televisione, quindi stragi e atrocità non generavano alcuna reazione nell’opinione pubblica occidentale. «Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan» scriveva infatti la Cia nel documento rivelato da WikiLeaks «ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf.»

Il file consigliava, comunque, di non sperare solo nell’apatia, ma di preparare possibili strategie di persuasione nel caso in cui l’umore dell’opinione pubblica fosse cambiato. Gli argomenti propagandistici da usare con i cittadini francesi erano il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: «La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese».

Mentre la carta da giocare con i tedeschi era quella dei rifugiati: «Messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan possa aumentare il rischio che la Germania sia esposta al terrorismo, al traffico di droga e all’arrivo dei rifugiati potrebbero aiutare a rendere la guerra più importante per chi è scettico verso di essa».
Per quanto rilevante, questo documento non aveva avuto un grande impatto, quando però il 25 luglio 2010 WikiLeaks rivelò gli Afghan War Logs, i documenti furono rilanciati in tutto il mondo e la reazione del Pentagono fu durissima.

Una straordinaria finestra sul conflitto

I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto.

I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, significant activities) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell’amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli Improvised explosive devices (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati.

Ognuno dei report era come un’istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence.

I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello secret.

I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese «The Guardian» aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e con i droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan.

La Task Force 373 era un’unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force [2].

Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione.

Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il «Guardian» aveva ricostruito, (3) venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano.

I file, però, non rivelavano solo i massacri commessi dalle truppe americane, ma anche dai talebani, in modo particolare quelli causati dai loro atroci attacchi con gli Ied. Secondo i dati riportati dal «Guardian», dal 2004 al 2009 il database degli Afghan War Logs permetteva di ricostruire come gli Ied avessero causato oltre duemila vittime civili e come il 2009 fosse stato un anno particolarmente terribile, con cento attacchi in appena tre giorni. [4] Il quotidiano londinese evidenziava come gli Ied fossero l’arma preferita dai talebani, quella con cui cercavano di contrastare la schiacciante superiorità tecnologica delle truppe occidentali.

L’intensificarsi degli attacchi contro truppe americane e della coalizione internazionale era registrato nei file a partire dalla fine del 2005. Scavando nella documentazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva ricostruito che questa escalation era anche dovuta al fatto che i talebani e i signori della guerra, come il famigerato Gulbuddin Hekmatyar, minacciavano o anche pagavano cifre importanti, che potevano arrivare a diecimila dollari, [5] affinché la guerriglia locale portasse avanti azioni contro i soldati.

I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del «New York Times» nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terraaria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin.
Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan. [6]

Quanto ai droni, presentati spesso come un’arma infallibile a rischio zero – visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti –, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale «Der Spiegel», in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni [7] e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni.

A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche. [8]

Mentre scrivo nessuno sa che tipo di futuro attende l’Afghanistan. In particolare per quanto riguarda le donne, nel caso in cui i talebani tornassero al potere, anche perché nel frattempo nel paese è arrivato anche l’Isis. L’unica certezza è che non esistono dati affidabili su quanti civili siano stati ammazzati dall’ottobre del 2001 al 2006, mentre si sa che solo nel periodo dal 2009 al 2019 sono stati uccisi almeno 35.518 civili e ne sono stati feriti 66.546. Questo significa oltre tremila morti innocenti all’anno: è come se dal gennaio del 2009 al dicembre del 2019 in Afghanistan ci fosse stato ogni anno un 11 settembre, [9] eppure questa guerra è sempre rimasta fuori dallo schermo radar dell’opinione pubblica occidentale. E senza il coraggio di Chelsea Manning e di WikiLeaks, il segreto di Stato e la macchina della propaganda bellica non ci avrebbero mai permesso di acquisire le informazioni fattuali che abbiamo scoperto grazie agli Afghan War Logs. L’allora direttore del «New York Times», Bill Keller, li aveva definiti [10] «una straordinaria finestra su quella guerra».

Subito dopo la loro pubblicazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva intervistato Julian Assange, [11] chiedendogli: «Lei avrebbe potuto creare un’azienda nella Silicon Valley e vivere a Palo Alto in una casa con piscina. Perché ha invece deciso di dedicarsi alla creazione di WikiLeaks?».
Assange aveva risposto: «Si vive solo una volta e quindi abbiamo il dovere di far un buon uso del tempo a disposizione e di impiegarlo per compiere qualcosa di significativo e soddisfacente. Questo è qualcosa che io considero significativo e soddisfacente. È la mia natura: mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi. E quindi è un lavoro che mi fa sentire bene».

Ma il Pentagono non la vedeva allo stesso modo e reagì con furia alla rivelazione degli Afghan War Logs. L’allora segretario alla Difesa Robert Gates promise subito «un’inchiesta aggressiva», mentre l’ammiraglio Mike Mullen aveva subito dichiarato: «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana».
Un’accusa questa che sarebbe stata ripetuta acriticamente dai media per oltre un decennio, danneggiando seriamente Wiki-Leaks. Ma era vera?

Le mani sporche di sangue

Il veleno che il Pentagono aveva iniettato nel dibattito pubblico su WikiLeaks non tardò a dare i suoi frutti. Pochi giorni dopo la pubblicazione dei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, l’idea che Julian Assange e la sua organizzazione fossero dei pericolosi irresponsabili iniziò a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali. Le parole dell’ammiraglio Mike Mullen sulle «mani sporche di sangue» si riferivano al fatto che, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la diffusione dei 76.910 documenti segreti esponeva le truppe americane, quelle della coalizione internazionale e i collaboratori afghani – che fornivano loro informazioni e assistenza sul campo – al rischio di attentati da parte dei talebani, perché alcuni di quei file contenevano nomi o dettagli che permettevano di identificarli.

Era chiaro che il Pentagono avesse un grandissimo interesse nel delegittimare WikiLeaks a causa della pubblicazione di quei file e di altri precedenti, come il video Collateral Murder. Gli Afghan War Logs costituivano una vera e propria miniera di informazioni: la stampa e l’opinione pubblica mondiale potevano confrontare le dichiarazioni dei vari leader militari e governi, che avevano inviato truppe in Afghanistan, con i dati contenuti nei file e scoprire le menzogne ufficiali, le omissioni e le manipolazioni.

Quei documenti permettevano per la prima volta di diradare la nebbia della guerra, mentre il conflitto in Afghanistan era in corso e non venti o trent’anni dopo, quando ormai i fatti potevano interessare giusto agli storici di professione.
Era dal 1971, quando Daniel Ellsberg fece uscire i Pentagon Papers – settemila documenti top secret sul Vietnam –, che l’opinione pubblica non aveva più avuto l’opportunità di accedere a migliaia di informazioni riservate su una guerra mentre questa era in corso. Di fronte alla dichiarazione dell’ammiraglio Mike Mullen era d’obbligo una notevole dose di sano scetticismo, perché era ovvio che il Pentagono fosse furioso con Assange. Eppure quelle parole fecero subito breccia nell’opinione pubblica e nei media.

WikiLeaks non aveva pubblicato le rivelazioni sull’Afghanistan da sola, aveva stabilito una collaborazione con tre grandi giornali internazionali: il «New York Times», il quotidiano inglese «The Guardian» e il settimanale tedesco «Der Spiegel». Come già fatto con me nel caso del file audio sulla crisi dei rifiuti a Napoli, Assange e il suo staff avevano scelto di collaborare con i reporter di quelle tre grandi redazioni per diverse settimane, durante le quali i giornalisti avevano avuto accesso esclusivo ai documenti segreti in modo da poterne verificare l’autenticità e indagare sulle rivelazioni più importanti che ne emergevano.

Finito questo lavoro, il «New York Times», il «Guardian» e «Der Spiegel» avevano pubblicato le loro inchieste basate sugli Afghan War Logs e WikiLeaks aveva reso pubblici sul suo sito web i 76.910 file in modo che, dopo un periodo di accesso garantito solo a quei tre media, chiunque potesse leggerli.

Assange e il suo staff chiamavano questo tipo di collaborazione media partnership e la strategia aveva funzionato: tutto il mondo aveva seguito quelle rivelazioni, che avevano avuto un grande impatto internazionale ed erano state riprese da giornali, televisioni e media di ogni angolo del pianeta. Ormai WikiLeaks era un fenomeno globale.

Due cose mi colpivano, in particolare, di questa organizzazione: innanzitutto la sua scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e alle informazioni, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche mirate e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto.

Trovavo questa scelta rivoluzionaria, perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui era più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li avevano riportati nei loro articoli: ne avevano scritto fedelmente oppure li avevano distorti, esagerati o censurati? Questo processo di democratizzazione dava potere ai lettori comuni: non erano solo recipienti passivi di quello che riportavano giornali, televisioni, radio, ma per la prima volta avevano accesso diretto alle fonti primarie e questo diminuiva l’asimmetria tra chi aveva questo privilegio, come i reporter, e chi no.

Oltre alla democratizzazione dell’informazione, mi colpiva ancora una volta il coraggio di Julian Assange e di tutti i giornalisti di WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, infatti, non si era limitato ad accusarli di avere «le mani sporche di sangue», ma aveva anche intimato loro di rimuovere completamente gli Afghan War Logs dal sito e di restituire 15.000 file sulla guerra in Afghanistan che non avevano ancora reso pubblici. «L’unica soluzione accettabile» aveva dichiarato pubblicamente il portavoce del Pentagono, Geoff Morrell, «è che WikiLeaks restituisca immediatamente tutte le versioni di quei documenti al governo degli Stati Uniti e che cancelli una volta per tutte i file dal proprio sito web e dai suoi computer». Poi aveva aggiunto: «Se fare la cosa giusta per loro di WikiLeaks non va bene, allora vedremo che alternative abbiamo di costringerli a fare la cosa giusta».

Era un’intimidazione da non sottovalutare: con la guerra al terrorismo, gli Stati Uniti avevano dimostrato che non si sarebbero fermati davanti a nulla e avrebbero usato ogni tipo di mezzo legale o illegale, dalla tortura agli assassini con i droni, contro chi percepivano come una minaccia alla loro sicurezza. Allo stesso tempo era da escludere che avrebbero usato mezzi così sfacciatamente brutali per neutralizzare Assange e WikiLeaks, che era un’organizzazione giornalistica del mondo occidentale e ormai molto visibile. Il documento del 2008 del controspionaggio americano, l’Army Counterintelligence Center (Acic) – che WikiLeaks stessa aveva rivelato –, aveva fatto emergere come le autorità americane puntassero a neutralizzarli colpendo le fonti che passavano loro documenti segreti, piuttosto che colpendoli direttamente.

In ogni caso quelle minacce andavano prese molto sul serio: suonavano grottesche a chiunque avesse un’idea della sproporzione tra la potenza e le risorse del Pentagono e quelle di una piccola organizzazione come WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti avrebbe potuto schiacciarla come un moscerino in qualunque momento. Ma Assange e il suo staff non si piegarono a quell’intimidazione. E per questo avrebbero pagato un prezzo molto alto.

NOTE

1. Il documento riservato della Cia è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://wikileaks.org/wiki/CIA_report_i ... 1_Mar_2010.

2. Nick Davis, Afghanistan War Logs: Task Force 373 – special forces hunting top Taliban, in «The Guardian», 25 luglio 2010.

3. Ibid.

4. Nick Davies e David Leigh, Afghanistan War Logs: Massive leaks of secret files exposes the truth of occupation, in «The Guardian», 25 luglio 2010; Declan Walsh, Paul Simon e Paul Scruton, WikiLeaks Afghanistan files: every Ied attack with coordinates, in «The Guardian», 26 luglio 2010.

5. Explosive leaks provide image of war from those fighting it, in «Der Spiegel», 25 luglio 2010.

6. C.J. Chivers, C. Gall, A.W. Lehren, M. Mazzetti, J. Perlez, E. Schmitt et al., View is bleaker than official portrayal of war in Afghanistan, in «The New York Times», 25 luglio 2010.

7. Explosive leaks provide image of war from those fighting it, cit.

8. Il fatto che per i civili uccisi in Afghanistan dal 2001 al 2006 non esistano dati certi mi è stato dichiarato dalla missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, attraverso una comunicazione personale del 18 novembre 2020 di Liam McDowall, Director of Strategic Communications dell’Unama.

9. I dati sui civili uccisi e feriti provengono dal report della missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, dal titolo: Afghanistan protection of civilian in armed conflicts, 2019, pubblicato da Unama nel febbraio del 2020 e consultabile al link: https://unama.unmissions.org/sites/defa ... t_2019.pdf.

10. The War Logs articles, in «The New York Times», 25 luglio 2010.

11. John Goetz e Marcel Rosenbach, I enjoy crushing bastards, in «Der Spiegel», 26 luglio 2010.

(credit foto EPA/STRINGER)

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Demenzialit, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » sab mag 14, 2022 11:11 am

Il caso Irak

Stefano Pagani Agostini
Alberto Pento "A difesa del bene" ??? L'immaginazione vacilla... La Storia anche... Ha mai letto la biografia di Dulles, il fondatore della CIA ? E i 500.000 bambini morti in Iraq, rappresentavano il male ?


Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 22 maggio 2003 approvò la Risoluzione n. 1483 con la quale sollecitava la Comunità Internazionale a contribuire alla stabilità ed alla sicurezza del Paese iracheno. Il 15 luglio 2003 iniziò la missione italiana denominata «Antica Babilonia» alle dipendenze delle forze britanniche nel sud del Paese nella regione di Dhi Qar. Il 16 ottobre 2003, il Consiglio di Sicurezza approvò all'unanimità, ai sensi del capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, la risoluzione nº 1511 del 16 ottobre 2003 sull'Iraq che gettava le basi per una partecipazione internazionale e delle Nazioni Unite alla ricostruzione politica ed economica dell'Iraq e al mantenimento della sicurezza.
https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_in_Iraq

Niram Ferretti
Stefano Pagani Agostini quali fonti? Ci illumini. No l' aggressione nei confronti di un paese retto da un dittatore sanguinario che aveva provveduto a gassare i curi a scatenare una guerra con il Kuwait e prima con l'Iran, non è la più grave aggressione nei confronti di un paese. Lei deve mettersi di nuovo a studiare e cominciare dalle basi. Il suo antiamericanismo da centro sociale occupato è infantile e regressivo. Vada caro, e torni più preparato a settembre.


Stefano Pagani Agostini
Niram Ferretti Le dirò, i suoi punti di vista su Israele e Medio Oriente mi sono sempre piaciuti, e sono la ragione per cui le ho chiesto l'amicizia FB. Questo suo livore fanatico sul conflitto fra Russia e Ucraina invece mi ha stupito per la totale mancanza di equilibrio. Le stupidaggini che scrive su di me posso anche perdonarle, anche se solo gli sciocchi attaccano le persone e non le idee, ma, come le dicevo, questi suoi toni mi infastidiscono e preoccupano non poco. E glielo dico da psicologo. Non posso che prescriverle una buona camomilla, e qualche passeggiata in campagna.

Tiziana Alvari
Stefano Pagani Agostini forse dovrebbe fare qualche analisi anche su stesso. Credo che ripetere slogan consunti e mettere in un calderone senza senso tutti gli interventi Usa sia non poco preoccupante.

Niram Ferretti
Stefano Pagani Agostini lei sarà uno psicologo, ma dovrebbe occuparsi più a fondo della sua disciplina invece di scrivere lei delle cretinate che farebbero arrossire il mio dorghiere. Livore? Non c'è alcun livore in ciò che scrivo, ci sono constatazioni basate sulla conoscenza dei fatti che lei, evidentemente non conosce. Grazie per l'invito a fare passeggiate, è un ottimo consiglio che rivolgo anche a lei, soprattutto a lei. Quanto alla camomilla, dovrebbe sapere, se mi segue, che preferisco il napalm.

Francesca Mega
Niram Ferretti ma è sbagliato parlare a lungo con questa gente.
Ieri abbiamo visto il video in cui PUTIN stesso dice che attorno all'acciaieria dove ci sono molte centinaia di persone, "non deve volare una mosca".
Siamo sicuri che tutti abbiano capito cosa significhi?
Significa che Putin mette sotto ASSEDIO quelle centinaia di persone, in quattro parole li fa morire di sete.
L'assedio è una tecnica bellica che praticamente non viene più usata dal XVIII secolo, ma Putin è rimasto lì.
E anche i suoi fan.
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Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » sab mag 14, 2022 11:11 am

Il caso Serbia


Gli interventi militare ONU e NATO contro la Serbia a difesa dei Bosniaci e dei Kosovari, per fermare il loro eccidio, la pulizia etnica da parte dei Serbi (e non per predare territori come la Russia sta facendo in Ucraina per sottrarre la Crimea e il Donbass, uccidendo gli ucraini e distruggendo l'Ucraina).
La NATO intervenne al posto dell'ONU dopo decisione ONU che però venne bloccata dal veto Russo allo stesso modo che oggi la Serbia si schiera con la Russia contro l'Ucraina e la UE e gli USA che la difendono.


Primo intervento NATO in Serbia nel 1995 per la Bosnia
https://it.wikipedia.org/wiki/Operazion ... rate_Force
L'operazione Forza Deliberata (in inglese Operation Deliberate Force) era il nome di una campagna militare aerea condotta nel 1995 dalla NATO contro le forze della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Attuata formalmente con il richiamo alla Risoluzione n. 836 delle Nazioni Unite.



Secondo intervento NATO in Serbia nel 1999 per il Kosovo

https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Allied_Force
A marzo a seguito di risposte negative da parte della Serbia a tornare alle sedi diplomatiche attuative degli accordi presi, e dopo ripetute minacce di intervento da parte della NATO, con la minaccia di veto da parte della Russia e della Cina che impediscono di fatto un pronunciamento del Consiglio di Sicurezza, la NATO decide di intervenire con attacchi aerei per imporre alla Serbia il rispetto degli accordi di Rambouillet.
Pochi giorni prima gli osservatori dell'OSCE vengono fatti evacuare dal Kosovo.



Quando la Nato decise di colpire la Serbia per fermare il massacro in Kosovo
Redazione Agi.it
Ugo Barbàra


https://www.agi.it/estero/news/2022-03- ... -16121154/

Gli effetti dei bombardamenti della Nato su Belgrado

AGI - In Europa la data del 24 marzo coincide con il tragico ricordo dell’avvio dei bombardamenti compiuti nel 1999 sulle città di Belgrado in Serbia e di Pristina in Kosovo da parte di aerei NATO decollati da aeroporti italiani. Una ‘ricorrenza’ che, a distanza di 23 anni cade proprio nel mezzo di una nuova guerra piombata sul vecchio continente: è precisamente un mese che la Russia ha dato il via all’invasione dell’Ucraina, iniziata lo scorso 24 febbraio.

Il conflitto in Jugoslavia fu la prima vera guerra dopo il 1945, pertanto quel fatidico 24 marzo 1999 segnò l’inizio di una delle pagine più buie della storia recente dell’Europa. Quel giorno, verso le ore 16, la Forza Alleata (Allied Force) della Nato – costituita da Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Canada, Spagna, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Turchia, Paesi Bassi e Belgio – avviò la sua operazione contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milosevic, consistita in una intensa campagna di attacchi aerei a fine strategico durata oltre due mesi, fino al 10 giugno, evitando scrupolosamente l’opzione dell’attacco terrestre.

L'operazione Allied Force è la seconda azione militare nella storia della NATO, dopo l'operazione Deliberate Force del 1995 in Bosnia ed Erzegovina. L'operazione Allied Force è inoltre la prima volta in cui la NATO ha usato la forza militare senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il che ha innescato dibattiti sulla legittimità dell'intervento.

Sulla carta l’intervento deciso dalla NATO era teso a riportare la delegazione serba al tavolo delle trattative politiche, che aveva abbandonato dopo averne accettato le conclusioni (Trattato di Rambouillet), e a contrastare lo spostamento della popolazione del Kosovo allo scopo di predisporre una sua spartizione tra Serbia e Albania.

Anche se l'esistenza di un piano predisposto a tale scopo non è mai stata provata con sufficiente certezza, resta un fatto che appena iniziarono le incursioni aeree NATO l'esercito serbo attuò operazioni volte a ottenere esodi massicci e compì in taluni casi dei veri massacri.

In Kosovo - allora appartenente alla Repubblica Federale di Jugoslavia – le forze serbe attaccarono i civili kosovari albanesi, massacrandoli e costringendoli ad un drammatico esodo nelle vicine Albania e Macedonia. Tuttavia, a compiere violenze ai danni dei cittadini d’etnia serba, già a partire dal 1995, fu la guerriglia dell’UCK – infiltrata anche da veterani musulmani e croati – che mirava all’indipendenza completa del Kosovo. Da marzo 1998 l’escalation della crisi - caratterizzata dall'intensificarsi delle attività dell'UCK e da una occupazione militare progressiva del Kosovo da parte delle forze militari e paramilitari serbe – spinse vari Paesi europei, Stati Uniti e Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a interessarsi più da vicino allo scenario.

L’operazione NATO si è sviluppata in tre fasi. La prima era volta a togliere alla Serbia ogni capacità di offesa e difesa aerea, tramite il sistematico bombardamento di aeroporti militari, postazioni missilistiche antiaeree e radar. Nella seconda fase gli attacchi aerei alleati si sono rivolti a obiettivi militari generici, con particolare attenzione alle forze serbe presenti nel Kosovo. La terza fase ha avuto come obiettivo primario quello di colpire bersagli civili e militari nel tentativo di paralizzare il Paese, avendo come principali obiettivi i ponti - con alcuni gravi incidenti - e le centrali elettriche, ma anche le telecomunicazioni, per obbligare il governo serbo – sostenuto per un periodo da Russia e Cina – a una resa e spingere il popolo serbo a fare pressioni sul proprio esecutivo.

Tra gli episodi salienti ci fu la prima notte di bombardamenti con attacchi a postazioni militari e aeroporti in Kosovo e nei dintorni di Belgrado, anche con missili da crociera. Fu immediato l’afflusso dei primi profughi kosovari presso le frontiere albanese e macedone. Il 5 aprile 1999 una bomba caduta in un’area abitata causò 17 morti mentre una settimana dopo il bombardamento di un ponte sul quale transitava un treno provocò 50 vittime. Il 13 aprile l’esercito serbo colpì con artiglieri un villaggio di frontiera albanese e l’indomani 75 civili kosovari furono uccisi per errore da aerei NATO.

A fine aprile la capitale serba venne bombardata con bombe incendiarie contro il quartier generale del Partito Socialista Jugoslavo e la torre della televisione pubblica serba, causando 16 morti. Nella piccola città di Murino, in Montenegro, sei persone, di cui tre bambini, morirono nel bombardamento di un ponte. Il 1 maggio, 47 civili furono uccisi dopo che il loro bus venne centrato mentre attraversava un ponte. L’8 maggio l'ambasciata cinese a Belgrado venne colpita per un probabile errore di intelligence, causando tre morti e un grave incidente internazionale.

Il 13 maggio, dopo un apparente ritiro serbo dal Kosovo, e il ricorso della Serbia contro la NATO per genocidio presso il Tribunale Internazionale dell'Aia - rigettato il 2 giugno – ci furono 60 morti e 80 feriti causati dalla NATO contro il villaggio kosovaro di Korisa. La NATO accusò i serbi di aver usato i civili come scudi umani.

Il 21 maggio, circa 100 detenuti morirono durante il bombardamento di un carcere a Pristina. Il 27 maggio, il Tribunale Internazionale dell'Aia iniziò a indagare su Milosevic e alti ufficiali per crimini di guerra. Tra il 30 e il 31 maggio furono compiute tre stragi di civili in vari bombardamenti NATO che, però, negò ogni responsabilità, come nell’ospedale di Surdulica (Sud), con un bilancio di 20 vittime, e nel villaggio di Novi Pazar, con 23 morti.

Il 1 giugno il presidente Milosevic accettò le decisioni del G8 e iniziò la pianificazione di una missione di pace in Kosovo. Il 9 giugno lo Stato Maggiore serbo firmò con la NATO l’accordo di Kumanovo sul ritiro dal Kosovo e l’indomani, dopo 78 giorni di bombardamenti, le missioni di attacco furono sospese.

Secondo dati ufficiali, in tutto furono compiuti 2.300 attacchi aerei da parte della Forza Alleata, distruggendo 148 edifici e 62 ponti, danneggiando 300 scuole, ospedali e istituzioni statali, così come 176 monumenti di interesse culturale e artistico. Gli aerei coinvolti, in tutto un migliaio, partirono dall’Italia, ai quali si aggiunsero 30 navi da guerra e sottomarini salpati nell’Adriatico e in un secondo momento parte delle operazioni ebbero inizio in Ungheria.

Sono molto variabili i bilanci riguardanti le perdite umane in Kosovo, anche perché riguardano da un lato le vittime dei bombardamenti Nato e dall’altro quelle dei massacri compiuti sia dalle forze serbe che dalla guerriglia albanese dell’UCK, dando luogo a un’altra guerra, quella dei numeri, diventata anche quella dei media.

Le bombe sganciate dalla Forza Alleata avrebbero causato in tutto la morte di 2.500 civili, tra i quali 89 bambini, 12.500 feriti e un numero di profughi che va da 700 mila a un milione. Human Rights Watch ha calcolato fra 489 e 528 le perdite di civili jugoslavi provocate dai bombardamenti. In queste cifre non sono comprese le morti di leucemia e di cancro causate dagli effetti delle radiazioni dei proiettili a uranio impoverito.

Sul versante del genocidio – che ha avuto come posta in gioco anche la legittimazione dell’intervento militare NATO e il concetto di ‘guerra umanitaria’ – in Kosovo i civili uccisi furono più di 13 mila, di cui circa 10 mila albanesi, 2 mila serbi e 500 tra rom, bosniaci e cittadini di altre etnie. I dispersi furono migliaia, i profughi più di 250 mila.



Processo e condanna di Milosovich

Slobodan Milošević (ascolta pronuncia[?·info], in cirillico: Слободан Милошевић, pronuncia IPA [sloˈbodan miˈloʃevitɕ]; Požarevac, 20 agosto 1941 – L'Aia, 11 marzo 2006) è stato un politico serbo.
https://it.wikipedia.org/wiki/Slobodan_ ... 1evi%C4%87
È stato presidente della Serbia dal 1989 al 1997 e presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia dal 1997 al 2000 come leader del Partito Socialista di Serbia e fu tra i protagonisti politici delle Guerre nella ex-Jugoslavia. Fu accusato di crimini contro l'umanità per le operazioni di pulizia etnica dell'esercito jugoslavo contro i musulmani in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo ma il processo a suo carico presso il Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia (Tpi) si estinse nel 2006 per sopraggiunta morte prima che venisse emessa la sentenza.
Contro di lui era stata mossa anche l'accusa di aver disposto l'assassinio di Ivan Stambolić, suo mentore negli anni ottanta del XX secolo e suo possibile avversario nelle elezioni presidenziali del 2000.



Guerra in Ucraina: cosa ci dice il precedente della Jugoslavia?
Giorgio Fruscione
15 marzo 2022
https://www.ispionline.it/it/pubblicazi ... avia-34133

La guerra in Ucraina è scoppiata a trent’anni dall’inizio di quella in Bosnia-Erzegovina, il capitolo più lungo e violento del processo di dissoluzione della Jugoslavia. I due conflitti si inseriscono in categorie spazio-temporali e geopolitiche distinte e, sebbene la guerra in Ucraina sia appena alle fasi iniziali, quella nella ex Jugoslavia, con particolare riferimento al periodo 1991-1995, offre il pretesto per un’analisi comparata che, possibilmente, aiuti a comprendere meglio l’invasione russa. Esistono, pertanto, delle analogie e delle differenze negli elementi che compongono le due guerre, come gli schieramenti in campo, il bagaglio retorico che accompagna, e sostiene, gli sviluppi bellici, così come gli allineamenti diplomatici a livello internazionale.


Lo squilibrio di forze

Il conflitto in Ucraina mostra già un elemento in comune con la guerra che deflagrò in Jugoslavia: lo squilibrio delle forze in campo. Anche se ufficialmente la Russia continua a negare la natura degli eventi in corso, non definendoli “guerra” o “invasione” preferendo l’espressione “operazione speciale”, l’analogia con le prime fasi del conflitto jugoslavo riguarda la maggior grandezza militare dell’aggressore, sia in termini di soldati effettivi, che di armamenti, con l’esercito russo oggi e quello jugoslavo ieri considerati tra i più potenti al mondo. Tuttavia, una differenza con la guerra in Ucraina sta nel fatto che, dopo un iniziale coinvolgimento dell’esercito jugoslavo in Croazia e nelle prime fasi della guerra in Bosnia, la guida delle operazioni belliche dal lato serbo venne assunta dai rispettivi eserciti locali, con un graduale disimpegno dei vertici militari di Belgrado. Questo avvenne in virtù della dissoluzione ufficiale della federazione socialista nell’aprile del 1992, quando Serbia e Montenegro costituirono la Repubblica Federale di Jugoslavia. Una mossa che Belgrado sfruttò nel tentativo di dimostrare alla comunità internazionale che quella in corso non era una guerra di aggressione, bensì civile, nonostante il regime di Slobodan Milosevic appoggiasse direttamente i serbi nelle repubbliche secessioniste. Questi infatti continuarono ad usufruire delle basi e degli armamenti jugoslavi che erano presenti in quei territori e a cui vennero cambiati i vessilli, determinando, fino alla fine del conflitto, un grande squilibrio di forze. Un’altra differenza sta quindi nella predominanza del ruolo di comando politico e militare delle leadership dei serbi di Croazia e Bosnia rispetto a Belgrado, che nella fase finale del conflitto riuscì a “controllare” sempre meno le leadership serbe locali, anche se ne assunse la rappresentanza diplomatica fino agli accordi di Dayton del 1995. Lo conferma il fatto che le responsabilità di diversi crimini di guerra e contro l’umanità in Bosnia vennero ascritte in misura maggiore a leader e comandanti serbi locali, come l’ex presidente della Republika Srpska Radovan Karadzic e il generale Ratko Mladic, rispetto ai vertici statali di Serbia e Montenegro. In Ucraina, al momento, il ruolo di comando è più verticistico e riconducibile direttamente a Mosca, piuttosto che a rappresentanti locali. Anche a livello mediatico, la rilevanza politico-militare delle leadership dei territori secessionisti del Donbass sembra al momento molto limitata rispetto al ruolo del Cremlino, che si pone dunque come unico artefice della strategia d’invasione dell’Ucraina. Una relazione che, come nel caso jugoslavo, potrebbe cambiare col proseguire del conflitto qualora Mosca ritorni a combattere una guerra per procura, come ha fatto in Donbass dal 2014.


La retorica di guerra

Una delle questioni più interessanti è relativa all’armamentario ideologico e retorico che ha accompagnato l’inizio di entrambe le guerre. Come detto, nella guerra in corso viene categoricamente evitata la parola “guerra”, obbligando la Russia stessa ad un’ambiguità diplomatica a livello internazionale, e ad una negazione della realtà a livello interno, dove reprime le proteste “contro la guerra” e limita fortemente l’informazione. Inoltre, ciò che merita particolare attenzione è che fino alla vigilia del conflitto il presidente russo Vladimir Putin non aveva fatto ricorso alla consueta retorica bellica, utile a sostenere la chiamata alle armi e ad incentivare il supporto politico interno a favore delle operazioni militari. In altre parole, il Cremlino ha fatto uno scarso e tardivo uso della narrazione nazionalista che, nella tradizione degli stati nazionali, ha per secoli messo un popolo contro l’altro, affinché si giustificasse l’aggressione di paesi vicini. Questo sarebbe in parte dimostrato dai casi riportati di soldati russi che spontaneamente si arrendono, abbandonano le armi, se non addirittura si scusano per l’aggressione. Ucraina e Russia, anche dopo la fine dell’URSS e in virtù degli stessi interessi di Mosca, almeno fino al 2014 sono state intese come “nazioni sorelle”. Alcune truppe russe non capiscono quindi la necessità di attaccare una popolazione a cui sono sempre stati legati e con cui condividono diversi caratteri storici e culturali, nonché religiosi.
Nel 1991, invece, quando iniziò la guerra in Jugoslavia, il terreno per lo scontro armato era fertile da anni, anche tra i suoi popoli costituenti. Quando la crisi economica della federazione cominciò a minare le basi dell’“unione e fratellanza”, i singoli leader nazionali iniziarono ad accusarsi a vicenda, esacerbando la dialettica etnonazionalista. L’iniziale indipendentismo economico di Slovenia e Croazia si arricchì della componente nazionalistica culturale e religiosa che, retoricamente, contrappose i rispettivi popoli, cattolici e presentati come “mitteleuropei”, all’ortodossia serba e a un’identità, quella balcanica, orientalisticamente intesa come arretrata e molto distante dalle società di Lubiana e Zagabria. Dal canto loro, i musulmani di Bosnia si trovarono, nell’etnopolitica che andava instaurandosi in quegli anni, schiacciati tra le mire politiche e militari di vecchie ideologie nazionaliste riassumibili nei concetti di “Grande Serbia” e “Grande Croazia”. Il caso della Bosnia richiama però molto anche quanto dichiarato da Putin nel discorso che ha spianato la strada ai carri armati russi: l’Ucraina non sarebbe uno stato, gli ucraini non sarebbero una nazione e la statualità ucraina sarebbe finzione e frutto della politica russa. Un’argomentazione, falsa, che serve gli scopi bellici allo stesso modo di come il nazionalismo gran-serbo negò l’identità bosniaca, nonché la possibilità di una Bosnia-Erzegovina indipendente. Una narrazione, politicamente forzata, ancora presente nei circoli nazionalisti. Quando i popoli della Jugoslavia furono portati alle armi, dunque, le contrapposte mobilitazioni militari venivano da anni di manipolazioni narrative e strumentalizzazioni storiche che contribuirono a rendere particolarmente efferati i primi mesi di guerra.
Infine, ciò che i due conflitti condividono ampiamente, relativamente al bagaglio retorico di guerra, è il ricorso alle categorie della Seconda guerra mondiale. Le giustificazioni di Mosca oggi, come quelle di Belgrado ieri, si sono concentrate nel presentare il nemico con la definizione di “nazista”. La propaganda russa sostiene di voler “denazificare” Kiev, ovvero di volerla liberare, facendo quindi ampio ricorso alla mitologia sovietica, di cui Putin oggi si vorrebbe porre in continuazione storica, nonché all’eroismo della “Grande guerra patriottica” che mise fine agli assedi nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Similmente, croati e serbi impiegarono opposte identificazioni la cui matrice è propria del periodo dell’occupazione nazifascista del Regno di Jugoslavia. Nel 1991 i croati vennero etichettati come “ustascia”, ovvero i collaborazionisti fascisti, e il loro indipendentismo venne inteso come il progetto di ricreare una Nezavisna Drzava Hrvatska, cioè lo stato fantoccio che tra il 1941 e il 1945 comprendeva anche l’odierna Bosnia-Erzegovina. Viceversa, i serbi vennero identificati come “cetnici”, riprendendo il nome delle truppe fedeli alla monarchia serba che collaborarono con gli occupatori. Va detto che talvolta sono state le stesse autorità di Belgrado e di Zagabria a ripescare volontariamente simbologie e terminologie della Seconda guerra mondiale, riabilitando personaggi e reinterpretando episodi storici alla luce della guerra degli anni Novanta per consolidare la propria legittimazione politica.
Quanto all’attuale confrontazione tra Ucraina e Russia, una simile strumentalizzazione della storia potrà essere analizzata meglio al termine del conflitto o in una sua fase più avanzata. Anche se, pure qui dal 2013 alcuni processi di riabilitazione di personaggi controversi nonché la rivisitazione di certi episodi storici hanno contribuito ad alimentare i due contrapposti armamentari retorici.


Un mondo diverso, ri-NATO

Nel 1991, le relazioni internazionali stavano vivendo una stagione di rapidi sconvolgimenti e riforme. La divisione dei blocchi era appena finita e l’Unione Sovietica cessava di esistere. Il trattato di Maastricht, un anno dopo, pose le basi dell’odierna Unione Europea. L’Occidente per come lo conosciamo oggi era agli albori. Soprattutto, la NATO iniziava a interrogarsi sulla propria ragion d’essere. La fine della Guerra fredda l’aveva privata dell’elemento di contrapposizione: la Federazione russa, negli anni Novanta, aveva perso l’aura di potenza globale dell’epoca sovietica, le aperture al capitalismo e la successiva crisi economica ne limitarono l’attivismo sul fronte internazionale e la distensione dei rapporti con gli USA agevolò, almeno su alcuni dossier, uno spirito di collaborazione piuttosto che di competizione. La crisi jugoslava offrì all’Alleanza la possibilità di indagare la propria identità, anche trascendendo la dottrina del difensivismo. Nei dieci anni successivi alla fine dell’URSS, tutte le missioni NATO si sono concentrate nell’ex Jugoslavia. Missioni che dimostrarono sia una rinnovata capacità militare, specie nel settembre del 1995, quando furono colpite le postazioni serbo-bosniache ponendo fine agli attacchi alle zone protette dell’ONU, sia i suoi eccessi “umanitari”, capaci di prevaricare sul diritto internazionale, come quando nel 1999 decise, senza l’avallo ONU, di bombardare la Serbia e il Montenegro per porre fine alla guerra in Kosovo.
La guerra in corso ha invece risvegliato dal torpore diplomatico l’Alleanza, di cui in tempi non sospetti in Europa si dichiarò persino la “morte cerebrale”. La differenza principale con la guerra in Jugoslavia sta però nel fatto che l’attuale crisi ha ricompattato il fronte occidentale, riassestando l’asse transatlantico e proponendo un’inedita coesione a livello UE, che all’unanimità ha subito adottato sanzioni contro il regime di Putin e ha chiuso lo spazio aereo a tutti i velivoli russi. Quando scoppiò la crisi jugoslava, invece, gli USA e la costituenda UE furono incapaci sia di coordinare una reazione comune che scongiurasse la guerra, sia di agire in modo compatto nelle sue prime fasi. In particolare, l’Unione si divise sulle tipologie di intervento: con Berlino che appoggiò subito le istanze indipendentiste slovena e croata, mentre Parigi e Roma furono inizialmente più caute, o comunque più disposte a sentire anche le ragioni di Slobodan Milosevic. Alcune delle decisioni generate da queste contrapposizioni furono in parte contraddittorie, come quella di estendere l’embargo sulle armi a tutto il territorio della Jugoslavia, impedendo quindi anche a Sarajevo la possibilità di equipaggiare il proprio esercito. Oggi, al contrario, si discute della possibilità di armare gli aggrediti invece che di embarghi, proprio perché la natura di guerra di aggressione è – al netto della propaganda russa – innegabile.
Infine, è interessante notare che l’Occidente ritrova compattezza anche a discapito delle conseguenze economiche ed energetiche che, invece, nel caso jugoslavo, mancarono del tutto, non essendo stata la Jugoslavia così essenziale per i rapporti commerciali né per le riforniture di energia come lo è invece stata la Russia fino ad oggi.

In conclusione, le due guerre sono di natura diversa ed avvengono in momenti storici del tutto differenti, con mutati rapporti di forza geopolitica. Tuttavia, quella che prima del 24 febbraio era effettivamente l’ultima guerra combattuta in Europa può offrire la possibilità di comprendere meglio quella in corso, se non altro nell’analisi delle sue interpretazioni politiche, nonché per lo squilibrio di forze che, almeno in Unione Europea, rende nuovamente attuale il dibattito sulla necessità di una difesa comune.
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Demenzialità, menzogne e calunnie contro gli USA e la NATO

Messaggioda Berto » sab mag 14, 2022 11:13 am

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