Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo

Re: Utopie demenziali e criminali

Messaggioda Berto » gio apr 27, 2017 6:50 pm

Fascismo, nazismo, islamismo - I dementi



Mussolini, Hitler e l’islam: quello che i nuovi fascisti non vorrebbero mai sapere
Venerdì 18/12/2015 da Lorena Cacace in Benito Mussolini, Cronaca, Germania, Islam

http://www.nanopress.it/cronaca/2015/12 ... refresh_ce

“Se c’era lui, altro che invasione: non entrava nessuno in Italia”. In questi tempi d’isteria collettiva sul tema immigrazione, il populismo regna sovrano, sui social media e, purtroppo, anche in politica. A un problema di enorme difficoltà, si vuol dare una risposta semplice e immediata, mentre di semplice e veloce non c’è nulla in un fenomeno che ha radici antiche, con intrecci sempre più complessi e di difficile risoluzione. Come in una sorta di autodifesa, s’invoca il passato e “l’uomo forte”. Così, i nuovi neofascisti o neonazisti (spesso da tastiera) sognano il ritorno di un Duce o di un Fuhrer, dimenticando una cosa fondamentale: Benito Mussolini e Adolf Hitler erano entusiasti della religione musulmana e avevano rapporti più che ottimi con i paesi islamici.

Quando pensiamo a Hitler e all’ideologia nazista, ci immaginiamo una difesa dei valori tradizionali dell’Occidente. Mussolini lo disse chiaramente coniando lo slogan “Dio, patria e famiglia”. Tutto ciò è vero, senza alcun dubbio, ma c’è molto di più. La questione della religione è stata centrale anche nella Germania nazista e nell’Italia fascista e l’islam ha trovato grandi appoggi da parte dei due dittatori. Semplificando, si potrebbe usare il detto “il nemico del mio nemico è mio amico”: visto che il nemico numero uno erano gli ebrei, coloro che li avversavano (come i leader musulmani) erano alleati preziosi. C’è però molto di più.


Hitler voleva essere musulmano

Hitler e Mussolini

“La nostra sfortuna è stata avere la religione sbagliata. Perché abbiamo avuto il cristianesimo con la sua mitezza e flaccidità? L’Islam è una Männerreligion, una religione da uomini”. Parola di Adolf Hitler. La rivelazione arriva dal libro scritto dal professore Stefan Ihrig, “Atatürk in the Nazi Imagination” (Ataturk nell’immaginario nazista), a cui il Wall Street Journal e altri media statunitensi hanno dedicato lunghi articoli. Nel testo, Ihring sostiene che non fu Benito Mussolini a ispirare le prime azioni del Fuhrer, ma Mustafa Kemal Atatürk, il Padre di tutti i Turchi. Il motivo? Lo sterminio degli armeni (il primo dell’epoca moderna) e la cacciata dei greci dalla Turchia.

Hitler in particolare era affascinato dalla religione musulmana che riteneva più adatta allo spirito germanico rispetto “a quella melensa e sacerdotale del cristianesimo”. L’idea che i “veri musulmani sono dei guerrieri”, fece breccia nella visione del mondo del Fuhrer per cui il mito del Superuomo era l’unico faro da seguire. Non quindi i valori del cristianesimo su cui si fonda (volente o nolente) l’Occidente, come oggi urlano i neofascisti (“salviamo il presepe”, “fuori i musulmani dall’Europa”): l’uomo che voleva portare la “razza ariana” alla guida del mondo, sognava di essere musulmano.

I contatti tra figure dell’islamismo più radicale e la Germania nazista sono accertati. Celebre è l’episodio che riguarda Haj Amin al-Husseini, Gran Mufti di Gerusalemme (e uno dei primi teologi dell’Islam radicale). Hitler siglò un accordo con lui per creare la “Musligermanics”, primo contingente di combattenti nazisti non germanici ad arruolarsi nelle SS. I due fondarono una scuola per imam militari a Dresda, ma fu tutto l’entourage nazista a dare grande attenzione al mondo musulmano. Il ministro della Propaganda nazista ordinò ai giornalisti di non parlar male dell’Islam e anzi di sottolinearne il valore, come ricorda David Motadel nel libro “Islam and Nazi Germany’s War”. Antisionista, antifrancese e antibritannico, Hitler trovò nell’Islam radicale un alleato di grande importanza.


Mussolini e le moschee

Mussolini e la spada dell'islam

Più complessa è il rapporto tra Benito Mussolini e la religione musulmana. La storia sembra narrare di due Mussolini molto diversi tra loro: quello che si fregiò del titolo di Protettore dell’Islam e quello che negò la costruzione della moschea a Roma.

Il primo rimanda alla celebre foto del Duce a cavallo con la Spada dell’Islam, arma cerimoniale che gli venne donata nel 1937 con l’annessione della Libia all’Italia. Quando, tre anni prima, il Paese nordafricano entra a far parte dei domini extraterritoriali dell’Italia fascista, Mussolini fece costruire strade, scuole, ospedali e moschee per i “musulmani italiani della quarta sponda d’Italia”. A spingerlo non è certo uno spirito umanitario: è la politica e, in particolare, l’avversione alla suddivisione dell’Africa e del Medio Oriente decisa da Francia e Inghilterra dopo la Prima Guerra Mondiale. Sono le mire espansionistiche del fascismo a muovere le fila, nient’altro. Il titolo di Protettore dell’Islam fu fortemente voluto da Mussolini perché gli dava la stessa autorità del Califfo su quelle terre: la religione viene piegata all’opportunità politica.

La vicenda della moschea di Roma è esemplare. Secondo la leggenda, Mussolini rispose che solo quando avrebbe avuto il permesso di costruire una chiesa a La Mecca, avrebbe acconsentito all’edificazione di una moschea nella Capitale. In realtà, il Duce era più che favorevole a realizzarla in vista dell’annessione dell’Albania e quindi dell’aumento degli italiani di fede musulmana. A fermarlo fu il Vaticano (che decise di andare a braccetto con il governo fascista pur di ottenere i Patti Lateranensi). A differenza di Hitler, Mussolini non era affascinato dalla religione in sé, ma la usò per scopi politici contro il nemico comune (Francia e Inghilterra in primis). Che le peggiori dittature razziste di allora fossero filo-islamiche in chiave anti-ebraica (e contro Francia e Inghilterra) dovrebbe far riflettere in un solo senso: usare la religione come arma politica è sempre un errore. Allora come oggi.



Spada dell'islam - Mussolini con la spada dell'islam

https://it.wikipedia.org/wiki/Spada_dell%27islam

La spada dell'islam (in arabo: سيف الإسلا‎, Sayf al-Islām) era un'arma bianca cerimoniale donata nel 1937 a Benito Mussolini in qualità di protettore dell'islam (in arabo: حامي الإسلام‎, Hāmī al-Islām).

Storia

Nel 1934, a seguito della nascita della Libia italiana, Mussolini avviò una politica di incoraggiamento nei confronti della religione islamica, definendo le popolazioni locali "musulmani italiani della quarta sponda d'Italia", facendo costruire o restaurare moschee e scuole coraniche, approntando strutture di assistenza per i pellegrini diretti alla Mecca e facendo anche aprire a Tripoli una Scuola Superiore di Cultura Islamica. Dietro l'apparente intento umanitario, il fascismo e alcuni settori del mondo islamico riconoscevano Francia e Regno Unito come nemici comuni e il duce voleva sfruttare tale fattore a proprio vantaggio. Questa comunanza di intenti era generata dall'avversione agli accordi sanciti dal trattato di Versailles del 1919, dominato da Stati Uniti d'America, Francia e Regno Unito, i quali non avevano soddisfatto pienamente né le richieste avanzate dall'Italia, né quelle del mondo islamico.

Al fine di guadagnarsi il favore degli arabi e di suggellarne l'alleanza, Mussolini, benché firmatario dei Patti Lateranensi con la Chiesa, decise di farsi conferire il titolo di protettore dell'islam.[3] Secondo l'interpretazione del duce, essendo subentrato in Libia il governo italiano al posto di quello ottomano, tale titolo gli spettava di diritto in quanto, in qualche modo, erede dell'autorità del califfo. Il 20 marzo 1937, nei pressi di Tripoli, Mussolini ricevette da Iusuf Kerisc, un capo berbero sostenitore dell'occupazione italiana contro la resistenza libica, la spada dell'islam durante una sontuosa cerimonia. Dopo essere entrato a Tripoli fra salve di cannone e alla testa di una schiera di 2.600 cavalieri, il duce ribadì la sua vicinanza alle popolazioni musulmane, garantendo loro «pace, giustizia, benessere e rispetto delle leggi del Profeta».

Nonostante l'approvazione da parte dei media di regime, la cerimonia suscitò ilarità fra la popolazione italiana per via dei suoi connotati assurdi e paradossali. Una delle fotografie dell'evento, raffigurante Mussolini in sella a un cavallo tenuto per la cavezza da un palafreniere, nella sua versione ufficiale fu ritoccata e pubblicata cancellando il palafreniere, in modo da dimostrare che il duce era in grado di condurre la propria cavalcatura senza l'aiuto di nessuno. Il dettaglio è spesso citato come uno fra gli esempi più rappresentativi dell'arte della falsificazione invalsa nei regimi totalitari.

L'anno successivo venne inaugurato nella piazza principale della capitale libica un monumento equestre in onore di Mussolini, il cui basamento recitava: «A Benito Mussolini pacificatore delle genti redentore della terra di Libia le popolazioni memori e fiere dove fiammeggiò la spada dell'Islam consacrano nel segno del Littorio una fedeltà che sfida il destino».

La spada, decorata con arabeschi, dotata di una lama dritta a doppio filo e con elsa e fregi in oro massiccio, era stata realizzata dalla ditta artigiana Picchiani e Barlacchi di Firenze su ordine dello stesso Mussolini. Dopo il 1937 non venne più utilizzata e fu custodita in una teca di vetro a Rocca delle Caminate, residenza estiva del duce. Del prezioso oggetto non si ebbero più tracce dopo il 25 luglio 1943, quando la Rocca venne devastata e saccheggiata dagli antifascisti.


Nazi SS commander wished Grand Mufti success in fight 'against the Jewish invaders'
Heinrich Himmler's message, made public this week by Israel National Library, was sent to mark the 'wretched' Balfour Declaration and noted a shared recognition of 'the enemy,' world Jewry.
By Ofer Aderet Mar 30, 2017

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http://www.haaretz.com/israel-news/1.78 ... DD0A4F1C0B

A year and half ago, Prime Minister Benjamin Netanyahu sparked controversy with comments about the ties between the Nazi regime and the Grand Mufti of Jerusalem during World War II. Netanyahu claimed that it was Mufti Haj Amin al-Husseini himself who convinced Nazi leader Adolf Hitler to exterminate Europe's Jews, before backpedalling on his remarks.

But a new discovery by the National Library of Israel has brought the ties between the mufti and the Nazis back into focus. The archive found a 1943 telegram from Nazi SS leader Heinrich Himmler to Husseini, written in German. The timing of the telegram is significant: It was sent on November 2, 1943 and marked 26 years since the British government issued the Balfour Declaration expressing its support for the establishment of a Jewish homeland in Palestine. (This November will mark the declaration's 100th anniversary.)

The Himmler telegram reads: “To Grand Mufti Amin al-Husseini: From the outset, the National Socialist [Nazi] movement of Greater Germany has been a standard-bearer in the battle against world Jewry. For this reason, it is closely following the battle of freedom-seeking Arabs, particularly in Palestine, against the Jewish invaders. The shared recognition of the enemy and the joint fight against it are creating the strong base [uniting] Germany and freedom-seeking Arabs around the world. In this spirit, I am pleased to wish you, on the anniversary of the wretched Balfour Declaration, warm wishes on your continued fight until the great victory.”

It was signed by Himmler as SS commander of the entire Third Reich.

The telegram from S.S. head Heinrich Himmler to Mufti Haj Amin al-Husseini, sent to mark the 26th anniversary of the Balfour Declaration in 1943. Israel National Library
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The back side of the telegram from S.S. head Heinrich Himmler to Mufti Haj Amin al-Husseini, sent to mark the 26th anniversary of the Balfour Declaration in 1943. Israel National Library
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Chen Malul of the National Library’s content department said the telegram took a circuitous route before ending up at the archive in Jerusalem. With the defeat of Nazi Germany, where the mufti had lived during World War II, the document was confiscated by the American army. It then came into the possession of a member of the pre-state Haganah underground army in Palestine, who in turn donated it to the National Library.

Several months ago, as part of ongoing work in the archives, the file was recategorized as pertaining to the Balfour Declaration due to its mention in the telegram.

The file came to the library's attention after staff was asked to look for materials connected to the 1917 declaration. The telegram was made public this week on Chen’s blog on the National Library’s website.

Ultimately, Himmler’s promise of a “strong base” uniting Nazis and Muslims didn’t stand the test of time. “The mufti failed to achieve most of his goals. Nazi Germany did not declare its support for the idea of Arab independence,” said Dr. Esther Webman, a senior research at Tel Aviv University's Dayan Center for Middle Eastern and African Studies. She noted that efforts to incite the Arabs of the Middle East against the colonial powers in World War II also failed.

The telegram supplements what historians already knew: At a particular time, an ideological partnership existed between part of the Nazi leadership and the mufti. Nevertheless, it does not serve to confirm Netanyahu’s initial reference to an imaginary conversation between the mufti and Hitler that purportedly took place in November 1941, two years before Himmler sent his telegram.

The Israeli prime minister had initially claimed: “Haj Amin al-Husseini went to Hitler and said to him: ‘If you expel them [the Jews], they will all come here [to Palestine].’” According to Netanyahu’s account, Hitler then asked, "So what am I supposed to do with them?" and the mufti replied: "Burn them.”

When Netanyahu made the remarks in 2015, they sparked major criticism from leading Holocaust historians because the comments implied that Husseini had pushed Hitler to begin the extermination of the Jews. In backtracking, Netanyahu acknowledged that it was the Nazis, and not Husseini, who had decided to exterminate European Jewry. He said that he had never attempted to “absolve Hitler of his responsibility for the Holocaust.”

“All of the facts show that at the meeting between Hitler and the mufti, the Final Solution had long been around and that they had long been killing Jews and had abandoned a solution involving force emigration and expulsion,” said Prof. Dina Porat, the chief historian at the Yad Vashem Holocaust museum and research center. Husseini had asked Hitler to carry out the Final Solution in the Middle East, Porat said, but was certainly not the person to steer the plan itself.


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Fratelli e sorelle, non c'è pace per la Congregazione Urbano II.
Ieri ci è arrivata l'ammonizione di Twitter per "incitamento all'odio".....sconcerto tra tutti i Confratelli. Abbiamo subito convocato una riunione d'urgenza. Hanno preso la parola in tanti, visibilmente incazzati. L'ironia sui gessetti mentre i muzz continuano a metterci bombe sotto al culo e il Qatar finanzia moschee integraliste dentro casa nostra, sarebbero "incitamento all'odio".....dopo varie consultazioni, incerti su che tipo di risposta inviare a Twitter, dove hanno sottolineato di essere basati in Germania, abbiamo deciso di inviare la seguente locandina.
Preghiamo
https://www.facebook.com/photo.php?fbid ... 1318097609



Nazismo, fascismo e islam

Emanuele Bolognesi
Sbagliato Fabio, i nazisti erano alleati con i muzz...Amin al Husseini.. le divisioni SS musulmane, la Handstag....Hitler dichiarò che sarebbe voluto nascere musulmano.


Francesco Birardi

Gli arabi per i nazisti erano untermenschen come e peggio degli slavi e dei negri.
Hitler e Mussolini soffiavano sul nazionalismo arabo (e quindi musulmano) in funzione anti-inglese, e incameravano i muzz bosniaci per farli combattere contro russi e serbi... non certo perché si sentissero "musulmani"... .
Per gli stessi motivi hanno soffiato anche sul nazionalismo indiano e creato una legione SS indiana.... per usarla contro gli anglo-americani, non per affinità col pensiero indù o col Mahatma Ghandi, non a caso amico di Mussolini ... . Durante la Prima Guerra mondiale, gli inglesi hanno fatto esattamente la stessa cosa : soffiare sul nazionalismo arabo per combattere i turchi (tutta l'epopea di Lawrence d'Arabia), senza per questo avere alcuna affinità ideologica o religiosa con l'Islam... E idem hanno fatto gli americani coi talebani afghani negli anni '70 in funzione antisovietica. Un'Europa nazista oggi andrebbe incontro ai "migranti" con le cannoniere e i bombardieri, altro che con le ONG ... .

La Handschar era impiegata soprattutto contro i partigiani serbi e croati di Tito, quasi tutti cristiani ... . E quindi il "movente" religioso era importante ... . La Nato in Bosnia e in Kosovo ha fatto lo stesso, contro i serbi ... . Islamica anche la Nato?

E gli inglesi hanno soffiato sul nazionalismo islamico indiano in funzione anti indiana provocando la secessione del Pakistan.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Utopie demenziali e criminali

Messaggioda Berto » sab apr 29, 2017 8:08 am

???

Migranti, nodo di tutte le elezioni: possono salvare o distruggere la democrazia
Per fortuna sono bianco•Giovedì 27 aprile 2017
di Raniero La Valle

https://www.facebook.com/notes/per-fort ... 6538232944

Chiuso il caso Le Pen adesso serve una Schengen Mondiale. Il problema dei profughi (di guerra o “economici”) è permanente nella nuova realtà della globalizzazione. Rifiuto e muri: monta l’intolleranza e finisce la democrazia. O le frontiere si aprono non solo ai capitali.

Madame Le Pen non ha vinto le elezioni francesi, e non vincerà nemmeno nel ballottaggio. La buona notizia è questa, non è una notizia esaltante invece che Macron sarà il presidente francese; ma ciò dipende dal fatto, confermato dal risultato del voto del 23 aprile, che il popolo c’è, mancano i leaders, e i partiti sono ormai senza visione e cultura.

Passata ora la grande paura di un trionfo della destra xenofoba, si evidenzia però che il vero problema è quello della posizione da prendere riguardo alla grande migrazione divenuta ormai strutturale e permanente nella nuova realtà della globalizzazione. Ma se le elezioni si decidono sui migranti, ciò vuol dire che tale questione è diventata il nodo centrale della politica, e sulla risposta che si dà a tale questione sta o cade la democrazia. Lo Stato moderno, cioè lo Stato di diritto, muore o sopravvive in questo passaggio cruciale.

Infatti ci sono solo due risposte possibile a questo problema: una è quella della destra, il rifiuto, i muri, la blindatura dei confini, i patti leonini stabiliti con la Turchia o con la Libia per ricacciare i profughi al di là del mare, o il muro che spezza a metà l’America, tra gli Stati Uniti ed il Messico; ed è su questo crinale che monta l’intolleranza e finisce la democrazia e lo Stato di diritto; oppure la soluzione è una Schengen mondiale, le frontiere che si aprono non solo ai capitali, ai beni materiali, al commercio, ma alle persone, alle famiglie, alle religioni e alle culture; e la gente che può andare a vivere dove vuole, senza tratta senza torture e senza scafisti, in nave, in aereo o per via di terra, con un semplice visto.

L’alternativa civile, quella che permette la ripresa del progresso storico, è l’accoglienza e l’integrazione, è l’alternativa incessantemente riproposta da papa Francesco, che la politica però, terrorizzata, rifiuta, e non solo la politica dei Le Pen e dei Salvini. La politica la rifiuta perché non osa il cambiamento, che certamente deve essere profondo, e deve mettere la scure alla radice stessa della globalizzazione capitalistica e della trionfante ideologia del denaro e del profitto, perché fare posto a tutti nel mondo, in condizioni di eguaglianza e senza più la discriminazione della cittadinanza, comporta una rifondazione dei rapporti economici finanziari e politici negli Stati e tra i popoli, e un accorciamento della distanza incolmabile tra il pozzo senza fondo della ricchezza e la palude sterminata della miseria. Ed è proprio questo che si deve fare.

Raniero La Valle è presidente del comitato Dossetti per la difesa della Costituzione. Direttore de Il Popolo (quotidiano DC) durante il governo Moro, nel 1961 dirige L'Avvenire d'Italia. I suoi documentari Tv Rai raccontano l’altra realtà di Stati Uniti, America Latina, Europa, Medio Oriente. Parlamentare della Sinistra Indipendente e promotore del "Manifesto per la sinistra cristiana, rilancia i valori del patto costituzionale del '48 e la critica della democrazia maggioritaria. Fra i suoi Libri “Dopo Caino”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”, “Quel nostro Novecento”.


Questi sono dementi irresponsabili criminali
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Re: Utopie demenziali e criminali

Messaggioda Berto » dom mag 07, 2017 11:55 am

Questa Europa è una conseguenza dell'opera politica europeista degli stati nazionali europei e delle caste politiche e politicanti che li hanno governati negli ultimi decenni e sono quelle socialiste-comuniste-cristiano cattoliche e protestanti, le social democrazie, le statalocrazie con le loro clientele costituite dalle masse dei cittadini statalizzati, garantiti e privilegiati.
Anche i ceti e le caste economiche dominanti, le aziende e le banche parassitarie, le multinazionali, la finanza internazionale e le caste clericali hanno dato il loro contributo (per ultimo il Papa Bergoglio).


In tutto ciò Kalergi non c'entra nulla.

Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi
viewtopic.php?f=92&t=1475

Spinelli era un comunista, Kalergi un vero liberale, democratico e federalista.
Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... alergi.jpg


Manifesto di Ventotene un'opera per taluni aspetti mostruosa
Per un’Europa libera e unita
Ventotene, agosto 1941
https://it.wikisource.org/wiki/Manifesto_di_Ventotene


LA CRISI DELLA CIVILTÀ MODERNA

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettino:


1. Si è affermato l’eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo,

individuato nelle sue caratteristiche etniche geografiche linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale, creato per proprio conto secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo.

L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.

La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. È invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo "spazio vitale" territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.

In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l’efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell’odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.

Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente l’unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere.


2. Si è affermato l’uguale diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dai regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi istrumenti per dare l’assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi, e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l’aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle.

Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell’uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari.

D’altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro.

Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.

Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti, ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l’esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse dalle possibilità di godere i frutti delle moderna cultura. È salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d’impiego.

Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e ad esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari.


3.’ Contro il dogmatismo autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo.

Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da accettare ipocritamente si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l’assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l’odio e l’orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatema per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferravecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna, è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dare veste teorica alla volontà di sopraffazione dell’imperialismo. La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell’interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell’oscurantismo di nuovo minacciano di soffocare lo spirito umano.

La stessa etica sociale della libertà e dell’uguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz’altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.

Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei — primo fra i quali l’Italia — alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia essa si è lanciata nell’opera di sopraffazione.

La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.

La tradizionale arroganza e intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un’idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi vittoriosi potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti.

Anche una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.

Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto sì che i Tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell’esercito sovietico, ed ha dato tempo all’America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate forze produttive. E questa lotta contro l’imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l’imperialismo giapponese.

Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra delle Nazioni Unite risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo ricevuto, e persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze dell’Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.

Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste; e, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l’intelligenza; imprenditori, che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento; tutti coloro, infine, che, per un senso innato di dignità, non sanno piegar la spina dorsale nella umiliazione della servitù.

A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.



I COMPITI DEL DOPO GUERRA - L’UNITÀ EUROPEA

La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà.

Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell’equilibrio delle potenze nell’apparente immediato interesse del loro impero.

Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali: i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l’edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto fin’ora e le esporrebbe all’assalto delle forze progressiste.

Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.

Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.

Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.

Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali.

Gli spiriti sono giù ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.

Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun paese d’Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.

Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese ecc., che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.

D’altra parte la fine del senso di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la "splendid isolation", la dissoluzione dell’esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle forze tedesche — risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la presunzione sciovinista della superiorità gallica — e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga fine all’attuale anarchia. Ed il fatto che l’Inghilterra abbia accettato il principio dell’indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali.

A tutto ciò va infine aggiunta la scomparsa di alcune delle principali dinastie e la fragilità delle basi di quelle che sostengono le dinastie superstiti. Va tenuto conto, infatti, che le dinastie, considerando i diversi paesi come tradizionale appannaggio proprio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui erano l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa, la quale non può poggiare che sulle costituzioni repubblicane di tutti i paesi federati.

E quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo.

La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.

Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.

Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell’ultimo ventennio. Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi, del movimento per l’Europa libera e unita!



I COMPITI DEL DOPO GUERRA LA RIFORMA DELLA SOCIETÀ

Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.

La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia.

Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière" per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachenovismo dell’U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.

La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.

Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:


a. non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;


b. le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.;


c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l’avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;


d. la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;


e. la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.


Questi sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante.

Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi, dell’indipendenza della magistratura — che prenderà il posto dell’attuale — per l’applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di associazione, per illuminare l’opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:


a. la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, dei quali cerca di approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull’ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz’altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico;


b. la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con l’ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello stato totalitario. C’è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti.

Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz’altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un’anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo potranno e dovranno essere attratti all’opera di rinnovamento, ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta dagli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell’interesse della classe governante.



LA SITUAZIONE RIVOLUZIONARIA: VECCHIE E NUOVE CORRENTI

La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l’avvento della "libertà" sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione.

Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all’anarchia. Credono nella "generazione spontanea" degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla "storia" al "popolo" al "proletariato" o come altro chiamano il loro dio. Auspicano la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un’assemblea costituente eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.

I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi.

In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro.

Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.

Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.

Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi di come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura delle loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.

Delle varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e dell’ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuto la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono — a differenza degli altri partiti popolari — trasformati in un movimento rigidamente disciplinato, che sfrutta quel che residua del mito russo per organizzare gli operai, ma non prende leggi da essi, e li utilizza nelle più disparate manovre.

Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie — col predicare che la loro "vera" rivoluzione è ancora da venire — costituiscono nei momenti decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre la loro assidua dipendenza allo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati senza scrupoli per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di perseguire una politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di nascondersi dietro un Karoly, un Blum, un Negrin, per andare poi fatalmente in rovina dietro i fantocci democratici adoperati, poiché il potere si consegue e si mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la capacità di rispondere in modo organico e vitale alle necessità della società moderna. La loro scarsa consistenza si palesa invece senza possibilità di equivoci quando, venendo a mancare il camuffamento, fanno regolarmente mostra di un puro verbalismo estremista.

Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche. Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese.

Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo non in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo.

Larghissime masse restano ancora influenzate o influenzabili dalle vecchie tendenze democratiche e comuniste, perché non scorgono nessuna prospettiva di metodi e di obiettivi nuovi. Tali tendenze sono però formazioni politiche del passato; da tutti gli sviluppi storici recenti nulla hanno appreso, nulla dimenticato; incanalano le forze progressiste lungo strade che non possono serbare che delusioni e sconfitte; di fronte alle esigenze più profonde del domani costituiscono un ostacolo e debbono o radicalmente modificarsi o sparire.

Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che hanno saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà sapere collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, ed in genere con quanti cooperano alla disgregazione del totalitarismo, ma senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica.

Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una coalizione eterogenea di tendenze, riunite solo transitoriamente e negativamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice del disgregamento del totalitarismo, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada una volta raggiunta quella caduta. Il partito rivoluzionario deve sapere invece che solo allora comincerà veramente la sua opera e deve perciò essere costituito di uomini che si trovino d’accordo sui principali problemi del futuro. Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque ci siano degli oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza quello volta volta sentito come il più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connetta con altri problemi e quale possa esserne la vera soluzione. Ma dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita, che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il lavoro necessario, provvedano oculatamente alla sicurezza, continua ed efficacia di esso, anche nella situazione di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.

Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono i più importanti come centri di diffusione di idee e come centri di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani, vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.

Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze è condannato alla sterilità, poiché, se è movimento di soli intellettuali, sarà privo di quella forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie, sarà diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; ed anche se animato da sentimenti democratici, sarà proclive a scivolare, di fronte alle difficoltà, sul terreno della reazione di tutte le altre classi contro gli operai, cioè verso una restaurazione.

Se poggerà solo sulla classe operaia sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici dappertutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.

Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate.

Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno ad esso la nuova democrazia.

Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere.

Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo.

La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.

Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni
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Re: Utopie demenziali e criminali

Messaggioda Berto » dom mag 14, 2017 10:28 pm

Le origini della religione nell'ottica darwiniana: Richard Dawkins e Desmond Morris

1) Richard Dawkins: la religione come prodotto indiretto

http://unaltrolanternino.blogspot.it/20 ... e.html?m=1

Nel suo celebre saggio “L'illusione di Dio”1 (2006), l'etologo britannico Richard Dawkins analizza le motivazioni che spingono tutt'oggi buona parte dell'umanità a credere nell'esistenza di entità sovrannaturali indimostrabili, confutandole da un punto di vista logico e scientifico. Dal momento che tale tendenza ha causato, storicamente, abbondanti danni a fronte di ben pochi benefici2, è opportuno chiedersi perché la selezione naturale non ne abbia gradualmente favorito la scomparsa:

La religione mette sovente a repentaglio la vita sia dei credenti sia dei non credenti. Migliaia di individui sono stati torturati perché non volevano abiurare, o perseguitati perché avevano un credo in molti casi quasi indistinguibile da quello dei loro fanatici persecutori. La religione divora le risorse, a volte su scala massiccia. […] In nome della religione i devoti sono stati uccisi e hanno ucciso, si sono frustati a sangue la schiena, si sono consacrati a un’intera vita di celibato, silenzio e solitudine. Che senso ha tutto questo? Qual è il vantaggio della religione? 3

Il fatto che essa sia riuscita e riesca, grazie all'effetto placebo, a confortare i credenti riducendo i loro livelli di stress non basta a spiegare l'enormità della sua diffusione, anche perché la consolazione è sovente controbilanciata da sentimenti negativi come l'ansia e il senso di colpa4. Dawkins ipotizza quindi che non si stata la religione in sé a rivelarsi utile alla sopravvivenza, ma che essa possa essere sorta come effetto collaterale di un modello che invece si è dimostrato utile in tal senso. Per capire che cosa si intenda ci si può rifare all'esempio delle falene che volano fatalmente verso il fuoco delle candele:

La luce artificiale è comparsa solo di recente nella scena notturna. Fino a poco tempo fa, le uniche luci che si vedevano di notte erano la luna e le stelle; luci che si trovano nell’infinito ottico, sicché i loro raggi arrivano sulla terra paralleli. Perciò sono adatte a fungere da bussole. Gli insetti utilizzano corpi celesti come il sole e la luna per seguire una rotta precisa e rettilinea, e usano la medesima bussola, in senso inverso, per tornare a casa dopo un’escursione. Il sistema nervoso degli insetti è abile nell’elaborare una regola empirica temporanea di questo tipo: «Mantieni la rotta in maniera che i raggi luminosi ti colpiscano l’occhio secondo un angolo di 30 gradi». Poiché gli insetti hanno occhi composti (con tubuli diritti che assorbono la luce irradiandosi dal centro dell’occhio come gli aculei di un istrice), la regola permette, molto semplicemente, di assorbire la luce in un particolare tubulo o ommatidio. Ma la luce funge da bussola perché il corpo celeste si trova nell’infinito ottico. Se non è lì, i raggi non sono più paralleli, ma divergono come i raggi di una ruota. Un sistema nervoso che applica la regola dei 30 gradi (o di qualsiasi altro angolo acuto) a una candela situata a breve distanza, scambiandola per la luna, condurrà la falena, tramite una traiettoria a spirale, verso la fiamma. […] Benché si riveli fatale in questa circostanza particolare, la regola empirica continua a essere in media una buona regola, perché la falena vede molto più spesso la luna che una candela. 5

L'equivalente del comportamento involontariamente autolesionista delle falene è quindi, negli esseri umani, la religione, e uno dei motivi per cui essi lo mettono in atto va ricercato nel vantaggio che la prole ricava dal fidarsi ciecamente degli adulti. Infatti, sebbene il bambino umano possa imparare anche da solo, con il tempo e grazie all'esperienza, a discernere una condotta sicura da una pericolosa, egli risparmia tempo ed energie affidandosi ai consigli degli adulti e credendo loro a priori. La nostra specie si basa sulla conoscenza tramandata dai predecessori più di tutte le altre e, se da un lato quest'inclinazione alla programmabilità del cervello infantile si è dimostrata preziosa in termini di sopravvivenza, dall'altra impedisce al bambino di distinguere un buon consiglio da uno cattivo o una verità da una menzogna: se proviene da una fonte autorevole, allora è da ritenersi attendibile. Un altro motivo per cui la religione ci attrae è che tendiamo istintivamente a pensare che tutto abbia un senso o uno scopo: si chiama “atteggiamento intenzionale”6 ed è utile a prendere decisioni rapide in circostanze potenzialmente pericolose. Scambiare un'ombra casuale per una sagoma potrebbe salvarci dall'attacco di un predatore; tuttavia è ovvio che, la maggior parte delle volte, le entità a cui attribuiamo un'intenzione ci sono semplicemente indifferenti. Se molti credono che un cataclisma sia una punizione divina o che una vincita al gioco d'azzardo sia un miracolo concesso dal cielo è a causa di questo meccanismo mentale atavico, sviluppato dai nostri antenati in risposta a fenomeni che influenzavano le loro vite e a cui non riuscivano a dare spiegazione: non a caso la prima divinità è stata proprio il sole.

2) Desmond Morris: la religione come necessità di sottomissione

L'approccio di Desmond Morris al problema religioso consiste nell'esaminare il comportamento umano da un punto di vista zoologico, mettendolo a confronto con quello dei primati da cui egli deriva. Nel saggio “La scimmia nuda” (1967)7 egli propone innanzitutto di riferirsi all'essere umano chiamandolo “scimmione nudo”, dalla sua caratteristica immediatamente più evidente; in seguito ripercorre le tappe evolutive che lo hanno portato ad essere come è oggi. Per quanto riguarda le manifestazioni religiose, egli osserva che consistono nella riunione di numerosi individui i quali, attraverso l'esibizione di atteggiamenti di sottomissione, intendono conquistare il favore di un individuo dominatore; a seconda delle civiltà, tale individuo può essere essere rappresentato sotto forma di un animale di un'altra specie oppure di un membro della propria, ma in ogni caso esso è sempre immensamente potente. I gesti di sottomissione nei suoi riguardi sono sorprendentemente simili a quelli messi in atto dai primati nei confronti del maschio alpha del gruppo e possono comprendere il piegamento del capo, la chiusura degli occhi, la genuflessione, fino a “una completa prosternazione frequentemente accompagnata da lamenti o da vocalizzazioni cantate”8. Morris constata che:

Prima di trasformarci in cacciatori animati da spirito di collaborazione, probabilmente noi vivevamo in gruppi sociali del genere che oggi si riscontra in altre razze di scimmie o di scimmioni. In queste razze, di solito, ogni gruppo è dominato da un solo maschio. Egli è signore e padrone e ogni membro del gruppo è tenuto a placarlo per non soffrirne le conseguenze. Egli è anche il più attivo a proteggere il gruppo da pericoli esterni e nel sedare le controversie tra i membri inferiori. Tutta la vita dei membri di questi gruppi si impernia intorno all'animale dominatore. È chiaro che con lo sviluppo dello spirito di collaborazione tanto importante per il successo della caccia di gruppo, l'autorità dell'individuo dominatore dovette essere fortemente limitata, se questi voleva conservare la lealtà attiva, anziché passiva, degli altri membri del gruppo: [...] al suo posto sorse uno scimmione nudo più tollerante e collaborativo. [...] Questo cambiamento nell'ordine delle cose, pur così vitale per il nuovo sistema sociale, creò un vuoto. A causa delle nostre antiche abitudini, esisteva la necessità di una figura dalla potenza assoluta, in grado di mantenere unito il gruppo. A prima vista, è sorprendente che la religione abbia avuto tanto successo, ma la sua estrema potenza è semplicemente dovuta alla forza della nostra fondamentale tendenza biologica a sottometterci a un membro del gruppo onnipotente e dominatore.9

Per ragioni evolutive, dunque, Morris è convinto che non sia possibile, per l'essere umano, vivere senza nutrire una salda credenza in qualcosa che abbia, da un lato, la funzione di collante sociale e che soddisfi, dall'altro, il bisogno naturale di effettuare riti di gruppo. Nota però come tale credenza stesse muovendo, già negli anni in cui scriveva, verso orizzonti più laici: ad una religione reticente al progresso e spesso applicata in maniera troppo formalistica si stava sostituendo una crescente fiducia verso le potenzialità umane. L'entusiasmo per la conoscenza portava sempre più persone a fare di università, musei, teatri e gallerie d'arte “i luoghi di adorazione”10 prediletti, mentre a una vita ultraterrena c'era chi già chi preferiva l'immortalità del proprio lavoro creativo. Erano gli anni della rivoluzione sessuale, quelli di Morris; gli anni del movimento hippie, delle proteste contro la guerra in Vietnam, delle battaglie per l'uguaglianza dei diritti civili e della diffusione della pillola anticoncezionale. Se proprio non si può fare a meno di avere una religione, sostiene, ciò che stava nascendo all'epoca era senza dubbio l'alternativa più adatta alle caratteristiche peculiari della nostra specie intelligente e amante dell'esplorazione.

__________________
1“The God delusion” in lingua originale.
2Cfr. R. Dawkins, L'illusione di Dio, trad.it, Mondadori, Milano 2007, cap. VIII.
3R. Dawkins, L'illusione di Dio, trad.it, Mondadori, Milano 2007, p. 103.
4R. Dawkins, L'illusione di Dio, trad.it, Mondadori, Milano 2007, p. 105.
5R. Dawkins, L'illusione di Dio, trad.it, Mondadori, Milano 2007, pp. 108-109.
6Cfr. D.C Dennett, La mente e le menti (1996), BUR, Milano 2000.
7The naked ape: a zoologist's study of the human animal in lingua originale.
8D. Morris, La scimmia nuda: studio zoologico sull'animale uomo, Bompiani, Milano 1968, p.192.
9D. Morris, La scimmia nuda: studio zoologico sull'animale uomo, Bompiani, Milano 1968, pp. 192-193.

10D. Morris, La scimmia nuda: studio zoologico sull'animale uomo, Bompiani, Milano 1968, p. 195.
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Re: Utopie demenziali e criminali

Messaggioda Berto » lun mag 15, 2017 1:30 pm

Strade - Gli anticorpi della conoscenza
Gilberto Corbellini
15 Maggio 2017

http://stradeonline.it/editoriale/2814- ... conoscenza

Siamo dotati di una sorta di sistema immunitario che ci impedisce di cambiare le nostre convinzioni più profonde e radicate. Ma è proprio la conoscenza critica dei processi controintuitivi della scienza - più che improbabili 'pillole di verità' - a formare il sistema immunitario migliore contro il pregiudizio.

La ricerca sperimentale nell’ambito degli studi di psicologia sociale ha confermato che la cosiddetta mente umana possiede una sorta di “sistema immunitario” che protegge da credenze e opinioni diverse da quelle maturate o stabilizzate con l’educazione o l’esperienza.

Di fatto, le nuove credenze o opinioni, ovvero gli argomenti che mettono in discussione il sistema personale di valori, sono percepite come potenzialmente destabilizzanti per l’identità psicologico-sociale fin lì faticosamente costruita e mantenuta. I meccanismi dell’autoinganno portano peraltro a sottovalutare la precarietà di quella funzione di integrazione e persistenza della nostra presenza a noi stessi, che chiamiamo “io”.

L’immunità verso le novità e le critiche, che tende a prevalere quanto più si avanza con l’età adulta, riguarda ogni ambito delle decisioni umane che possono associarsi a qualche percezione, vera o falsa, di minaccia. Sono della stessa categoria le resistenze che scienziati e medici possono maturare, per qualche ragione extrascientifica, contro spiegazioni dei fatti diverse da quelle preferite.

Quella che potrebbe essere definita una sorta di “legge” dell’immunità ideologica dice che le persone con forti credenze sbagliate e fondate su false percezioni di alcuni fatti reagiscono ai tentativi altrui di correggere tali inganni accentuando le false credenze. È quello che gli psicologi politici chiamano anche “ritorno di fiamma”, e che in ogni caso implica una condizione già descritta intorno al 1960 da Leon Festinger.

“Una persona che ha una convinzione – sciveva Festinger – è difficile che la cambi. Ditele che siete in disaccordo con lei, e se ne andrà. Mostratele fatti e numeri, e metterà in discussione le vostre fonti. Fate ricorso alla logica, e non sarà in grado di capire il vostro punto di vista”. Il concetto di “dissonanza cognitiva” fu introdotto da Festinger per descrivere le situazioni in cui lo stesso individuo può coltivare credenze e comportamenti tra loro incoerenti, che inducono automaticamente a ricercare una qualche consonanza attivando diverse strategie di elaborazione cognitiva o comportamentale compensatoria.

Pediatrics, la più autorevole rivista di pediatria, ha pubblicato l’anno scorso (nel mese di marzo) uno studio, ideato da Brendan Nyhan, che insegna scienze politiche alla Michigan University, in cui si dimostra che la comunicazione pubblica sui vaccini è in larga parte sbagliata. Questo perché non tiene conto dei bias cognitivi ed emotivi attraverso cui le persone filtrano i fatti e le informazioni; ovvero del fatto che raramente le false percezioni, anche di fatti scientificamente acclarati, si possono correggere somministrando, semplicemente, la “verità”.

Lo studio arruolava 1759 genitori statunitensi coinvolgendoli in un esperimento in cui essi erano casualmente suddivisi in quattro gruppi, ognuno oggetto di specifiche e differenziate forme di comunicazione volte a far capire l’utilità della vaccinazione MMR (quella ritenuta dai fanatici responsabile dell’autismo), o un gruppo di controllo.

Il risultato è stato che nessuno degli interventi di comunicazione rivolti ai genitori che non intendevano vaccinare i figli li ha smossi da quell’atteggiamento. Tra l’altro, quando i genitori che avevano l’atteggiamento meno favorevole verso il vaccino capivano la falsità delle tesi che associano la vaccinazione MMR all’autismo, essi correggevano le loro false percezioni, ma riducevano anche ulteriormente l’intenzione di vaccinare i figli. Inoltre, l’uso di immagini o racconti che mettevano in evidenza i rischi di non vaccinare induceva nei genitori un aumento della credenza in un legame tra vaccino e autismo, o un’aumentata percezione dei rischi di effetti collaterali dovuti alla vaccinazione.

Anche se l’esperimento è stato criticato, perché i partecipanti in qualche modo sapevano di esser parte di una situazione costruita, in realtà risultati analoghi sono stati ottenuti in altri studi. E confermano, tra l’altro, una scoperta costante sui fattori che influenzano come e quanto le persone possono fidarsi delle informazioni sanitarie dissonanti rispetto a quello in cui credono.

Le pseudoscienze e le credenze non scientifiche sono largamente diffuse e fioriscono anche nelle società il cui funzionamento dipende sempre di più, se non quasi del tutto, da conoscenze scientifiche, di base e applicate. È ormai facile, anche per chi di mestiere fa lo storico, capire e spiegare quali processi e meccanismi comportamentali hanno fatto sì che così a lungo l’uomo si sia lasciato ingannare dai venditori di illusioni.

Esiste una letteratura monumentale da cui risulta che veniamo al mondo con un cervello e predisposizioni cognitive ed emotive che rimangono in larga parte quelle evolute dai nostri antenati per sopravvivere nel Paleolitico, e che, se non educhiamo opportunamente i cuccioli umani e non facciamo una costante manutenzione degli strumenti critici che ci può fornire l’istruzione scientifica, è del tutto normale cadere nelle trappole delle credenze intuitive, che ci mettono alla mercé di diverse categorie di impostori.

Le credenze pseudoscientifiche e le loro origini sono spiegate da studi neurocognitivi, dai quali risulta appunto che, se non si interviene correggendo una serie di bias e fraintendimenti che strutturano il modo comune o più spontaneo di ragionare, non si riesce a distinguere tra spiegazioni scientifiche e argomenti o credenze pseudoscientifiche. Senza contare che i fattori che condizionano la comunicazione interpersonale in contesti sbilanciati, e che determinano l’efficacia persuasiva degli impostori, agganciano predisposizioni emotive, anch’esse ancestrali e molto resistenti ad argomenti che siano “solo” razionali.

È importante che gli studiosi dei bias cognitivi che sono all’opera nelle mistificazioni politiche dei fatti collaborino con i medici, per entrare nel merito di come funziona la mente umana e di quali siano le strategie più efficaci per combattere le false credenze che possono danneggiare persone e comunità. Come è stato per il caso Stamina, o per l’idea che i vaccini siano pericolosi. Perché i fenomeni sono più o meno della stessa natura. E studi come quello pubblicato da Pediatrics dimostrano che le idee di democrazia deliberativa o partecipativa rispetto a questioni mediche percepite come controverse sono illusorie se non si interviene direttamente ai livelli decisionali istituzionali per assicurarsi che le scelte siano effettuate sulla base di fatti accertati e non falsamente interpretati.

I meccanismi e processi che inducono o fanno preferire agli esemplari della specie umana di “credere” senza “controllare” sono ben descritti. Meno chiaro è come riuscire a modificarli per renderli adeguati ai contesti della modernità. Intanto ci si dovrebbe domandare chi e quanti siano quelli che riconoscono l’esistenza del problema, in quali termini, etc. Probabilmente la questione della dissonanza tra le nostre dotazioni cognitive più naturali e le esigenze di efficienza poste da società fondate sull’uso di conoscenze controllate è avvertita da una minoranza, e diventa di interesse generale quando esplodono casi eclatanti o abusi. Come il caso Stamina. Senza che ci si accorga che i casi esplodono perché esistono condizioni specifiche che lo consentono.

Si può sostenere che più cultura scientifica risolverebbe il problema? Forse. Ma non c’è da scommetterci. Esistono indizi per cui si può ipotizzare che non sia tanto la cultura scientifica quanto piuttosto la comprensione critica di come funziona la scienza, che può essere acquisita solo attraverso specifici processi di istruzione, a poter riprogrammare l’immunità ideologica per indirizzarla contro le imposture della pseudoscienza e la loro contagiosa diffusione sociale.

Questo significa usare nelle scelte politiche, in ambito scolastico e universitario, soprattutto per quanto riguarda la formazione delle élite professionali, le migliori prove su come sia possibile o più probabile ottenere come risultati dei percorsi di apprendimento capacità di critica razionale, rispetto per i fatti controllati e autonomia di giudizio. E su questo punto, purtroppo, i politici sono i primi a resistere, perché sarebbero decisioni che non producono consenso.
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Re: Utopie demenziali e criminali

Messaggioda Berto » sab mag 20, 2017 7:33 am

Islam e integrazione: il problema della Dichiarazione Islamica dei Diritti Umani
Written by Staff Rights Reporter on Gen 25, 2015

http://www.rightsreporter.org/islam-e-i ... itti-umani

Si fa un gran parlare di integrazione da parte degli stranieri e si arriva pure a sostenere che l’aumento dell’estremismo islamico in Europa sia il frutto proprio della mancanza di una adeguata politica di integrazione.

Noi non siamo molto d’accordo con questa teoria e spieghiamo perché. Secondo il nostro modestissimo parere la mancata integrazione degli stranieri nei Paesi europei (nel nostro caso parleremo di Italia) non dipende tanto dalla situazione sociale in cui molti stranieri si vengono a trovare, che è certamente importante, ma non decisiva per una piena comprensione dei valori che alimentano le nostre democrazie, valori che dovrebbero essere proprio alla base di qualsiasi forma di integrazione. Per capire meglio il nostro ragionamento prendiamo proprio i casi più eclatanti di mancata integrazione che riguardano principalmente gli immigrati musulmani (anche di seconda e terza generazione) che in moltissimi casi rifiutano di accettare quei valori fondamentali su cui si basano le democrazie europee, valori che fanno capo a due documenti specifici che sono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, inutile negarlo, lo scontro tra la nostra cultura e quella musulmana si manifesta su tutti quegli articoli che parlano di libertà individuali e di parità di Diritti tra generi e soprattutto nel differente approccio al concetto di legge. Mentre nelle due dichiarazioni sopra citate i punti focali sono i Diritti Individuali basati esclusivamente su un concetto laico del Diritto, nella Dichiarazione Islamica dei Diritti Umani il concetto di fondo è la legge islamica, la Sharia, che si basa esclusivamente su precetti religiosi.

E chiarissimo e lampante che tra le due visioni di insieme la differenza è abnorme e non conciliabile. E’ quindi impossibile che un qualsiasi residente in Europa possa accettare che i propri concetti di Diritto laici vengano spazzati via da un concetto teocratico che in molti punti fa addirittura a pugni con quanto stabilito dalle dichiarazioni dei Diritti accettate nel nostro continente in quanto stabilisce con chiarezza la supremazia della legge islamica rispetto alle leggi nazionali. In particolare nei seguenti articoli che non possono in nessun caso essere accettati in Europa e che, per dirla tutta, andrebbero messi fuorilegge:

Art. 4 – Il diritto alla giustizia

1) Ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge islamica e che nessun’altra legge gli venga applicata…

5) Nessuno ha il diritto di costringere un musulmano ad obbedire ad una legge che sia contraria alla Legge islamica. Il musulmano ha il diritto di rifiutare che gli si ordini una simile empietà, chiunque esso sia: «Se al musulmano viene ordinato di peccare, non è tenuto né alla sottomissione né all’obbedienza» ( ḥadīth )[1].

O ancora la definizione di equità di un processo e di presunzione di innocenza:

Art. 5 – Il diritto ad un processo giusto

1) L’innocenza è condizione originaria: «Tutti i membri della mia Comunità sono innocenti, a meno che l’errore non sia pubblico» ( ḥadīth ). Questa presunzione di innocenza corrisponde quindi allo «statu quo ante» e deve rimanere tale, anche nei confronti di un imputato, fino a che esso non sia stato definitivamente riconosciuto colpevole da un tribunale che giudichi con equità.

2) Nessuna accusa potrà essere rivolta se il reato ascritto non è previsto in un testo della Legge islamica… …

4) In nessun caso potranno essere inflitte pene più gravose di quelle previste dalla Legge islamica per ogni specifico crimine: «Ecco i limiti di Allah, non li sfiorate» (Cor. II:229)…

Inoltre, relativamente al libero pensiero, troviamo delle fondamentali differenze tra le due Dichiarazioni; infatti per i Paesi firmatari della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si legge:

Articolo 18

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.

Articolo 19

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

mentre nella Dichiarazione islamica troviamo:

Art. 12 – Il diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola

1) Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. Nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica: «Se gli ipocriti, coloro che hanno un morbo nel cuore e coloro che spargono la sedizione non smettono, ti faremo scendere in guerra contro di loro e rimarranno ben poco nelle tue vicinanze. Maledetti! Ovunque li si troverà saranno presi e messi a morte» (Cor., XXXIII:60-61). … 4) Nessun ostacolo potrà essere frapposto alla diffusione delle informazioni e delle verità certe, a meno che dalla loro diffusione non nasca qualche pericolo per la sicurezza della comunità naturale e per lo Stato: «Quando giunge loro una notizia rassicurante o allarmante, essi la divulgano; se l’avessero riferita all’Inviato di Dio e a quelli di loro che detengono l’autorità, per domandare il loro parere avrebbero saputo se era il caso di accettarla, perché di solito si fa riferimento alla loro opinione» (Cor. 4,83).

Ora, è chiaro che se anche le seconde generazioni di musulmani crescono apprendendo che i loro Diritti sono tutelati dalla Dichiarazione islamica dei Diritti Umani invece che dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, lo scontro tra civiltà e ideologie diverrà immancabile e a farne le spesa sarà proprio quella integrazione di cui tanto si parla.

E qui sarebbe il caso anche di fare un lungo ragionamento sul concetto di integrazione, che non significa che noi europei ci dobbiamo adattare alle usanze e alle leggi di chi viene nel nostro continente ma è esattamente il contrario. Come si risolve questo problema? Si risolve dal basso, inserendo obbligatoriamente lo studio dei Diritti Umani nelle scuole e un piano di studio che compari le varie dichiarazioni e ne evidenzi le differenze in termini di Diritto. Se a una bambina musulmana viene spiegato che lei ha gli stessi Diritti di un maschio musulmano quando questa andrà a casa saprà che qualsiasi forma di costrizione nei suoi confronti è di fatto una violazione della legge, della nostra legge che è l’unica che tutti sono tenuti a rispettare se veramente vogliono essere integrati. Ed è questo il punto focale della nostra iniziativa: è impossibile accettare che la legge islamica prevalga sulle leggi nazionali e per questo che dai prossimi giorni daremo il via a due iniziative congiunte. La prima è volta a chiedere che in Italia l’insegnamento dei Diritti Umani così come enunciati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani venga reso obbligatorio e non come semplice complemento dello studio del Diritto Civile. La seconda iniziativa è volta rendere fuorilegge la dichiarazione islamica dei Diritti Umani in quanto chiaramente incompatibile sia con le nostre leggi che con tutte le legislazioni dell’Unione Europea in quanto pone la legge islamica al di sopra delle leggi nazionali, un vero e proprio bastione contro l’integrazione. Le due iniziative, in particolare quella in Europa, verranno aperte da un dettagliato esposto che renderemo pubblico appena possibile cioè non appena verranno recepiti e messi in discussione, il che ci auguriamo avverrà prima possibile.


Preistoria e storia del diritto, fonti varie
viewtopic.php?f=205&t=2521

Diritto islamico


Shariʿah o sharia
https://it.wikipedia.org/wiki/Shari'a
Shariʿah o sharia (in arabo: شريعة‎, sharīʿa) è un termine arabo dal senso generale di "legge" (letteralmente "strada battuta"), che può essere interpretata sotto due sfere, una più metafisica e una più pragmatica. Nel significato metafisico, la sharīʿah è la Legge di Dio e, in quanto tale, rimane sconosciuta agli uomini.

Sharia o legge islamica per Maometto ed il Corano
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La Sharia non è la legge di D-o ma soltanto quella dell'idolo Allah
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo

Messaggioda Berto » dom giu 04, 2017 6:51 am

Comunisti, internazicomunisti e dintorni
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Messaggioda Berto » lun giu 05, 2017 9:07 pm

L'islam è un muro che imprigiona le società

http://islamicamentando.altervista.org/ ... na-societa

Nel’islam lo sforzo più razionale che un musulmano possa compiere é quello dei mutakalimmun, gli esperti della scienza del kalam (teologia dogmatica) e del fiqh, i quali studiano come applicare correttamente ciò che é scritto sul Corano. Essi, a livello esteriore, indicano cosa si può fare e cosa non si può fare in base alla speculazione teologica, dando un ordine esauriente ad ogni ambito della società musulmana.
In tutte le scuole islamiche di diritto l’interesse centrale è per la giustizia e per l’ortoprassi. Le pratiche giuste e quelle sbagliate vengono così fissate nella sharia.

In questo quadro sintetico è essenziale ricordare il ruolo della shahada (testimonianza di fede), che è la prassi essenziale con cui si attesta di sottomettersi ad Allah (islam = sottomissione). Nel preciso istante in cui una persona diventa musulmana si impone i quattro pilastri e l’osservazione della sharia. Per avvicinarsi alla perfezione su questa terra ed al paradiso nell’aldilà gli sarà sufficiente continuare ad avere fede e seguire ciecamente le indicazioni dei sapienti (taqlid).

Uno degli obblighi che ogni musulmano deve rispettare è la Hisbah (“obbligo di sorveglianza”), e consiste nell’impedire che un confratello compia azioni vietate dalla Legge, ovvero si sottragga agli obblighi prescritti dalla sharia. Si tratta dunque del noro obbligo di “comandare il Bene e proibire il Male” che incombe sull’autorità in un paese islamico, attraverso il controllo esercitato dall’autorità magistratuale del Muhtasib, una sorta di polizia dei costumi.

Se a tutto ciò aggiungiamo la negazione del libero arbitrio (come lo conosciamo noi in occidente) il cerchio si chiude, da un muro invalicabile, senza possibilità di uscita, oltre il quale c’è l’apostasia (con conseguenti condanne) ed un’esistenza vissuta nell’errore a prescindere.

Dentro questo confine abbiamo regole arcaiche prescritte nell’Arabia del VII secolo, che riguardano ogni minimo aspetto della vita del fedele: il diritto di successione, come stipulare un contratto e persino come vestirsi, come sedersi, su quale fianco dormire, qual é il modo corretto di lavarsi le parti intime etc… Tutte queste norme sono ritenute sacre e inviolabili, indipendentemente dal tempo e che, se messe in pratica, rendono le società come il deserto arabo, arido e ostile.
Proviamo a pensare alla vita quotidiana di un “buon musulmano”, il quale sa perfettamente cosa deve fare per ogni sua singola azione, ed al quale è vietato rifettere su cosa è giusto e cosa non lo è perché c’è qualcuno che lo ha già stabilito al suo posto e lo ha istruito su come comportarsi in ogni specifico caso, anche il più insignificante, arrivando adirittura ad indicargli chi si deve scegliersi come amico e chi no (Corano 3:28). È evidente che con questo tipo di arida casistica giuridica che si pronuncia su ogni caso della vita, viene inevitabilmente – e, oseremmo aggiungere, volontariamente – soffocata la capacità razionale.

Ripetere singole norme della sharia e arrovellarsi su possibili mancanze, frena la ragione e impedisce l’attenzione verso tutte quelle sfumature che determinano la vita sociale di ogni individuo. La presenza così capillare ed invadente dell’islam nella vita degli individui finisce per frenare ogni tipo di cambiamento sostanziale della società. Gli individui (i musulmani) sono portati a chiudersi tra loro, a ritenere nocivo ciò che è fuori dal “confine islam”. L’islam arriva ad osteggiare persino l’esplorazione con la fantasia. Un comune musulmano che si sforza di capire cosa possa esserci di bello nella lettura di un romanzo di Dostoevskij fa una cosa haram (proibita).


Islam freno al progresso

Immagine

Islam e democrazia. La paura della modernità, di Fatima Mernissi, pag. 118

È per questo motivo che l’islam, in quanto impressionante sistema politico, è stato in grado di immettere la sua impronta su immensi territori di questo pianeta ma allo stesso tempo ha frenato lo sviluppo delle società presenti sul territorio conquistato.

Esistono anche differenti culture nell’islam, ma ciò è dovuto ad una maggiore o minore osservanza e al fatto che la religione viene messa in pratica in maniera differente in posti differenti, non essendoci un’autorità centrale che stabilisca cosa fare. Ciò nonostante, negli aspetti generali le culture islamiche sono praticamente tutte uguali, con differenze secondarie, e tutte accomunate da una notevole arretratezza, anche dove grazie ai “petrodollari” c’è molta ricchezza. Tramite gli ordini e i divieti, il contesto sociale derivante dalle circostanze e dalle usanze, viene cinformato alla Legge fissata nel Corano e nella Sunna. È indubbio che il Corano abbia avuto un’enorme influenza nella formazione della mentalità dei musulmani nonostante le loro differenze etniche, e come le varie nazioni musulmane abbiano sempre tentato di uniformare ad esso i propri ordinamenti civili (e religiosi).

L’islam è legato rigidamente ad una determinata cultura “arabizzante” e ad una precisa organizzazione politica: togli il potere politico all’islam, e distruggi l’islam. Fai una società non teocratica e avrai distrutto l’islam in quelle regioni. Una società laica non è mai esistita nell’islam, al limite è esistito un potere che non trova la sua legittimazione nel Corano, ma comunque prima o poi ha fatto i conti con la società islamizzata, e ha dovuto lasciare tutte le questioni sociali in mano all’islam e alla sua visione del mondo. È chiaro che un potere del genere, per esistere, deve essere dittatoriale.

Insomma, la sopravvivenza dell’islam è legata al predominio di ogni cosa. Solo Allah è il detentore della legge e non esiste alcuna sovranità popolare. Il compito dello Stato (quando c’è uno Stato) sarà esclusivamente quello di applicare il diritto musulmano.
Si capisce bene che una privazione così restrittiva e totale delle libertà e responsabilità della persona non può far altro che frenare la società in tutti i suoi aspetti. Impedire una svolta verso l’uomo come individuo libero significa privare la società di ogni possibilità di avere il suo umanesimo europeo. Nessun Rinascimento come preludio a una svolta verso la civiltà.

Il 29 marzo 1883, il filosofo francese Ernest Renan, in conferenza alla Sorbona sostenne:

“Chiunque sia sommariamente aggiornato sulle questioni del nostro tempo vede chiaramente l’inferiorità dei Paesi musulmani, la decadenza degli Stati governati dall’Islam, la nullità intellettuale delle razze che traggono la loro cultura ed educazione unicamente da questa religione. Chi è stato in Oriente o in Africa è colpito dal limite fatale che imprigiona la mente di un vero credente, da questa specie di cerchio di ferro che serra la sua testa rendendola completamente refrattaria alla scienza, incapace sia di apprendere sia di aprirsi a nuove idee” (Ernest Renan, L’Islam et la science, pag. 22-23)

E definì l’islam:

“la catena più pesante che l’umanità abbia mai portato” (Ernest Renan, L’Islam et la science, pag. 38)
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Messaggioda Berto » dom giu 11, 2017 12:45 pm

Islam e democrazia
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Messaggioda Berto » gio giu 15, 2017 10:01 pm

WATERGATE, SNOWDEN E IL MONDO AL CONTRARIO DELLO STATALISMO
di GIOVANNI BIRINDELLI

https://www.miglioverde.eu/watergate-sn ... statalismo

Il Corriere della Sera definisce il Watergate “il caso politico più clamoroso di tutti i tempi”. Io non so quale sia stato il “caso politico” più “clamoroso” di tutti i tempi. In realtà non so nemmeno cosa il giornalista intenda coi termini “politico” e “clamoroso”.
Quello che so, è che il fatto che la macchina coercitiva statale saboti i computer/telefoni e spii sistematicamente e legalmente le comunicazioni di ogni singolo individuo lo trovo molto più grave del fatto che un… partito politico spii e saboti l’attività di un altro partito politico.
Anzi, per essere più precisi, mentre, da un lato, lo spionaggio sistematico delle persone da parte della macchina coercitiva statale è non solo un crimine (cioè una violazione del principio di non aggressione), ma un crimine su scala globale e di massa, che ha preparato (e continua a potenziare) una bella stanza dei bottoni per forme di totalitarismo molto più esplicite della presente, dall’altro lo spionaggio e il sabotaggio di un partito politico a danno di un altro è più simile a una guerra fra bande all’interno della democrazia (che, come noto nel senso di logicamente deducibile, rendendo di fatto illimitato il potere coercitivo di una maggioranza eventualmente qualificata su una minoranza e soprattutto sull’individuo, è un sistema politico totalitario).
Il fatto che il Datagate (la rivelazione dell’attività sistematica di spionaggio e sabotaggio dello stato contro ogni singola persona resa possibile dal coraggio eroico di Edward Snowden), non sia stato un caso politico “clamoroso”, cioè che non gli sia stato dato sufficiente “clamore” dalla stampa mainstream, ha diverse ragioni. Fra queste, c’è la confusione intellettuale che rende possibile la tassazione e il monopolio statale (attraverso le banche centrali) della moneta:
– Lo stato è un Dio: esso (chi lo controlla) può commettere legalmente nei confronti delle persone azioni che, se fossero commesse da chiunque altro, sarebbero considerate dei crimini;
– Ergo, aggredire (p. es. spiare e sabotare) chi fa parte dell’apparato statale è molto più grave che spiare coloro che da questo sono oppressi. Anzi, nel nome di un nonsenso logico come “il bene comune”, l’oppressione delle persone diventa addirittura legale.
Lo statalismo, ovvero il mondo all’incontrario.
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