Il sud della penisola italica - i meridionali

Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » lun apr 17, 2017 4:44 am

La burocrazia fannullona, irresponsabile, corrotta, mafiosa


La burocrazia al Sud la più lenta d’Europa
About Stefania
http://www.lindipendenzanuova.com/la-bu ... ta-deuropa

SUDIl Mezzogiorno supera le regioni a bassa crescita di Polonia e Spagna per lentezza delle procedure legate ai permessi di costruzione e al rispetto dei contratti. In quest’ultima categoria spicca in particolare la Regione Puglia, dove una disputa amministrativa che coinvolge un’azienda puo’ durare anche 5 anni e mezzo, a fronte di una media nazionale di circa 4 anni, mentre in Polonia basta un anno e mezzo. È la fotografia scattata dalla Commissione europea in una relazione sulle regioni in ritardo per crescita e ricchezza rispetto al resto dell’Ue. Il 40% delle cause civili nel Mezzogiorno dura piu’ di 3 anni, “molto peggio di quanto accade nel resto del Paese”, riporta la relazione, che ricorda i programmi promossi dall’Ue per migliorare la capacita’ amministrativa delle regioni, per un totale di 1,2 mld di euro. Anche guardando alle performance delle universita’, le regioni a bassa crescita polacche e italiane si comportano “particolarmente male”, in particolare Calabria, Basilicata e Sicilia. Nonostante i progressi ancora da fare, lo studio loda Italia e Spagna per essere gli unici fra i Paesi analizzati ad avere una strategia nazionale per lo sviluppo regionale e in particolare l’impegno italiano nell’indirizzare buona parte delle risorse della politica di coesione alle regioni del Mezzogiorno. La relazione della Commissione ha preso in esame 47 regioni di 8 Stati membri, fra cui Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna.


Al Sud 'burocrazia a volte peggio della criminalità'
L'atto di accusa del segretario dei vescovi Galantino nei confronti della politica e delle istituzioni
22/02/2017

http://www.ilgiornaleditalia.org/news/p ... volte.html

Visto e considerato "quello che l'agricoltura sta significando in questo momento di crisi per l'Italia, mi chiedo con grande semplicità: ma di cos'altro c’è bisogno perche' nell'agenda politica si rimetta al centro l'agricoltura e gli agricoltori, coloro i quali fanno agricoltura?".

Così si è espresso monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della conferenza episcopale italiana, nel suo intervento alla presentazione del Rapporto sull'agricoltura del Mezzogiorno realizzato da Ismea e Svimez, ieri alla Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio, presente tra gli altri anche il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina.

"Abbiamo il problema dell'occupazione, e mi sembra si parli di una occupazione che cresce nell'agricoltura- ha aggiunto monsignor Galantino- si parla di Pil che non riesce a schiodarsi, e nell'agricoltura questo avviene", allora "che ci vuole per far capire ai nostri politici che questa è una realtà che va messa seriamente al centro" dell'attività politica. Detto questo, "è possibile anche al Sud fare impresa e farla bene”, ha detto ancora l’ex vescovo di Cassano allo Jonio.

Per quanto riguarda le "precondizioni" per una politica di sviluppo, nel Mezzogiorno e anche con l'agricoltura, "dove c’è criminalità non c’è e non ci può essere sviluppo, troppi sforzi, troppi progetti ho visto personalmente fare naufragio per timore, per stanchezza, per fiducia e per una burocrazia che era per vessazioni quasi pari alla criminalità".

“Le ho viste io queste cose, le ho toccate con mano- ha aggiunto senza mezzi termini monsignor Galantino- quanta fatica ho fatto quando stavo cercando di mettere insieme tre ragazze a Montegiordano (Cosenza) perché valorizzassero dei limoneti: non c’é stato modo di farli andare avanti" a causa di molti limiti e controlli. Certo, sottolinea il Segretario generale Cei, "la legalità è giusta, l'attenzione alla legalità è il primo passo verso una politica di sviluppo intelligente, però c’è un limite a tutto. Molti progetti sono naufragati per questo motivo", ha concluso il suo atto d’accusa, anche nei confronti della politica, il presule di origini pugliesi.


Burocrazia: inefficienza al Sud fa perdere 30 mld all’anno
21 marzo 2016

http://www.blitzquotidiano.it/economia/ ... no-2418156

ROMA – Burocrazia: inefficienza al Sud fa perdere 30 mld all’anno. La cattiva qualità della pubblica amministrazione nelle regioni del Mezzogiorno fa perdere all’Italia circa due punti di Pil l’anno, pari a quasi 30 miliardi di euro. Lo afferma la Cgia di Mestre, sulla scorta di un’indagine europea condotta dall’Ue sulla qualità della Pubblica amministrazione a livello territoriale. Rispetto ai 206 territori interessati dallo studio, le regioni del Sud d’Italia compaiono 7 volte nel rank dei peggiori 30, con la Campania che si classifica al 202/O posto.

Lo squilibrio tra regioni del Nord e del Sud – afferma la Cgia – determina il posizionamento negativo dell’Italia nella classifica: 17/O posto con un indice negativo (-0,930) lontano dalla media europea (posta a zero). L’indice fornito nell’analisi Ue – ricorda la Cgia – è il risultato di un mix di quesiti posti ai cittadini sulla qualità dei servizi pubblici, l’imparzialità con la quale questi vengono assegnati e la corruzione. I servizi pubblici direttamente monitorati a livello regionale sono quelli a valenza più “territoriale” (formazione, sanità e sicurezza) ma l’indice tiene conto, a livello paese, anche di servizi più generali come la giustizia.

Il risultato finale è un indicatore che varia dal +2,781 della regione finlandese land (primo posto) al -2,658 della turca Bati Anadolu (206/A e ultima posizione). La media europea è posta a zero. Per l’Italia i servizi sono valutati come migliori nelle due province autonome del Trentino Alto Adige (indici superiori a 1) e nelle due regioni a statuto speciale del Nord (Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) che presentano un indice maggiore di zero, ovvero superiore alla media delle 206 regioni europee.

In terreno negativo tutte le altre regioni italiane, ma con gap minori per Veneto ed Emilia Romagna, che tendono alla media europea (indici pari a -0,186 e -0,217). Scorrendo il rank, a centro classifica vi sono due terzetti: il Centro Italia con Umbria (-0,495), Toscana (-0,533), Marche (-0,535) e il Nord Ovest con Lombardia (-0,542), Piemonte (-0,652), Liguria (-0,848). Del tutto negativa, invece, la situazione del Mezzogiorno, a partire dal risultato meno pesante dell’Abruzzo (-1,097), fino a quelli peggiori di Sicilia, Puglia, Molise, Calabria (indici che variano da -1,588 a -1,687), per finire con la Campania (-2,242).

Situazione critica anche per il Lazio che, con un indice pari a -1,512 si posiziona al 184/O posto tra le 206 regioni europee. “Il quadro dipinto da questo indice europeo – spiega il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – evidenzia come l’Italia sia il Paese che presenta la più ampia variabilità in termini di qualità della P.a, tra le prime regioni del Nord e le ultime del Sud.

Si pensi che, secondo quanto indicato dal Fondo Monetario Internazionale, se l’efficienza del settore pubblico si attestasse sui livelli ottenuti dai primi territori italiani, come Trento e Bolzano, la produttività di un’impresa media potrebbe crescere del 5-10 per cento e il Pil italiano di due punti percentuali, ovvero di 30 miliardi di euro”.



Sud, gli imprenditori temono la burocrazia più della mafia
Per l'80% il peggiore nemico è l'eccessivo carico fiscale sull'impresa e sul lavoro. In vetta anche la malapolitica
25-settembre-2012

http://corrieredelmezzogiorno.corriere. ... 7085.shtml

PALERMO - Gli imprenditori siciliani e quelli del Sud temono più le tasse, la burocrazia e la malapolitica della mafia. È questo uno dei risultati a cui approda la ricerca, «Mezzogiorno, Imprese e Sviluppo: la crisi come occasione di cambiamento» realizzata da Ipsos per la Cna, che viene presentata a Palermo stamattina. Quello che emerge è che la crisi, come c'era da aspettarsi, ha aggravato le difficoltà quotidiane delle aziende, e che il 59% degli imprenditori pensa che il peggio debba ancora arrivare. Per l'80% il peggiore nemico è l'eccessivo carico fiscale sull'impresa e sul lavoro; il 74% addita lentezze e macchinosità della pubblica amministrazione, soprattutto se comparata con quella del Nord Italia; il 62% l'inefficienza della politica locale.

RITARDI NEI PAGAMENTI - E poi ci sono i ritardi nei pagamenti da parte dei debitori privati e pubblici (57%) e la stretta creditizia e rifiuto dei finanziamenti da parte delle banche (54%). In questo contesto la criminalità resta certamente un problema, ma non è ai primi posti fra le questioni da affrontare: le difficoltà sono più nella gestione fisiologica dell'impresa che nelle situazioni patologiche.

COESIONE - Non sono più sufficienti estro, fantasia, inventiva, determinazione come ingredienti per risolvere i problemi e farcela da soli, è necessaria invece una visione più ampia e lungimirante che passa attraverso una programmazione e una pianificazione di medio-lungo periodo. Quello che emerge è anche una forte esigenza di coesione tra imprese. Il 70% degli imprenditori è consapevole che la coesione tra aziende - oggi quasi assente - sarà fondamentale per la futura crescita. Inoltre il Sud necessita di programmazione e rilancio, specie di settori quali il turismo. E c'e' necessita' anche di una politica locale più incisiva, lungimirante e coerente.



L'Italia è il Paese più corrotto nell'Ue, peggio di noi solo la Bulgaria
Nel rapporto 2015 di Transparency International lo stivale è sessantunesimo mentre Grecia e Romania ci superano al cinquantottesimo posto. La Danimarca è la più trasparente
27 Gennaio 2016

http://www.iltempo.it/esteri/2016/01/27 ... ria-999987

Diminuisce, sia pur di poco, la percezione della corruzione in Italia, che risulta però il secondo membro Ue più corrotto dopo la Bulgaria. Nel rapporto 2015 di Transparency International, il Paese risulta sessantunesimo per corruzione percepita in una lista che vede al vertice le nazioni considerate più sane, con un punteggio di 44 punti, in miglioramento rispetto ai 43 punti del 2014. Nel 2014 la penisola si era piazzata al sessantanovesimo posto su 175. Non c'è comunque molto di cui rallegrarsi. In una scala da zero ("molto corrotto") a cento ("molto pulito"), con 44 punti l'Italia si trova comunque nella parte sinistra della classifica per punteggio, ovvero tra quei paesi dove "la corruzione tra istituzioni pubblici e dipendenti è ancora comune". E nella classifica dal paese meno corrotto al più corrotto, ci piazziamo significativamente dietro la maggior parte dei membri dell'Ocse, condividendo la sessantunesima posizione con Lesotho, Montenegro, Senegal e Sud Africa. Nella Ue fa peggio solo la Bulgaria (che l'anno scorso condivideva la stessa posizione dell'Italia), mentre Grecia e Romania ci superano al cinquantottesimo posto, salendo entrambe di ben undici posizioni. E tra le nazioni che ci battono in trasparenza figurano Botswana (ventottesima), Ruanda (quarantaquattresima) e Ghana (cinquantaseiesima).

Danimarca più trasparente I paesi del Nord Europa sono i più trasparenti del mondo mentre tra i paesi più corrotti continuano a figurare nazioni attanagliate da conflitti e violenza, a dimostrazione di quanto i fenomeni siano strettamente correlati. È quanto risulta dall'edizione 2015 del 'Corruption Perception Index' di Transparency International. "Le proporzioni del fenomeno sono enormi", sottolinea l'organizzazione", il 68% dei paesi del mondo ha seri problemi di corruzione e metà del G20 è tra loro". Classifica alla mano, i dieci paesi meno corrotti sono Danimarca, Finlandia, Svezia, Nuova Zelanda, Olanda, Norvegia, Svizzera, Singapore, Canada e Germania, decima a pari merito con la Gran Bretagna. La nazione più corrotta, secondo il rapporto, è invece la Somalia, a pari merito con la Corea del Nord. Seguono, risalendo dal penultimo posto, Afghanistan, Sudan, Sud Sudan, Angola, Libia, Iraq, Venezuela a Guinea-Bissau. Tra le grandi economie del G20, dopo Canada, Germania e Regno Unito) troviamo gli Usa (sedicesimi), il Giappone (diciottesimo), la Francia (ventitreesima) e la Corea del Sud (trentasettesima). L'Italia, da parte sua, si trova a condividere il sessantunesimo posto con il Sud Africa. Ancora più in basso Brasile e India (settantaseiesimi) e Russia (alla posizione numero 119). Guadagna posizioni la Cina, che l'anno scorso era centesima e oggi è ottantatreesima

"Cinque dei paesi con il punteggio più basso figurano inoltre tra i dieci mosti meno pacifici del mondo", si legge ancora nel rapporto, "in Afghanistan, milioni di dollari destinati alla ricostruzione sono stati, scrivono, sprecati o rubati". "Anche quando non sussistono conflitti aperti, i livelli di ineguaglianza e povertà in questi paesi sono devastanti", prosegue lo studio, "in Angola il 70% della popolazione vive con due dollari al giorno o meno e un bambino su sei muore prima di compiere cinque anni". Complessivamente i paesi poveri, sottolinea Transparency International, perdono mille miliardi di dollari all'anno a causa della corruzione. Il primato del Nord Europa non deve però ingannare: "Solo perchè un paese abbia una pubblica amministrazione onesta non significa che non sia coinvolto in episodi di corruzione altrove". "Prendete la Svezia, ad esempio", sottolinea l'organizzazione, "è terza in classifica ma la compagnia finno-svedese TeliaSonera, controllata al 37% dallo Stato svedese, sta subendo l'accusa di aver pagato milioni di dollari in tangenti per assicurarsi affari in Uzbekistan, che occupa la posizione numero 153". Tra le nazioni che hanno guadagnato posizioni in termini di trasparenza, l'organizzazione cita Grecia, Senegal e Regno Unito tra i paesi che hanno registrato i maggiori miglioramenti negli ultimi tre anni. Il deterioramento più grave, prosegue lo studio, si e' registrato invece in Australia, Brasile, Libia, Spagna e Turchia. Ragionando in termini di macro aree, Transparency International ha notato "due tendenze notevoli nelle Americhe: la scoperta di grandi reti di corruzione e la mobilitazione di massa dei cittadini contro la corruzione", mentre la regione del Pacifico asiatico sembra in "stallo". Si parla invece di "stagnazione" per l'Europa e l'Asia centrale, sebbene "un pugno di paesi sia migliorato". Le regioni più problematiche si confermano, poi, Medio Oriente e Nord Africa ("i devastanti conflitti in corso fanno si' che il rafforzamento delle istituzioni e dello Stato sia passato in secondo piano") e l'Africa subsahariana, dove quaranta paesi su quarantasei denotano un "grave problema di corruzione".

Nigeria e Sud Africa non migliorano L'Africa Subsahariana continua a presentare una diffusione della corruzione "preoccupante", con le maggiori economie, quali la Nigeria e il Sud Africa, che non danno segnali di miglioramento. E' quanto emerge dall'edizione 2015 del "Corruption Perceptions Index" elaborato da Transparency International. "L'Africa subsahariana ha affrontato innumerevoli minacce nel 2015, dall'epidemia di ebola alla crescita del terrorismo", si legge nello studio", vediamo sempre più la corruzione esacerbare le cause delle crisi e minare la capacità di risposta". Il rapporto di quest'anno "presenta un quadro preoccupante, con 40 paesi su 46 che mostrano un serio problema di corruzione e nessun miglioramento per i pesi massimi economici Nigeria e Sud Africa". In particolare Abuja mantiene la posizione numero 136 con un punteggio che scende di un grado a quota 26, mentre Città del Capo, pur salendo dalla sessantasettesima alla sessantunesima posizione, resta inchiodata a 44 punti (stesso punteggio e stessa posizione dell'Italia, va sottolineato).

"Il progresso è possibile", avverte lo studio, che sottolinea il miglioramento "significativo" del Senegal, che sale dalla sessantanovesima alla sessantunesima posizione, al pari con Italia e Sud Africa, e del Botswana, nazione meno corrotta di tutta l'Africa, che sale dal trentunesimo al ventottesimo posto, ai pari del Portogallo e meglio di Polonia (trentesima) e Spagna (trentaseiesima). "La corruzione, però, continua a negare ai cittadini giustizia e sicurezza", scrive ancora l'organizzazione, "mentre una Somalia devastata dai conflitti finisce di nuovo in fondo alla classifica, molti paesi sono piagati dalla mancata applicazione della legge", ospitando la polizia e i tribunali "maggiormente interessati da tangenti". "In molti paesi, tra i quali Angola, Burundi e Uganda, assistiamo a una mancata persecuzione degli ufficiali pubblici da una parte e l'intimidazione dei cittadini che si ergono contro la corruzione dall'altra", si legge nello studio. L'Angola, in particolare, segnala un notevole deterioramento, scendendo dalla centosessantunesima alla centosessantatreesima posizione (su 167 posti; nel 2014 erano 175) e un punteggio sceso a 15 punti dai 22 del 2012 in una scala da uno a cento. Migliora invece notevolmente la performance del Mozambico, che sale a 31 punti alla posizione 112 (nel 2014 era a 21 punti alla posizione 156). Avanzano in classifica, pur mantenendo un punteggio grossomodo invariato rispetto al 2014, anche Ghana (dalla sessantunesima alla cinquantaseiesima posizione), Congo Brazzaville (dalla posizione 152 alla 146) e Kenya (dalla 145 alla 139). Arretra invece il Gabon, che scende dal novantaquattresimo al novantesimo posto. "Se la corruzione e l'impunità devono diventare 'una cosa del passato', come affermato dall'Unione Africana nell'agenda al 2063, i governi devono prendere iniziative coraggiose per assicurare che il rispetto della legge sia una realtà per tutti", conclude Transparency International, "perseguire la corruzione ripristinerà la fiducia tra le persone che non credono più nelle istituzioni che dovrebbero proteggerle"
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » lun apr 17, 2017 4:59 am

Mafie e briganti teroneghi
viewtopic.php?f=22&t=2259


Le mafie: dall'Italia al mondo e ritorno
Atlante Geopolitico 2012 (2012)
http://www.treccani.it/enciclopedia/le- ... olitico%29

...

Criminalità organizzata italiana e transnazionale

L’Italia che quest’anno compie 150 anni ha avuto, proprio a partire dall’anno della sua nascita, una criminalità molto diversa da quella di tutti gli altri paesi europei.

La criminalità non è solo quella degli omicidi o dei fatti di sangue commessi da soggetti singoli o da individui isolati; comprende anche tutti i reati che violano le norme e le leggi, e dunque comprende sia i reati predatori (furti, scippi, rapine, ecc.) sia quelli dei colletti bianchi (corruzione, truffe, bancarotte, falso in bilancio, reati finanziari in senso lato).

L’Italia ha una peculiarità dovuta all’esistenza, a partire almeno dall’unità, di una criminalità che è riuscita a organizzarsi in forme stabili e a durare a lungo nel tempo, arrivando fino ai nostri giorni. La criminalità organizzata ha innovato i modelli esistenti nei secoli precedenti, basati su violenza cieca e su fiammate delinquenziali devastanti ed episodiche. La novità è la creazione di strutture che prevedono vincoli di appartenenza, giuramenti, rituali, affiliazioni formali, gerarchie rigide, segretezza, omertà. Una criminalità organizzata che in tempi recenti – a partire dal 1982, con l’approvazione della legge Rognoni-La Torre – è stata definita con maggiore precisione ‘di stampo mafioso’, introducendo nel codice penale l’articolo 416 bis.

A una criminalità organizzata tutta italiana si è andata ad aggiungere, all’incrocio dei due millenni – con il Novecento che tramontava e il nuovo millennio che s’avviava – una criminalità organizzata transnazionale. Questa nuova definizione comprende comportamenti e azioni di uomini organizzati in gruppi etnici che agiscono in paesi stranieri. Si sono così moltiplicate le forme di criminalità organizzata perché – guardando solo a due tipici fenomeni degli ultimi anni come il traffico degli stupefacenti e la tratta degli esseri umani – si da vita a reati che sono commessi in più di uno stato, oppure sono realizzati in uno stato pur essendo pianificati e diretti in un altro stato. I gruppi criminali sempre più spesso operano di concerto con gruppi criminali di altre nazionalità e agiscono contemporaneamente in più paesi.

La globalizzazione e la competizione economica a livello mondiale hanno inciso anche nelle dinamiche della criminalità organizzata italiana. È proprio della criminalità organizzata italiana che noi ci occuperemo, collocandola in uno scenario sovranazionale perché oggi per comprendere i mafiosi italiani dobbiamo dare uno sguardo a quanto accade nelle altre criminalità a livello mondiale.


Cosa nostra statunitense (detta anche Mafia italo-americana, La Cosa Nostra o Mafia americana)
https://it.wikipedia.org/wiki/Cosa_nostra_statunitense
è il nome con cui viene definita l'organizzazione criminale di stampo mafioso italo-statunitense, originatasi come un'associazione di mafiosi siciliani (e infine altri gangster di origine italiana) emigrati negli Stati Uniti d'America cominciando verso la seconda metà dell'Ottocento.


Camorra
https://it.wikipedia.org/wiki/Camorra

Ndrangheta
https://it.wikipedia.org/wiki/%27Ndrangheta

Sacra Corona Unita
https://it.wikipedia.org/wiki/Sacra_corona_unita


Soggiorno Obbligato
https://it.wikipedia.org/wiki/Confino
Il domicilio coatto (spesso detto confino) era una misura di prevenzione prevista dall'ordinamento giuridico italiano. Era un provvedimento che poteva essere proposto dalle autorità di polizia ed imposto anche senza la necessità di un processo regolare e di una condanna per un reato effettivamente previsto nel codice penale ed effettivamente commesso.
Nell'Italia repubblicana è stato sostituito da altri istituti come il soggiorno obbligato, che è un provvedimento giudiziario consistente nell'obbligo di abitare in una località ristretta, stabilita dalle autorità, per un certo periodo di tempo (anche alcuni anni).


Veneto, quel flagello del soggiorno obbligato
12 Mar 2017
http://www.lindipendenzanuova.com/venet ... -obbligato

Arena due - sogg. obbligatodi ETTORE BEGGIATO – A cavallo fra gli anni 70 e 80, la Regione del Veneto fu flagellata da una legge dello stato italiano attraverso la quale venivano mandati nelle nostre comunità delle “pecorelle smarrite” sospettate di appartenere alla mafia e alla ndrangheta: il cosiddetto “soggiorno obbligato”.

Personaggi con un curriculum impressionante, veri e proprio “pezzi da 90” che oggi non dicono molto, ma che all’epoca erano al vertice di “famiglie” potentissime e senza scrupoli.
“La mafia combatte, i veneti muoiono”, così il “Corriere della Sera” titolava a tutta pagina il 2178/86; Verona che era diventata la Bangkok d’Europa grazie al “clan dei calabresi” costituitosi attorno ai soggiornanti obbligati; non parliamo della Riviera del Brenta dove la piccola criminalità fece un salto di qualità grazie agli insegnamenti dei professionisti del crimine copiosamente inviati dallo stato italiano.
Incapacità, irresponsabilità o complicità da parte del governo di Roma? O la necessità di “fare gli italiani” livellando il livello di criminalità fra le varie regioni ?
Irresponsabilità, incapacità o complicità da parte di chi non si rese conto che il soggiorno obbligato, lungi dal poter essere uno strumento efficace nella lotta contro la mafia, diventata un fortissimo veicolo di impianto di criminalità organizzata in zone impossibilitate a difendersi ?
Illuminante quanto scrisse su questo aspetto il settimanale della diocesi di Belluno “L’amico del popolo”:
“E’ come diffondere una epidemia spostando i germi patogeni nei vari organismi sani; è come la metastasi del cancro che viene ad intaccare inesorabilmente i tessuti sani non diminuendo la virulenza della malattia, ma accrescendo di numero le parti malate”.
E dopo anni e anni di lotte, di manifestazioni, di proteste, il nostro popolo riuscì a vincere anche questa battaglia; all’epoca proprio al fine di non disperdere il ricordo di tutte queste battaglie stampai un libro bianco/rassegna stampa di quasi duecento pagine, “Soggiorno obbligato=esportazione di criminalità. La lotta dei veneti contro lo stato italiano”, testimonianza di una mobilitazione straordinaria che coinvolse tante regioni, dalla Lombardia al Trentino, dal Friuli all’Emilia; recentemente ho ritrovato il PDF di questa raccolta. E chi fosse interessato lo può richiedere alla mia e-mail: bejato@hotmail.com


In Veneto più di 150 mafiosi «Pochi hanno cambiato vita» - Corriere ...
Le storie dei criminali in soggiorno obbligato. Pavone: «Molti sono rimasti». Il monito della procura generale: «Occhi aperti su Riina jr».
06 mar 2012

http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... 1271.shtml


Mala del Brenta
https://it.wikipedia.org/wiki/Mala_del_Brenta
Mala del Brenta è il nome attribuito dal giornalismo italiano ad un'organizzazione criminale mafiosa del XX secolo nata in Veneto intorno agli anni settanta ed in seguito estesasi nel resto dell'Italia nord-orientale.
Sebbene sia stata duramente colpita negli anni novanta, dopo l'arresto ed il pentimento del principale capo Felice Maniero, si ritiene che l'organizzazione sia ancora attiva.
...
L'arrivo di alcuni esponenti della mafia siciliana costretti al soggiorno obbligato nelle province di Venezia e Padova, in particolare Totuccio Contorno, Antonio Fidanzati, Antonino Duca e Rosario Lo Nardo sul finire degli anni settanta e l'inizio degli ottanta, fu la base per la nascita di un gruppo paramafioso che potesse fare da ponte tra il Nord e il Sud.
All'ombra di questi personaggi crebbero e trovarono maturazione le locali giovani leve di una criminalità dai contorni ancora rurali, che tentava generalmente di mutuarne le gesta, le caratteristiche e le imprese.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » lun apr 17, 2017 7:55 am

Malagiustizia


“A Messina giudici corrotti aggiustavano processi di mafia”: le rivelazioni shock di un pentito
25 marzo 2016

https://www.lecodelsud.it/messina-giudi ... un-pentito

Dichiarazioni shock, quelle del pentito barcellonese Carmelo D’Amico, che nell’aula della Corte d’Assise di Messina, dove si celebra un processo per un omicidio di mafia, ha detto, ancora una volta, le ‘sue’ verità. Verità che adesso sono al vaglio dei giudici del distretto di Reggio Calabria, per competenza territoriale, visto che vedono coinvolti giudici messinesi.

“Abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale, e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante”. Così, come parlasse di quisquilie, Carmelo D’Amico, ex boss, oggi pentito, di Cosa Nostra barcellonese, ha parlato al processo che vede imputato Enrico Fumia per l’omicidio di Antonino “Ninì” Rottino, avvenuto nell’agosto 2006. Un delitto che per gli inquirenti ha segnato l’ascesa al potere del gruppo mafioso dei Mazzarroti capeggiato da Tindaro Calabrese.

Delle dichiarazioni di D’amico ne parla Nuccio Anselmo su Gazzetta del Sud. Il pentito risponde alle domande del Pm Massara:

“Guardi – ha detto l’ex boss – io ho deciso di collaborare con la giustizia, perché sono stato sempre chiuso al 41 bis, da quando mi hanno arrestato dal 2009. Il 41 bis mi ha fatto riflettere tantissimo stando da solo, anche perché il 41 bis è un carcere duro, e niente ho deciso di cambiare vita, anche se avevo la possibilità può darsi, di uscire dal carcere, perché io ho esperienza nei processi perché abbiamo aggiustato, la nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi, abbiamo corrotto qualche giudizio di cui ne ho parlato, abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante e quindi c’era possibilità che io potessi uscire dal carcere.”

Il processo ‘molto importante’, a detta del pentito, sarebbe stato quello scaturito dal triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino, avvenuto la notte del 4 settembre 1993 alla stazione di Barcellona: le vittime, tre ragazzi di Milazzo, furono giustiziate perchè superavano i confini territoriali del loro comune nel commettere reati, spingendosi sino a Barcellona.

D’Amico ha toccato anche l’Arma dei carabinieri con le sue ‘rivelazioni’:

“Ho avvisato pure Carmelo Bisognano dell’operazione Icaro, l’ho avvisato io che c’era l’operazione in corso, perché avevamo saputo praticamente, tramite carabinieri corrotti che noi avevamo, che pagavamo sul libro paga dal ’90, carabinieri corrotti che era uno… uno apparteneva alla… alla squadra catturando latitanti, un altro era nella Dda… nella Dda che faceva la scorta… e tanti altri carabinieri e poliziotti che sono sui libri paga, che ne ho parlato purtroppo”.

Infine, il passaggio alla Cassazione: “La nostra associazione – ha detto D’Amico – era molto ramificata a livello politico, a livello istituzionale, era una delle più potenti che c’era in Sicilia, diciamo la cosca barcellonese e anche molto sanguinaria. Noi siamo arrivati anche sino alla Cassazione a sistemare un processo molto noto. Abbiamo corrotto un giudice di Cassazione, che sono andato personalmente io insieme a Pietro Mazzagatti Nicola, e abbiamo corrotto questo giudice nativo di Santa Lucia del Mela e che risiede a Roma, abbiamo comunque per questo le dico che io ero sicuro di uscire, perché sapevo che avevamo anche l’appoggio in Cassazione di questo giudice corrotto che era in Cassazione.”




Il business e la corruzione dell’antimafia in Sicilia
Martedì 15 Settembre 2015

http://www.infoaut.org/index.php/blog/v ... in-sicilia

Lo ammettiamo. Un po' ci piace. Lo sappiamo. Sappiamo che non è direttamente “cosa nostra”; sappiamo che trattasi di riequilibri tutti interni alle gerarchie del potere. Però un po' ci piace. Nonostante non riguardi direttamente lotte e conflitti, movimenti o insorgenze, raccontarvi di questi fatti, quelli di “casa loro”, pensiamo sia utile; anche un po' divertente, certamente emblematico, probabilmente paradossale.

Parliamo qui dell'ennesimo presunto scandalo riguardante il conclamato, trasversale, “variegato” mondo dell'Antimafia siciliana: croce e delizia della cosiddetta “società civile” abitante i nostri territori. Partiamo dalla fine: tre giudici sotto inchiesta insieme ad alcuni “professionisti” (avvocati, consulenti, imprenditori); un palazzo di giustizia che dovrebbe essere il simbolo della lotta alle mafie, quello di Palermo, ancora una volta in preda alle convulsioni dovute al suo essere pienamente interno ai sommovimenti di potere e dunque sempre precario alla prova dello scontro endogeno tra interessi diversi e contrapposti.

Nello specifico. Già da settimane si vociferava di una presunta indagine (resa pubblica da Il Messaggero) della Procura di Caltanissetta rispetto ad alcune “anomalie” registrate nella gestione pubblica dei beni confiscati alla mafia; parliamo, per intenderci, di quella che alcuni giornalisti locali hanno definito la maggiore holding italiana composta da più di 1500 aziende confiscate (valore stimato intorno ai 30 miliardi di euro), case e terreni agricoli e beni mobili per un valore di svariati miliardi. Ebbene, il magistrato a capo del Servizio Misure Preventive del Tribunale di Palermo, altri due giudici, più vari storici amministratori , consulenti e liquidatori, sono oggi sotto inchiesta con varie accuse che vanno dalla corruzione all'induzione alla concussione passando per l'abuso di ufficio. Li si accusa di avere messo in piedi un sistema che, sfruttando l'assetto “fiduciario” del rapporto di “nomina” manageriale (non esistono criteri univoci per l'assegnazione di incarichi, infatti), ha fatto della fase della “confisca” del bene (prima che questo passi sotto l'egida politica dell'Agenzia nazionale e delle Agenzie regionali) un vero e proprio buisness capace di fruttare milioni di euro tra tangenti, stipendi, onorari per le consulenze, regalìe di vario genere. Insomma un sistema clientelare che, se non riguardasse l'attività di magistrati molto rinomati nel territorio palermitano, in molti non esiterebbero a chiamare mafioso. E questo sarebbe motivo di grande imbarazzo per tutto il mondo della giustizia siciliana e nazionale - le persone coinvolte sono ex membri del Csm, ex sottosegretari, ex prefetti. Quindi meglio provare a farlo passare mediaticamente come indagini su isolati casi di corruzione frutto della devianza di un magistrato, la Saguto, colpevole (presunta) di ingordigia nonostante mesi fa fosse etichettata come “nemica delle cosche” e quindi “a rischio” da una nota dei servizi segreti che identificava in lei un potenziale obiettivo delle criminalità organizzate. Oggi, invece, si delinea un quadro all'interno del quale, questa alta rappresentante delle istituzioni, si presenta a capo di un sistema organizzato atto a “spartire” beni e imprese a professionisti che già amministrano altre imprese confiscate o che, magari, erano già nei consigli di amministrazione delle stesse imprese prima che queste venissero sequestrate e confiscate. Con il risultato di creare un'enorme concentrazione di potere e capitali nelle mani di pochissimi noti. Questi, in cambio, hanno offerto per anni posti di lavoro come consulenti, liquidatori, curatori ad amici e parenti degli stessi giudici del Collegio palermitano incriminato.

A fronte di quella che alcuni cronisti locali definiscono “una bomba che fa tremare dalle fondamenta il Tribunale di Palermo” quali sono le reazioni sociali?

Come al solito Palermo si presenta di fronte questa vicenda con un duplice atteggiamento sociale: da un lato quelli della “scoperta dell'acqua calda”; dall'altro quelli indignati dal quel “malcostume” chiamato “corruzione”. I primi sono coloro i quali hanno sempre saputo come funziona il meccanismo della confisca e dell'affidamento da parte dei magistrati (meglio, dei giudici) che si occupano di simili questioni: costoro non sono né giornalisti illuminati né gli storici attivisti antimafia siciliani. Sono coloro i quali o per vicinanza, o per prossimità, o per internità, hanno conosciuto da vicino le sorti di questi beni vedendo rincorrersi sempre le stesse facce, sempre le stesse firme, sempre gli stessi interessi attorno i vari atti di confisca. Sono le persone che – o perché hanno interessi contrapposti, o che più comunemente guardano a queste dinamiche con indifferenza – hanno sempre saputo guardare alle potenzialità economiche di profitto generate dalla politica speciale chiamata “lotta alla mafia”. Ecco dunque un nuovo capitolo della serie “nei quartieri tutti sapevano come funziona il sistema”.

Dicevamo che poi ci sono quelli del “pessimo e deprecabile malcostume” ; è la cosiddetta “società civile” a parlare, in questo caso: quelli del “il problema non sta nel sistema ma nelle mele marce al suo interno”; sono coloro i quali santificano qualsiasi potente assuma un ruolo sulla carta opposto alla mafia e che poi, regolarmente, da eroi finiscono per diventare “traditori”. Si pensi al caso Montante, ex dirigente nisseno di Confindustria, imprenditore e professionista molto rinomato sul territorio siciliano, che proprio mentre, un anno fa, era in lizza come possibile nuovo presidente dell'Agenzia regionale per i beni confiscati (di nomina politica) viene coinvolto in un 'indagine per associazione mafiosa (cui tutt'ora deve rispondere) nonostante fosse stato tra i promotori della politica del suo predecessore Ivan Lo Bello su codici etici antimafia e lotta al racket per gli iscritti a Confindustria. Ora è invece la volta della Saguto, integerrimo magistrato minacciato dalla mafia perché agli interessi di questa contrapponeva quelli...della sua cricca!!!

Ecco, appunto: gli interessi. La parola magica, il chiavistello che apre le porte alle analisi sul funzionamento reale della macchina di potere in Sicilia come nelle altre regioni è proprio quella di “interessi” : questi sono contrapposti, trasversali, apparentemente contraddittori; ma fanno tutti richiamo ad un'unica stella polare, un unico orizzonte: quello del profitto.

La storia regionale siciliana, quella dell'antimafia, e quella della politica territoriale (ma anche nazionale e internazionale) ci dice da ormai troppo tempo dell'inutilità di vecchie e artificiose dualità: lo stato opposto alla mafia, la giustizia opposta all'illegalità, le istituzioni opposte ai poteri informali. Interessi e profitto risiedono sempre tanto nell'uno quanto nell'altro dei campi retoricamente presentatici come contrapposti. Non rispondono a logiche di appartenenza morale o etica o metafisica. Rispondono alle logiche che semplicemente definiamo “capitaliste”. La corruzione, gli interessi, i profitti, le clientele: questo è il capitalismo e il suo locale funzionamento. Il capitalismo e le sue regole: formali e informali, legali o illegali. Ma è così che nella sua sostanza, si presenta dalle nostra parte. Tutto fa impresa; tutto fa business. Con buona pace di quelli delle mele marce.

Speriamo di avervi allietato con un racconto remake di tanti altri simili storie. Sappiamo bene che sono storie che riguardano il mondo “di sopra”, quello che nulla o poco ha da spartire con vite comuni e problemi quotidiani, con emergenze sociali e conflitti. Ma è una storia che un po', per la carica di ironia intrinseca, continua a piacerci. Triste fine degli eroi...


Giudice antimafia Saguto: laurea del figlio scritta dal prof che lei ha raccomandato al Cara di Mineo
Emanuele Caramma si è laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Che, però - secondo gli inquirenti - è stata redatta da Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, e amministratore giudiziario di fiducia dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Lui, al telefono, la ringrazia per la segnalazione del suo nome quale potenziale commissario del centro richiedenti asilo
di Giuseppe Pipitone | 22 ottobre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... eo/2151628

“Beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del mercato e garanzia della legalità”. È solo il titolo di una tesi di laurea ma a rileggerlo adesso sembra quasi una beffa. Perché quella tesi di laurea in Economia appartiene ad Emanuele Caramma figlio di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è al centro di un’inchiesta che ha svelato un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende nella gestione delle ricchezze sottratte ai boss. Ed è stata anche intercettata mentre definiva i figli di Borsellino “squilibrati e cretini”.

Suo figlio, già citato nell’indagine per un incarico ottenuto in un lussuoso hotel di proprietà della famiglia dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’asso pigliatutto dell’amministrazione giudiziaria, si è addirittura laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Un titolo che, come spiega La Stampa, a Caramma viene suggerito dal vero autore di tutto l’elaborato, e cioè Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, amministratore giudiziario di fiducia della Saguto, uno dei componenti del cerchio magico della zarina dei beni confiscati. È Provenzano che scrive – secondo gli inquirenti – la tesi di laurea del figlio della Saguto, ed è sempre Provenzano che cerca di farsi raccomandare dal magistrato per un incarico al Cara di Mineo, il centro per richiedenti asilo finito al centro di Mafia Capitale e commissariato dallo scorso giugno.
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“Il 12 giugno Provenzano contatta la Saguto ringraziandola per la segnalazione del suo nome al prefetto di Palermo quale potenziale commissario del Cara di Mineo”, si legge nei brogliacci della guardia di finanza. Perché per l’incarico a Mineo, Saguto fa intervenire il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, sua grande amica. “Ti volevo dire che ieri, davanti a me, ha telefonato quella da Roma per chiedere i dati al prefetto”, dice ad un certo punto a Provenzano. Il professore gongola: “Mamma mia se è così, prima di festeggiare, un bacio in bocca ti do guarda. Sei una potenza”.

Ma non solo. Perché Saguto era riuscita a trovare un lavoro al Cara di Mineo anche a suo marito Lorenzo Caramma, coinvolto con lei nell’inchiesta nissena, già titolare di una serie di incarichi concessi da altri amministratori giudiziari. Caramma aveva trovato l’accordo con Davide Franco, commercialista amministratore del centro richiedenti asilo di Mineo, che aveva “avuto il numero” del marito della Saguto da Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma. “E’ vero, ho chiesto all’ingegnere Lorenzo Caramma se fosse interessato a collaborare al Cara di Mineo. Tuttavia i primi di settembre abbiamo ritenuto opportuno interrompere questa ipotesi lavorativa con l’ingegnere dato che dai giornali apprendemmo dell’inchiesta di Caltanissetta. Lo abbiamo fatto per motivi di opportunità”, spiega il commercialista Franco.

E mentre da una parte Saguto chiedeva al prefetto aiuto per trovare incarichi al Cara di Mineo, dall’altra contattava l’amministratore giudiziario Alessandro Scimeca per sollecitare assunzioni chieste dallo stesso prefetto. “Io – dice intercettata il 28 agosto – ti devo chiedere il favore per il prefetto: di quello là da assumere”. Sono invece propositi di vendetta quelli promessi dal magistrato nei confronti dell’avvocato Walter Virga, figlio di Tommaso, magistrato ed ex componente togato del Csm.

I due Virga sono finiti entrambi coinvolti dall’inchiesta nissena. Virga junior, infatti, era stato nominato amministratore giudiziario del gruppo Bagagli e delle aziende sequestrate alla famiglia Rappa: negozi, concessionarie d’auto di lusso, tv private, un tesoro da quasi un miliardo di euro. In cambio – secondo l’accusa – Virga aveva assunto Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nel suo studio legale. “Abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico”, commenta in un’intercettazione. Appena inizia a scoppiare lo scandalo, però, Virga preferisce “licenziare” la fidanzata del figlio della Saguto. La reazione del magistrato è rovente. “Sono distrutta, incazzata non si può dire come gliela faccio pagare, non si buttano a mare le persone, si rischia insieme”. Poi riceve Virga e gelida sentenzia: “Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione”.



Palermo, bufera a palazzo di Giustizia nell’inchiesta coinvolto pure il prefetto
di Silvia Barocci

http://www.ilmessaggero.it/PAY/EDICOLA/ ... 7569.shtml

Un ”verminaio”. E’ la definizione più ricorrente degli investigatori alle prese con l’inchiesta sul sistema familistico palermitano nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Al vaglio degli inquirenti di Caltanissetta è finita anche la posizione del prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo. Verifiche sarebbero in corso, in particolare, sul contenuto di alcune sue conversazioni intercettate con l’ormai ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata per corruzione aggravata, induzione alla concussione, abuso d’ufficio e, in concorso col padre, per riciclaggio. Gli accertamenti sul ruolo del prefetto ruoterebbero attorno al rafforzamento della scorta al magistrato decisa a seguito della notizia, rilanciata lo scorso 22 maggio da alcuni siti web e agenzie, che la mafia voleva morta la Saguto e un’altra ”toga”, Renato di Natale.

I magistrati di Caltanissetta sospettano che si sia trattato di un’operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia di Palermo avrebbe diffuso una notizia molto vecchia - quella di una nota dei servizi segreti in allarme per l’incolumità della Saguto - con l’obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell’antimafia per controbilanciare alcuni servizi tv di <CF2>Telejato </CF>e delle <CF2>Iene</CF> che ne mettevano in dubbio la buona fede. In questo modo, invece, avrebbe ricevuto la solidarietà dei colleghi e dell’Anm.



Beni mafia, Alfano: ''Da caso Saguto messaggio devastante''
23 ottobre 2015

http://video.repubblica.it/dossier/gove ... 723/214906

''Profonda delusione e infinita tristezza''. Ha commentato così il ministro dell’Interno Angelino Alfano il caso dell’ex giudice antimafia Silvana Saguto. Poi dal palco dell’auditorium di Palazzo Italia Alfano ha tirato le conclusioni tornando sulla vicenda: ''Io ritengo che quello che sta accadendo adesso a un pezzo della magistratura palermitana, sotto indagine per corruzione e reati gravissimi sull'uso delle consulenze e della gestione dei beni confiscati è un messaggio culturale devastante, oltre alle intercettazioni che provocano un’infinita tristezza e un grande dolore sui figli di Borsellino. Perché se da lì arriva un messaggio del genere, allora vuol dire che non ci si può fidare più di nessuno?''.
(di Alessandro Puglia)



Caso Saguto, l'Anm: "Danni incalcolabili per le toghe"
Venerdì 23 Ottobre

Il presidente dell'associazione dei magistrati: "La sola ipotesi che possano essere realizzate condotte meno che corrette è fonte di sconcerto e di grave turbamento nell'opinione pubblica e tra i magistrati, foriera di danni incalcolabili".
http://livesicilia.it/2015/10/23/caso-s ... ghe_677203

BARI - Gli incarichi di consulenza e di gestione dei beni sequestrati alla mafia vanno affidati secondo criteri di "piena trasparenza". "La sola ipotesi che possano essere realizzate condotte meno che corrette è fonte di sconcerto e di grave turbamento nell'opinione pubblica e tra i magistrati, foriera di danni incalcolabili". Così il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli torna sull'inchiesta che ha coinvolto l'ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e altri quattro magistrati.




Caso tortora

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/punt ... fault.aspx
L'arresto

Venerdì 17 giugno 1983: il volto di "portobello", Enzo Tortora, viene svegliato alle 4 del mattino dai Carabinieri di Roma che lo arrestano per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico.

Con queste parole del Tg2, quel giorno, l'italia segue le immagini che mostrano il celebre presentatore in manette: "Enzo Tortora è stato arrestato in uno dei più lussuosi alberghi romani, il Plaza; ordine di cattura nel quale si parla di sospetta appartenenza all'associazione camorristica Nuova Camorra Organizzata (N.C.O), il clan cioè diretto e capeggiato da Raffaele Cutolo: un'associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e dei reati contro il patrimonio e la persona".

In un'intervista di Giuseppe Marrazzo, il 14 maggio '84, Tortora ha ricordato così quel momento: «Ero in una stanza d'albergo, dove scendo da circa 20 anni; bussarono alle 4:15 del mattino, tenga presente che il giorno precedente avevo respinto con un sorriso la notizia che alcuni colleghi giornalisti (ex colleghi perché sono stato sospeso dall'ordine) mi diedero: "c è un'ansa che dice che ti hanno arrestato". Dissi (all'epoca avevo ancora un pò di ironia): "credo che la notizia sia leggermente esagerata!"».

Quel giorno Enzo Tortora doveva recarsi ad un appuntamento per firmare un contratto che lo avrebbe legato alla trasmissione "portobello" per una nuova stagione. Si trova a invece a entrare nelle case degli italiani ammanettato, trattato come un delinquente. Queste le parole della figlia minore, Gaia: "vedevo un mostro alla Tv che mi dicevano essere il mio papà, ma non era mio padre".

APPROFONDIMENTO

L'accusa si basa su un’agendina, trovata nell’abitazione di un camorrista, con sopra un nome scritto a penna ed un numero telefonico: in seguito le indagini calligrafiche proveranno che il nome non era Tortora bensì Tortona e che il recapito telefonico non era quello del presentatore.



Caso Tortora, dopo trent'anni le scuse del pm
Diego Marmo: "Agii in perfetta buona fede, Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo". Il Pd: "Bene, ma coinvolga anche i suoi ex colleghi"
27 giugno 2014

http://napoli.repubblica.it/cronaca/201 ... a-90140762

L'arresto di Enzo Tortora nel 1983
"Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent'anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede". Inizia così la lunga intervista pubblicata da 'Il garantista" e firmata da Francesco Lo Dico al pm Diego Marmo che accuso il presentatore di 'Portobellò di essere un camorrista.

Marmo è stato nominato assessore alla Legalità a Pompei e dopo la sua nomina sono scoppiate molte polemiche perché ha dichiarato che il caso Tortora è stato solo "un episodio" della sua carriera. "In trent'anni non ho mai pensato o detto: chissenefrega del caso Tortora. Immaginavo - spiega il pm - che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore".

Marmo racconta che "il rammarico" per l'errore fatto "c'è da tempo" anche se "l'unica difesa che avevo era il silenzio". Il pm, quindi, sollecitato dal giornalista, prova a spiegarsi: "Il mio lavoro si svolse sulla base dell'istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal tribunale".

Quindi per il pm furono in "molti, in giro, i Diego Marmo. Ma sul banco degli imputati sono rimasto solo io". A contribuire alla gogna nei suoi confronti fu la dura requisitoria durante la quale definì Tortora "un cinico mercante di morte", un "uomo della notte". "Certamente - spiega ancora Marmo - mi lasciai prendere dal temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga".

Al termine dell'intervista, arrivano le scuse di Marmo. "Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d'animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio". Ma "ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso solo dire che l'ho fatto in buona fede".

"Le scuse di Marmo vanno salutate positivamente. Ora l'ex magistrato si adoperi per coinvolgere nelle scuse anche i suoi ex colleghi che all'epoca contribuirono a quella sentenza indegna, come Lucio Di Pietro e Felice Di Persia". Lo dice il deputato del Partito democratico, Michele Anzaldi e segretario della commissione di Vigilanza Rai.

"Nella sua richiesta pubblica di scuse - spiega Anzaldi - il neo assessore del Comune di Pompei ricorda che non fu il solo giudice a sbagliarsi con Tortora e cita i nomi di chi si occupò dell'istruttoria, del rinvio a giudizio, della sentenza di condanna. Marmo potrebbe promuovere un momento di riflessione, coinvolgendo gli altri protagonisti di quella triste vicenda che ancora oggi mette a dura prova la fiducia dei cittadini nella giustizia. Se Marmo vuole veramente dare seguito alla sua ammissione di colpa di oggi, promuova un incontro pubblico, che si potrebbe tenere anche a Roma, in parlamento dove è già stato proiettato il documentario di Ambrogio Crespi. Si potrebbe coinvolgere chi sbagliò allora e chi da sempre ha denunciato quell'errore,
come i radicali di Marco Pannella".

"Un tormento lungo trent'anni - dichiara Mara Carfagna - che oggi con delle pubbliche scuse può affievolirsi. Un atto di giustizia e di coraggio quello di Diego Marmo che ha riconosciuto il suo errore"





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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » lun apr 17, 2017 8:05 am

Malagiustizia


Giudice Polcari
Giudice da 7 anni è pagato per non lavorare
08.02.2011

http://www.ilgiornaledivicenza.it/home/ ... e-1.944980


Vicenza. Da sette anni Eugenio Polcari, per sedici magistrato a Vicenza e provincia, è pagato per non lavorare perché per due volte il Csm gli ha sbattuto la toga in faccia. «Indegno - a suo dire - di continuare a fare il giudice». Ma per due volte la Cassazione gliel'ha restituita (l'ultima giovedì scorso), sebbene non sia ancora sufficiente al magistrato per tornare a scrivere sentenze, il suo mestiere, anziché ricorsi ai supremi giudici com'è impegnato da tempo. Anche se stavolta, dopo sette anni, pare essere la volta buona per rientrare nei ranghi.
Nel frattempo, dal 2004 percepisce due terzi dello stipendio (alcune migliaia di euro al mese) perché così prevede la legge. Ma il magistrato deve essere reintegrato in magistratura perché, come scrive la Cassazione, «il quadro disciplinare a carico del dott. Polcari è oggettivamente inferiore e meno rilevante rispetto alla decisione assunta dal Csm». Nonostante questo attestato di sproporzionalità tra la sanzione irrogata - la destituzione da magistrato - e gli eventuali comportamenti illegittimi commessi (peraltro da dimostrare perché in penale è stato assolto), Polcari da sette anni è sospeso dalla funzione di giudice. Avvenne quando l'allora toga del tribunale di Vicenza - sede distaccata di Schio - venne rinviato a giudizio davanti al tribunale di Trento per risponde di reati obiettivamente pesanti: concussione e abuso d'ufficio per l'acquisto di alcune macchine e l'affidamento di numerose consulenze a consulenti ritenuti suoi amici.
Tuttavia, e questo è l'elemento decisivo che spiega perché la Cassazione gli ha fin qui dato ragione, Polcari è stato assolto su tutta la linea da tutte le accuse con la formula più ampia del "fatto non sussiste" dal tribunale collegiale trentino. Nonostante l'assoluzione sia diventata tombale nel 2007 quando è passata in giudicato, il 50enne giudice di origine napoletana è al centro di una tira e molla disciplinare che pare non abbia precedenti nella storia del Csm.
«È ovvio che sono soddisfatto per la decisione della Cassazione - si limita a dichiarare il magistrato raggiunto al telefono-, del resto non ho mai dubitato di questo risultato perché io non ho commesso alcun reato, anche se questa sentenza non risolve il caso perché non sono ancora riammesso in servizio, nonostante i supremi giudici abbiano detto che la sentenza disciplinare che mi è stata inflitta sia ingiusta».
In poche parole, Polcari dovrebbe tutt'al più essere sanzionato con un provvedimento disciplinare di minore entità «per renderlo proporzionato» al quadro che è emerso dal suo comportamento. Ma il punto della questione, dal quale non riesce a sbrogliarsi nemmeno il Csm, è che Polcari non ha violato la legge per i comportamenti che gli sono contestati, al massimo è stato imprudente. In pratica ha assunto comportamenti che sono leciti per un normale cittadino, tant'è che non è stato censurato dai magistrati penali, ma che per un giudice rappresentano una scorrettezza. Che di per sè, però, non prevede l'espulsione dall'ordine giudiziario. Come per due volte ha ribadito la Cassazione.
E per dire come vanno le cose in Italia, di recente un altro giudice che è stato condannato penalmente con sentenza passata in giudicato a 14 mesi di reclusione per falso ideologico, ha invece ottenuto di essere riammesso in servizio. Per Polcari sono due pesi e due misure. E il salasso
Eugenio Polcari è vittima di un'ingiustizia che si perpetua da 4 anni, da quando è stato assolto. Il giudice finì nella bufera 11 anni fa quando la procura di Trieste gli perquisì la casa a Sarcedo. Il procedimento disciplinare si è concretizzato col rinvio a giudizio nel 2004, quando è stato sospeso e gli è stato ridotto lo stipendio di un terzo. Da allora è pagato per non lavorare. Nel 2007, poi, è stato assolto a Trento da tutte le accuse. Dopo, per due volte, il Csm l'ha espulso e per due volte la Cassazione ha stabilito che non può essere radiato perché non basta «la mera spendita della qualifica di magistrato per determinare di per sè una sanzione disciplinare». Lo Stato ora dovrà ricostruirgli la carriera e versargli la differenza di quanto non ha percepito dal 2004. Un salasso per le case pubbliche. I.T.
Ivano Tolettini




LA STORIA
La Cassazione «salva» il giudice cacciato per gli sconti sospetti
«Rimosso? Sanzione sproporzionata». L’ex pretore di Schio fu indagato (poi assolto) per dei favori

Andrea Priante - 07 agosto 2012

http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... 5688.shtml

VICENZA - «In una occasione il mio comportamento non è stato dignitoso, ma non ho mai violato la legge». Era il 24 giugno del 2007, e questa frase riecheggiò tra le pareti dell’aula del tribunale di Trento. A pronunciarla, il giudice Eugenio Polcari, ex pretore e poi giudice di Thiene e Schio, in servizio dal 1986 fino al 2003, quando si trasferì a Napoli dove poi venne sospeso proprio in seguito a un brutto guaio legato a presunte pressioni esercitate per ottenere regali e forti sconti nei negozi. Accuse (da lui sempre respinte) che il 4 ottobre del 2011 hanno convinto il Consiglio superiore della magistratura a emettere nei suoi confronti la sanzione della «rimozione », la più severa tra quelle che avrebbero potuto infliggergli. Decisione inevitabile, secondo l’organo di autogoverno dei magistrati, visto che è «impossibile per il giudice recuperare nella collettività la fiducia e la considerazione necessarie per riprendere l’esercizio delle funzioni giurisdizionali».

Ma ora la Cassazione ha ribaltato tutto: secondo gli ermellini, il Csm è stato troppo severo. Nel giudizio è mancata «una valutazione di proporzionalità tra la gravità dei fatti addebitati e la sanzione» che, proprio per questo motivo, si rivela «inadeguata e incoerente». Insomma, quand’era in servizio nell’Alto Vicentino il giudice qualche favore magari l’avrà pure ottenuto, ma il suo comportamento non è stato grave al punto da meritare d’essere cacciato dalla magistratura. La vicenda prende le mosse alla fine degli anni Novanta. Polcari venne accusato di essersi intascato preziosi regali e di aver fatto pressioni per ottenere forti sconti sull’acquisto di automobili. Il processo si trascinò fino al 2007, quando il tribunale di Trento dichiarò che per alcuni dei reati contestati (tra i quali la ricettazione) non si poteva procedere perché era già scattata la prescrizione. Per gli altri capi d’accusa, invece, venne assolto. Insomma, Polcari, con le sue dubbie frequentazioni e la sua passione per i Rolex, non violò la legge.

E gli sconti dal 15 al 25 per cento sulle auto che acquistava? Stando alle motivazioni della sentenza, messe nero su bianco dal tribunale di Trento, i rivenditori non lo favorirono perché avevano soggezione del suo ruolo ma solo perché nella «strategia commerciale delle aziende del settore nella provincia veneta (provincia ricca, ma segnata da forte concorrenza tra operatori commerciali) rientra la scelta di favorire l’acquisto di prodotti da parte di "opinion leaders", o se si preferisce di persone in vista nel ristretto ambiente delle cittadine di residenza ». Insomma - per utilizzare la definizione del presidente del collegio giudicante - il giudice divenne un «testimonial». Nulla di illegale, ma la magistratura non fece certo una bella figura. E così, il Csm aprì un procedimento disciplinare che nel 2008 si chiuse con la decisione di rimuoverlo. Polcari la prese malissimo e fece ricorso in cassazione. Nel 2009 le sezioni unite gli diedero ragione, annullando la sentenza e rinviando il tutto per una nuova valutazione. Da quel momento iniziò un bizzarro ping-pong tra Csm e cassazione: un caso unico nella storia della Giustizia interna alla magistratura. Nel 2010 la disciplinare confermò la responsabilità di Polcari per alcuni dei capi d’accusa, ribadendo quindi la sanzione della rimozione a causa della «lesione irreparabile della credibilità e del prestigio di cui deve godere un magistrato».

Seguì un nuovo ricorso alle sezioni unite e una nuova censura degli ermellini: il provvedimento era sproporzionato anche perché la sanzione non teneva conto «dell’elemento psicologico nei comportamenti contestati». L’anno successivo il Csm dovette quindi riesaminare il caso, ma la nuova ordinanza confermò sia la responsabilità di Polcari che la rimozione. Ultimo passaggio, almeno per ora, il nuovo ricorso alla cassazione, che si è concluso tre settimane fa. Di nuovo, per la terza volta, gli ermellini annullano la sentenza del Csm per «illogicità della motivazione della sezione disciplinare» in quanto, rimuovendolo dal suo incarico, non avrebbe applicato «un giudizio di proporzionalità tra il fatto addebitato e la sanzione che deve essere irrogata ». Quindi la questione torna, di nuovo, al Csm che dovrà essere meno severo nei confronti del magistrato. Nel frattempo Polcari attende. Dal 2004, a causa di questo pasticcio, non può lavorare ma percepisce ugualmente due terzi dello stipendio. «Questa sentenza è la dimostrazione che mi perseguitano», è stata la prima reazione alla notizia. Eppure finora il Csm ha dipinto il giudice-testimonial come un furbacchione che non merita di fare il magistrato. «È vittima di una situazione inquietante - ribatte il suo avvocato, Saverio Senese - costretto a non poter lavorare a causa della singolare severità dimostrata da Csm, che in passato non è stato altrettanto duro con altri magistrati che, al contrario di Polcari, erano stati giudicati colpevoli. Ora speriamo gli sia finalmente consentito di tornare al lavoro».


De Silvestri PM a Vicenza


Crac pilotati, indagato De Silvestri
L’ex pm coinvolto nel caso Giada. L’ipotesi d’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. Lui respinge ogni addebito

06 ottobre 2014

http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... 9641.shtml

VICENZA C’è anche il nome, altisonante, dell’ex pubblico ministero Tonino De Silvestri, il magistrato del sequestro Celadon, tra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta, coordinata dalla procura di Vicenza, sulle attività dello «Studio Giada Trade srl», che avrebbe pilotato il crac di alcune aziende attraverso la costituzione di società all’estero, in Gran Bretagna e in paradisi fiscali, lasciando con un palmo di naso i creditori. L’ipotesi d’accusa è quella di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. Un’inchiesta – clamorosa – che la settimana scorsa aveva già portato all’arresto di Giuseppe Toniolo, imprenditore che aveva fatto sparire documenti contabili e fiscali e che si era reso irreperibile al curatore fallimentare. Ma si prevedono nuovi sviluppi dopo l’iscrizione sul registro degli indagati di sei persone. Tra loro la famiglia che fa capo allo Studio Giada – e cioè Giovanni Cobalchini, 55 anni, di Dueville, già finito nei guai per truffa e usura, suo figlio Davide, 31 anni, e Marisa Bortoli, 57, moglie e madre dei Cobalchini – oltre allo stimato avvocato Tonino De Silvestri, 70 anni, romano ma vicentino d’adozione.

Il suo nome e il suo volto sono più che conosciuti: basti dire che ha appeso al chiodo la toga da pubblico ministero nel 2003, dopo una trentina di anni di magistratura, e diciassette da pretore a Vicenza. Hanno portato il suo nome casi eclatanti come il rapimento di Carlo Celadon, la tangentopoli berica e il commercio di oro e argento denominato Gold Connection. Ora lo stesso nome di Tonino De Silvestri è finito sul fascicolo che riguarda lo «Studio Giada Trade srl» – anche se lui nega fortemente - società di cui, secondo gli investigatori, avrebbe fatto da consulente. Così come molti altri avvocati, alcuni anche pubblicizzati sullo stesso sito dell’azienda. Venerdì i finanzieri della sezione di polizia giudiziaria della procura, col pubblico ministero Paolo Pecori, hanno perquisito lo studio di via Malvezzi del legale, esperto di diritto sportivo.

Due ore di lavoro circa, al termine delle quali se ne sono andati con della documentazione, sequestrata. La stessa ora al vaglio, che potrebbe fornire nuovi spunti sull’attività di indagine. Stando a quanto accertato dai finanzieri del pool voluto dal procuratore capo Antonino Cappelleri per fronteggiare la criminalità economica, lo Studio Giada, che ha sede a Sandrigo e a Vicenza (nella stessa sede dell’avvocato De Silvestri appunto), avrebbe fatto in modo di svuotare tutti i beni di alcune società operanti sul territorio, trasferendole poi (un trasferimento del tutto fittizio) in Inghilterra o in paesi come la Lettonia e la Slovenia. Un sistema, questo, per sottrarre le aziende al regime fallimentare. Per lo più «delocalizzandole », almeno sulla carta, si sarebbero fatti sparire libri e scritture contabili.

Così da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e meno che meno del giro d’affari. Il meccanismo era semplice: spariva la contabilità, e con esso il liquidatore, così i creditori, tra i quali anche agenzia delle entrate e Fisco, rimanevano a mani vuote. Alcune di queste attività offerte dallo studio di consulenza Giada sono pubblicizzate anche nel sito internet. «Lo studio – si legge - offre ai suoi clienti, grazie allo studio di professionisti e docenti di diritto commerciale e tributario, servizi di costituzione di società nel Regno Unito ed in tutta Europa per i clienti italiani ». Ma ci sono soluzioni anche per chi si chiede «è possibile occultare un immobile o una casa dai creditori, dal fisco o dal coniuge?». Tutto proposto come lecito. Tuttavia, stando agli accertamenti dei finanzieri di Borgo Berga, non era propriamente così. Bisognerà capire se gli imprenditori, per lo più in crisi, che si rivolgevano a Cobalchini, ne fossero coscienti.


L'ex colonnello fa l'investigatore
Giorgio Cecchetti
10 aprile 2004

http://ricerca.gelocal.it/mattinopadova ... VR601.html

VICENZA. L'ex colonnello della Guardia di finanza Mauro Petrassi, ex comandante del Nucleo regionale di Polizia tributaria, colui che il pm Francesco Saverio Pavone aveva definito «grassatore, ingordo, insaziabile, famelico, esoso, mangiatore a quattro ganasce, tronfio e arrogante», è uscito dal carcere e lavora a Vicenza, presso una cooperativa che fornisce servizi agli studi legali. Dopo 6 anni e due mesi di cella ha ottenuto la semi libertà e il trasferimento nel carcere della città berica.
Petrassi, accusato di concussione e corruzione e condannato prima a 14 anni e otto mesi di reclusione, pena poi ridotta a undici anni, ha scelto Vicenza che pur non è la sua città e dove non ha mai prestato servizio. Nato nel Lazio, vissuto a lungo a Roma, dove aveva casa, e quindi a capo del più prestigioso reparto delle «fiamme gialle» nel Veneto con sede a Mestre, Petrassi deve aver avuto grandi amici nella cittadina veneta che ha scelto per riuscire innanzitutto a trovare un lavoro degno del suo stile di vita e per decidere di trasferirsi definitivamente.
I reati per i quali è finito in manette e per i quali è stato condannato sia dal Tribunale lagunare sia dalla Corte d'appello sono particolarmente odiosi e, inoltre, molti testimoni, durante il lungo processo, avevano raccontato che cercava di ottenere il massimo possibile dagli imprenditori e non solo in contanti. C'era, dunque, da scommettere che sarebbe rimasto lontano dal Veneto, invece non solo è tornato pochi giorni dopo aver avuto la semilibertà, ma ha scelto una delle città che allora frequentava maggiormente e dove, secondo le accuse, aveva concluso e cercato di portare a termini «affari» per centinaia di milioni.
Uno di questi lo aveva avviato anche nella casa di un pubblico ministero vicentino, anzi ex, perchè dal 15 febbraio Tonino De Silvestri ha dato le dimissioni per evitare il procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura e il trasferimento in un'altra città. Adesso De Silvestri lavora presso lo studio di un noto avvocato di Vicenza e non è escluso che sia rimasto in buoni rapporti con il vecchio amico Petrassi, che quando aveva ancora le stellette frequentava spesso la sua casa.
E proprio una cena alla quale partecipava, oltre a Petrassi, anche l'imprenditore vicentino Lino Mastrotto ha creato notevoli problemi all'ex pubblico ministero. In quell'occasione, infatti Petrassi avrebbe chiesto a Mastrotto 300 milioni di vecchie lire per chiudere un occhio su una verifica fiscale. De Silvestri si è sempre difeso sostenendo di non essersi accorto di nulla perchè i due ne avrebbero parlato con tutta evidenza nei momenti in cui lui si assentava per andare in bagno. Nei suoi confronti, comunque, l'inchiesta penale avviata a Trieste è poi finita in archivio.
Ora Petrassi è tornato a Vicenza e lavora per una cooperativa di Mantova, la San Marco, che fornisce servizi amministrativi e investigativi agli avvocati. L'ex colonnello, con le sue conoscenze e le sue capacità, sicuramente è in grado di fornire una collaborazione ad alto livello al legale presso il quale lavora. Alla sera, comunque, deve tornare nel carcere San Pio X di Vicenza, prima di poter ottenere la completa liberazione deve scontare almeno due terzi della pena alla quale è stato condannato (gli manca ancora più di un anno).



TENTATA ESTORSIONE GIUDICE VICENTINO FINISCE IN TRIBUNALE
di PAOLO COLTRO
13 marzo 1985

http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... unale.html

VICENZA - È stato un declino rapido, una caduta verticale: la stella di Luigi Rende, sostituto procuratore della Repubblica a Vicenza (fino a quattro mesi fa) non brilla più come quando il magistrato era uno degli uomini più influenti della città. L' ultimo rovescio ha la data di lunedì scorso: il suo collega Claudio Coassin, della Procura di Trieste, lo ha rinviato a giudizio per tentata estorsione. Un' istruttoria breve e succosa: lo si deduce dal fatto che Coassin non ha nemmeno formalizzato l' istruttoria, ma ha spedito il dottor Rende direttamente avanti al Tribunale. A togliere il velo su una storia di cui a Vicenza si sussurrava da tempo è stato il titolare di alcuni locali pubblici vicentini, Bernardino Buonocore, scottato da un' inchiesta nata male. Buonocore venne arrestato nel luglio dell' 82, dopo che una perquisizione in casa sua aveva fatto trovare banconote in diverse valute estere. La polizia sospettava che il denaro fosse falso: il contante venne sequestrato, l' uomo finì in carcere. Si trattò di un granchio, di un vero e proprio errore giudiziario: tanto che Buonocore venne prima scarcerato e poi assolto con formula ampia. Non aveva però serbato un buon ricordo del sostituto procuratore Rende: il quale, durante un interrogatorio, gli fece capire che con un "contributo" di dieci milioni le cose potevano andare a posto e il denaro sequestrato essere restituito senza troppe difficoltà. Una strana storia di giustizia parallela che ha spinto Buonocore alla denuncia. Il dottor Rende ha fatto sapere che smentisce recisamente ogni accusa. Una frase cui è ormai abituato: l' ha pronunciata anche quando ricevette nel novembre scorso una comunicazione giudiziaria, dai giudici istruttore triestini Gullotta e Patriarchi, per corruzione e interesse privato in atti d' ufficio. Il sostituto Rende, quarantatrè anni, messinese, di cui sia la Procura vicentina che la Procura generale di Venezia avevano chiesto il trasferimento d' ufficio, è in una situazione delicata. Nonostante il parere contrario dello stesso ministro Martinazzoli, bresciano, è stato trasferito (su sua richiesta) proprio a Brescia. Il Csm l' ha comunque contestualmente sospeso dall' incarico e dallo stipendio, in attesa di vedere come finiranno i vari procedimenti penali in cui il magistrato è coinvolto. Tra l' altro anche la moglie di Rende, Maria Rita Savoia, ha ricevuto mesi fa una comunicazione giudiziaria: per associazione a delinquere di stampo mafioso. Nei confronti dell' ex procuratore vicentino, c' è un' altra delicata inchiesta: nella sua villa da 450 milioni sono state trovate sei pistole, e nel suo ufficio in Procura un fucile: tutte armi non autorizzate.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » lun apr 17, 2017 2:12 pm

Perché le aziende non investono nel sud della penisola italica?


Perché le imprese estere non investono al Sud?
Vittorio Daniele - 2005
Dipartimento di Diritto dell’Organizzazione Pubblica,
Economia e Società Università Magna Graecia di Catanzaro
http://w3.ced.unicz.it/upload/daniele/wp04.pdf



SVIMEZ. Ecco perché gli imprenditori non investono al Sud. Un saggio di D. Musolino
24 Giugno 2016

http://www.zoomsud.it/index.php/economi ... d-musolino

Con un punteggio superiore a 4 su 5 è la Lombardia la regione preferita dagli imprenditori italiani per insediare nuove imprese, seguita da Emilia Romagna (3,92), Veneto (3,86), Piemonte (3,58). Abruzzo (2,59) e Puglia (2,47) in testa alle regioni del Sud, Calabria in coda (1,73).

Rispetto ai colleghi olandesi e tedeschi, gli industriali italiani continuano a percepire il Mezzogiorno come area più arretrata di quanto non sia in realtà e lamentano soprattutto la carenza di servizi di trasporto e la presenza della criminalità quali fattori che inibiscono dall'insediare imprese.

Sono solo alcuni dei dati emersi dallo studio "L'attrattività percepita di regioni e province del Mezzogiorno per gli investimenti produttivi" di Dario Musolino, sociologo calabrese, pubblicato sull'ultimo numero della Rivista Economica del Mezzogiorno, trimestrale della SVIMEZ diretto da Riccardo Padovani ed edito da Il Mulino.

Con un punteggio superiore a 4 (4,07) è la Lombardia la regione preferita dagli imprenditori italiani, seguita da Emilia Romagna (3,92), Veneto (3,86), Piemonte (3,58), Toscana (3,37), Trentino Alto Adige (3,34).

Decisamente diversi i valori nelle regioni del Sud: se Abruzzo e Puglia si collocano a metà della forbice con valori attorno al 2,5 (Abruzzo 2,59; Puglia 2,47) e Basilicata e Molise superano anche se di poco il 2 (Basilicata 2,06; Molise 2,18) le altre si trovano sotto tale soglia psicologica.

Campania e Sicilia sono infatti quasi allineate rispettivamente sull'1,98 e 1,99, la Sardegna si ferma a 1,88.

In fondo alla classifica la Calabria, con il punteggio di 1,73.

L'Abruzzo si conferma in testa alle regioni meridionali: la prima provincia che si incontra è Pescara (2,6), seguita da Chieti (2,59) e Teramo (2,58), a pari merito con Aosta, poco distante da L'Aquila (2,56). Bari invece registra un punteggio di 2,49, Taranto, Foggia e Lecce sono allineate sul 2,43. Le province molisane e lucane confermano il dato regionale (2,18 e 2,06).

In Sicilia, Catania supera Palermo di poco (2,05 contro 2), mentre Napoli si colloca già sotto la soglia psicologica del 2 con un punteggio di 1,98, quasi allineata con Salerno (1,97). In Sardegna invece la forbice dell'attrattività è compresa tra l'1,89 di Cagliari e l'1,84 di Carbonia-Iglesias.

In coda la Calabria, con valori compresi tra l'1,74 di Reggio Calabria e l'1,72 di Crotone e Vibo Valentia.

Interessante inoltre l'analisi che mette a confronto il divario percepito dagli imprenditori a livello soggettivo con quello reale certificato, ad esempio, dal livello del Pil procapite nelle varie regioni. Lo studio mette infatti a confronto le regioni più sviluppate e quelle meno sviluppate dell'Italia (Lombardia e Calabria) con quelle dell'Olanda (Utrecht e Winschoten) e della Germania (Frankfurt e Flensburg).

In Germania e Olanda il gap di attrattività tra le regioni è percepito in modo inferiore rispetto alla realtà (in Germania il divario di percezione è 1,71 contro il 2,1 del divario reale; in Olanda è rispettivamente 1,44 contro 1,8).

Situazione capovolta in Italia, dove se il divario reale è pari a 2, quello di percezione sale a 2,34.

Ma quali sono i fattori che inibiscono l'attrattività delle regioni meridionali? Che cosa allontana gli imprenditori dall'insediare imprese nel Sud? Secondo 1 su 4 degli imprenditori intervistati il problema maggiore viene dalla carenza di infrastrutture di trasporto e logistica, quindi dalla scarsa accessibilità del territorio meridionale (26,4%), seguito dalla povertà del tessuto produttivo (presenza di clienti, fornitori, altre imprese: 21,3%). Pesa fortemente anche la presenza della criminalità organizzata (13%). Da rilevare che l'inefficienza della PA, un problema notevole, viene segnalato come tale al Sud soltanto dal 3,5% degli imprenditori.

Nella percezione degli imprenditori il Sud si presenta come un blocco monolitico tendenzialmente uniforme e ostile all'attrarre nuove imprese: "l'esistenza di tanti, molteplici, Sud, differentemente attrattivi, si legge nello studio, non è contemplata. In altre parole, per le imprese del Paese gli svantaggi localizzativi nel Mezzogiorno non presentano differenziazioni, diverse gradazioni, territoriali".

I motivi? "Questa macroregione, si legge nello studio, non è conosciuta a sufficienza nelle sue varie e diverse realtà territoriali" e anche la non conoscenza pare frutto di un disinteresse aprioristico verso l'area, di una serie di cliché che fanno fatica a essere estirpati. Politiche di investimento in infrastrutture di trasporto, politiche industriali e campagne specifiche di comunicazione sull'area sono, secondo lo studio, gli strumenti necessari ad aggredire la scarsa attrattività del Sud.

In particolare, servono azioni "nel trasporto ferroviario, nella portualità, nell'intermodalità e nelle piattaforme logistiche" sia per potenziare l'accessibilità del Sud dall'esterno che favorire la mobilità interna integrando a sistema le reti di trasporto meridionali. Per impedire la desertificazione industriale servono misure a sostegno delle imprese e azioni specifiche anticriminalità. Inoltre, last but not least, conclude lo studio, "strategie di comunicazione e promozione, a livello centrale e locale, che consentano di scardinare la cappa mediatica che oggi tende a mettere tutto il Sud sotto un unico cappello". (fonte 9colonne)


Al Sud i servizi sono peggiori, ma non dipende da una ingiusta distribuzione delle risorse
Repubblica.it
2011/02/20

http://amato.blogautore.repubblica.it/2 ... le-risorse

Il ritardo del Mezzogiorno dipende anche da una cattiva qualità dei servizi. Ma la cattiva qualità dei servizi, di gran lunga più inefficienti rispetto a quelli offerti nel Nord Italia, non dipende quasi mai dalle minori risorse impiegate dallo Stato per il Sud. Questo è vero in diversi casi: per la scuola, per la giustizia, per la sanità. Non è vero che al Sud vengono impiegate minori risorse, è solo che i soldi vengono spesi male. E allora i cittadini farebbero bene a esercitare un maggiore controllo, e a punire con il voto gli amministratori inefficienti. Tesi leghista? Tesi tremontiana (proprio qualche giorno fa il ministro dell'Economia ha sottolineato il forte divario tra Nord e Sud)? No, l'analisi è della Banca d'Italia, si tratta di uno uno studio di Francesco Bripi, Amanda Carmignani e Raffaela Giordano, dal titolo "La qualità dei servizi pubblici in Italia".

Gli autori passano in rassegna i principali servizi offerti ai cittadini dalla pubblica amministrazione a livello centrale (istruzione e giustizia) e locale (trasporti pubblici, rifiuti, acqua, distribuzione del gas e asili nido). Non c'è bisogno di sottolineare del perché si tratti di servizi di grande importanza, perché "contribuiscono ad aumentare la dotazione di capitale umano, a creare un ambiente favorevole all'insediamento e allo sviluppo delle imprese, ad accrescere l'offerta di lavoro". E quindi, se nel Mezzogiorno sono inefficienti, come emerge ampiamente dai dati, questo non può che penalizzare ulteriormente lo sviluppo di questa parte del Paese.

Per quanto riguarda la scuola, le differenze sono abissali. "Gli studenti meridionali mostrano generalmente un livello di competenze scolastiche inferiori agli standard internazionali e delle regioni settentrionali in tutte le materie oggetto di indagine (capacità di comprensione di un testo, matematica, scienze, problem solving)": si tratti di indagine PISA dell'Ocse, o di test Invalsi, i risultati non cambiano, e poco importi che i voti degli alunni meridionali non si differenzino da quelli degli studenti settentrionali. "Il punteggio medio degli studenti meridionali è inferiore del 15% circa a quello dei pari età del Nord, per i quali i punteggi medi si avvicinano a quelli dei Paesi con qualità d'istruzione più elevata". Al Sud ci sono meno laureati e una percentuale maggiore di abbandono scolastico. Ma tutte queste differenze non dipendono dall'impiego di minori risorse: "I dati dei Conti pubblici territoriali mostrano che la spesa per il personale non è inferiore nel Mezzogiorno, dove semmai essa è innalzata non tanto da un più elevato rapporto insegnanti/alunni, quanto dalla composizione per età e status dei docenti". In altre parole, al Sud i docenti sono in media più anziani e quindi percepiscono uno stipendio più alto. Il problema è che la scuola funziona poco, e che pertanto al Sud, rispetto al Nord, gli studenti "scontano gli effetti negativi di un contesto socio-economico meno favorevole e l'assenza di una forte domanda di lavoro privata interessata più alle reali competenze che ai titoli di studio formali". Tradotto significa che l'ambiente culturale al Sud è più povero e la scuola non riesce a muovere di un millimetro questa situazione, e che nel Mezzogiorno si viene assunti più che al Nord per raccomandazione e nel pubblico impiego, e quindi gli studenti e gli insegnanti non vengono spronati a migliorare la qualità dello studio perché tanto questo non cambierebbe nulla ai fini dell'ottenimento di un lavoro.

Una situazione molto simile si riproduce negli altri settori presi in considerazione. Nella giustizia civile, per esempio, non bisogna pensare che lo Stato spenda meno al Sud: il Mezzogiorno soffre di un maggiore tasso di litigiosità, certo, ma a questo corrisponde una quota superiore di risorse assegnate. Nonostante ciò, i processi duranto oltre il doppio che al Nord. Andiamo ai servizi erogati su base locale: la sanità. "I problemi del servizio sanitario italiano non riguardano la spesa, con riferimento alla quale non si rilevano sostanziali disomogeneità sia nel confronto internazionale sia sul territorio nazionale". Bene. Eppure nel 2006, tanto per prendere in considerazione un parametro tra tanti, il tasso di mortalità infantile era del 2,8 per mille in Toscana e in Veneto, del 2,6 per mille in Lombardia e del 5,5 per mille in Calabria, e intorno al 4 in altre regioni meridionali. In genere, rilevano gli studiosi della Banca d'Italia, gli ospedali al Nord sono più efficienti perché presentano una maggiore diversificazione delle prestazioni, resa possibile anche dalle maggiori dimensioni. Al Sud i soldi vengono spesi male.

E' così anche per il trasporto locale, che soffre di una cronica mancanza di concorrenza: in pratica le liberalizzazioni al Sud non sono mai arrivate. E' così anche per i rifiuti: la riforma, entrata in vigore nel 1997, ha prodotto un aumento del 38% della raccolta differenziata al Nord, del 19% al Centro e dell'8,5% nel Mezzogiorno. Il Sud è penalizzato anche dalle infrastrutture scarse e inefficienti. Metano: il 70% del gas viene distribuito al Nord, al Sud va solo l'11%. Il Sud presenta infine una percentuale altissima di dispersione di risorse idriche, e una quantità ridicola di asili nido rispetto alla domanda.

L'analisi della Banca d'Italia è impietosa, soprattutto perché espressa in termini di pacato confronto e analisi di dati. E le conclusioni lo sono ancora di più: vale la pena di riportarle senza aggiungere niente. Premesso che gli autori ritengono importante avere in futuro la possibilità di disporre di dati maggiori e di un monitoraggio costante per misurare l'efficienza (o l'inefficienza) dei servizi pubblici, rimane però il fatto che "un'azione pubblica di buona qualità richiede una partecipazione attiva dei cittadini, la loro volontà di investire tempo e risorse nel controllare e, se necessario, penalizzare con il voto gli amministratori inefficienti al momento delle elezioni".


Ecco perché al Sud non cambierà mai niente
04 agosto 2015

http://rubriche.finanza.tiscali.it/soci ... iente.html

Sta tornando di moda il Sud con tutti i suoi problemi, dopo la denuncia della Svimez sul suo declino quasi inarrestabile: Renzi convoca una riunione speciale del PD e vengono promessi investimenti per 80 miliardi, di cui fino a ieri non si era saputo nulla. Posso esprimere la meditata opinione che non accadrà assolutamente niente e che il declino del Sud proseguirà? Sostengo questo per almeno tre ragioni.

a- In questo momento non si riesce a far decollare l’Italia per ragioni molto diverse (non ci sono i soldi, le corporazioni bloccano tutto, politica molto instabile e caotica). L’idea, allora, che si riesca, con lo stesso personale politico e con le stesse risorse (inesistenti) a far decollare una parte dell’Italia dove manca quasi tutto è assolutamente non credibile. In questi mesi si sono mosse un po’ (poco) solo alcune regioni del Nord perché avevano le aziende, discrete infrastrutture e buoni rapporti internazionali con altri mercati. Tutto il resto è rimasto fermo.

b- Da anni la politica nazionale non si occupa più del Sud. E quindi, in quanto a idee, siamo a zero. Non esiste un piano, non esiste una gerarchia di interventi, non esister niente. Alla fine, per far vedere che comunque qualcosa si fa, troveranno un po’ di soldi per aggiustare una strada, sistemare un ponte, aggiustare il tetto di una scuola, arginare una frana. Tute cose utili, per carità, ma dalle quali non può certo emergere una nuova stagione per il Sud. Il Sud, in realtà, è da decenni abbandonato alla buona sorte e alla pietà degli Dei. Nessuno ha una visione, nessuno ha un progetto di medio periodo. Forse poteva diventare la patria dell’Italia 2.0, ma con collegamenti Internet e telefonici quasi inesistenti, come si fa?

Una volta si era pensato che il Sud potesse diventare la grande fabbrica italiana (e si sono distribuiti grandi incentivi): c’erano molte aree disponibili e molta mano d’opera (come oggi, peraltro). Ma ormai non c’è quasi più bisogno di una “fabbrica Italia”: chiudono anche quelle del Nord. E allora? Niente. Si mandano un po’ di soldi, si fanno un po’ di lavori pubblici e ci si mette il cuore in pace.

Un’idea poteva essere quella di trasferire forzatamente al Sud molte delle funzioni amministrative dello Stato (la famosa capitale diffusa, centri di calcoli e altro). Se il back office di alcune compagnie aeree sta in India, perché un pezzo di Stato non può stare a Palermo o a Catania?

Tutte cose possibili. Solo che per arrivarci bisognerebbe avere un’idea precisa di che cosa deve essere lo Stato nell’Italia 2.0. Ma non si sa, E quindi non si può “ragionare” sul Sud.

c- La terza e ultima ragione per cui sono pessimista è che in realtà nemmeno il Sud sa che cosa vuole. La sua classe politica (tranne qualche eccezione) è persino peggio di quella nazionale. Non ha idee, se non quella di farsi mandare più soldi da Roma. Soldi da spendere, in genere in interventi clientelari o di parata (il bel ponte, il cavalcavia, il concerto in piazza, etc). La verità è che, appunto, nemmeno al Sud sanno che cosa vogliono e potrebbero diventare. Tirano avanti alla giornata. A volte si ha persino l’impressione che l’unica vera forza amministrativa del Sud siano le varie mafie.



Il ritardo del Sud e le responsabilità della politica
Vittorio Daniele | Gen 19, 2017

http://www.opencalabria.com/il-ritardo- ... a-politica

Uno sguardo all’Europa Si sente spesso ripetere che il ritardo economico del Sud è dovuto alle sue classi dirigenti. Se queste, e in particolare quella politica, fossero state più capaci, più efficienti, oggi le regioni meridionali sarebbero più sviluppate. Corollario di quest’argomentazione è che il futuro del Mezzogiorno dipende, in ultima analisi, dal ceto politico meridionale e, di conseguenza, dalle scelte dei cittadini. Ma è davvero così? Davvero lo sviluppo economico – quello basato sugli investimenti produttivi, non quello effimero e assistito, basato sui sussidi – dipende dalla politica regionale o locale?

Queste domande potrebbero sembrare provocatorie. Ma, prima di rispondere, si allarghi lo sguardo al di fuori dell’Italia e si confronti la situazione del Mezzogiorno con quella di altre aree d’Europa. Nell’UE vi sono 272 regioni (cosiddette Nuts 2). Se le si ordina secondo il loro livello di sviluppo (misurato dal PIL pro-capite), si osserva come le regioni meridionali si collochino nella parte bassa della graduatoria. Per esempio, la Basilicata si trova alla posizione 209, la Puglia al 219esimo posto, la Calabria al 226esimo, la Campania al 231esimo posto. Curiosamente, in questa graduatoria dello sviluppo, la Calabria si trova accanto a due regioni del Regno Unito, la Cornovaglia e il Galles dell’Ovest. Un’altra regione della Gran Bretagna, il Lincolnshire, è a poche posizioni dalla Basilicata, allo stesso livello di regioni della Slovacchia, della Grecia e del Portogallo. È difficile credere che in tutte queste regioni la causa del ritardo economico sia la qualità delle classi dirigenti locali. Le cause, probabilmente, sono altre.

Perché non si investe al Sud? Negli ultimi quindici anni, tra le regioni europee che sono cresciute di più vi sono quelle dell’Est. Regioni arretrate della Polonia, della Romania, della Croazia hanno intrapreso un percorso di convergenza economica rispetto a quelle più avanzate. Negli ultimi anni, migliaia di imprese italiane hanno delocalizzato la produzione in quei paesi creando decine di migliaia di posti di lavoro. Secondo Confindustria Balcani, nella sola Romania sono attive circa 16.000 imprese italiane, con 800.000 occupati. Grandi multinazionali come la Fiat (oggi FCA), hanno realizzato stabilimenti in Serbia e Polonia e in altri paesi meno sviluppati dell’Italia. Quali le ragioni? Perché le imprese straniere investono poco nel nostro Mezzogiorno? Forse a causa della modesta qualità dei politici calabresi, pugliesi o siciliani?

Più prosaicamente, in Polonia, la tassazione sui redditi d’impresa è del 19 per cento, in Romania del 16, in Bulgaria del 10 per cento (Fig. 1). Spesso, accordi tra autorità locali e imprese agevolano gli investimenti stranieri. In Italia, la tassazione d’impresa è del 31,4 per cento, mentre il ginepraio di norme e i ritardi burocratici scoraggiano i potenziali investitori. E ancora, il costo orario del lavoro è di 10 euro in Croazia, di 8,6 in Polonia e di soli 5 euro in Romania. In Italia di 28 euro. Si potrebbe obiettare che l’Italia è un paese avanzato e che, dunque, il confronto con quelle nazioni è improprio.

Non si può certo ridurre il salario degli operai italiani del 3-400 per cento, né eliminare (come alcuni vorrebbero) le tutele dei lavoratori. Del resto, in Germania i salari sono più elevati di quelli italiani e così la tassazione sulle imprese. Ma è con la Polonia, con la Romania, con la Croazia che oggi l’Italia (e, in particolare, il Meridione) si trova, di fatto, a competere. Certo, una nazione sviluppata come la nostra dovrebbe puntare su ricerca e innovazione per crescere. Ma l’Italia, si sa, quanto a investimenti in ricerca è indietro rispetto ai paesi più avanzati come, per esempio, la Germania.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » mar apr 18, 2017 4:05 am

Il crak del Banco di Napoli


Il grande salvataggio
Ricordate il colossale crac del Banco di Napoli? Erano i tempi di Sindona, Carli e Ventriglia. L’azienda di credito più importante del Mezzogiorno venne salvata, ripulita, venduta, rivenduta e rimessa in carreggiata. Da Napoli all’Etruria: in entrambi i casi è saltato il modello economico che le banche tenevano in vita e che le alimentava.
di Stefano Cingolani
21 Dicembre 2015

http://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del- ... ggio-90831

Raffinatezza intellettuale e clientelismo politico: Ferdinando Ventriglia, signore e padrone del Banco, era Napoli nella sua quintessenza

E se facessimo come al Banco di Napoli? Nell’affannosa ricerca di una via d’uscita dalla crisi di quattro piccole banche dell’Italia centrale che rischia di innescare una reazione a catena, il Tesoro e la Banca d’Italia hanno aperto i cassetti della memoria: in che modo l’azienda di credito più importante del Mezzogiorno venne salvata, ripulita, venduta, rivenduta e rimessa in carreggiata? Può essere un modello da seguire? Erano gli anni Novanta e il fallimento della storica istituzione che domina via Toledo apparve chiaramente come il più grave crac italiano dopo quello della Banca Romana esattamente un secolo prima. Il Banco di Napoli era precipitato dalla nobiltà alla miseria: fino al 1926 emetteva la lira, sessant’anni dopo dispensava prebende al sottogoverno partenopeo e nazionale. Per rimetterlo in sesto si fece ricorso alla legge Sindona e intervenne la mano pubblica, cosa che oggi è impossibile. Ma, incredibile a dirsi, i contribuenti italiani hanno recuperato praticamente tutto quel che avevano prestato attraverso la Banca d’Italia.

C’è voluto un ventennio, i taxpayer americani hanno impiegato dieci volte meno, tuttavia i salvataggi bancari possono persino trasformarsi in un buon affare. Non è che non ci siano state perdite, nel caso del Banco di Napoli è stato azzerato il capitale, quindi hanno bruciato i loro soldi i soci che hanno sottoscritto gli aumenti (del resto, non ci sono pasti gratis). Fatto sta che tutti hanno fatto un salto sulla sedia quando nel 2003 sono stati restituiti tre miliardi e 583 milioni di euro alla Banca d’Italia da parte della bad bank alla quale erano stati affidati i crediti a rischio. Allora, è stata davvero una soluzione virtuosa?

Per rispondere bisogna raccontare la storia dall’inizio. Quando, nel 1995, gli ispettori della Banca d’Italia uscirono da via Toledo 177, dov’erano stati spediti dal governatore Antonio Fazio e dal capo della Vigilanza Vincenzo Desario, si conobbe la reale dimensione dello sfacelo. I crediti a rischio verso la clientela ammontavano a 16 mila 568 miliardi di lire. Tutte le posizioni in sofferenza vennero scorporate e cedute alla Sga (Società gestione attivi) alla quale Via Nazionale aveva affidato il compito di recuperare il più possibile. L’ispezione era scattata subito dopo la morte del signore e padrone del Banco, Ferdinando Ventriglia, avvenuta l’11 dicembre 1994 a 67 anni. Era uno dei banchieri più importanti e potenti d’Italia, lo chiamavano re Ferdinando, e non si trattava solo di uno sfottò perché il professore era Napoli nella sua quintessenza, raffinatezza intellettuale e clientelismo politico. “Per chiedermi i contributi mi chiamano perfino quando me ne sto chiuso al cesso”, diceva con una delle sue frequenti battute plebee.

Ripercorrere la sua parabola è aprire la finestra sugli intrecci tra banche e politica, tra gli obiettivi alti grazie ai quali l’Italia è cresciuta e le meschine ambizioni di un potere minore quanto perverso. Un passato che non passa mai. Ventriglia è il personaggio chiave dell’intera vicenda: porta il Banco in cima alla vetta, poi ne favorisce il tracollo, infine suggerisce il meccanismo per salvarlo quando ormai sta uscendo definitivamente di scena. Nato a Capua il 29 marzo 1927, studia Economia e commercio all’Università di Napoli iniziando subito dopo una carriera durante la quale dà prova di grande capacità di sintesi e di visione, insieme a una conoscenza tecnica non comune. Studente modello, si diploma a soli 16 anni e a 20 è già laureato. Raccontava sempre che il severissimo padre lo svegliava alle 4 meno un quarto del mattino per interrogarlo in Ragioneria e Tecnica bancaria. L’apprendistato del giovane Nando è duro, ma anche fruttuoso. “Nessuno mi ha mai regalato niente, a me”, amava dire citando episodi di una formazione d’altri tempi, fatta di burocratica disciplina borbonica, perché nonostante leggende diffuse da malelingue, o le barzellette sul “facite ammuina”, l’apparato statale del Regno delle Due Sicilie è stato per gran parte della sua storia efficiente e organizzato in modo ferreo.

Nel 1947 Ventriglia si iscrive alla Fuci, l’organizzazione universitaria democristiana. Viene assunto al Banco di Napoli e comincia all’ufficio studi, il primo creato da una banca italiana, nel 1931, prima ancora che ci pensasse Raffaele Mattioli alla Banca Commerciale Italiana di Milano. Nella Napoli degli anni Cinquanta il potere era la Democrazia cristiana, non la compagnia dei liberi muratori che dominava la finanza meneghina. E la Dc cercava giovani di talento per rafforzare la squadra di governo, soprattutto economisti, perché di avvocati e giuristi era già piena. Ventriglia si distingue nella “triste scienza” e il suo nome viene fatto a Pietro Campilli, ministro democristiano plenipotenziario per il Mezzogiorno, già al Tesoro con Alcide De Gasperi (fu lui a trattare nel 1947 il prestito americano di 100 milioni di dollari), che lo porta a Roma come suo braccio destro. Di qui, nei primi anni Sessanta, Ventriglia passa al Tesoro con Emilio Colombo.

Torna al Banco di Napoli nel 1966 e diventa presto direttore generale, assumendo la stessa carica anche al Crediop. Ma tre anni dopo una nuova partenza: viene nominato amministratore delegato del disastrato Banco di Roma, uno dei tre istituti dell’Iri azionisti e finanziatori di Mediobanca. Vi rimane dal 1969 fino al ’75, rimette in ordine il bilancio e rafforza la struttura patrimoniale dell’istituto, ma inciampa su Michele Sindona, il finanziere italo-americano trasformatosi in un perno del potere grazie all’abilità con la quale sposta oltre confine i quattrini del Vaticano. Anche la banca romana, soprattutto con le sue consociate estere, entra nel carosello. Quando la Banca Privata, braccio operativo di Sindona, finisce in bancarotta, Ventriglia viene convocato dai giudici. Ne esce “con le mani pulitissime”, come dichiara trionfante. Eppure su di lui s’allunga l’ombra del sospetto.

I suoi nemici insinuano che si sia salvato grazie alla “lista dei 500”: l’elenco di potenti che hanno esportato capitali grazie a Sindona. “Tutte strunzate”, ha sempre risposto, beffardo come al solito. Ma intanto perde la più grande occasione della sua vita: diventare governatore della Banca d’Italia. Nel 1974 Guido Carli, sempre suo grande amico, lo aveva già designato per la successione, ma all’ultimo momento viene stoppato da uno dei suoi più acerrimi nemici, Ugo La Malfa, che si era formato all’ufficio studi della Commerciale ed era vicinissimo a Enrico Cuccia. Lista o non lista, è uno degli episodi chiave dello scontro tra le due finanze, del nord e del sud, massonica e cattolica, che ha attraversato la storia d’Italia fin dall’Unità.
Ventriglia viene ricompensato e diventa direttore generale del Tesoro, dove rimane fino al ’77 guadagnandosi l’encomio solenne della comunità finanziaria per aver negoziato il salvataggio dell’Italia da parte del Fondo monetario, nel bel mezzo delle due crisi petrolifere che interrompono per sempre (salvo brevi fiammate) la corsa dell’economia italiana. Il professore esce con le medaglie dal fortilizio di Via XX Settembre e torna in banca, prima con la presidenza dell’Isveimer e poi nel 1983, con il rientro nel “suo” Banco di Napoli come direttore generale, che allora era la carica operativa più importante (le banche non erano quotate in Borsa e non avevano amministratori delegati).

L’istituto di credito compie un vero salto, almeno fino a quando il sistema di potere comincia a sfaldarsi nella lotta fratricida tra le tribù democristiane: gavianei, pomiciniani, andreottiani, demitiani. La spartizione, applicando in modo ferreo il manuale Cencelli, è sempre più fine a se stessa, si estende dalla Dc al Psi e ai partiti minori, ingloba il Partito comunista che dal 1975 a Napoli diventa partito di governo. E Ventriglia non ha pace “nemmeno al cesso”. Per tappare i buchi sopravaluta le attività e svaluta le passività, spalmando le perdite su più anni, sposta così in avanti il momento della resa dei conti che arriva quando, nel 1993, finisce l’intervento straordinario per il Mezzogiorno. Le imprese del sud, le piccole e forse ancor più le grandi, sono andate avanti indebitandosi e contando sulla garanzia pubblica, quando questa viene a cadere la risposta immediata è rinegoziare i prestiti o non restituirli affatto.

Nel 1991, con la trasformazione in società per azioni in seguito alla legge Amato, Ventriglia viene nominato amministratore delegato. Ma la lotta interna s’inasprisce e su Re Ferdinando, consumato dal male e amareggiato, maramaldeggia la magistratura. Subisce un avviso di garanzia e viene sospeso per alcune nomine giudicate illegittime al vertice della Fondazione. Ne esce “con le mani pulitissime”, ma ormai non può che gestire il suo declino, professionale, fisico, umano. “E’ tutto finito, i nuovi del Banco mi hanno addirittura murato una parte dell’ufficio”, confessa poco prima di morire divorato dal cancro. Intanto, gli ispettori della Banca d’Italia aprono i cassetti e spalancano il sancta sanctorum.

[**Video_box_2**]Eppure la via d’uscita viene suggerita dallo stesso Ventriglia che, insieme a Guido Carli, aveva lavorato a quella che verrà conosciuta come legge Sindona, perché è stata usata dopo il crac della Banca Privata. In sostanza, autorizza la Banca d’Italia a erogare un prestito all’un per cento, per un importo pari ai titoli di Stato concessi in garanzia. A fronte di questo materasso fornito dalla mano pubblica, viene creata la Sga, una società veicolo, oggi chiamata bad bank, che con i denari ottenuti acquista tutti quei crediti a rischio (allora ammontavano a 17.400 miliardi di lire), non al loro valore nominale, bensì al prezzo scontato di 12.442 miliardi (pari a 6.425 milioni di euro). Il Banco di Napoli ha girato alla Sga il finanziamento, ma al tasso di mercato che nel 1997 era in media il 9,6 per cento. In questo modo, ha anche potuto ottenere un beneficio sul conto economico. Grazie agli incassi delle somme recuperate, il “debito” della Sga si è via via ridotto e poi annullato.

Il Banco di Napoli adesso fa parte del gruppo Intesa Sanpaolo, ma prima è passato attraverso la Banca Nazionale del Lavoro, una operazione che ha sollevato un putiferio. La legge Sindona non era sufficiente per tenere in piedi l’intera baracca. Lamberto Dini, allora ministro del Tesoro, azzera il capitale e decreta una ricapitalizzazione pari a 2.283 miliardi che trasforma lo stato in azionista di maggioranza fino alla privatizzazione. Nel 1997 il Banco di Napoli viene acquistato per una cifra irrisoria (sessanta miliardi di lire, poco più di 29 milioni di euro, per il 60 per cento del capitale) da parte di una cordata composta dalla Banca nazionale del lavoro e dall’Istituto nazionale delle assicurazioni, due soggetti economici dai quali il Tesoro si sta ritirando. “Il prezzo è stato ritenuto congruo dall’advoisor Rothschild”, risponde il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi alle proteste dei dipendenti e dei sindacati (dopo tutto la banca possiede 750 sportelli tra cui quello prestigioso presso la Camera dei deputati che gestiva i conti degli onorevoli concedendo congrui castelletti scoperti). Dopo circa due anni di risultati operativi estremamente deludenti, il Banco è di nuovo in vendita, si fa avanti Sanpaolo Imi (che poi si fonderà con Banca Intesa), ma Bnl e Ina chiedono seimila miliardi di lire, realizzando una plusvalenza clamorosa. Nel frattempo la Sga recupera il 94 per cento dei crediti che sembravano perduti. In sostanza, il Sanpaolo ha salvato indirettamente la Bnl con la regia della Banca d’Italia e del Tesoro. Il Banco di Napoli è diventato una figurina nel risiko che ha rimescolato il panorama bancario nazionale.

Il modello napoletano non può essere utilizzato in pieno per le banchette dell’Italia centrale, innanzitutto perché il Tesoro non si trasforma in azionista sia pur temporaneo e perché la legge Sindona non funziona più; eppure sia la bad bank, sia la svalutazione dei crediti, sia la ricerca di acquirenti, fanno parte dello stesso schema al quale si potrebbe aggiungere anche il modello Ambrosiano, cioè il modo in cui fu affrontato nel 1982 il crac della banca di Guido Calvi, operazione gestita da Beniamino Andreatta, al quale ha fatto riferimento Mario Draghi. In quel caso è stato creato il Nuovo Banco Ambrosiano, affidato a Giovanni Bazoli, nel quale è entrata una nutrita schiera di banche pubbliche e private, nucleo della futura Banca Intesa.

Un po’ di Napoli e un po’ di Milano, un po’ di Sindona e un po’ di Calvi, tutta la storia recente delle crisi finanziarie italiane viene messa in ballo per quattro aziende il cui attivo è irrisorio. Certo, hanno un impatto politico (tutti a destra come a sinistra cavalcano le ire, non sempre legittime, di chi ci perde i quattrini) e hanno un importante connotato sociale, sono lo specchio della economia locale che in questi anni ha tenuto a galla una buona parte del paese. Tuttavia, far pulizia fino in fondo è sempre il modo migliore per ripartire. I risparmiatori di Arezzo, Chieti, Ferrara e Pesaro farebbero meglio a trovare qualcuno che amministri bene i loro denari, magari senza promettere l’albero della cuccagna.

C’è una lezione che accomuna Napoli e l’Etruria: nell’un caso e nell’altro è saltato il modello economico che le banche tenevano in vita e che a sua volta le alimentava. Su scala infinitamente maggiore nel caso napoletano, perché era in ballo l’intero sistema di sviluppo assistito del Mezzogiorno che consentiva ai privati di indebitarsi quasi senza limiti grazie alle garanzie dello stato. Le piccole banche dell’Italia centrale, invece, hanno potuto concedere prestiti facili finché quel sistema localistico, borghigiano (come lo chiama il Censis), il terzo capitalismo che si era fatto strada tra quello storico delle grandi famiglie in declino e il capitalismo di stato, ha potuto contare sulla protezione dalla concorrenza internazionale. La fine della Cassa per il Mezzogiorno ha travolto anche il Banco di Napoli e le alchimie finanziarie del professore, nel tentativo di coprire gli ammanchi, hanno solo peggiorato la situazione. La crisi degli orafi aretini (il distretto ha perso il 25 per cento l’anno scorso perché è scesa la domanda degli sceicchi e dei russi) ha trascinato con sé anche la Banca Etruria. E Pier Luigi Boschi, con tutto il rispetto, non è nemmeno un Ventriglia.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » mar apr 18, 2017 7:44 pm

Il Sud di Stella e Rizzo: montagne di schifezze, ma la colpa è di altri

http://www.lindipendenza.com/il-sud-di- ... e-di-altri

di GILBERTO ONETO

A molti comprensibilmente ripugna dare soldi a Stella e Rizzo, o – peggio ancora – alla Feltrinelli, ma questo è un libro che non si può non leggere. Si può farlo facendoselo prestare, andando in biblioteca o piratando fotocopie o pdf.

Ma vale davvero la pena di leggerlo per due ragioni principali.

La prima è rappresentata dalla grande quantità di notizie e di informazioni: nessuna è originale e forse neppure inedita ma è importante che qualcuno le abbia raccolte e messe tutte assieme. È difficile pensare che gli autori si siano ispirati alla “Rubrica Silenziosa” dei Quaderni Padani: l’avessero anche fatto non lo ammetterebbero neppure sotto tortura. Ma sta di fatto che forniscono un bel quadretto di cifre, dati e notizie da cui viene fuori un ulteriore quadro catastrofico del Meridione. Anche qui niente di nuovo ma fa sempre una certa impressione sapere che la descrizione sia opera di gente sinistra e patriottica che tutto vorrebbe fare tranne che scrivere roba del genere e che se lo fa è solo perché la cosa è così macroscopica da non poter essere nascosta o ridimensionata, e perciò tanto vale farci qualche soldino di diritti d’autore. Non sono i primi a percorrere tale strada: parecchi anni fa Giorgio Bocca aveva prodotto materiale analogo. Erano allora momenti di grande espansione del leghismo e il Bocca era stato accusato di colpevole collateralismo: non può capitare a Stella e Rizzo perché il padanesimo sta vivendo un momento di fiacca e perché hanno disseminato di parecchi antidoti la loro narrazione.

E proprio questo costituisce il secondo elemento di interesse del libro: la straordinaria abilità di due professionisti dell’equilibrismo sugli specchi nel dire certe cose puzzolenti e contemporaneamente coprirle con annaffiate di deodorante di regime. Così con una faccia di palta quasi simpatica per eccesso di improntitudine, i due chiudono ogni drammatica descrizione con qualche esempio dis-edificante di malefatta nordista o inventandosi un concorso di colpa trovato rovistando un paio di paralleli più a nord. Qualche esempio: la “giusta diffidenza” che occorre mostrare nei confronti dell’Alta Italia per le malversazioni seguite al terremoto dell’Irpinia; le “troppe incursioni settentrionali interessate solo al saccheggio di contributi” per il Sud. Insomma ci sono sempre degli “assatanati corsari del Nord”, o c’è il “peggior doppiopesismo della Lega” dietro a tante magagne: la colpa è sempre di qualcun altro, preferibilmente padano, meglio se anche un po’ leghista. Gli autori fanno finta di criticare il vecchio piagnisteo meridionale ma poi fanno lo stesso: inventano la lamentazione post-moderna bene irrorata di relativismo patriottico riassunto nell’espressione “Non solo nel Mezzogiorno” con cui concludono certe loro terrificanti descrizioni. “Il marciume nella sanità non è affatto un’esclusiva meridionale. Anzi”. Sublime!

La colpa dell’inquinamento in Campania è di chi ha prodotto le schifezze e non di chi le ha sparse e interrate per soldi. La mimesi della verità raggiunge punte davvero esilaranti quando, per cercare colpe sopra la Linea Gotica, si dice che Colaninno è mantovano, Speranza piemontese e Bernabé niente di meno che altoatesino.

Insomma descrivono montagne di schifezze perché non possono farne a meno ma si inventano straordinari funambolismi per dare la colpa a qualcun altro e – soprattutto – per allontanare il sospetto che tutte queste rogne siano figlie di una avventatezza storica come l’unità d’Italia. Bisogna leggere questo genere di libri per conoscere gli strumenti del nemico (e questi sono nemici intelligenti) e per attrezzarsi a combatterli meglio e a difendersi dal neocentralismo tricolore che si sta insinuando un po’ dappertutto.

La narrazione si ricopre nei punti cruciali di retorica e di prossenetismo di regime. Ad un certo punto si trova scritto: “Giorgio Napolitano, eletto a simbolo della migliore classe politica meridionale e prova vivente di come il Mezzogiorno sia in grado di offrire all’Italia uomini di altissimo profilo politico e istituzionale”. “Contro i ghetti profumano i giardini, sul mondo batte il cuor di Mussolini”. Eterna Italia: non è mai cambiato niente.

Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Se muore il Sud. Milano: Feltrinelli, 2013.

318 pagine, 19,00 €
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » mer apr 19, 2017 5:30 pm

Appalti truccati per favorire le ditte del clan: arrestati due funzionari della Tangenziale di Napoli
di Mary Liguori
Mercoledì 19 Aprile 2017

http://www.ilmessaggero.it/primopiano/c ... 89155.html

È nata da una branca dell'indagine sulla Cpl Concordia, metanizzazione dell'Agroaversano monopolizzata dai Casalesi, l'inchiesta che all'alba di oggi ha portato all'esecuzione di sei misure cautelari nei confronti di due funzionari della società Tangenziale di Napoli e di imprenditori ritenuti vicini alla criminalità organizzata casertana.

L'accusa di turbativa d'asta formulata dalla Dda di Napoli (sostituti procuratori Catello Maresca e Maurizio Giordano) riguarda i lavori di manutenzione delle gallerie Capodimonte e Solfatara e della pavimentazione stradale della Tangenziale di Napoli.

Su ordine del gip quattro persone sono finite ai domiciliari (tra cui i due funzionari della Società Tangenziale di Napoli Spa, Francesco Caprio e Paola Ciccarino) e una ha ricevuto la misura in carcere. Quest'ultima, l'imprenditore Antonio Piccolo, era già detenuto per la vicenda Cpl Concordia. Coinvolti nell'inchiesta anche i suoi figli, Michele e Jolanda, per i quali il gip ha disposto domiciliari con l'accusa di intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso.

Su delega della Dda, le indagini hanno visti impegnati i carabinieri dei Ros e del Noe, diretti dai tenenti colonnello Gianluca Piasentin e Fernando Maisto.

Le vicende contestate risalgono al 2015 e riguardano opere per un importo complessivo di 1,6 milioni di euro. I due funzionari avrebbero manipolato gli atti di gara per favorire la Cogepi di Casapesenna. Nel corso dell'operazione è stato eseguito dai Ros anche un sequestro preventivo di 700mila euro.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 22, 2017 6:58 pm

Napoli, 10 milioni di banconote false: catturata banda in Campania. Il trucco dell'ombrello
Venerdì 21 Aprile 2017
di Mary Liguori

http://www.ilgazzettino.it/italia/crona ... m=facebook



Diciassette falsari arrestati, due costretti all'obbligo di dimora e due stamperie sequestrate: è questo il bilancio dell'operazione della guardia di finanza che questa notte ha sgominato la "banda degli onesti", collegata al "Napoli Group", il principale gruppo di falsari attivo in Italia.

Gli indagati hanno immesso sul mercato milioni di euro falsi con una rete che arrivava in Austria, Germania e altri Paesi dell'Unione. A capo della banda c'era un 40enne di Carinaro, in provincia di Caserta, un ex tipografo.

L'inchiesta della guardia di finanza di Napoli é stata coordinata dalla procura di Napoli Nord, diretta da Francesco Greco.

Un pool di quattro magistrati coordinati dall'aggiunto Renzulli ha ricostruito la rete dei contatti che dall'area giuglianese e aversana smerciava le banconote false fino alla Colombia. All'inchiesta ha collaborato anche l'Europol.

Il procuratore Greco ha definito in conferenza "sofisticatissimi" i metodi usati per falsificare le banconote al punto che alcuni degli indagati erano considerati degli specialisti tali da venire reclutati per dare lezioni ad altri falsari in diversi Paesi europei.

L'inchiesta è stata condotta dal comando provinciale della guardia di finanza di Napoli, diretto dal generale Gianluigi D'Alfonso, e ha visto impegnati il Nucleo di polizia tributaria del colonnello Giovanni Salerno e il Nucleo speciale della polizia valutaria coordinato dal generale Giovanni Padula.

Come detto, l'area che va dal Giuglianese all'Aversano è storicamente "patria" di falsari di alto livello. Proprio per questa ragione, in conferenza stampa è stato ricordato che indagini precedenti sullo stesso tipo di business è emerso che anche alcune cellule terroristiche con base a Milano usavano banconote false per acquistare armi.
Diversi poi i metodi per piazzare il denaro fasullo. Tra questi, sempre a Milano, è emerso un singolare escamotage usato dai falsari. Quando piove a ogni fermata della metro uno di loro compra un ombrello da un ambulante pachistano. L'ombrello costa cinque euro, ma viene pagato con 50 euro falsi: così facendo, si incassano 45 euro veri. Per ogni giorno di pioggia si riescono a riciclare in questo modo 10mila euro.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 11:46 am

Rifiuti, ambiente e mafie


La crisi dei rifiuti in Campania indica lo stato di emergenza relativo allo smaltimento ordinario dei rifiuti solidi urbani (RSU) verificatosi in Campania, dal 1994 al 2012.
https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_dei ... n_Campania

Ecomafia
https://it.wikipedia.org/wiki/Ecomafia
Il termine ecomafia, nella lingua italiana, è un neologismo coniato dall'associazione ambientalista Legambiente per indicare le attività illegali delle organizzazioni criminali, generalmente di tipo mafioso, che arrecano danni all'ambiente.
In particolare sono generalmente definite ecomafie le associazioni criminali dedite al traffico di rifiuti e allo smaltimento illegale degli stessi.

https://www.legambiente.it/temi/ecomafi ... di-rifiuti


Con "Terra dei Fuochi" si individua una vasta area situata nell'Italia meridionale, che si estende in Campania, a cavallo tra la provincia di Napoli e quella di Caserta, famosa a livello mediatico a causa della presenza di rifiuti tossici e numerosi roghi di rifiuti, con eventuale impatto sulla salute della popolazione locale.
https://it.wikipedia.org/wiki/Terra_dei_fuochi


Il boss della Camorra pentito «I nostri rifiuti sepolti al Nord»
Martedì 22 novembre 2016
http://www.ecodibergamo.it/stories/Cron ... 1212061_11

«Al Nord abbiamo sversato di tutto». Sono le dichiarazioni choc del pentito di camorra e ora collaborazione di Giustizia, Nunzio Perrella, che racconta al presidente dell’associazione SoS Terra, Gigi Rosa, il legame tra rifiuti e criminalità organizzata.
«Il Nord sta molto rovinato - racconta Perrella davanti alle telecamere di Nemo, trasmissione di Raidue. Il Nord sta molto rovinato dal 1987. Poi quando è stato pieno di rifiuti ci siamo spostati al Sud e l’attività ancora non si ferma. Nonostante io sia collaboratore di giustizia ricevo ancora richieste per lo smaltimento dei rifiuti. Perrello cita esplicitamente alcuni Comuni del Bresciano, alcuni al confine con la provincia di Bergamo: «Ospitaletto, Castegnato, Montichiari, Rovato, le vostre dicariche sono piene zeppe di rifiuti pericolosi». «Un faccia a faccia scioccante» conferma Rosa, colpito dai dettagli di queste rivelazioni sconcertanti.



Raccolta differenziata: ancora troppe disparità tra Nord e Sud
Dal 12% della Sicilia al 65% del Trentino. Ma la Campania arriva al 43% e quasi il 40% dei Comuni italiani ha raggiunto gli obiettivi Ue per il 2020
30 ottobre 2015

di Valeria Balboni
http://www.corriere.it/ambiente/15_otto ... 7802.shtml

Nel 2014 in Italia sono stati avviati alla raccolta differenziata il 46% dei rifiuti urbani. Oltre 3 mila Comuni hanno anche raggiunto il 50% di effettivo riciclo del differenziato, obiettivo Ue per il 2020. Questi numeri, contenuti nel quinto rapporto Anci-Conai su raccolta differenziata e riciclo, dipingono un’Italia virtuosa in cui, per buona parte dei cittadini, suddividere i rifiuti in base alla tipologia è ormai un’abitudine. Un risultato in sintonia con una recente inchiesta Doxa-Conai, secondo la quale l’87% degli italiani dichiara di svolgere regolarmente la raccolta differenziata.

Aumenta la raccolta differenziata

Nel complesso, nel 2014, la produzione di rifiuti è aumentata del 2% – e il dato, dopo anni di decrescita, può essere letto come una ripresa dei consumi – nello stesso anno però la raccolta differenziata ha fatto meglio, aumentando del 3,7%. Una buona parte è data dalla frazione umida, seguono carta e cartone, vetro, imballaggi misti e in plastica. Se si legge più in profondità, si nota che questo dato medio è il risultato di situazioni molto diverse, e quella che emerge è un’Italia divisa fra un Centro-Nord virtuoso e un Sud in cui gli obiettivi Ue sono ancora lontani. Si va dal 12% di rifiuti differenziati in Sicilia al 65% del Trentino, passando per il 43% della Campania e il 61% della Lombardia.

I sei consorzi

I rifiuti raccolti devono poi essere avviati al riciclo e di questo si fa carico – in particolare per gli imballaggi – il Conai (Consorzio nazionale imballaggi) consorzio nato per facilitare la raccolta differenziata e il riciclaggio, cui aderiscono oltre un milione di produttori e utilizzatori di imballaggi. In pratica agisce da collegamento fra i Comuni, che raccolgono i rifiuti, e i consorzi che si occupano del riciclaggio di sei diversi materiali da imballaggio: carta (Comieco), vetro (Coreve), acciaio (Ricrea), alluminio (Cial), plastica (Corepla) e legno (Rilegno). Solo una parte dei rifiuti differenziati viene effettivamente riciclata, ma otto Regioni (Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Sardegna ed Emilia-Romagna) hanno raggiunto l’obiettivo del 50%, risultato ottenuto anche da 3.141 Comuni fra cui figurano due metropoli come Milano e Torino.

Costi, qualità e ambiente

Se la gestione dei rifiuti in Italia è in linea con gli altri Paesi europei, rimangono però diversi aspetti problematici, uno dei quali è il costo, che comunque viene ripagato dalla riduzione del nostro impatto sull’ambiente. Una sfida ancora aperta è la qualità dei rifiuti raccolti: i risultati migliori si ottengono quando il materiale non è «inquinato» dalla presenza di rifiuti gettati in modo scorretto. Pensiamo ai piatti di ceramica buttati con il vetro, o ai sacchetti di plastica eliminati con la carta. Negli anni la qualità è andata migliorando, ma si può fare meglio: la presenza di materiale estraneo impedisce di indirizzare i rifiuti recuperati al riciclaggio, che è il vero scopo di questa raccolta.

Plastica bruciata: responsabilità anche dell’industria

Per la plastica, in particolare, l’Associazione europea dei riciclatori di materie plastiche (Pre-Plastics Recyclers Europe) sottolinea la necessità di standardizzare a livello europeo la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti di plastica, per realizzare un programma di economia circolare, in cui questi si trasformino effettivamente in risorse. Oggi una parte della plastica raccolta viene bruciata (quando possibile negli impianti di termovalorizzazione) perché inquinata da materiale estraneo e quindi non adeguata al riciclaggio. La responsabilità però non è solo dei cittadini, ma anche dell’industria che per ragioni di marketing fa scelte a volte discutibili. Il Pet colorato (quello delle bottiglie azzurre, o arancio, per capirci) non può essere diviso facilmente dal Pet trasparente, e questo crea un problema per gli impianti, o quanto meno la sua presenza fa sì che il materiale venga destinato a produrre manufatti meno pregiati di quelli che si potrebbero ottenere con plastica trasparente.

Bioplastiche e umido

Un problema analogo è quello delle bioplastiche: materiali biodegradabili, usati per alcune bottiglie, che possono esser gettate con l’umido. Non tutti gli impianti di smaltimento dell’umido, però, sono adeguati a gestire questi materiali, che d’altra parte non devono essere differenziati con la plastica. Quello che è necessario è un generale coinvolgimento delle aziende produttrici nell’intera filiera degli imballaggi plastici: dalla produzione allo smaltimento. Un esempio virtuoso può essere quello di Unilever che ha recentemente dichiarato di essere diventata un’azienda zero waste: tutti i rifiuti e i prodotti obsoleti, provenienti dalle fabbriche e dai centri logistici e di distribuzione in Europa, vengono riciclati.



Rifiuti, la mappa provinciale della differenziata: bene il Veneto, male la Sicilia
Riccardo Saporiti 24 aprile 2017


http://www.infodata.ilsole24ore.com/201 ... la-sicilia


Molto bene nel Triveneto, bene in Sardegna, in Campania e nelle Marche. Ma anche in Lombardia e in Piemonte. Male nel resto d’Italia, con punte negative in Sicilia, Calabria e Basilicata. Va così la raccolta differenziata in Italia. O meglio, è andata così nel 2015, secondo i dati più recenti pubblicati sul catasto rifiuti di Ispra.

È stato proprio utilizzando i numeri pubblicati dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che Infodata è stata in grado di costruire questa mappa:

I colori variano dal rosso al verde a seconda di quanto sia più alta la percentuale di rifiuti differenziati nel corso dell’anno di riferimento. In alto a destra sono presenti due filtri: uno per le regioni e un altro per le provincie. Utilizzandoli è possibile “zoomare” sul territorio che si vuole analizzare. Posizionando il cursore del mouse sul territorio di un comune, o un dito per chi legge da mobile, una finestra pop-up indicherà il nome del comune in questione e la quota di raccolta differenziata raggiunta nel 2015.

Se si guarda alle provincie, è Treviso quella in cui la gestione dei rifiuti ha permesso di ottenere i risultati migliori in termini di riciclo. Qui infatti nel 2015, in media, l’85,22% dell’immondizia è stata differenziata. Seguono Mantova, in Lombardia, con l’80,3% e di nuovo in Veneto Belluno con il 76%. Oltre ad ottenere la prima e terza piazza, la regione della Serenissima conferma di essere una delle più attente al tema: delle dieci migliori province per raccolta differenziata, ben sei si trovano qui. Solo Rovigo rimane fuori dalla top 10, ma si piazza comunque al 13simo posto.

All’estremo opposto, ecco la Sicilia. Le quattro peggiori provincie italiane per raccolta differenziata, sempre secondo Ispra, sono Enna, Siracusa, Messina e Ragusa. Più in generale, tutte e nove le provincie dell’isola si trovano tra le peggiori 15.

A livello di singolo comune, il risultato migliore lo registra San Lorenzo Maggiore, poco più di duemila abitanti distribuiti su 16 chilometri quadrati di territorio in provincia di Benevento. Stando ai dati Ispra, questo piccolo comune campano ha differenziato il 94,4% dei rifiuti prodotti. Seconda piazza per Castelcucco, nel trevigiano, terza per Tortorella nel salernitano. Mentre in fondo alla classifica ci sono una quarantina di realtà, sparse per lo più nel centro e nel Sud Italia, in cui l’Istituto superiore per l’ambiente afferma che con la differenziata non si è nemmeno cominciato. La strada per raggiungere il livello dei comuni veneti è ancora molto lunga.
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