Il sud della penisola italica - i meridionali

Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 9:00 am

Assenteismo in Italia
viewtopic.php?f=94&t=2499

Assenze per malattie: la classifica dell’assenteismo in Italia
12 Gennaio 2015
https://www.forexinfo.it/Assenze-per-ma ... classifica



Valentina Pennacchio
Dopo la vicenda dei vigili romani nella notte di Capodanno è tornato alla ribalta il tema delle assenze per malattie. La CGIA di Mestre ha fornito i dati per capire l’entità del fenomeno e quali sono le città italiane più interessate, sia nel settore pubblico, che in quello privato.

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La vicenda accaduta il 31 dicembre a Roma, dove la sera di Capodanno erano essenti l’83,5% dei vigili, ha acceso i riflettori sulle assenze per malattie.

Renzi ha annunciato la possibilità di una riforma delle regole del pubblico impiego, dando all’INPS il potere di controllare anche gli statali, oggi affidati alle verifiche delle ASL con un dispendio economico considerevole.

La CGIA, d’altra parte, fornisce alcuni numeri di quello che si qualifica come un vero e proprio fenomeno di assenteismo, soprattutto quando le assenze per malattie durano un solo giorno, come rivelano i dati. Secondo la CGIA nel 2013, nel settore pubblico, il 25,9% delle assenze per malattie (un’assenza su 4) ha avuto la durata di una giornata soltanto.

Il fenomeno, in crescita del 5,9% sul 2012 nel settore pubblico, diminuisce nel settore privato, che si ferma a quota 11,9% (-1% sul 2012).

Le assenze per malattie comprese tra 2-3 giorni sono invece pari:

al 36,1% nel settore pubblico;
al 31,2% nel settore privato.

Alla luce, come abbiamo accennato, dello scandalo della Capitale, la CGIA si è soffermata sulle assenze relative ad una sola giornata, stilando la classifica dell’assenteismo, sia nel settore privato, che in quello pubblico. Ecco i risultati.
Settore pubblico

I dati relativi al settore pubblico mostrano la seguente situazione. Ecco la top ten relativa agli eventi di malattia della durata di un giorno (e la durata media della malattia per provincia) per l’anno 2013 nel settore pubblico.
Rank Provincia Inc. % eventi di 1 giorno sugli eventi totali Durata media annua della
malattia (giorni)
1 Palermo 42,6 16,4
2 Agrigento 38,4 20,2
3 Catania 35,6 15,9
4 Trapani 34,0 16,2
5 Crotone 34,0 19,1
6 Napoli 34,0 17,3
7 Siracusa 33,6 18,7
8 Caserta 32,9 17,3
9 Ragusa 32,8 16,2
10 Latina 32,7 18,7

Nella classifica completa, tra le principali città italiane troviamo:

Roma alla posizione n. 14 a quota 30,8% con una durata media pari a 17,1 giorni;
Torino alla posizione n. 27 con i seguenti valori: 25,0% e 16,3 giorni;
Milano alla posizione n. 36 con il 22,8% e 16,6 giorni;
Genova alla posizione n. 42 con il 22,0% e 16,9 giorni;
Bologna alla posizione n. 51 con il 21,1% e 17,0 giorni;
Firenze alla posizione n. 70 con il 19,2% e 15,7 giorni.

All’ultima posizione (n. 103) troviamo Bolzano con il 10,5% e 14,4 giorni annuali. La media complessiva in Italia per il settore pubblico nel 2013 è stata: 25,9% e 17,1 giorni.


Settore privato

La top ten del settore privato, sempre relativa al 2013, è invece la seguente.
Rank Provincia Inc. % eventi di 1 giorno sugli eventi totali Durata media annua della malattia (giorni)
1 Palermo 27,8 17,1
2 Catania 21,1 17,7
3 Roma 18,8 16,6
4 Siracusa 18,5 17,9
5 Napoli 17,2 20,4
6 Cagliari 17,1 17,7
7 Trapani 15,5 18,8
8 Bari 15,0 17,6
9 Milano 14,6 16,1
10 Nuoro 14,4 22,2

Nella classifica completa, ecco dove sono le principali città italiane:

Genova occupa la posizione n. 12 con il 13,7% e 17,0 giorni;
Bologna occupa la posizione n. 13 con il 13,6% e 16,0 giorni;
Torino si trova alla posizione n. 26 con il 12,0% e 17,5 giorni;
Firenze è a alla n. 45 con il 10,1% e 15,6 giorni.

L’ultima posizione (n. 103) è occupata da Vibo Valentia con il 2,6% e 47,0 giorni. La media italiana è 11,9% e 18,3 giorni.
Classifica regionale

La classifica regionale, comprensiva di settore pubblico e privato, sempre relativa al 2013, fotografa la seguente situazione.

Se guardiamo ai dati di questa classifica, possiamo fare un a serie di considerazioni. Ad esempio possiamo constatare come, a livello nazionale, ci si ammali più nel settore privato (18,3%) che nel pubblico (17,1%).

Ecco invece in sintesi il numero di eventi di malattia per classe di durata dell’evento in giorni e settore, relativo agli anni 2012 e 2013.

No alle manipolaizoni

“I dati vanno letti con grande attenzione. Sarebbe ingiusto e sbagliato strumentalizzare i risultati che emergono da questa ricerca".

E’ quanto sottolineato da Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA, che ha aggiunto:

"Al netto dei casi limite che, a quanto sembra, si concentrano soprattutto in alcune aree del Paese, le imprese e anche la Pubblica amministrazione possono contare sull’affidabilità di maestranze che sono considerate tra le migliori al mondo. Detto ciò, è necessario colpire con maggiore determinazione i furbi, vale a dire coloro che, assentandosi ingiustificatamente, recano un danno all’azienda per cui lavorano e, nel caso dei dipendenti pubblici, anche alla collettività”.

Retribuzione

Come incidono questi numeri sulla retribuzione? A quanto ammonta la decurtazione retributiva? Anche in questo caso dobbiamo distinguere i due settori.

Nel settore pubblico è stabilito (dall’art. 71, comma 1, della legge Brunetta - legge n. 133/08)

"che per gli eventi morbosi di durata inferiore o uguale a dieci giorni di assenza, sarà corrisposto esclusivamente il trattamento economico fondamentale con decurtazione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento economico accessorio".

In sostanza:

la decurtazione retributiva riguarda i primi 10 giorni di ogni periodo di assenza per malattia (non i primi 10 giorni di assenza nel corso dell’anno);
scatta per ogni episodio di assenza (anche un solo giorno) e per tutti i 10 giorni anche se l’assenza dura di più.

Nel settore privato:

i primi 3 giorni sono totalmente a carico dell’azienda;
dal 4° al 20° giorno è l’INPS a coprire il 50% della retribuzione giornaliera media;
dal 21° al 180° giorno la quota a carico dell’INPS sale al 66,66%.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 9:11 am

Università, baroni e le peggiori per inefficenze e corruzione dove le lauree vengono svendute comprate


Casta universitaria e i baroni
viewtopic.php?f=22&t=231


Favori agli amici e concorsi truccati - In cattedra finiscono i figli dei prof
La corruzione negli atenei e la denuncia di Cantone: subissati di segnalazioni, è la causa della fuga dei cervelli. Da cinque anni una legge vieta ai parenti di insegnare nella stessa facoltà
di Sergio Rizzo
Milano, 23 settembre 2016

http://www.corriere.it/cronache/16_sett ... 05dc.shtml

La corruzione negli atenei e la denuncia di Cantone: subissati di segnalazioni, è la causa della fuga dei cervelli. Da cinque anni una legge vieta ai parenti di insegnare nella stessa facoltà

Tenevano famiglia. E continuano a tenerla ancora oggi, dopo che una legge dello Stato ha prescritto ben cinque anni fa il divieto ai parenti di insegnare nella stessa facoltà. Il bello è, dice il presidente dell’Autorità anticorruzione, «che si è trovato evidentemente il modo di aggirarla». Tante sono le segnalazioni che gli piovono sul tavolo: «Siamo subissati». Lettere che denunciano anche sospetti di malaffare nei concorsi, puntualmente girate alla Procura della Repubblica. Così numerose da far dire a Raffaele Cantone che «esiste un collegamento enorme fra la fuga dei cervelli e la corruzione».

Strada sbarrata

Del resto, perché un giovane bravo e capace dovrebbe restare in Italia avendo l’opportunità di insegnare all’estero, se sa già che la sua strada sarà sbarrata da un concorso taroccato mentre il figliolo del barone ce l’avrà spianata? Le segnalazioni che arrivano all’Anac sono tutte da verificare, ovvio. Ma l’odore della parentopoli universitaria in barba alle norme è penetrante. E pensare che già dieci anni fa, quando era solo un ufficetto in centro a Roma, e prima che il governo Berlusconi la sopprimesse nella culla, la neonata autorità anticorruzione guidata dall’ex prefetto Achille Serra aveva sfornato un esplosivo dossier sulla scuola universitaria di alta formazione europea Jean Monnet di Caserta. Dove si raccontava che «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50% dei casi il corpo docente (82 persone) con personalità del mondo politico, forense o accademico».

Un decennio dopo

Quasi un decennio dopo, al convegno dei responsabili amministrativi degli atenei, Cantone racconta che in una università meridionale «è stata istituita una cattedra di Storia greca in una facoltà giuridica e una cattedra di Istituzioni di diritto pubblico in una facoltà letteraria». E che i titolari erano «i figli di due professori delle altre università». Destini incrociati, di cui la storia dell’università italiana offre ampia letteratura. Con gli stessi protagonisti che ne vanno fieri: tanto la cattedra alla discendenza è sempre stata ritenuta non un sopruso, ma un
diritto.

L’«analogia»

Quando scoppia il caso dei familiari di Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma e preside per moltissimi anni della facoltà di Medicina, a chi chiede spiegazioni lui sbatte in faccia una strepitosa metafora: «Quando Cesare Maldini è diventato commissario tecnico della Nazionale, Paolo Maldini non è stato buttato fuori dalla squadra». Peccato che un rettore non sia un allenatore di calcio e che nella squadra della sua facoltà di Medicina non ci sia un familiare, ma tre. Suo figlio cardiologo, sua moglie laureata in Lettere docente di Storia della medicina e sua figlia laureata in Giurisprudenza docente di Medicina legale: di più, nominata dal governo di Enrico Letta nel comitato nazionale di bioetica. Tre Paolo Maldini?

Effetti collaterali

Narrano che questa scintilla inneschi il famoso divieto contenuto nella legge di Mariastella Gelmini. Anche se non ci sono prove. Che quella decisione scateni invece singolari effetti collaterali, invece, è noto. Il Messaggeroracconta che alla vigilia dell’approvazione della norma la dottoressa Paola Rogliati, nuora del preside della facoltà di Medicina di Tor Vergata a Roma, Renato Lauro, diventa professore associato della cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio. Sottolineando la circostanza che nella stessa facoltà e nel medesimo dipartimento, riporta l’Ansa, «c’è anche il marito della signora, nonché figlio del preside, David Lauro, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre». Tutto regolare. Ma difficile sostenere che sia normale.

La normalità

Eppure per anni è stata questa la normalità delle cronache giornalistiche. All’Università di Bari c’era il corridoio Tatarano, dove c’erano le stanze del professore di Diritto privato Giovanni Tatarano e dei suoi figli Marco e Maria Chiara. C’era la dinastia dei Massari: nove, per l’esattezza. E dei Girone: cinque, considerando anche il genero. Così a Bari, dove nel saggio L’università truccata Roberto Perotti aveva contato 42 parenti su 176 docenti di Economia. Ma così pure nel resto d’Italia. E le inchieste, da Nord a Sud, non si contano. Anche se quasi tutte finiscono sempre al solito modo: in una bolla di sapone.

Paradosso

La legge, dice Cantone ha ora «istituzionalizzato il sospetto». E Mariastella Gelmini replica che il divieto aveva proprio l’obiettivo di ripulire i concorsi. Resta il fatto che in un Paese normale di una norma del genere non ci sarebbe mai stato il bisogno. Lo ha detto anche Cantone, precisando di non averla «attaccata»: «Ho detto che è un paradosso che ci debba essere una legge che stabilisce un divieto che dovrebbe essere scontato».



L'università dei baroni: ecco come funziona - Il libro-inchiesta di davide carlucci e antonio castaldo

Iacopo Gori

http://www.corriere.it/cronache/09_febb ... aabc.shtml

MILANO – Sconcertante, devastante o umiliante? E’ difficile trovare gli aggettivi giusti per descrivere al meglio lo stato dell’università italiana dopo aver letto Un Paese di Baroni, il libro appena uscito di Davide Carlucci e Antonio Castaldo su «truffe, favori, abusi di potere. Logge segrete e criminalità organizzata. Come funziona l’università italiana» (editore Chiarelettere). Non un romanzo, purtroppo. Ma una lunga, dettagliata e approfondita inchiesta con nomi, cognomi, date, pochissime opinioni e tanti fatti.

Un’inchiesta che lascia senza fiato: perché se è vero che tutti sanno (o dicono di sapere) che è prassi comune e diffusa che per avere certe cattedre e varcare certe soglie occorra essere figlio di, amico di o sponsorizzato da, è altrettanto vero che leggere 309 pagine che raccontano di privilegi, concorsi truccati, reti di parentele intrecciate, infiltrazioni mafiose, gerarchie nazionali su chi comanda e dove, criteri gerontocratici di scelta, lobby bianche, rosse e nere, intrecci politici ed economici nella selezione dei docenti fa un effetto devastante. Non solo per i professori, ricercatori e dottori coinvolti nelle inchieste documentate nel libro ma per tutti quelli che pur a conoscenza di un «sistema tanto chiacchierato, e oggetto di generale indignazione fino ad oggi lo hanno accettato. L’importante era non fare i nomi» scrivono i due autori. Ora ci sono anche quelli, nero su bianco. Ma forse anche questo cambierà di poco la questione. Il sistema pare così tanto incancrenito da autoalimentarsi e sopravvivere da solo. Anche se delle crepe cominciano a intaccare il muro di gomma dell’università italiana.

Carlucci e Castaldo (tutti e due giornalisti; il primo a Repubblica, il secondo al Corriere della Sera) raccontano infatti, accanto all’università dei privilegi, anche quella di chi lavora seriamente tutti i giorni e per pochi soldi. E soprattutto riportano le storie e le testimonianze di chi si è ribellato contro i concorsi truccati, contro un «sistema fortissimo basato molto sull’obbedienza e poco sul merito». Citando i sempre più numerosi casi di intercettazioni fai da te di studenti, aspiranti ricercatori o docenti che si sono presentati nell’università dei baroni a colloquio con i prof muniti di registratori portatili per memorizzare «le regole del gioco». Negli ultimi anni proprio queste intercettazioni hanno portato a più di un’inchiesta contro prepotenze e abusi.

Alcuni in Italia si chiedono ancora perché nelle graduatorie sulle migliori università del mondo, i nostri atenei facciano sempre una pessima figura. Inutile chiederselo dopo aver letto questo libro. Peggio: frustrante. Paolo Bertinetti, preside della facoltà di lingue e letteratura a Torino afferma di «non aver mai conosciuto nessuno che sia diventato professore solo in base ai propri meriti». Stefano Podestà, ex ministro dell’Università nel 1996 ha dichiarato: «I rettori italiani? La metà di loro è iscritta alla massoneria». Mentre, dati alla mano, Carlucci e Castaldo scrivono che «i rettori hanno famiglia in 25 delle 59 università statali italiane. Quasi il 50% (il 42,3 per l’esattezza) ha nella medesima università un parente stretto, quasi sempre un altro docente». Più chiara ancora la ricostruzione di un dialogo tra docenti nella deposizione rilasciata all’autorità giudiziaria da Massimo Del Vecchio, professore di matematica a Bari – «Se non vengo io, tu non sarai nominato preside» – «Che cosa vuoi in cambio?» – «Due miei parenti falli entrare…». Carlo Sabba, uno dei professori che si è ribellato al sistema dei concorsi truccati, conclude amaramente: «Se non si spezza questa catena, i giovani saranno a immagine e somiglianza di chi li ha arruolati, e tutto rimarrà uguale».

Il libro-inchiesta di Carlucci e Castaldo vuole essere «un’istantanea sullo stato dell’università italiana e delle èlite che la governano, nel momento di più profonda decadenza della sua storia». Nel volume si ripercorrono le vicende che hanno portato intere dinastie familiari alla conquista di tutte le cattedre disponibili nelle città italiane «calpestando tante volte il merito e eludendo le regole democratiche; con intere bande di cattedratici che si sono spartite il territorio proprio come fa la mafia; raccontando il sistema dei baroni e la fitta trama di scambi tra potere politico e mondo universitario. Il tutto a detrimento di chi crede nelle università e nell’eccellenza dello studio con i centinaia di professori, ricercatori e lettori che nonostante i soprusi e le generali storture di un sistema che non funziona, resistono e lavorano».

I due hanno deciso di dedicare il loro lavoro ai «tanti <ribelli> che in questi ultimi anni hanno denunciato abusi, aperto blog e siti internet contro il malcostume accademico, scrivendo spesso con nomi e cognomi ai quotidiani nazionali e ai tantissimi professori e ricercatori onesti grazie ai quali l’Italia è ai primissimi posti di una speciale classifica di merito stilata dalla rivista Nature nel 2004 calcolata in base alla proporzione tra investimenti ricevuti e qualità delle pubblicazioni delle principali riviste di ricerca internazionale: nonostante i pochi soldi, i concorsi truccati, la corruzione e molto altro i ricercatori italiani ottengono risultati eccezionali. Incredibile ma vero».

Viene solo da chiedersi allora, visto che la degenerazione universitaria è direttamente proporzionale alla cattiva qualità della ricerca, che Paese saremmo se le terribili storture denunciate in questo libro sull' università non ci fossero. Visto che «da qualche decennio si assiste ad un’autentica degenerazione della logica del privilegio e per un po’chi voleva far carriera si è adeguato, chi non ha trovato spazio ha cercato un’occasione all’estero, altri hanno gettato la spugna e hanno ripiegato sulla professione privata, sull’insegnamento nelle scuole superiori, oppure sono caduti in depressione». Cosa sarebbe l’Italia se tutti quelli che sono andati via o non sono riusciti ad entrare e lo meritavano avessero potuto studiare e fare ricerca nelle università del nostro Paese?

L’inchiesta si fa viva. Viene descritto nei dettagli il “sistema mafioso” che vige all’interno di alcune università (caso limite a Messina, dove «le indagini hanno mostrato le infiltrazioni mafiose e della ‘ndrangheta» e «la cosca Morabito è penetrata profondamente all’interno della Facoltà di medicina e chirurgia» come scrive il pm Gratteri della dda di Reggio Calabria). Viene raccontato come agisce la massoneria in cattedra («A Bologna ci sono due lobby, massoneria e Cl. Controllano la sanità e la facoltà di Medicina. E’ sempre stato così. E’ uno spaccato inquietante» dice Libero Mancuso, ex magistrato, assessore comunale a Bologna). Viene spiegato il meccanismo della grande truffa dei concorsi («C’è l’assenza di qualsiasi trasparenza nello stabilire chi merita e chi no. Pilotare i concorsi è una pratica assolutamente sicura e quasi indolore. I docenti sanno di partecipare a un teatrino. Il nome di chi deve vincere si conosce in anticipo. Talvolta è davvero la migliore delle scelte possibili. Altre volte decisamente no. Ma la domanda è: se già si conosce il vincitore perché spendere tanti soldi per indire i concorsi?» scrivono Carlucci e Castaldo). Si scende poi nei dettagli della Parentopoli d’Italia (Tre esempi soli tra i tanti? «A Roma il rettore è Luigi Frati, ex preside di facoltà di Medicina dove c’era la moglie, ex professoressa di liceo diventata ordinario, il figlio, chiamato a insegnare sotto la presidenza del padre, e la figlia, laureata in giurisprudenza…A Napoli nelle facoltà di Economia e Commercio della Federico II sono state rintracciate 140 parentele accademiche su un totale di 877 docenti...A Bari a Economia imperversano famiglie come i Massari: otto i docenti con questo cognome, tutti imparentati tra loro»). Si spiegano i meccanismi delle commistioni dei poteri trasversali, poteri politici e interessi economici che determinano assunzioni e vincitori di concorsi. Tutto sempre più spesso inter nos.

Basta leggere cosa dice il Cnvsu, il Comitato di valutazione universitaria: il 90,2% dei docenti vincitori di concorso dal 1999 al 2007 provenivano dallo stesso ateneo che aveva messo a bando la cattedra. Con l’autonomia universitaria del 1999 poi (finanziaria e contabile) si sono moltiplicati i docenti e i corsi di laurea più bizzarri. Gli insegnamenti sono raddoppiati: da 85mila a 171mila. Con una proliferazione che non ha eguali nel mondo: in Italia esistono 24 facoltà di Agraria, in California tre, in Olanda solo una.
Forse è anche per tutto questo che secondo i dati Ocse del settembre 2008 solo il 17% della popolazione italiana tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea (contro la media dei paesi Ocse del 33%) e solo il 45% degli iscritti arriva alla laurea, meno del Cile e del Messico e sotto la media Ocse del 69%? «Continuiamo così – direbbe il Nanni Moretti dell’ormai storica battuta del film “Bianca” – facciamoci del male».



Classifica delle Università: le migliori al Nord, le peggiori al Sud
02/01/2017 - 13:46

http://www.lasicilia.it/news/enna/52714 ... l-sud.html

Le migliori università italiane continuano a trovarsi al Nord, le peggiori nel Mezzogiorno. Così almeno dice il Sole 24 Ore nella nuova edizione dei suoi ranking universitari.
Il ranking pubblicato dal Sole24Ore:
Catania è al 54° posto, Palermo al 55°. Tra le non statali la peggiore è la Kore di Enna

Una classifica - spiega il quotidiano economico milanese - che tiene conto di dodici indicatori che misurano i risultati della didattica e della ricerca. Ai primi sei posti nella classifica delle universita statali ci sono Verona, Trento, Bologna, il Politecnico di Milano e l'Università di Padova.

In coda Catania, cinquantaquattresima, che però sale di due posizioni rispetto al 2015; Palermo (55^); la Seconda Università di Napoli (56); la Federico II (57); Bari (58); Cagliari (59); l'Università della Calabria (60); e la Parthenope di Napoli (61). Da segnalare anche alcune eccezioni meridionali: Salerno consolida il suo status di "eccezione territoriale", e scala dieci posizioni, passando dalla 26esima posizione del 2015 alla sedicesima; crescono anche Foggia, che sale di cinque posizioni, Messina, Campobasso e Lecce, tutte con un guadagno di quattro posti rispetto all’anno scorso, e il Politecnico di Bari, che di scalini ne sale tre.

Tra le università non statali, la Luiss "Guido Carli" di Roma al primo posto supera la Bocconi Milano (che perde dunque una posizione e scende al secondo posto). La classifica è chiusa dalla Kore di Enna.

http://www.lagazzettapalermitana.it/cla ... italia-305
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 12:59 pm

Pensioni di invalidità e imboscati


Invalidità, costi record Al Sud 7 improduttivi mantenuti da 3 artigiani
Studio Confartigianato: c'è eccesso di welfare Assegni ai disabili cresciuti del 52% dal 2006
Antonio Signorini - Dom, 13/11/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 30894.html

Pochi produttori, tanta «popolazione improduttiva». Troppe pensioni di invalidità civile in rapporto a chi lavora, magari facendo l'imprenditore, quindi creando quella ricchezza che serve a finanziare lo stato sociale e le prestazioni assistenziali.

Pensioni di invalidità comprese. Uno studio di Confartigianato ha fatto il punto sul peso della società composta da segmenti di popolazione al di «fuori dei circuiti di creazione di valore». Il risultato è che l'Italia è spaccata in due.

Nel Mezzogiorno il peso degli occupati privati in rapporto alla popolazione improduttiva e al lavoro pubblico è del 32%. In sostanza, due terzi della popolazione vive sulla ricchezza prodotta dagli altri. Nel Centro Nord il rapporto si inverte e il rapporto è del 69%.

Non è solo un problema legato al tessuto produttivo del Sud. Il centro studi di Confartigianato, basandosi su dati Inps e Istat, evidenzia «un eccessivo peso dell'assistenzialismo, con disincentivi all'offerta di lavoro che inibiscono i processi di creazione di valore aggiunto». In sostanza è proprio un eccesso di welfare a scoraggiare gli italiani a lavorare.

L'indicatore utilizzato dalla confederazione, è il rapporto gli invalidità e gli artigiani. Nel Sud ci sono 1.158.200 assistiti. Quasi il doppio dei «produttori artigiani». Anche in questo caso il rapporto si riduce drasticamente nel Centro-Nord, con un rapporto di due a uno, a favore degli artigiani.

Lo studio di Confartigianato entra nel dettaglio e fa la classifica per regioni. Quella dove lo squilibrio tra artigiani e invalidi è più alto è la Campania, con un rapporto che è quasi uno a tre. La più bassa è Bolzano, dove il rapporto è invertito: per ogni pensionato ci sono quattro artigiani. La media italiana è uno a uno.

Le differenze tra Nord e Sud sono un indice di come le invalidità siano ancora un anomalia. Nonostante i giri di vite e i controlli, la spesa per le pensioni di invalidità negli ultimi dieci anni è aumentata del 51,6%. Nel Sud si spendono 2,5 miliardi in più, quasi il 60% in più rispetto a 10 anni fa. Ma la spesa è aumentata anche a Nord: 2,7 miliardi, pari al 46,5% in più. La crescita regionale più forte è stato il Lazio con un aumento dell'86,1%.

Oltre al Lazio c'è un'altra anomalia territoriale, cioè l'Umbria. Nella classifica dell'incidenza della spesa pensionistica per abitante, nei primi due posti c'è la Calabria con 386 euro per abitante, seguita da Sardegna con 369 euro e subito dopo il «Cuore verde» d'Italia con 347 euro.

Che sulle prestazioni sociali ci siano ancora grossi problemi lo ha segnalato recentemente anche l'Istat. In una audizione parlamentare i vertici dell'istituto guidato da Tito Boeri hanno sottolineato come ci siano troppo spesso situazioni in cui lo stesso beneficiario gode di più prestazioni. Sussidi doppi e multipli. Per gli artigiani e i lavoratori lo stipendio resta unico.


Istat: il Sud ha il doppio delle pensioni di invalidità rispetto al Nord. Per i nuovi pensionati redditi più bassi
15/12/2016

http://www.huffingtonpost.it/2016/12/15 ... 46194.html

La percentuale delle pensioni di invalidità al Sud è doppia rispetto a quella del Nord: lo rileva l'Istat nell'indagine sulle condizioni di vita dei pensionati nel 2015. "Le pensioni di vecchiaia - spiega l'Istituto nazionale di Statistica - rappresentano il 59% del totale delle pensioni erogate al Nord e solo il 40,3% di quelle del Sud. Per le pensioni di invalidità totali l'incidenza al Mezzogiorno è invece circa il doppio di quella rilevata nelle regioni del Nord: 8,3% contro 3,8% per le pensioni di invalidità ordinaria; 20,3% contro 10,7% per quelle di invalidità civile.

Chi è appena diventato pensionato può contare su assegni meno pesanti rispetto a chi lo è stato o a chi lo è gia. Nel 2015 "i redditi dei nuovi pensionati sono mediamente inferiori a quelli dei cessati (15.197 euro contro 16.015 euro) e a quelli dei pensionati sopravviventi (17.411 euro), percettori cioè - spiega l'Istituto - di trattamenti sia nel 2014 sia nel 2015, che nel corso del pensionamento possono aver cumulato ulteriori pensioni (spesso di reversibilità) rispetto a quella con cui sono entrati nello stato di pensionamento".

Nel 2014 il rischio di povertà tra le famiglie con pensionati è risultato più basso che nelle altre famiglie (stima pari al 16,5% contro il 22,5%). In molti casi il reddito pensionistico sembra dunque proteggere da situazioni di forte disagio economico. Il rischio è invece molto elevato tra i pensionati che vivono soli (23,4%) o insieme con ii figli come monogenitore (16,3%) e ancor più nelle famiglie in cui il reddito del pensionato sostenta altri componenti adulti senza redditi da lavoro (29,7%).

In molte famiglie la pensione fa da scudo contro la povertà. "Nel 2014 il rischio di povertà tra le famiglie con pensionati è più basso che nelle altre famiglie (stima pari al 16,5% contro il 22,5%). In molti casi il reddito pensionistico sembra dunque proteggere da situazioni di forte disagio economico", spiega l'Istat, confermando come l'assegno pensionistico faccia spesso da 'scudo'. E questo nonostante nelle famiglie con pensionati si stimi, in media, un reddito netto inferiore di circa 2 mila euro rispetto a quello delle case senza pensionati.



L’ITALIA È UNA REPUBBLICA FONDATA SUGLI IMBOSCATI. SOPRATTUTTO AL SUD
Di Leonardo , il 9 gennaio 2017
di ARTURO DOILO

https://www.rischiocalcolato.it/blogosf ... 26294.html

Avete letto l’articolo di Guglielmo Piombini di oggi? Fatelo, poi capirete le ragioni per cui l’Italia sta nelle condizioni in cui sta. Leggendo quanto riportato di seguito, riportato dal quotidiano “la Repubblica”, capirete anche perché Piombini conclude ricordando che qualcuno dovrà pagare, prima o poi, per il disastro economico italiano.

L’Italia è una Repubblica fondata sugli imboscati. A Palermo 270 netturbini hanno potuto esibire un certificato medico che vieta loro di spazzare le strade; quando in Calabria oltre la metà del personale sanitario riesce a farsi trasferire dietro una scrivania e il 50 per cento dei dipendenti della protezione civile lavora al centralino; quando a Como gli operai assunti dal Comune diventano di colpo impiegati; quando a Pescara 50 infermieri e operatori socio-sanitari svolgono mansioni solo amministrative; quando a Firenze il 40 per cento dei vigili urbani passa più tempo in ufficio che in strada?

E’ la storia di chi, soprattutto nel settore pubblico, riesce senza fondate motivazioni a evitare, per “inidoneità parziale” o per abuso della legge 104, il lavoro per il quale è stato assunto. “Ma qui stiamo parlando dell’abuso che si fa di questi diritti – scrive Marco Ruffolo su la Repubblica – grazie a migliaia di sconsiderate autorizzazioni rilasciate dalle commissioni mediche. Beh, diritti si fa per dire, visto che il loro vero nome è privilegi! Così, il contribuente fa la figura del “cornuto e mazziato”: si creano vuoti preoccupanti nei lavori più richiesti (dagli infermieri ai vigili urbani) caricando un peso sempre più insostenibile sulle spalle di altri.

Per tutto il resto della casistica (sicuramente limitata), vi la sciamo alla lettura dell’articolo originale .

I ruoli vietati. Che il 12% dei dipendenti della sanità pubblica, circa 80 mila persone, per lo più donne – è riuscito a farsi riconoscere una serie di limitazioni alla propria idoneità lavorativa, con punte del 24% tra gli operatori socio-sanitari, seguiti dal 15% degli infermieri. La metà di quegli 80 mila – dice una ricerca a campione targata Cergas-Bocconi – ha diritto a non sollevare i pazienti e a non trasportare carichi troppo pesanti (un lavoro burocraticamente chiamato “movimentazione di carichi e pazienti”). Un altro 13 per cento non può lavorare in piedi, il 12 non lo può fare di notte. Il resto viene esentato da una lunghissima serie di operazioni: essere esposti a videoterminali, a rischi biologici, chimici e allergie, stare a contatto con i pazienti, fare lavori che producono stress, operare in taluni reparti, e così via. Certo, lavorare in una corsia di ospedale può sicuramente creare problemi anche gravi, e tuttavia è difficile considerare normali percentuali di lavoratori “inidonei” che toccano e superano in qualche caso il 25 per cento. Anche perché in settori privati ugualmente pericolosi (se non di più) non c’è la stessa possibilità di vedersi alleggerire il proprio carico di lavoro.

I record del Sud. E’ soprattutto al Sud che l’esercito degli “inidonei” si infittisce in misura anomala. Nell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, su 1.178 dipendenti, 652 (oltre la metà) lavorano a regime ridotto. Ottanta psicologi della sanità regionale – come più volte denunciato dal commissario straordinario Massimo Scura, invece di aiutare i pazienti, sono finiti negli uffici amministrativi. Tutto in Calabria sembra funzionare al contrario: più di cento medici lavorano nel reparto prevenzione, dove ne servirebbero meno della metà, e rimangono invece scoperti screening oncologici e assistenza domiciliare. Ma gli imboscati non sono solo nella sanità. Un terzo dei vigili urbani di Napoli ottenne tempo fa certificati medici che consentivano loro di evitare la strada. Qualcuno non poteva guidare l’auto di servizio, qualcun altro neppure rispondere al telefono o stare più di pochi minuti al computer.

I veri e finti disabili. A Palermo sono tuttora circa 400 gli “inidonei temporanei”, tra autisti che non possono guidare, netturbini che non possono spazzare le strade, giardinieri che diventano improvvisamente portieri A Milano 4 dei 5 ispettori della società comunale Sogemi, che avrebbero dovuto controllare l’Ortomercato fra le tre di notte e le otto del mattino, hanno rapidamente ottenuto l’inidoneità al lavoro notturno. Fin qui alcuni degli innumerevoli casi di “imboscamento” per inidoneità. Ma c’è un altro strumento (di per sé sacrosanto) di cui si è fatto e si sta facendo un abuso che supera i livelli di guardia. Ed è la legge 104, una grande legge di civiltà, perché offre una serie di benefici ai lavoratori disabili gravi, o ai genitori, coniugi, parenti e affini entro il terzo grado di familiari disabili gravi. Oltre ai tre giorni di permessi retribuiti al mese per l’assistenza, la legge dà loro il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, di rifiutare eventuali trasferimenti, eventuali lavori notturni e in alcuni casi anche lavori domenicali e festivi. Per le stesse categorie scatta anche il congedo straordinario retribuito di due anni. Tutto molto giusto, se non fosse che anche in questo caso c’è chi se ne approfitta. Sono i “furbetti della 104”, che accertamenti medici quanto meno superficiali hanno inserito e continuano a inserire tra i disabili gravi meritevoli di assistenza.

I congedi e benefici. Prima anomalia: negli ultimi cinque anni – dice l’Inps – gli accessi alla legge, per la propria disabilità e per quella dei familiari, sono cresciuti rispettivamente del 22,5 e del 34 per cento. Seconda anomalia: Nel pubblico impiego – ancora dati Inps – i beneficiari della 104 e dei congedi straordinari sono 440 mila, ossia il 13,5 per cento di tutti i dipendenti, mentre nel settore privato sono appena il 3,3 per cento. Certo, in qualche misura può pesare il fatto che un dipendente privato, per timore di perdere il posto, sia meno propenso a chiedere quei permessi. Ma questo non basta a spiegare una differenza così macroscopica.

Quando un anno fa si scoprì che nella scuola Santi Bivona di Menfi, un paese dell’agrigentino, addirittura il 41% dei docenti (settanta su centosettanta) usufruiva della legge 104, il ministero dell’istruzione fece partire un’inchiesta in tutta Italia. Risultati anche qui inquietanti, e questa volta a toccare i record negativi troviamo insieme al Mezzogiorno anche il Centro Italia. Così, mentre la Sardegna è in testa per docenti di ruolo disabili gravi o parenti di disabili (il 18,3 per cento), all’Umbria va il primato del personale non docente che beneficia della legge: il 26,3 per cento. Si posiziona bene anche il Lazio, con il 16 e con il 24,8 per cento. In Veneto, Piemonte e Toscana, al contrario, troviamo il minor numero di beneficiari.

Le maglie della 104. Centro-Sud e Isole riescono dunque ad allargare a dismisura le maglie della 104, riuscendo per esempio a inserire tra i disabili gravi i figli celiaci, oppure le nonne residenti a centinaia di chilometri di distanza. C’è chi riesce addirittura a ottenere più di una 104. Se questo è il quadro generale, non è difficile capire perché soprattutto al Sud interi servizi pubblici essenziali restano solo sulla carta mentre quelli meno necessari traboccano di personale per lo più inutile. E perché gli stessi ispettori che dovrebbero verificare sul campo tutti questi abusi non di rado finiscono essi stessi tra le file degli imboscati.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 2:10 pm

La maggior parte dei dipendenti pubblici è meridionale e da origine a disservizi, inefficenze e sopraffazione etnico-politica


Distribuzione dei dipendenti pubblici italiani per comparto e per regione geografica – anni 2010 e 2011
Inserito il 8 maggio 2013

http://www.eticapa.it/eticapa/distribuz ... geografica
http://www.eticapa.it/eticapa/ragioneri ... la-pa-2015
I dati qui presentati in un ”trittico” di fogli excel traggono spunto e sintetizzano una ricerca effettuata dal Servizio bilanci del Senato sulla consistenza dei dipendenti pubblici articolata nella doppia griglia dei comparti e della collocazione territoriale. I dati, che sono presentati anche sulla cartina geografica di cui al file pdf dal nome ”Mappa geografica e numero dei dipendenti pubblici in Italia”, mostrano alcune significative evidenze: 1) innanzittutto il rapporto dipendenti pubblici /popolazione in piena media OCSE; 2) inoltre la tabella sfata il mito di un’Amministrazione pubblica in mano alle ”mezze maniche ministeriali”: in effetti sui circa 3,2 milioni di addetti, il grosso è inserito nella Scuola (1 ml di addetti circa), nella Sanità (650.000 addetti circa), nelle Autonomie locali (600.000 addetti circa), nei Corpi di Polizia e Forze armate (500.000 addetti). Rimangono circa 300.000 addetti ”burocrati” di Amministrazioni statali e di enti pubblici non economici nazionali, i quali spesso e in modo sommario vengono identificati con un ”tutto” che è molto più consistente e variegato. Le leggi che regolano il pubblico impiego tengono conto di questa realtà?

TOTALE PER REGIONE su tot. Italia 3.240.828

I dati del numero dei dipendenti è relativo al 2010 mentre quello degli abitanti al 2015


Valle d'Aosta 11.669 su 127.329
Piemonte 222.977 su 4.404.246
Liguria 99.915 su 1.571.053
Lombardia 409.346 su 10.008.349
Veneto 227.604 su 4.915.123
Trentino Alto Adige 73.897 su 1.059.114
Friuli 83.369 su 1.221.218
Emilia Romagna 227.137 su 4.448.146
Marche 83.077 su 1.543.752
Toscana 209.730 su 3.744.398
Umbria 49.594 su 891.181
Lazio 392.186 su 5.888.472
Abruzzo 71.872 su 1.326.513
Molise 19.916 su 312.027
Campania 303.211 su 5.850.850
Puglia 213.596 su 4.077.166
Basilicata 32.602 su 573.694
Calabria 118.900 su 1.970.521
Sicilia 277.003 su 5.074.261
Sardegna 105.257 su 1.658.138
Estero 7.970

Ma il totale dei dipendenti di origine meridionale rispetto a quelli di origine settentrionale è molto maggiore:

per esempio 3/4 dei prefetti sono meridionali
Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... nienza.jpg


nell'ambito dell'esercito il numero è quasi tra 3/5 e 3/4

nella scuola siamo oltre il 55/60%


Oltre tremila prof assegnati al Veneto tornati a casa malati o in permesso
Alice D’Este
Non solo il caso di Padova. Nelle scuole girandole di supplenze. A Mestre una classe ha avuto sette maestre in tre mesi
2017/12-gennaio

http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... 7264.shtml


VENEZIA Per chiarire il fenomeno basterebbero anche solo «i numeri». Ben più di tremila docenti tra quelli che erano stati assegnati per quest’anno al Veneto da altre zone d’Italia hanno poi «fatto le valigie» per rientrare nelle regioni di provenienza. In alcuni casi in modo definitivo, in altri con assegnazioni provvisorie, o richieste temporanee legate a permessi per malattia, legge 104 (familiare con disabilità), avvicinamento per figli piccoli. Risultato? Il Veneto è rimasto a corto di insegnanti a scuola iniziata e ha dovuto coprire i buchi con le supplenze. Questi però sono solo i dati. La situazione, complessa ben oltre il limite, esasperante per studenti, famiglie e scuole, diventa più chiara se si scelgono alcuni esempi, toccando con mano sul territorio cos’ha comportato questa contro-migrazione. Rachele Scandella è preside in diverse scuole del veneziano. «Alle Giulio Cesare (elementare di Mestre ndr) per una situazione di questo tipo sono stata costretta a nominare sette diverse supplenti in tre mesi per lo stesso posto – dice – l’insegnante ha preso diversi periodi di malattia. Poi rientrava per pochi giorni. Ad ogni rientro io dovevo licenziare la supplente in carica salvo poi doverne cercare un’altra quando l’insegnante titolare tornava in malattia». Questo è il caso limite che ha costretto 25 bambini, nell’età in cui si imparano i fondamenti di tutte le discipline, hanno cambiato sette insegnanti in tre mesi. Ma alla Giulio Cesare è successo con quasi tutti i docenti che erano stati trasferiti nella scuola da altre regioni. E’ andata meglio ai loro compagni, che hanno cambiato «solo» tre supplenti o quattro. Ma su dodici maestre «in arrivo» alla fine dei giochi ne sono rimaste a Mestre solo due. Stessa situazione anche all’alberghiero Musatti di Dolo: lì su 11 docenti arrivati solo 2 sono rimasti, gli altri hanno chiesto assegnazioni provvisorie altrove o sono rimasti a casa in malattia. «Un insegnante è a casa già dal primo settembre – dice Scandella – io non voglio discutere delle loro ragioni personali se si muovono entro i limiti di legge ma penso che dovrebbe esserci chiarezza almeno nella comunicazione con i presidi. E invece no. Tutti questi docenti continuano a ripeterci che “torneranno”. Poi, 24 ore dopo arriva il certificato di malattia». Secondo i dati diffusi dal dossier di «Tuttoscuola » in Italia sono stati 207 mila i docenti trasferiti nel 2016. Di questi 72 mila sono stati assegnati ad ambiti territoriali. Il 74% di loro proviene dal sud. Tuttoscuola stima che il 40- 45% di loro, 55-60 mila insegnanti in tutta Italia, abbia lasciato le cattedre al centro nord per tornare a casa. Creando così la necessità di nuove supplenze. E infatti i conti del Veneto per le supplenze richieste dopo l’inizio dell’anno (e dunque provenienti al 99% da posti liberati) parlano di ben 4769 supplenze per il 2016 (di cui 2782 normali, 1987 per sostegno) e quindi gli «abbandoni» potrebbero anche essere di più. «Come funziona nella pratica? Semplice – dice Gianni Zen preside del Brocchi di Bassano – chiedono aspettativa. Tu cerchi un supplente. Poi loro tornano in servizio 3 giorni magari quando la scuola è chiusa. A me è successo in due casi con due docenti provenienti da altre regioni durante le vacanze di Natale. L’ho trovato irrispettoso e quindi ho chiesto loro di presentarsi a scuola in quei giorni. Di tutta risposta mi è arrivata una diffida del sindacato con la minaccia di percorrere le vie legali. Io non amo i conflitti ma il problema riguarda i ragazzi. Come possono imparare in una situazione così?». «Io sono stato fortunato, da me su 19 sono rimasti in 7 - scherza Ilario Ierace, preside dell’alberghiero Cornaro di Jesolo – il problema è semplice: non c’era corrispondenza tra i posti, che erano in prevalenza al Nord e gli insegnanti, che erano in prevalenza al Sud. Le persone per avere un posto fisso hanno accettato, poi chi ha potuto è tornato indietro. Così noi ci siamo trovati a gestire cattedre vuote ad ottobre». «L’errore a monte è stato estendere a tutta Italia le assunzioni – dice Giovanni Giordano dello Snals di Venezia – se c’è la possibilità di scegliere se rimanere a mille chilometri di distanza o di tornare a casa chiunque farebbe la stessa cosa ». Una situazione insostenibile questa, che potrebbe perfino aggravarsi con l’ipotesi, discussa in questi giorni della Ministra dell’istruzione Valeria Fedeli, della cancellazione dell’obbligo di rimanere 3 anni nella stessa regione dopo l’assunzione. «Togliere il vincolo è giusto – dice invece Sandra Biolo, neoeletta segretaria regionale scuola Cisl – questa normativa nasce per chi ha veramente bisogno di avvicinarsi a casa. A monte andrebbero cambiate le norme sulle assunzioni, impedendo situazioni di questo tipo che colpiscono solo gli alunni».


E la Corte Costituzionale è rigorosamente made in Sud
Il Mezzogiorno non sarà forte a Pil ma recupera con l'occupazione degli incarichi pubblici prestigiosi: su quindici magistrati della suprema Corte, tredici sono meridionali. A confermare che il Nord non esiste né tra le toghe né nelle istituzioni
di Albertino
http://www.lintraprendente.it/2014/01/e ... nda-il-sud

Ammettiamo un piccolo errore: pochi giorni fa, parlando del Tar piemontese che ha affossato la giunta Cota, c’eravamo permessi di scrivere che l’Italia è in mano ai giudici. Con una serie di articoli (qui e qui) abbiamo sostenuto che le toghe fanno il bello e il cattivo tempo, compresi il calcio e la sperimentazione medica. Il nostro errore è stato quello di non raccontarla tutta, e cogliamo l’occasione per notare un’evidenza che i grandi giornali non hanno pubblicizzato. Non solo siamo in mano ai magistrati, ma soprattutto siamo in mano ai meridionali. È made in Sud la stragrande maggioranza dei giudici e dei rappresentanti delle istituzioni in genere. Non facciamo commenti, solo cronaca.

È quantomeno curioso che – tanto per fare un esempio evidente – sui 15 giudici della Corte Costituzionale non ci sia un solo veneto a fronte di cinque campani, due siciliani più il finto piemontese Amato, tre romani più un altro collega nato a Viterbo. I lombardi sono due. L’Emilia Romagna non c’è. Il Friuli Venezia Giulia, idem. Trentino, valle d’Aosta e Liguria manco a parlarne. Ricordiamo che la Suprema Corte ha recentemente affossato il Porcellum ed è composta da 15 membri. Un terzo scelti dal presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano, nato a Napoli). Un terzo dal parlamento. Un terzo dalla magistratura. Il bresciano Giuseppe Frigo è stato individuato dagli onorevoli su proposta del PdL. L’altra lombarda, Marta Cartabia, ha invece avuto il via libera dal Colle che poi s’è subito rifatto scegliendo Giuliano Amato, nato a Torino ma di famiglia siciliana.

Significa che la magistratura ha scelto solo uomini del Sud, e il Parlamento ha fatto praticamente la stessa cosa. Dal Quirinale ne hanno individuati tre meridionali più Amato e la dottoressa Cartabia. Insomma. Il Mezzogiorno sarà agli ultimi posti per Pil e altri indicatori economici e sociali, ma quando si tratta di occupare prestigiosi incarichi pubblici non ha rivali. Tanto per fare un altro esempio, è sconcertante passare in rassegna l’elenco dei prefetti. Il segretario provinciale della Lega Nord bergamasca, Daniele Belotti, s’è preso la briga di spulciare i dati di chi ha occupato l’ufficio territoriale del governo nella città orobica. Dagli anni ’70 a oggi, c’è stato solo un bergamasco. Il resto è un monocolore meridionale con dominio di romani, campani e siciliani. Una situazione comune a quasi tutte le altre città del Nord.

Tornando alla Corte Costituzionale, vi elenchiamo per bene la formazione. Il presidente è Gaetano Silvestri. Nato a Patti, Messina, il 7 giugno 1944. Il suo vice è Luigi Mazzella. Nato a Salerno il 26 maggio 1932. Gli altri giudici costituzionali sono tredici. Sabino Cassese nato a Atripalda (Avellino) il 20 ottobre 1935, Giuseppe Tesauro nato a Napoli il 15 novembre 1942, Paolo Maria Napolitano nato a Roma il 3 ottobre 1944, Alessandro Criscuolo nato a Napoli il 15 luglio 1937, Paolo Grossi nato a Firenze il 29 gennaio 1933, Giorgio Lattanzi nato a Roma il 26 gennaio 1939, Aldo Carosi nato a Viterbo il 30 giugno 1951, Sergio Mattarella nato a Palermo il 23 luglio 1941. Mario Rosario Morelli nato a Roma il 15 maggio 1941. Giancarlo Coraggio nato a Napoli il 16 dicembre 1940. Giuliano Amato nato a Torino il 13 maggio 1938. Dulcis in fundo, nella riserva indiana, ecco i sopravvissuti. Marta Cartabia nata a San Giorgio su Legnano, Milano, il 14 maggio 1963 e Giuseppe Frigo nato a Brescia il 30 marzo 1935.

Eppure anche al Nord ci sono università eccellenti. Anche al Nord esistono fior di professionisti. Anche al Nord c’è gente preparata. Sopra il Po si crea ricchezza. E Roma campa grazie ai quattrini versati dai lombardi e dai veneti. Insomma, è chiaro chi sono quelli che lavorano e pagano. È chiarissimo chi sono quelli che comandano.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 2:22 pm

Abusivismo edilizio - Fino a 60 edifici su 100 in alcune regioni del Sud.


https://it.wikipedia.org/wiki/Abusivismo_edilizio
L'abusivismo edilizio è un fenomeno di diffusa perpetrazione del reato di abuso edilizio tale da assumere una particolare e incisiva rilevanza sociale e politica.

Istat: Italia patria dell'abusivismo, al Sud illegali quasi 60 fabbricati su 100
2015-12-02
http://www.ediliziaeterritorio.ilsole24 ... d=ACk5wclB

I dati dell'Istituto nazionale di statistica dicono che il fenomeno dei cantieri senza autorizzazione raggiunge «dimensioni senza riscontro nelle altre economie avanzate» gareggiando con «la produzione edilizia legale»

Fino a 60 edifici su 100 in alcune regioni del Sud. È la dimensione del fenomeno dell'abusivismo edilizio che in Italia raggiunge «dimensioni che non hanno riscontro nelle altre economie avanzate» e che in alcune aree del paese «gareggiano con quelle della produzione edilizia legale». A parlare è l'Istat, che dedica un intero capitolo all'analisi dell'impatto dell'abusivismo sul paesaggio, nella terza edizione del «Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes 2015)» , presentato ieri.

La crisi delle costruzioni non ha in alcun modo fermato lo sviluppo dell'edilizia illegale. Anzi, ne ha accresciuto il peso. Considerando la media nazionale, l'Istat segnala che «nel 2014, in un contesto fortemente recessivo per il comparto dell'edilizia residenziale, il numero delle nuove costruzioni abusive è salito, rispetto all'anno precedente, da 15,2 a 17,6 ogni 100 autorizzate». Dunque quasi un fabbricato su cinque viene costruito senza rispettare le norme urbanistiche.

L'effetto della crisi
Questa tendenza, spiega l'Istat, non è spiegabile semplicemente con una recrudescenza del fenomeno, ma va addebitata al diverso impatto della crisi economica sulla componente legale e su quella illegale della produzione edilizia. «A partire dal 2008 - si legge nel rapporto - entrambe sono state costantemente in calo, ma il flusso annuo della produzione legale si è ridotto di oltre il 60%, mentre quello della produzione illegale di meno del 30%». per gli esperti dell'istituto nazionale di statistica «una dinamica di questo tipo qualifica il fenomeno come forma pura e semplice di evasione fiscale, sgombrando il campo da qualsiasi alibi sociologico (il cosiddetto "abusivismo di necessità"). La crisi, insomma, incentivando il sommerso, sostiene una domanda illegale altrimenti avviata al declino, che rappresenta non soltanto una minaccia per l'ambiente e il paesaggio, ma un importante fattore di degrado civile».

Il boom al Sud
L'aggiramento delle regole urbanistiche, sostanzialmente un altra faccia del sommerso, raggiunge l'apice al Sud. Tanto che l'Istat si spinge fino a denunciare «una deriva pericolosa verso situazioni di sostanziale irrilevanza della pianificazione urbanistica». «In Molise,
Campania, Calabria e Sicilia nel triennio 2012-2014 il numero degli edifici costruiti
illegalmente è stimato in proporzioni variabili fra il 45 e il 60% di quelli autorizzati», si legge nel rapporto.

Ma anche nelle altre regioni il fenomeno dei cantieri illegali raggiunge livelli «preoccupanti». Nello stesso periodo, i valori medi dell'indice di abusivismo sono raddoppiati rispetto al triennio precedente in Umbria e nelle Marche (dal 9 al 17,6% e dal 5,1 al 10,6%, rispettivamente), e incrementi significativi si registrano anche in Toscana (dal 7,9
all'11,5%), Lazio (dal 9,7 al 15,1%) e Liguria (dal 12,4 al 15,6%).

Cantieri in aree inedificabili
Si continua a costruire anche anche nelle aree soggette fin dal 1985 a vincolo di
inedificabilità per la salvaguardia del paesaggio e soprattutto nelle fasce costiere. In queste aree, tra il 2001 e il 2011 sono stati realizzati quasi 18mila nuovi edifici (con un aumento del 4,3% degli edifici abusivi già esistenti e aumenti particolarmente consistenti
in Calabria (+7,1%), Sicilia e Marche (entrambe intorno al 5%).

Realacci: facilitare le demolizioni
Estremamente preoccupanti i dati diffusi oggi dall'Istat sull'abusivismo edilizio, in particolare al Sud, dove ogni 100 costruzioni autorizzate ce ne sono più di 40 abusive». Lo ha dichiarato in una nota, commentando i dati diffusi dall'Istat sul tema.
«Oltre ad essere una piaga che fa scempio del nostro territorio, l'abusivismo - ha detto Ermete Realacci (Pd), presidente della commissione Ambiente della Camera- significa anche minore sicurezza per i cittadini ed economia in nero. Come se non bastasse l'abusivismo edilizio si incrocia con il ciclo del cemento illegale e con la malavita organizzata.. Le demolizioni sono la più efficace forma di prevenzione del fenomeno. Da tempo in parlamento giace una mia proposta di legge, l'Atto Camera n.71, per facilitare l'abbattimento degli abusi edilizi evitando lungaggini e trucchi».

Freyrie: serve una politica di rigenerazione
«Gli architetti italiani - dice il presidente del Consiglio nazionale degli architetti Leopoldo Freyrie - chiedono al Presidente Renzi di mettere in atto con urgenza e con la stessa capacità decisionale che in questi due anni ha contraddistinto l'attività del Governo -misure concrete per realizzare una seria politica di rigenerazione urbana sostenibile. La strada da percorrere è quella di riscrivere il testo unico dell'edilizia, che ci tolga dal 112° posto delle classifiche mondiali sull'ottenimento dei permessi, in modo da debellare l'ottusa burocrazia e promuovere, invece, investimenti sulla qualità dei progetti». «L'abusivismo - conclude Freyrie - si batte rendendo possibile ai cittadini onesti di avere case migliori in città più belle, senza dover aspettare anni per ottenere un permesso; si batte anche punendo i disonesti, abbattendogli abusi, allontanando dalla Pa i controllori che non controllano».

Rallenta lo sprawl urbano
Sull'altro piatto della bilancia l'Istat mette invece il rallentamento dello sprawl urbano, cioè l'avanzata disordinata dei sobborghi cittadini a bassa densità in aree prima inedificate. Il Veneto si conferma la regione più colpita dal fenomeno (56,9%), seguita dal Lazio (53,6%) e poi da Puglia, Liguria e Campania (fra 30 e 33%). I valori più bassi (meno del 10%) si rilevano, invece, in Umbria, Friuli-Venezia Giulia, Molise e Sardegna, e valori nulli (come già nel 2001) in Valle d'Aosta e nelle province di Trento e Bolzano (la media Italia, ricordiamo, è del 22,2%). Rispetto al 2001, la situazione peggiora soprattutto in Puglia (dove l'incidenza delle unità affette dallo sprawl passa dal 16,1 al 33,1%) e nel Lazio (dal 45,4 al 53,6%).
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 2:31 pm

Caporalato

Caporalato italiano
viewtopic.php?f=94&t=1837

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... RrUm8/edit
Immagine



Il caporalato e l’agromafia, un’economia illegale da 17 miliardi di euro
Il rapporto della Flai Cgil indaga il fenomeno dello sfruttamento nelle banlieue agricole italiane. Un mondo di illegalità e violenze imposte ai braccianti nelle campagne delle Puglia fino al Piemonte. La testimonianza di un caporale riluttante che ha svelato i meccanismi, business e gerarchie di boss italiani e soci stranieri
di Michele Sasso
13 maggio 2016

http://espresso.repubblica.it/attualita ... o-1.265135

Rosarno
Lavorano dodici ore al giorno sotto il sole. Fino a morire di fatica. Accampati in tendopoli o stipati in ghetti fatiscenti. Ai margini dei campi dove vengono prodotte le primizie made in Italy. Senza regole, senza leggi. Dove l’unica parola che conta è quella del caporale. Una pratica che mette in moto due business: le agromafie e la gestione del mercato della braccia, che insieme muovono un’economia illegale e sommersa con un volume d’affari tra i 14 e i 17 miliardi di euro.

È quanto emerge dal terzo rapporto “Agromafie e caporalato” realizzato dall’osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil , ricostruendo un quadro approfondito sulla condizione di braccianti e raccoglitori, delle variegate forme di illegalità e infiltrazione mafiosa nell’intera filiera.

Yvan Sagnet: "Il caporalato e le nuove forme di schiavitù"
Anticipiamo l'analisi che Sagnet farà al festival 'èStoria2016'. Fu lui a organizzare nel 2011 il primo sciopero dei braccianti nelle campagne della Puglia. Qui riflette sulle dinamiche tradizionali del fenomeno e su quelle legalizzate, che colpiscono sia i lavoratori italiani sia quelli stranieri

Nelle campagne ci sono soprattutto i lavoratori stagionali stranieri. Perché lo sfruttamento viaggia di pari passo con il fenomeno della tratta degli esseri umani. Ma ci sono anche i braccianti italiani come Paola Clemente, 49enne di San Giorgio Jonico, nel Tarantino, caduta in un campo pugliese la scorsa estate, stroncata dalla fatica mentre lavorava all'acinellatura dell’uva. Per due euro all’ora.

Non è solo Puglia e la raccolta dei maledetti pomodori. Dal rapporto emergono 80 distretti agricoli con le stesse pratiche di sfruttamento e regole non scritte: cinquemila donne che lavorano nelle serre di Vittoria (Ragusa) dove vivono segregate e nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale, e poi gli schiavi della vendemmia dal Monferrato alla Sicilia per produrre spumanti e vini doc e sempre più giù nella scala sociale, fino ai 13 mila indiani che vivono nell’Agropontino , raccogliendo frutta per 400 euro al mese.


Tutti i numeri delle agromafie e caporalato
I settori a rischio, le attività illecite, le aziende coinvolte e i beni sequestrati. Ecco come lo sfruttamento dei braccianti alimenta un giro d’affari miliardario

Non c’è settore di produzione immune al fenomeno: è appena stato scoperto un traffico di profughi reclutati per lavorare nei campi del Chianti fiorentino . Sottopagati e picchiati per sottostare alle regole di cinque aziende vitivinicole, nel cuore di un territorio diventato in trecento anni e milioni di bottiglie prodotte, un tutt’uno con il brand della Toscana.

Ad essere vittime del caporalato (e delle sue diverse forme) sono indistintamente italiani e migranti, un esercito di braccia anonime di 430 mila persone. Un esercito che ha ingrossato le sua fila di altri 40 mila lavoratori rispetto all’anno precedente.

Per tutti le regole non scritte dello sfruttamento rimangono più o meno le stesse: nessun contratto, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno (inferiore del 50 per cento rispetto a quelli ufficiali) e poi tantissimo lavoro a cottimo.

Unito a un corollario di violenza, ricatti, abusi (come la sottrazione dei documenti), l’imposizione di un alloggio, i guanti venduti peso d’oro e il trasporto effettuato dagli aguzzini stessi.

«Il nostro rapporto esce dopo i fatti della drammatica estate 2015, nella quale troppi sono stati i morti sui nostri campi. Abbiamo voluto non solo fotografare ma anche indagare il fenomeno del caporalato, dello sfruttamento, della condizione dei lavoratori migranti, delle infiltrazioni mafiose nell’agroalimentare perché nessuno possa dire che non si conosceva il fenomeno», sottolinea Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil.

IL CAPORALE RILUTTANTE

Questo è il racconto di un migrante del Burkina Faso che per quattro anni è stato uno dei tanti caporali che comandano nella campagne italiane. Trent’anni, dopo la fuga dall’Africa, ha vissuto in un casolare a Boreano, la città fantasma dei raccoglitori di pomodoro in Basilicata, a cavallo con il confine della Puglia.

«Sono arrivato in Italia nel 2009 dopo una tappa in Francia», racconta Francis (il nome è di fantasia): «Finisco a Foggia per la raccolta del pomodoro. Dopo un anno da bracciante, un caporale mi propone di aiutarlo, io ho la patente e lui no. Ha paura di imbattersi nella polizia e il sequestro del furgone per questo io gli posso servire».

Francis accetta e diventa un “reclutatore” di braccianti: dapprima con il suo boss e poi piano piano autonomamente. Si sveglia alle 5 del mattino, va nei diversi casolari e sceglie la squadra che porterà nell’azienda da cui è partita la richiesta.

Ogni mattina accompagna circa 15 persone al lavoro, ma a bordo del furgone ne possono stare all’occorrenza anche venti, uno in braccio all’altro. I braccianti pagano cinque euro al giorno, sia per l’andata che per il ritorno, a prescindere dai chilometri da percorrere. È un costo forfettario, poiché a volte il tragitto da fare è lungo (anche 50 km) mentre a volte è breve (appena qualche chilometro). Il reclutatore non solo porta i braccianti nel campo, ma resta con loro a lavorare per tutto il tempo.

Avanti e indietro dai casolari abbandonati e diventati ghetti senza acqua e corrente elettrica e i campi arsi dal sole. Casa e lavoro sono lo stesso inferno. Sul furgone si trasportano anche acqua, pane, medicine (aspirine, antidolorifici, cerotti) che in caso di necessità vengono vendute ai membri della squadra o ad altri lavoranti.

Tutto qui ha un costo.

«Tra i soldi del “biglietto” e la vendita di questi prodotti ogni settimana incassavo circa 1.400 euro. Di questi 500 erano per me e il resto lo versavo al mio capo. Sommando altri 40/50 euro dalla raccolta mi rimanevano tremila, tremilacinquecento euro al mese. Un cifra enorme per uno straniero come me. Io appartenevo al gruppo di caporali e lavoratori, nel senso che stavo con la squadra, ma ci sono caporali che trasportano solo le persone e poi svolgono altre attività illegali. Questo è il motivo che mi ha spinto ad uscire dal giro. È un giro sporco con uomini violenti e aggressivi, che usano il loro potere per arricchirsi».

Come? «Vendendo anche droghe, portando a prostituirsi le donne sulle strade. Hanno rapporti con la criminalità locale e per ogni cosa chiedono soldi ai lavoratori dicendogli che non lavoreranno più se non accettano le loro condizioni». Ecco il mondo nascosto delle baracche e strade assolate del Tavoliere.

La «piramide dello sfruttamento» ha in genere un italiano all’apice e intorno una selva di figure: il “tassista” che si limita a gestire il trasporto, il “venditore” che organizza le squadre e impone la vendita di beni di prima necessità. C’è poi “l’aguzzino”, quello che utilizza e impone sistematicamente violenza, sottrazione dei documenti e impone condizioni di vita indegne.

I più scafati diventano “caporale amministratore delegato”: l’uomo fidato che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta con l’obiettivo di massimizzare i profitti. Ci sono poi forme nuove di caporalato. A gestire il business sono le cooperative senza terra, che garantiscono la raccolta chiavi in mano. Assumono per la vendemmia o la raccolta con un contratto a chiamata truffaldino perché i braccianti si ritrovano sulla busta paga appena due giorni, anche se ne hanno fatti venti o più.

Il più pericoloso è quello mafioso: colluso con la criminalità organizzata, il caporalato è solo una delle sue attività (oltre alla tratta di esseri umani, truffa per documenti falsi e all’Inps, estorsioni, riciclaggio). Gestiscono migliaia di persone, e decine di furgoni. I proprietari dei campi da una parte danno l’incarico a questi personaggi per trovare lavoratori, dall’altra ne hanno anche paura poiché sono delinquenti. Ma gli imprenditori comunque ci guadagnano sempre. E sempre fanno guadagnare il boss annullando ogni forma di diritto.

«I caporali italiani – insieme al loro boss – possono imporre le loro regole anche agli imprenditori, ma quelli stranieri devono sempre aspettare l’ingaggio da parte delle aziende. Non sono in grado di imporre i loro braccianti. Questa è la differenza, in termini di potere e di intimidazione, tra gli uni e gli altri. E se gli stranieri, non rispettano ciò che gli italiani gli dicono di fare diventa molto difficile anche per loro operare in questo settore» svela Francis.

La differenza di potere e di prestigio sta anche nei guadagni. «Il caporale italiano guadagna molto di più di quello straniero, poiché è in grado di negoziare con l’imprenditore il prezzo della raccolta e al contempo pagherà i braccianti di meno. Chi sta al vertice di questo sistema può arrivare a guadagnare anche 200 mila euro al mese. E non è un’esagerazione. E i suoi aiutanti altri 70mila. Chi li può fermare?».



Lavoro nero e Sud, statistiche e retorica - Sud Lavoro
http://www.sudlavoro.it/lavoro-nero-e-s ... e-retorica

Crescetabella_lavoro irregolare il lavoro sommerso in Italia. A rivelarlo i dati Istat che mostrano come nel periodo 2008-2012 gli irregolari siano il 4% in più. Mentre nelle regioni settentrionali e al centro si registra un lieve calo del lavoro nero, nel Mezzogiorno l’aumento è del 13%.

(si veda tabella tratta dal sito lavoce.info)

Sono questi i dati di partenza per questo Editoriale di Ottobre di SudLavoro.it, o meglio più che i dati in sé lo spunto ci viene offerto dalle analisi degli stessi lette o sentite in questi giorni: “nulla di nuovo sul fronte meridionale“.

Qui infatti terminano i fatti e cominciano le interpretazioni. A rimetterci è sempre il Sud e su tanti giornali sono finiti nel mirino, inevitabilmente, la miopia degli imprenditori locali (quando non si cita nemmeno troppo velatamente il malaffare), l’assenza di una cultura d’impresa, persino la scarsa voglia di lavorare dei meridionali.

Visto che di interpretazioni si parla ci sentiamo in dovere di aggiungere al coro la nostra voce, non sarà molto ma è già qualcosa.
Il lavoro nero è un dramma, non è una soluzione. La premessa è d’obbligo e non deve passare in secondo piano
Il lavoro nero sottrae risorse alla comunità.
Il lavoro nero va ad ingrassare il basso ventre di chi ci mangia sopra e del caporalato.
Il lavoro nero uccide, fregandosene delle norme sulla sicurezza.

A poco serve però l’attacco gratuito al Meridione, non serve a nulla se non si riesce o non si vuole avere una visuale più ampia e approfondita del fenomeno.
Al Sud la crisi economica globale si è sentita più che altrove, ha costretto aziende a chiudere e padri di famiglia finire in strada. E così il lavoro nero il più delle volte diventa un’ancora di sopravvivenza, permette a quelle stesse aziende il proseguio dell’attività e a quei padri di famiglia la possibilità di conquistare ad avere una vita dignitosa.

Certo, il confine è labile tra dove finisce la logica della sopravvivenza e dove inizia lo sfruttamento.
Ben venga l’ipotesi di abbattimento dell’Ires (imposta sul reddito delle società) per le piccole e medie imprese del Sud dalla legge di Stabilità.
Può essere un primo passo per il rilancio delle assunzioni in un territorio che è stato lasciato a sé stesso e in cui l’arte di arrangiarsi per arrivare alla fine del mese è stata avallata, salvo poi essere presa a pretesto per conati antimeridionali che puntualmente si ripropongono.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 2:41 pm

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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » sab apr 15, 2017 2:41 pm

Produttività e improduttività


Dati 2010
http://documenti.camera.it/_dati/leg16/ ... 000027.pdf


Da Melfi a Pomigliano: la replica a Marchionne in diretta tv
31 ottobre 2010
http://tg24.sky.it/economia/2010/10/31/ ... ziata.html

I delegati Fiom, ospiti della trasmissione di Lucia Annunziata, rispondono alle accuse dell’ad: “Il tasso medio di assenteismo è del 4%, una percentuale fisiologica”. E a Berlusconi: “Telefona a tutti, chiami anche gli operai della Fiat”
Il tasso medio di assenteismo negli stabilimenti Fiat è attorno al 4%, un "tasso fisiologico". Replicano così all'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, i delegati Fiom ospiti della trasmissione di Lucia Annunziata 'In mezz'ora', in onda su Rai3. Ad una settimana dalle dichiarazioni dell'ad del Lingotto nella trasmissione di Fabio Fazio 'Che tempo che fa', una folta delegazione della Fiom ha ribattuto punto per punto alle accuse di scarsa produttività. Partendo proprio dall'assenteismo: "3,7% a Pomigliano, 4% a Melfi, 4% a Mirafiori", e comunque "attorno al 4% in tutti gli stabilimenti italiani della Fiat", il che - hanno sottolineato - rappresenta un "tasso fisiologico".

Un delegato in collegamento da Termini Imerese, ha aggiunto: "Indigna tutti i lavoratori Fiat l'accusa di Marchionne, secondo il quale nei giorni di alcune partite di calcio è assente il 50% degli operai. E’ un'accusa insopportabile". I rappresentati della Fiom della Sevel di Val di Sangro hanno poi osservato: “Possiamo anche lavorare più ore, ma se poi quel prodotto che ci dicono di fare non viene venduto che senso ha? E’ evidente che chi lavora alla linea di montaggio della Mercedes ha una produttività maggiore, dipende sempre dal prodotto che si offre”. In poche parole: “La produttività si calcola in base alle auto che si fanno. E se c’è un buon prodotto si fanno anche i numeri”.

Durante la trasmissione, i delegati di Pomigliano hanno voluto sottolineare che il loro è un lavoro “molto duro e faticoso” e che si tratta di "catena di montaggio". E hanno lamentato l’assenza del governo e di una politica industriale. “La Fiom ha fatto tante richieste ma Sacconi ha fatto altro. Ha fatto il tifoso e noi condanniamo fortemente tutto questo". Parole alle quali hanno fatto eco quelle dei colleghi di Termini Imerese: "Ormai noi siamo usciti dalle cronache Fiat e dei mass media eppure Fiat se ne andrà licenziando lavoratori e noi non conosciamo il nostro futuro". E, in vista dell'incontro il 4 novembre prossimo fra il ministro allo Sviluppo Economico Paolo Romani e l'ad di Fiat Sergio Marchionne, hanno ricordato che "il 31 dicembre 2011 Marchionne licenzierà 2.200 operai siciliani", a dispetto anche "della criminalità organizzata", della mafia "presente in quei territori". "Berlusconi - hanno detto ancora - telefona a tutti, telefoni anche per gli operai siciliani". Il riferimento, ironico, è alla telefonata che il premier avrebbe fatto alla questura di Milano per far rilasciare Ruby, la ragazza marocchina minorenne.


È davvero "Happy" la Fiat? - Polemiche sul ballo in fabbrica a Melfi
2014/03/24
http://www.repubblica.it/economia/2014/ ... s-81774740

La Happymania arriva anche nello stabilimento del Lingotto dove si produce la Punto. Dal direttore agli operai tutti ballano e cantano sulle note del celebre brano musicale del dj americano. Il dubbio è che si tratti di uno spot aziendale. Critica la Fiom, "È una barzelletta"
MILANO - Un messaggio aziendale o davvero una fabbrica felice? Servirebbe un sondaggio tra i dipendenti della Fiat di Melfi per comprendere cosa ci sia di vero dietro il video che spopola in rete in cui i lavoratori della fabbrica potentina del Lingotto ballano sulle note di "Happy" del dj americano Pharrell Williams.

Il VIDEO

Ballano in molti, in fabbrica, dal direttore agli operai, passando dagli impiegati ai quadri. Tutti in divisa, sorridenti e a favore di telecamere. Non sembra un video nato dall’improvvisazione o dalla trovata scanzonata di qualche operaio. Ballare “Happy” è un tormentone che ha reso la celebre canzone ancora più famosa da quando gli autori hanno lanciato la moda di girare il video con sconosciuti in ogni parte del mondo. Da allora, da tutte le città, sono arrivate in rete riprese di ogni tipo, più o meno felici, ma che insieme hanno generato un fenomeno mondiale. La Fiat da buona azienda globale non è stata da meno e sembra aver colto l’occasione al balzo per cercare di rilanciare l’immagine di un ambiente di lavoro pieno di tensioni, culminate con il caso di Pomigliano in cui l’amministratore delegato, Sergio Marchionne ha messo al bando i rappresentanti sindacali della Fiom.

"È una barzelletta", è stato il commento di Marco Pignatelli,
licenziato con Giovanni Barozzino e Antonio La Morte, nell'estate del 2010 con l'accusa di aver interrotto la produzione durante una manifestazione interna, ma poi tornato in fabbrica insieme agli altri due. "Già si lavora poco, i problemi li conoscono tutti - ha continuato - ormai non abbiamo neanche il tempo per bere un po' di acqua. Secondo me dentro non c'erano operai di linea. Sarei pronto a scommetterci. Erano soprattutto capi e gente vicina".

Emanuele De Luca, segretario della Fiom della Basilicata ha annunciato un volantinaggio per manifestare sdegno verso questa iniziativa che offende i lavoratori della Fiat. Dello stesso avviso, il responsabile nazionale auto della Fiom, Michele De Palma: "Immaginiamo che l'allarme sulla scarsa produttività e sull'assenteismo negli stabilimenti Fiat, che ha portato la direzione aziendale a pretendere turni massacranti e penali sui primi tre giorni di malattia, sia cessato, almeno per alcuni. Mentre il direttore dello stabilimento di Melfi, insieme ad alcuni dipendenti scelti da lui, ha anche il tempo di ballare durante i turni, tutti gli altri lavoratori sono costretti ad un aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro. Invece che mettere in scena l'ennesima sceneggiata - prosegue De Palma -, sarebbe meglio che la Fiat affrontasse il problema della condizione di lavoro nei suoi stabilimenti, restituendo ai lavoratori le pause necessarie per evitare infortuni e danni alle articolazioni e facendo rientrare tutti i suoi dipendenti".



Divario Nord-Sud, perché il Mezzogiorno è meno efficiente
23 ottobre 2015
di Salvatore Perri
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... te/2153817

Davvero i lavoratori del Sud sono meno produttivi di quelli del Centro-Nord? Ed è possibile prescindere dal contesto in cui operano le aziende e dalle condizioni economiche del Mezzogiorno? Dagli errori del passato insegnamenti per cambiare le politiche e utilizzare meglio fondi statali ed europei.

Un contesto che non favorisce la produttività

In un recente articolo, il Gruppo Tortuga afferma che il valore aggiunto per lavoratore nel Sud-Isole, utilizzato come misura della produttività, è di dieci punti inferiore a quello che si misura nel Centro-Nord. Gli autori osservano che la discrepanza non si rispecchia nel valore dei salari, solo lievemente inferiori, e attribuiscono il mancato allineamento alla contrattazione nazionale. Ma ci sono alcuni fattori, citati dallo stesso Gruppo Tortuga, che possono influire direttamente sulla qualità del lavoro nel Sud ed essere la causa dei divari.


La dimensione media delle aziende meridionali è minore rispetto a quella del Centro-Nord. Le imprese meridionali oltre a essere piccole, raramente si costituiscono in gruppi e l’Istat certifica che più le imprese sono isolate e piccole, meno sono produttive. Ma la dimensione d’impresa è una “scelta” dell’imprenditore oppure è un prodotto dell’interazione fra azienda e ambiente economico?

Un’ipotesi di risposta ci viene fornita da come le aziende “sommerse” hanno reagito alla legge sull’emersione del 2001, la quale garantiva sconti fiscali alle imprese che si regolarizzavano. I risultati deludenti di quel provvedimento ci suggeriscono che il sommerso nel Sud è probabilmente una scelta “difensiva” per rimanere sul mercato, piuttosto che una scelta “offensiva” per guadagnare profitto. Pertanto, la produttività dell’azienda dipende da fattori che sono fuori sia dal controllo dell’imprenditore sia dei lavoratori.

Il Sud Italia si caratterizza per una disoccupazione giovanile vicina al 50 per cento e un tasso di disoccupazione generale che è più del doppio di quello del Centro-Nord. Se mettiamo insieme questi dati con il “nanismo” dimensionale delle aziende, possiamo verosimilmente supporre che la pressione sui lavoratori sia molto alta, in quanto sono facilmente licenziabili e subito sostituibili. Inoltre, è altrettanto logico supporre che le aziende finiscano per integrare una parte di legale e una parte di sommerso per quanto riguarda la gestione della forza lavoro. In realtà, una forma occulta di “gabbia salariale” già esiste e comporta il peggioramento delle condizioni generali del lavoro nel Sud. Questo spiegherebbe come mai i salari nel Sud sono i più bassi d’Italia.

Se le aziende non crescono dal punto di vista dimensionale può essere per via del basso livello di domanda aggregata del Meridione e scaricare una parte del divario di produttività sui lavoratori potrebbe accentuare queste dinamiche. Le aziende lamentano le carenze infrastrutturali, una burocrazia pubblica farraginosa e inefficace, ma soprattutto le difficoltà di accesso al credito.

Se si vuole una misura pratica di quanto sia diverso fare impresa nel Sud rispetto al Nord basta osservare i dati sul costo del credito, che nel Meridione è il doppio rispetto alle altre aree del Paese. La difficoltà di ottenere credito, o averlo a costi fuori mercato, impone a livello intra-aziendale scelte che penalizzano proprio quegli investimenti che servono a migliorare l’efficienza produttiva. La scomparsa di un autonomo sistema bancario meridionale accentua i fenomeni di razionamento, in quanto mette in competizione diretta – e impari – i piani di investimento delle aziende meridionali con quelli delle omologhe settentrionali.

Errori del passato e misure per crescere

Se nel passato lo Stato ha varato una politica economica “sviluppista” dei colossi industriali obsoleti, non meglio è andata per quanto riguarda l’uso dei fondi europei che, come sostiene Antonio Aquino, non hanno cambiato di molto la situazione. Anche perché è stata data un’eccessiva enfasi calla creazione di “nuove imprese”.

Nella migliore delle ipotesi, i fondi sono stati erogati ad aziende che, inserendosi in un contesto di bassa domanda, hanno fatto concorrenza sleale a quelle già esistenti, abbassandone ulteriormente i margini di profitto. Nel peggiore dei casi, sono stati percepiti da aziende “predatorie” nate già morte, i cui costi in termini di cassa integrazione hanno finito per gravare sulle casse statali (come già quelli della famigerata legge 488).

Le spese per la formazione permanente legate alle strategie di Lisbona hanno invece favorito la nascita di numerosi enti di formazione privati, i quali hanno erogato corsi che non hanno favorito l’occupazione o la produttività dei lavoratori, trasformandosi in meri redditi passivi per gli enti formatori, senza alcuna ricaduta positiva per la società.

Le aziende che nascono devono poter crescere, per consentirlo bisogna ribaltare il paradigma delle politiche precedenti. Si possono spendere diversamente i fondi statali ed europei usandoli per ridurre il divario infrastrutturale e magari per introdurre un reddito minimo, che consenta la nascita di un contrasto d’interessi fra lavoratore sommerso e l’impresa, oltre a sostenere la domanda aggregata. Bisogna valutare e correggere i servizi pubblici alle imprese, spostando l’enfasi dalle autorizzazioni iniziali a un sistema basato sul monitoraggio e supporto costante, che ne favorisca anche l’accesso al credito. Contrastare definitivamente e vigorosamente la corruzione e la criminalità organizzata, attraverso il potenziamento degli organi di giustizia. Qualificare la spesa non vuol dire necessariamente aumentarla, ma se non si modifica l’ambiente economico meridionale, difficilmente i divari si potranno ridurre con provvedimenti singoli.

* Ha un PhD in Economia Applicata (Unical) ed un MSc in Economics conseguito presso l’University of Southampton. Le sue pubblicazioni principali riguardano il rapporto tra Finanza, Crescita e Stabilità Macroeconomica. Dal 2011 cura il suo blog “Impunito” e scrive articoli su testate nazionali ed Estere (tra cui il blog della London School of Economics). Si occupa anche di Analisi delle Politiche economiche e Teorie Macroeconomiche. Collabora con vari centri di ricerca in Italia ed all’estero, tra cui Basic Income Network e Idea. E’ Referee per alcune giovani riviste internazionali di Economia.
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » dom apr 16, 2017 7:35 am

Roma la città parassita e imperialista per eccellenza, la nostra rovina


Corruzione italiana e romana
viewtopic.php?f=22&t=278

Roma - il mito tra il vero e il falso
viewtopic.php?f=111&t=2355

Il mito risorgimentale e le sue falsità italico-romane
viewtopic.php?f=139&t=2481


Scandalo della Banca Romana
https://it.wikipedia.org/wiki/Scandalo_ ... nca_Romana
Lo scandalo della Banca Romana è stato un caso politico-finanziario che ha coinvolto alcuni settori della Sinistra storica, accusati di collusione negli affari illeciti della Banca Romana, uno dei sei istituti che all'epoca erano abilitati ad emettere moneta circolante in Italia, e del suo presidente Bernardo Tanlongo.


Poggiolini
https://it.wikipedia.org/wiki/Duilio_Poggiolini
Duilio Poggiolini (Roma, 25 luglio 1929) , ex dirigente pubblico italiano, è stato direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del Ministero della Sanità e coinvolto nell'inchiesta Mani Pulite sullo scandalo di Tangentopoli. È stato membro della loggia massonica P2.
All'atto dell'arresto vennero sequestrati oltre 15 miliardi di lire su un conto svizzero intestato alla moglie, Pierr Di Maria: inoltre nella casa di Napoli della coppia vennero trovati diversi miliardi di lire in lingotti d'oro, gioielli, dipinti e monete antiche e moderne (fra cui rubli d'oro dello zar Nicola II e krugerrand sudafricani). Venne rinchiuso nel carcere napoletano di Poggioreale, dove fu sottoposto ad interrogatori da parte dei PM impiegati nell'inchiesta "Mani Pulite", tra cui Antonio Di Pietro, rimanendovi per sette mesi e dando numerose deposizioni.


De Lorenzo
https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_De_Lorenzo
Francesco De Lorenzo (Napoli, 5 giugno 1938) è un medico italiano, deputato dal 1983 al 1994 per il Partito Liberale Italiano, più volte ministro, è noto soprattutto per la riforma del Servizio Sanitario Nazionale (Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), per essere stato arrestato durante lo scandalo Tangentopoli poco dopo essersi dimesso da ministro.
Coinvolto nello scandalo di Tangentopoli, ha avuto una condanna definitiva (5 anni) per associazione a delinquere finalizzata al finanziamento illecito ai partiti e corruzione in relazione a tangenti per un valore complessivo di circa nove miliardi di lire, solo in parte ottenute da industriali farmaceutici dal 1989 al 1992, durante il suo ministero. Le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione con sentenza n. 14 del 20 luglio 1994 hanno chiarito che "La stessa accusa ha prospettato che tutte le somme corrisposte finivano nelle casse del partito al quale De Lorenzo apparteneva".
Nel giugno 2010, la Terza Sezione Giurisdizionale d'Appello della Corte dei Conti ha escluso il danno erariale conseguente al presunto illecito aumento dei prezzi dei farmaci, ma ha comunque condannato il De Lorenzo ad un risarcimento di 5 milioni di euro per danno all'immagine dello Stato.
La Corte di Cassazione con sentenza del 12 aprile 2012 ha rigettato il ricorso con la conferma della condanna per danno d'immagine a 5 milioni di euro a carico di De Lorenzo e dell'ex dirigente del Servizio farmaceutico Duilio Poggiolini.
Il 9 luglio 2015 gli è stato revocato il vitalizio, insieme ad altri nove ex deputati e otto ex senatori.


Mastrapasqua
https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Mastrapasqua
Antonio Mastrapasqua (Roma, 20 settembre 1959) è un dirigente pubblico e privato italiano.
Da maggio 2014 è consigliere indipendente e presidente del comitato per la remunerazione e le nomine di Gtech Spa. Dal 2008 fino al 2014 è stato presidente dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale.
Nel settembre 2014 viene iscritto nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Roma per il reato di concorso in falso e truffa ai danni del Servizio Sanitario Nazionale nell'ambito di un filone d'indagine riguardante prestazioni sanitarie fantasma erogate dall'Ospedale Israelitico di Roma[2].
Il 21 ottobre 2015 finisce agli arresti domiciliari. Il provvedimento cautelare viene emesso dalla Procura di Roma nell'ambito dell'inchiesta per il reato di falso e truffa ai danni del SSN. L'ordinanza del GIP Maria Paola Tomaselli a carico di dirigenti, medici e operatori dell'Ospedale Israelitico di Roma cita un «collaudato sistema» incardinato su prestazioni sanitarie «illecitamente erogate a danno del SSN» tra il 2012 e il 2014, sottolinendo come Mastrapasqua, in qualità di dirigente generale del nosocomio abbia, in concorso con altri dirigenti, «con artifici e raggiri» messo a carico della sanità regionale «prestazioni che non erano accreditate», provocando così un «danno patrimoniale di rilevante entità» per il servizio pubbli
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Re: Il sud della penisola italica - i meridionali

Messaggioda Berto » dom apr 16, 2017 7:38 am

Truffe all'UE


Fondi Ue, Italia paese delle frodi. La maggior parte al Sud

http://www.lindipendenza.com/fondi-ue-i ... rte-al-sud

Italia, il paese della truffa. The “Italian job” è un must, un’etichetta che hanno affibbiato al “belpaese” un po’ tutti gli altri paesi.
Il fenomeno delle irregolarità e delle frodi nell’utilizzazione dei Fondi comunitari “continua a destare allarme, anche in considerazione del fatto che, tra i sistemi utilizzati, e’ frequente la mancata realizzazione delle attivita’ finanziate”.
E’ quanto emerge dalla relazione annuale della Corte dei Conti su “I rapporti finanziari con l’Unione europea e l’utilizzazione dei Fondi comunitari”, che e’ stata inviata al Parlamento.

La Corte sottolinea che, “anche nell’anno 2012, si e’ registrato un incremento complessivo degli importi da recuperare, in gran parte ascrivibili ai fondi strutturali. I programmi maggiormente interessati da irregolarita’ e da frodi sono quelli regionali, con gli importi piu’ rilevanti riferibili a regioni del Mezzogiorno inserite nell’Obiettivo Convergenza”.
Per la magistratura contabile “tale condotta, oltre a essere strumentale all’illecita distrazione dei fondi concessi, danneggia le finalità specifiche dei contributi, che attengono alla riqualificazione professionale dei lavoratori e allo sviluppo delle attività imprenditoriali, e vanifica l’obiettivo di incentivare la crescita nei settori e nelle aree interessate”.
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