Falsi cittadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Falsi cittadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » lun dic 03, 2018 8:21 am

Giulio Regeni: la verità è rivoluzionaria
25 Gennaio 2018

https://www.pclavoratori.it/files/index ... nmwBI-GWGw

Decine di manifestazioni hanno ricordato oggi Giulio Regeni a due anni dal suo barbaro assassinio. “Verità per Regeni”, chiedono giustamente da due anni innumerevoli manifestazioni, iniziative, pronunciamenti, appelli. Ma la sacrosanta richiesta di individuare e punire gli assassini di Giulio non deve rimuovere l'evidenza: la verità sul caso Regeni è sin dall'inizio sotto gli occhi di tutti.

La prima verità riguarda le responsabilità del regime egiziano di al-Sisi. Sono responsabilità talmente evidenti da essere state dichiarate dai fatti. Cosa rappresentano i mille depistaggi egiziani sul caso se non una confessione in piena regola? Prima la messinscena allusiva a un delitto sessuale. Poi l'accusa rivolta contro una banda di criminali comuni, immediatamente sterminata per assicurarsi il silenzio, con il “ritrovamento” in casa loro - guarda caso - dei documenti personali di Giulio. Infine le accuse reciproche tra servizi segreti e apparati militari egiziani, con tanto di veline taroccate, segnali in codice, imbarazzate smentite. Tutto ciò ha un solo significato possibile: Giulio Regeni è stato ammazzato, in ogni caso, dagli sgherri di al-Sisi. È stato ammazzato su delazione di un informatore (Mohamed Abdallah), a seguito delle sue ricerche e attività solidali con i sindacati operai indipendenti, il vero spauracchio del regime. Il fatto che le carte inviate alla magistratura italiana siano state “ripulite” dell'interrogatorio-confessione di Abdallah è un'ulteriore firma di regime sull'omicidio.

Ma c'è una seconda verità che emerge dal caso. Forse meno evidente, ma indubbiamente più scomoda. Quella che attiene all'infinita ipocrisia della diplomazia borghese, e in primo luogo del governo italiano.
Il governo italiano, come tutti, conosce perfettamente le responsabilità del regime, ma ha scelto di coprirlo su tutta la linea. Le promesse solenni sul fatto che “saranno individuati i responsabili della morte di Giulio Regeni”, che “l'Egitto deve dirci come stanno le cose”, stanno semplicemente a zero. L'Italia borghese non solo non può e non vuole rompere col regime di al-Sisi, ma ha bisogno di stringere un rapporto più stretto con l'Egitto. Lo richiedono gli interessi dell'ENI che proprio in Egitto ha scoperto nuovi preziosi giacimenti petroliferi. Lo richiede l'interesse italiano a contendere alla Francia l'egemonia in Libia e Nord Africa. Lo richiede l'esigenza di una collaborazione poliziesca dell'Egitto nel blocco delle partenze dei migranti, e nella loro segregazione criminale. Per questo è stata riaperta l'ambasciata italiana al Cairo, con tanto di onorificenze e di fanfare. Per questo Matteo Renzi ha a lungo ostentato pubbliche lodi ad al-Sisi, presentato testualmente come amico dell'Italia. Del resto, cosa può valere il corpo torturato di un giovane ricercatore di fronte al volume dei profitti ENI, prima azienda dell'Africa?
E c'è di più. Sotto campagna elettorale stiamo assistendo al tentativo di un nuovo squallido depistaggio, questa volta di marca (anche) italiana: quello che allude alle non meglio precisate responsabilità di un'insegnante universitaria inglese con cui Regeni collaborava. Idiozie, ovviamente. E anche laddove fossero accertati coinvolgimenti, ciò non cancellerebbe la responsabilità del regime egiziano, né tanto meno le responsabilità dell'interessato 'basso profilo' italiano. Ma cosa c'è di più utile per archiviare le vere responsabilità criminali degli apparati egiziani e coprire la continuità della propria collaborazione con un regime assassino?

Il caso Regeni ci parla dunque della politica borghese. Della sua miseria morale, del suo cinismo sconfinato. La dittatura del profitto produce crimini e copre i criminali. Non solo nei regimi militari, ma anche nelle cosiddette democrazie imperialiste, che peraltro coi regimi militari fanno affari lucrosi a tutte le latitudini del mondo. Le anime belle delle sinistre riformiste di casa nostra che rivendicano una nuova politica estera dell'Italia (capitalista) vendono fumo e chiacchiere vuote. La politica estera dell'imperialismo italiano è un riflesso inevitabile della sua natura. Solo un governo dei lavoratori può segnare una svolta. Il caso Regeni dimostra una volta di più che la verità è rivoluzionaria, o non è.



"Gli agenti di Al Sisi temevano che Giulio Regeni stesse preparando una rivolta". La tesi di un ricercatore sul Washington Post
2016/03/08

https://www.huffingtonpost.it/2016/03/0 ... 06936.html

L'attività di ricerca di Giulio Regeni, il giovane studioso italiano torturato e ucciso in Egitto, è stata interpretata dalle forze di sicurezza egiziane come un "lavoro sul campo per preparare una nuova rivolta" contro il regime.

Ad avanzare l'ipotesi è un ricercatore dell'università di Toronto, esperto di politica egiziana e sindacati, che sul Washington Post prova a ragionare sulla misteriosa uccisione di Regeni. Scrive Jean Lachapelle, preoccupato per il futuro degli accademici egiziani e stranieri sconvolti per quanto accaduto al ragazzo:

Non è immediatamente chiara la ragione per la quale le autorità abbiano considerato Regeni una minaccia. Faceva ricerca sui sindacati indipendenti, un tema apparentemente innocuo in un paese dove la sinistra non soltanto è debole ma anche ostile ai Fratelli Musulmani, i maggiori oppositori del regime.

Inoltre, il giovane ricercatore non era l'unico ricercatori sul campo ad occuparsi di tematiche delicate. Svariati studiosi hanno intervistato attivisti dell'opposizione sotto l'attuale regime, includendo membri dei Fratelli Musulmani, mentre altri ricercatori hanno pubblicato critiche al governo egiziano. Eppure è stato questo giovane dottorando a fare quella fine brutale. Perché?

Jean Lachapelle, che in passato ha condotto una ricerca simile a quella di Giulio Regeni, prova a comprendere il motivo per il quale Regeni sia finito nelle mani dei torturatori:

E' possibile che le sue attività di ricerca siano state interpretate nella maniera sbagliata, e cioè come un lavoro preparatorio per una nuova rivolta. Aveva allacciato contatti con gli attivisti del luogo, andava di persona alle riunione dei sindacalisti e parlava perfettamente l'arabo - qualità essenziale per un ricercatore, ma un aspetto che sfortunatamente tende a sollevare sospetti.

Ciò che potrebbe aver condotto le autorità egiziane sulle orme di Regeni è, spiega ancora il ricercatore sul Washington Post, la propaganda secondo la quale a mobilitare le rivolte egiziane non è lo scontento della popolazione bensì la manipolazione di forze straniere.

A tradirlo, conclude Lachapelle, non è stata la pubblicazione di un articolo critico contro il regime di Al Sisi, avvenuta su Nena News a metà gennaio (poi ripubblicato da Il Manifesto nel giorno del ritrovamento del cadavere), bensì la sua attività di ricerca:

Sembra che fosse particolarmente coinvolto a livello personale nelle questioni sindacali, e ha scritto per un quotidiano italiano articoli critici nei confronti del presidente Abdel Fatah Al Sisi. Uno di questi, pubblicato postumo, offre una analisi approfondita dello stato dei sindacati indipendenti in Egitto. Contrariamente a quanto suggerito altrove, la sua posizione critica è risultata meno importante dei suoi contatti e delle sue accurate cronache sul campo.



Giulio Regeni e le lotte sindacali in Egitto
Gianni Alioti
29 agosto 2016

http://www.fim-cisl.it/2016/08/29/giuli ... -in-egitto

Sono passati 7 mesi da quel 25 gennaio 2016 in cui Giulio Regeni scompare in Egitto. Il giovane italiano sta svolgendo una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università Americana del Cairo. Giulio è candidato a un dottorato di ricerca al Girton College dell’Università di Cambridge (UK). Il 3 febbraio è trovato morto. «Barbaramente torturato e poi ucciso» (1).

Il giorno nel quale Giulio Regeni viene rapito è il quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. L’inizio delle rivolte anti- Mubarak. Una decina di giorni prima del suo rapimento la Near East News Agency (Nena News) pubblica, con lo pseudonimo Antonio Drius, un articolo di Giulio: «L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale» (2) . L’articolo racconta di una assemblea di coordinamento tra sindacati indipendenti convocata al Cairo venerdì 11 dicembre 2015 dal CTUWS (3). È dal mese di ottobre, che l’Egitto è nuovamente attraversato da un’ondata di scioperi e proteste dei lavoratori. Molti settori della popolazione sono stanchi dello status quo. A causa dell’aumento dei prezzi e la crisi economica. Operai e dipendenti pubblici, studenti e venditori ambulanti, ma anche medici e imprenditori, non sopportano più questa situazione. Il malcontento diffuso stenta però a tradursi in movimento organizzato. Non solo per la frammentazione sociale e sindacale, ma per la militarizzazione crescente dello spazio pubblico. Facile associare le forme di dissenso e di azione diretta sindacale al “terrorismo”. E giustificare così la violazione di diritti fondamentali.

Per queste ragioni ha dello straordinario – per Giulio Regeni – il numero di attiviste e attivisti sindacali dei più svariati settori economici (dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale) giunti da tutto l’Egitto (Sinai, Alto Egitto, Delta, Alessandria e Cairo) per questa assemblea. L’occasione è data da una nuova circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il Governo e l’ETUF (4), la confederazione sindacale controllata dallo Stato. Il fine esplicito è contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori. La circolare rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali (dal diritto di sciopero alla contrattazione collettiva).

«[…] Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di agibilità politica. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento (5), di cui il CTUWS è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione. Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la EDLC e la EFITU) (6) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013. Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza». (7)

«[…] A dicembre in diverse regioni dell’Egitto, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche. Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak. Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione. Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito a metà dicembre al Cairo. Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan “Pane, Libertà, Giustizia Sociale” non sono riuscite sostanzialmente a intaccare. L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento. Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla “guerra al terrorismo”, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile».

Giulio Regeni, quando scrive queste parole, non immagina certo, che sarebbe stato lui stesso vittima di questa brutale repressione. Probabile che fosse cosciente di essere seguito e controllato mentre svolgeva le sue ricerche. Un’attenzione identica riservata in Egitto agli attivisti sindacali e dei diritti umani, ai dissidenti politici, ai giornalisti. Si saprà dopo che, in sua assenza, la sua casa al Cairo è perquisita. E mentre partecipa alle riunioni dei sindacati indipendenti è, sicuramente, fotografato e monitorato. A un certo punto scompare. Un nome tra centinaia di altri desaparecidos. Per poi essere ritrovato, come molti di loro, senza vita e con i segni inconfutabili di torture prolungate. Una firma che gli egiziani conoscono bene, quella dei servizi di sicurezza.

La sua morte, per le reazioni in Italia e sul piano internazionale, accende i riflettori sul regime militare al potere in Egitto. E il metodo delle sparizioni forzate, praticato in maniera sistematica, non può essere più nascosto. Il quadro documentato da Amnesty International – attraverso fatti e testimonianze – risulta inquietante (9). In media tre-quattro persone al giorno sono vittime di sparizioni forzate nel paese. Una strategia mirata e spietata dell’Agenzia per la sicurezza nazionale guidata dal ministro degli interni egiziano Magdy Abd el-Ghaffar.

Se ad innescare la rivoluzione del 2011 sono i giovani bloggers, a mobilitare di peso le masse sono prima le organizzazioni autonome dei lavoratori (embrione dei sindacati indipendenti) e poi i Fratelli Musulmani. L’esercito e i servizi di sicurezza, gli stessi di sempre dai tempi di Hosni Mubarak, hanno imparato la lezione. Dopo la deposizione dell’ex-presidente Morsi nel 2013 la repressione si abbatte durissima su entrambi. I sindacalisti fanno paura al regime militare egiziano di al-Sisi perché sono considerati i soli, insieme agli islamisti, capaci di riempire le piazze.

La profonda insofferenza nei confronti delle mobilitazioni dei lavoratori e dei sindacati liberi è, in realtà, il filo rosso che unisce finora tutti i Governi. Cacciato Mubarak sono continuati gli attacchi al diritto di sciopero e alle libertà sindacali. Sia con il governo Morsi, sia con quello di al-Sisi. Un vero e proprio indicatore della loro natura autoritaria e antidemocratica. Malgrado i sogni libertari che riempivano piazza Tahrir durante la rivoluzione egiziana del 2011.

…E nonostante la politica del pugno di ferro del regime di al-Sisi si sia abbattuta contro i sindacati indipendenti dalla primavera dello scorso anno, il 2015 fa registrare ben 1.117 casi tra sit-in, scioperi e manifestazioni. E nei primi quattro mesi del 2016 (ultimi dati disponibili) scioperi e proteste sono cresciute in Egitto di un ulteriore 25 per cento rispetto all’anno precedente. E’ questo movimento di lotta – in condizioni proibitive – che suscita la curiosità e la passione di Giulio Regeni. La galassia di sigle sindacali autonome (oltre settanta) fiorite all’indomani della cacciata di Mubarak e sopravvissute al pugno di ferro del regime, è – infatti – il principale oggetto di studio del dottorato di ricerca che Giulio sta compiendo. Per questo contatta e intervista decine di operai e sindacalisti. E’, pertanto, difficile negare che la morte di Giulio Regeni, così come gli ultimi anni della sua vita, s’intreccino con le dinamiche del movimento sindacale egiziano.

«Vedere gli operai esprimersi è a dir poco disturbante per un regime che si era abituato all’assenza di voci sindacali autonome: ogni volta che gli operai si esprimono si scatena un conflitto, chi governa sa bene che gli scioperi hanno giocato un ruolo importantissimo nella preparazione della rivoluzione del 2011, sono state manifestazioni come quella “dei secchi” in un piccolo villaggio contadino senza acqua ad incoraggiare i poveri a scendere in strada contro la dittatura» (10).

A parlare è Kamal Abbas. Co-fondatore e coordinatore generale del CTUWS, operaio in una grande acciaieria dal 1975. Tra i maggiori organizzatori sindacali egiziani, arrestato più volte durante il regime di Mubarak, tra i protagonisti della rivoluzione in piazza Tahrir.

Se è vero che il giro di vite sulle libertà sindacali e il diritto di sciopero non fermano il movimento dei lavoratori, chi protesta deve fare i conti con le misure repressive del regime militare al potere.

Gli ultimi a farne le spese sono ventisei operai dei Cantieri Navali di Alessandria, arrestati con l’accusa di “incitamento allo sciopero”. I fatti risalgono al 22 e 23 maggio quando partecipano ad un sit-in pacifico sul posto di lavoro, insieme alla maggior parte dei loro 2.500 colleghi. Le principali richieste dei lavoratori sono l’innalzamento dei salari al livello del salario minimo nazionale di 1.200 lire egiziane al mese (circa 120 euro al cambio attuale), il versamento dei dividendi arretrati sui profitti dell’azienda, dei bonus annuali per il mese di Ramadan e l’assicurazione sanitaria, oltre alla richiesta di far ripartire la produzione su alcune delle linee dell’impianto.

I ventisei operai dei cantieri navali, detenuti in condizioni orribili nelle carceri egiziane, sono sotto processo dal 18 giugno presso una corte militare, in aperta violazione delle convenzioni della Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di cui l’Egitto è firmatario. Le convenzioni internazionali affermano il diritto dei lavoratori a scioperare e protestare pacificamente, il diritto a organizzarsi sindacalmente e difendere collettivamente le proprie condizioni di lavoro.

La Alexandria Shipyard Company è dal 2007 di proprietà Ministero della Difesa. I militari hanno interessi diretti non solo nell’economia bellica, ma anche in molti settori della produzione industriale civile, delle infrastrutture, dell’edilizia ecc. In Egitto non solo il potere politico, ma anche quello economico si concentra nelle mani di Esercito e Servizi.

…Pertanto, come afferma l’attivista dei diritti umani Tamer Wageeh: «[…] quando i centri capitalisti combaciano con i centri della sicurezza danno vita ad uno Stato oligarchico, il cui principale interesse è rubare e corrompere» (11). Facendo felice (aggiungo io), nel caso egiziano, la nomenclatura politica e quella corporativa dei paesi “democratici” europei, principali soci in affari del regime al potere.

Sebbene anche i sindacati indipendenti fossero in qualche modo allineati con le forze armate nel movimento del 30 giugno 2013 contro il presidente Mohamed Morsi dei “Fratelli Mussulmani”, la Corte Suprema del Cairo deciderà nei prossimi mesi se è giunto il momento di metterli fuori legge. Sarebbe non solo una palese violazione delle Convenzioni 87 e 98 dell’ILO ratificate dall’Egitto. Ma violerebbe esplicitamente la nuova Costituzione egiziana del 2014. L’articolo 76 stabilisce, infatti, il diritto di istituire organizzazioni sindacali su basi democratiche e di esercitare liberamente l’attività di tutela dei diritti dei lavoratori. A sollevare il caso sulla “illegalità” dei sindacati indipendenti, che rappresenterebbero una “minaccia alla sicurezza nazionale”, è l’ETUF la confederazione sindacale egiziana controllata dallo Stato. Ne è prova la nomina diretta dei suoi suoi dirigenti da parte del ministro del Lavoro e del presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Un leader dei lavoratori Kamal al-Fayoumi, licenziato nel 2015 dal suo lavoro presso l’azienda tessile Misr Spinning and Weaving Company a Mahalla, ha dichiarato: «Abbiamo preso parte alle proteste del 30 giugno, con la speranza di realizzare la giustizia sociale. […] Dopo che ci siamo liberati dai trafficanti di religione [Fratelli Musulmani], siamo tornati ai precedenti trafficanti che esistevano sotto Mubarak. Noi speravamo, come abbiamo fatto durante il 25 gennaio 2011, nelle richieste rivoluzionarie di pane, libertà e giustizia sociale – ma nessuna di queste richieste è stata realizzata. […] Invece quello di cui ci siamo accorti è che decine di sindacalisti indipendenti, attivisti operai e organizzatori erano licenziati dai loro posti di lavoro, semplicemente perché hanno parlato pubblicamente per i loro diritti o si sono alzati in piedi contro la corruzione nei loro luoghi di lavoro. […] Come posso avere speranza per il futuro, quando vedo lavoratori civili sotto processo davanti a un tribunale militare, perché hanno pacificamente chiesto i loro diritti?» (12).

Chi, invece, non ha perso del tutto la speranza è Tamer Wageeh che conclude la sua intervista a Chiara Cruciati su Nena News, con queste parole: «Lo Stato assedia il movimento e il movimento è in declino. Ma le iniziative dei sindacati – medici, giornalisti, ingegneri – sono catalizzatori della lotta. Anche se sembra che stiano fallendo, sono esplosioni continue che spingeranno al cambiamento» (13).

Dello stesso avviso sembra essere il blogger e giornalista egiziano Abdelrahman Mansour che dal golpe militare del 2013 vive all’estero e oggi studia all’Università dell’Illinois. In un’interessante intervista rilasciata sempre a Chiara Cruciati e pubblicata su Nena News il 5 luglio 2016, Mansour afferma: «Nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni. Le nuove forme di resistenza operano sottoterra, per questo vengono sottovalutate. Ma faranno cadere il regime. […] Le rivoluzioni arabe in questo senso non sono altro che parte di un fenomeno più ampio, globale, contro regimi diversi dalle Americhe all’Europa al Medio Oriente. Il movimento egiziano è ancora vivo, in fieri, parte integrante delle proteste dei giovani in paesi diversi contro decenni di ingiustizie mascherate con la definizione occidentale del concetto di democrazia. Da noi quel concetto si traduce nel sostegno ad al-Sisi che riceve armi in abbondanza e moderni sistemi di spionaggio» (14).

Anche Alaa al Aswani, lo scrittore arabo più di successo degli ultimi decenni, è tra coloro che non hanno perso la speranza. Intervistato da Michele Giorgio per Nena News ha dichiarato:
«[…] Tante cose non sono andate per il verso giusto. Però la storia ci insegna che una rivoluzione ha bisogno di tempo per affermarsi, per trasformare uno Stato. Una rivoluzione si fonda sul coraggio e il cuore dei rivoluzionari mentre un regime ha tutto dalla sua parte: potere, soldi, forza. E se la rivoluzione non riesce a scardinare completamente tutto questo, il vecchio regime riemerge come una tigre ferita. Dobbiamo tenere presente che i protagonisti del 2011 non sono stati in grado di completare la rivoluzione e di contrastare la controrivoluzione scattata dopo l’uscita di scena di Mubarak. Però non è finita e quanto abbiamo vissuto cinque anni fa a piazza Tahrir può e deve ripetersi fino al traguardo» (15).

Sebbene al-Sisi goda ancora di consenso di una parte della popolazione, sempre di meno ogni giorno che passa, a differenza di Mubarak non ha un partito politico alle spalle. …E come sostiene Abdelrahman Mansour: «[…] La sua legittimità si fonda solo sull’esercito e il suo modo di governare si basa sulla mera ricerca di obbedienza, come se governasse una caserma» (16).

In realtà l’aiuto maggiore al suo regime gli deriva dal sostegno degli Stati della regione del Golfo (in particolare l’Arabia Saudita) e dai paesi occidentali (in particolare quelli europei). Ciò malgrado la situazione dei diritti umani in Egitto stia peggiorando. Riccardo Noury – portavoce di Amnesty Italia – denuncia, in una recente intervista sul caso Regeni, il paradosso europeo. «[…] il paese isolato non è l’Egitto ma l’Italia. Se l’Unione Europea fosse davvero solidale avremmo 27 ambasciatori ritirati e non uno. L’Egitto è stato abile nel mantenere saldo il suo ruolo di partner fondamentale nel dossier Libia, nel dossier immigrazione, nel dossier terrorismo, mettendoli in contrasto con il caso Regeni. La richiesta della verità è considerata quasi un fastidio, un ostacolo» (17).

Per questa ragione secondo Amnesty è necessaria l’internalizzazione del caso Giulio. «[…] Non si tratta di un’alternativa all’inchiesta italiana, ma una forma di pressione complementare. Come l’assunzione delle misure previste dalla Convenzione Onu sulla tortura o commissioni di inchiesta e risoluzioni dell’Onu che abbiano un peso almeno morale. Che dicano, cioè, che i diritti umani in Egitto non interessano solo la famiglia Regeni, Amnesty o milioni di cittadini italiani» (18).

Dello stesso avviso Mansour «[…] La morte di Giulio ha acceso l’attenzione internazionale. Quando penso a lui, penso a Khaled: entrambi morti perché cercavano la verità (Giulio sui sindacati, Khaled aveva un video sul traffico di droga in mano a dei poliziotti) ed entrambi assomigliavano a tantissimi ragazzi che nel mondo lottano contro una qualche forma di ingiustizia. Come nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni» (19).

Per queste ragioni, Amnesty sostiene che debba esserci il coraggio da parte del nostro paese e della comunità internazionale di due azioni forti: «[…] Dichiarare l’Egitto paese non sicuro e pretendere la scarcerazione di tutti gli attivisti per i diritti umani e la fine della persecuzione giudiziaria di gruppi e singoli. In secondo luogo, sospendere il trasferimento di armi e software di sorveglianza all’Egitto» (20).

Al contempo il sindacalismo internazionale (e nello specifico quello italiano) deve essere capace di mobilitarsi in solidarietà e a sostegno dei lavoratori egiziani e del sindacalismo libero e autentico. E’ la forma più coerente con cui ricordare la figura del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni e continuare l’impegno insieme alla sua famiglia affinché, sul suo atroce assassinio di Stato, venga fatta verità e giustizia!

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(1) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016
(2) Antonio Drius, “L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale”, Nena News 14 gennaio 2016
(3) Center for Trade Unions and Workers Service, fondato nel 1990.
(4) Egyptian Trade Union Federation, fondata nel 1957 è l’unica confederazione sindacale legalmente riconosciuta fino alla rivoluzione del 2011. Dichiara 6 milioni di iscritti, ma risulta scarsamente rappresentativa.
(5) Si stima che l’insieme dei sindacati indipendenti in Egitto, nel momento della loro massima espansione, abbiano coinvolto circa 25 milioni di operai e impiegati.
(6) Egyptian Democratic Labor Congress (EDLC) e Egyptian Federation of Independent Trade Unions (EFITU), nate rispettivamente nel 2013 e 2012.
(7) Antonio Drius, L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale, Nena News 14 gennaio 2016
(8) Antonio Drius, L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale, Nena News 14 gennaio 2016
(9) Egitto: «Ufficialmente tu non esisti», rapporto di Amnesty International.
(10) Francesca Paci, I sindacalisti fanno paura al regime egiziano perché riescono a riempire le piazze, La Stampa, 7 febbraio 2016
(11) Chiara Cruciati, Tre anni dopo: dal golpe alla protesta, Nena News, 2 luglio 2016
(12) Jano Charbel, June 30, 3 years on: Independent labor movements suffer more losses than gains, Mada Masr, 3 July 2016
(13) Chiara Cruciati, Tre anni dopo: dal golpe alla protesta, Nena News, 2 luglio 2016
(14) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016
(15) Michele Giorgio, Alaa Al Aswani: «Alziamo la voce contro il regime di al Sisi», Nena News, 16 aprile 2016
(16) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016
(17) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016
(18) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016
(19) Chiara Cruciati, “Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi»”, Nena News, 5 luglio 2016
(20) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016



Egitto: i sindacati indipendenti
Antonio Moscato
14-19 minuti
EGITTO – SERI problemi per il movimento operaio
Yassin Gaber

[Versione francese: La breche (http://www.alencontre.org/ - Versione spagnola: Viento Sur (http://www.vientosur.info/)

http://antoniomoscato.altervista.org/in ... &Itemid=39

Statistiche del 2010 indicano che 6 egiziani su 10 percepiscono meno di 3.333 dollari all’anno. Questi dati corroborano i risultati di un’indagine effettuata da Egipt’s Information and Decision Support Center (IDSC), che dimostrava che il 43% delle famiglie dispone di un reddito insufficiente a soddisfare i bisogni sociali più elementari. In altri termini – per riprendere un indicatore inadeguato ma “normalizzato” dalla Banca Mondiale – significa che il 43% delle famiglie vive in condizioni di “povertà”, o di “estrema povertà”. Dunque, in base a questa classificazione, si tratta di un reddito inferiore ai 2 dollari al giorno. Dal 1996 al 2005 – ultimi dati disponibili – 2 egiziani su 10 vivevano al di sotto della soglia di sopravvivenza. Povertà ed emarginazione sociale forniscono il brodo di coltura a vantaggio di varie forze islamiste che forniscono strutture e iniziative di tipo assistenziale.

Al tempo stesso, in seno a settori operai e non solo, si erano andate manifestando mobilitazioni, significativi scioperi e un nuovo tipo di organizzazione sindacale, prima del 25 gennaio 2011, data simbolica che segna l’avvio del “processo rivoluzionario” in Egitto. Queste lotte investivano settori quali la siderurgia, i trasporti, gli ospedali, il tessile, i lavoratori della zona del Canale di Suez, l’insegnamento, l’amministrazione, ecc. Al centro c’era la rivendicazione dell’aumento di salario, ma al tempo stesso si ponevano in rilievo anche rivendicazioni democratiche.

La creazione della Federazione Egiziana di Sindacati Indipendenti (EFITU) ha segnato una rottura di fondo con le strutture sindacali istituite dal regime nel 1957, e cioè la centrale unica della Federazione Sindacale Egiziana (ETUF). L’appello allo sciopero generale lanciato dall’EFITU il 30 gennaio 2011 – uno sciopero con grande seguito – ha svolto un ruolo determinante nella caduta di Mubarak. Nella conferenza ufficiale di fondazione, svoltasi nei locali del sindacato dei giornalisti, l’EFITU ha chiesto di sciogliere l’ETUF e di congelarne i beni. (Redazione di Viento Sur)

Nell’attuale contesto politico-sociale, il controllo di alcune associazioni di categoria – tra gli altri, settori come quello dei medici o dei farmacisti – è la posta in gioco degli scontri politici in cui i Fratelli Musulmani sfruttano la forza organizzativa di cui già disponevano, tra l’altro anche in questi ambienti, sotto il regime di Mubarak. Quando si organizzano forze di opposizione – ad esempio, “Medici senza diritti” – il controllo di quei “sindacati” ad opera dei Fratelli Musulmani viene sventato, come dimostrano le elezioni del “sindacato” dei medici di Alessandria. Tuttavia, per quanto concerne i sindacati più direttamente legati a settori di lavoratori impegnati in lotte di un certa portata, la controffensiva organizzativa può anche venire da cerchie provenienti dal vecchio regime, che hanno legami con l’istituzione che accentra ancora il potere in Egitto: il Consiglio supremo dell’Esercito. È ciò che descrive Yassin Gaber, l’8 dicembre 2011, in Ahram-online. Un punto di vista che vale la pena di far conoscere ai nostri lettori, perché possano rendersi conto di un aspetto poco noto di uno scontro sociale e politico in atto, dalle molteplici dimensioni, che non può essere completamente scisso dai risultati elettorali. (Redazione di A l’Encontre)

Un’ondata di scioperi e di iniziative intraprese dai lavoratori ha consentito la sollevazione di 18 giorni in Egitto. Il nascente movimento operaio, acquistando sicurezza a poco a poco, ha dichiarato unilateralmente la creazione di una Federazione sindacale indipendente (EFITU), in contrapposizione alla sua omologa diretta dallo Stato. Si è poi impegnata in iniziative volte a smantellare il potere e la struttura del sindacato di Stato (ETUF). Tuttavia, di recente, i lavoratori egiziani e i sindacalisti si sono ritrovati a doversi battere per preservare quanto hanno conquistato poco fa.

Nel marzo 2011, il ministro egiziano della Manodopera e delle Migrazioni, Ahmed Hassan El-Borai, aveva proclamato il diritto dei lavoratori egiziani a istituire propri sindacati e rispettive federazioni, un atto apprezzato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro OIT). Sta per essere introdotta, però, dai dirigenti militari egiziani (il Consiglio superiore delle Forze armate – CSFA) una nuova legislazione sindacale. Nell’agosto 2011, in forza dell’applicazione di una sentenza del 2006, veniva sciolta la direzione dell’ETUF, la Federazione sindacale diretta dallo Stato.

Questi passi in avanti, tuttavia, venivano frenati dalla fiducia che il governo continua a concedere a membri della vecchia guardia per quanto riguarda la creazione di nuove strutture. Ne deriva allora, secondo le dichiarazioni di Hisham Fuad, uno dei membri fondatori del Partito democratico dei Lavoratori, una prospettiva governativa che è «controrivoluzionaria e in contrasto con le conquiste dei lavoratori». A questo va aggiunto il rifiuto di consultare direttamente i sindacalisti indipendenti, cosa che a suo avviso costituisce la prova di un’intolleranza più profonda e dimostra la volontà del CSFA al potere di soffocare il movimento sindacale indipendente.

La decisione dell’ex Primo ministro Essam Charaf [ex ministro dei Trasporti nel 2004-2005, poi Primo ministro dal 3 marzo al 7 dicembre 2011] di sciogliere la direzione dell’ETUF e di congelare i beni di questo sindacato statale ha rappresentato un momento molto importante per i sindacalisti indipendenti. Tuttavia, subito dopo si è verificata una situazione che fa riflettere. Si è incaricato un “Comitato di pilotaggio” [difficile rendere altrimenti i termini pilotage e pilotaje, se non forse con “guida”, NdT] – composto da sindacalisti indipendenti, sindacalisti legati allo Stato ed esponenti dei Fratelli Musulmani – di indagare sulla situazione finanziaria del sindacato ETUF. Questa direzione di fatto ha cominciato a ficcare il naso nei rapporti dell’Organizzazione centrale d’inchiesta, che attestano centinaia di infrazioni e di irregolarità finanziarie sia dell’ETUF sia di altre organizzazioni ruotanti intorno alla centrale sindacale ufficiale.

Si pensava che alcuni sindacalisti implicati in operazioni finanziarie illecite venissero deferiti al procuratore generale, ma a bloccare questo iter si sono levati interessi ben precisi… Il Comitato di pilotaggio è stato così paralizzato, a causa della composizione che includeva svariate fazioni.

Una coalizione di quattro Federazioni – il sindacato dei lavoratori del petrolio, quello dei lavoratori dell’industria molitoria, del trasporto marittimo, dei trasporti – ha scioperato a metà novembre 2011, chiedendo che si sciogliesse il Comitato di pilotaggio designato dal governo. Membri di questa direzione autoproclamata hanno cercato, senza successo, di decapitarla, destituendo Ahmed Abdel Zahir, che è un transfuga della disciolta direzione dell’ETUF, nonché socio di colui che ne era precedentemente alla testa, Hussein Mégaouir. Pochi mesi fa, questo famoso uomo d’affari era stato accusato di avere avuto un ruolo nella “Battaglia del Cammello”, come viene chiamato l’attacco alla gente che era in Piazza Tahrir il 2 febbraio 2011. [L’ex tesoriere dell’ETUF, Samir Sayad, era diventato intanto il proprietario di una delle maggiori imprese di verniciatura in Egitto, godendo degli appoggi del clan Mubarak].

Quando il ministro El-Borai si è reso conto che non sarebbe riuscito a fermare lo sciopero, ha decretato lo scioglimento del Comitato, sostituendolo con un altro composto da personaggi della vecchia direzione, soci di Mégaouir. «Siamo tornati indietro. Ora la situazione è esattamente la stessa di quando c’era Hussein Mégaouir», sostiene Wael Habib, membro del Comitato di Pilotaggio.

Hisham Fuad ritiene che per il CSFA il cambiamento costituisca la risposta all’ondata di scioperi che ha scosso l’Egitto nel settembre 2011. «Il CSFA ha sentito di avere un certo controllo e di poter reprimere il movimento operaio che stava crescendo», dice Fuad.

Dopo l’imposizione di un nuovo comitato di direzione dell’ETUF, El-Borai ha annunciato, il 28 novembre 2011, che la nuova Federazione egiziana dei sindacati indipendenti (EFITU) era d’accordo ad entrare nell’ETUF, diretta dallo Stato. La dichiarazione ha suscitato molto rumore e mandato segnali del fatto che il governo non voleva più saperne di pluralismo e di libertà sindacali. Nonostante confusione e speculazione non siano mancate, risulta che la convergenza tra i sindacati indipendenti e i loro omologhi affiliati allo Stato non è mai esistita. «Non ci impegneremo mai al loro fianco su niente. Rifiutiamo la concezione stessa di un sindacato diretto dallo Stato», ha dichiarato Fatma Ramadan, membro della direzione dell’EFITU e militante sindacale.

Fatma Ramadan è stata costretta a ritirare la propria candidatura alle elezioni dell’Assemblea del Popolo (la Camera bassa del parlamento), dopo che i tribunali amministrativi dei governatorati di Gizeh e di Menufiya si sono rifiutati di accettare candidati che avessero avuto il riconoscimento in quanto lavoratori da parte del sindacato indipendente [accanto a liste di partiti esistono liste che consentono di eleggere – per quote – un rappresentante delle “professioni” e uno del “blocco operaio-contadino”]. Secondo Fatma, l’EFITU ha autorizzato la candidatura di 300-400 “operai” per le elezioni in tre fasi [dal dicembre 2011 al gennaio 2012] all’Assemblea del Popolo egiziana. Fra questi 300-400, a una decina circa di sindacalisti, tra cui Fatma Ramadan, non è stato riconosciuto il diritto di partecipare alle elezioni come rappresentante del “blocco operaio-contadino”.

Grazie a un decreto del 29 luglio 2011, il CSFA al potere ha mantenuto in vigore un sistema di quote di 47 anni fa, che riguarda i rappresentanti degli operai e dei contadini alle due Camere del parlamento egiziano. I sindacalisti sono divisi sul fatto se il sistema delle quote vada considerato un retaggio del vecchio regime, o se lo si debba invece rivedere, correggere. «La quota del 50% per gli operai e i contadini è fatta per proteggere i settori dominanti: va bene dare voce a chi è più sfavorito, ma se la quota si usa per riempire il parlamento di uomini d’affari e di tecnici… Chi pensate che difenderanno costoro: se stessi o i lavoratori?», chiede Fatma Ramadan.

Saul Omar, un membro del sindacato dei lavoratori dell’Autorità del Canale di Suez e candidato dei lavoratori a Suez, pensa che la quota del 50% vada mantenuta. Tuttavia, per evitarne una cattiva utilizzazione occorrerebbe istituire una nuova legge per garantire che i rappresentanti eletti provenienti dalle file operaie difendano davvero i lavoratori. «Il parlamento non si pronuncia veramente in favore del popolo. I milioni di persone che scendono per le strade ne sono la dimostrazione, negando il presunto ruolo del parlamento; ma dobbiamo ancora lavorare su questi schemi politici», sostiene.

Se le prime elezioni post-Mubarak metteranno in piedi quel parlamento di cui molti dicono che sarà il primo legittimo dagli anni Trenta, la sua composizione determinerà in una certa misura il corso del movimento operaio.

I risultati della prima fase rivelano forti affermazioni elettorali del braccio armato dei Fratelli Musulmani, il Partito della Giustizia e della Libertà (FJP) e del partito dei salafiti: Al-Nur. Anche se restano ancora da svolgere due tornate elettorali [l’articolo è stato scritto prima che iniziasse la seconda, il 14 dicembre 2011], molti osservatori ritengono che sia ormai inevitabile la presa del potere elettorale da parte dell’islamismo.

Se gli islamisti arrivano al potere, il movimento dei lavoratori si può aspettare di trovarsi di fronte ad alcuni ostacoli. Il FJP ha accettato l’opposizione del CSFA agli scioperi, compiendo un ulteriore passo quando ha cercato di costringere lo sciopero degli insegnanti a cessare in alcuni governatorati, lo scorso settembre. Il partito Al-Nur ha chiaramente adottato la linea antisciopero, definendo “indesiderabili” azioni del genere, per il momento. L’unica lista favorevole, “liberale”, che abbia ottenuto risultati sostanziosi al primo turno è stata quella del Blocco egiziano [coalizione che comprende il Partito degli egiziani liberi, il Partito socialdemocratico egiziano e il Partito al-Tagammu, uscito dal Partito comunista]. Gli “Egiziani liberi” – la forza dirigente del Blocco – hanno anch’essi una posizione ostile ai lavoratori. Lo hanno chiaramente dimostrato quando hanno subito dichiarato il loro appoggio alla legge antisciopero adottata nel luglio 2011 dal CSFA.

Comunque sia, alcuni militanti sindacali sono decisi: «Non siamo scoraggiati dalle elezioni parlamentari: quella per il parlamento è solo una parte della battaglia. È in piazza che si colloca la nostra battaglia principale; noi esigiamo: il diritto alla libertà di organizzazione sindacale, la soppressione della legge che criminalizza gli scioperi, l’introduzione di una salario minimo e di un tetto massimo, la riapertura delle fabbriche chiuse e il reintegro degli operai, l’aumento delle pensioni e un’adeguata copertura sanitaria», dichiara Fatma Ramadan.

Secondo l’avvocato del lavoro nonché membro dei Socialisti-Rivoluzionari, Haitham Mohamedein, «la posta in gioco vera è la legge». In particolare, la n. 35 (1976) che costituisce la base delle norme che riguardano struttura e sistemi delle elezioni dell’ETUF, diretta dallo Stato, fra altre organizzazioni centrali. La decisione della giunta militare al potere di sospendere il progetto di legge – approvato dal ministro della Manodopera e delle Migrazioni (Al-Borai) e poi dal governo di Charaf – rappresenta il nocciolo della questione, secondo Mohamedein. Tale legislazione consentirebbe, per la prima volta dagli anni Cinquanta, il pluralismo sindacale e consentirebbe a operai e professionisti di creare proprie associazioni e propri sindacati. Associazioni e sindacati forti rappresenterebbero una sfida per un sistema che alimenta la corruzione, l’oligarchia e la disuguaglianza sociale.

I Fratelli Musulmani si sono sempre battuti per il controllo dei sindacati e delle associazioni professionali, dichiara l’avvocato del lavoro. E affronteranno il problema dell’ETUF allo stesso modo. «Il FJP vuole che la centrale sindacale sia al loro comando e controlleranno le federazioni tramite elezioni: elezioni nel quadro della legge n. 53. Non è nel loro interesse cambiarla radicalmente. Il movimento dei lavoratori costituisce una fonte di preoccupazione per gli uomini d’affari, come per i Fratelli musulmani. Potrebbero magari cercare di emendare la legge, ma non permetterebbero mai le stesse libertà della legge che è stata sospesa».

(Traduzione di Titti Pierini 5/1/12)

Questo articolo è collegato a quello di Charles André Udry sulla nuova fase di repressione: Egitto, elezioni e repressione

Giulio Regeni: la pista dei Fratelli musulmani, ma gli inquirenti non collaborano

https://www.panorama.it/news/esteri/mor ... -le-accuse

- Giulio Regeni, ricercatore italiano, è scomparso al Cairo il 25 gennaio ed è stato trovato morto il 3 febbraio, con evidenti segni di tortura. Le ipotesi sulla sua fine atroce sono molte, ma nessuna è stata confermata. L'ultima è che sarebbe stato rapito da agenti segreti sotto copertura, appartenenti ai Fratelli musulmani.

- Tra gli inquirenti prende subito corpo l'ipotesi di un coinvolgimento dei servizi egiziani. Il governo smentisce, ma le autorià del Paese non condividono con gli inquirenti italiani i risultati delle loro indagini, e non mettono a disposizione i video delle telecamere nella zona in cui Regeni sarebbe stato rapito.

- Secondo un'inchiesta del New York Times, Regeni sarebbe stato fermato da tre funzionari della polizia egiziana il 25 gennaio, anniversario delle rivolte di piazza Tahir.



L’ipotesi della pista islamista per la morte di Giulio
Francesca Paci
2016/02/11

https://www.lastampa.it/2016/02/11/blog ... agina.html

I Fratelli Musulmani se l’aspettano, prima o poi la caccia alla responsabilità per l’assassinio di Giulio Regeni li travolgerà: è solo questione di tempo perché qualcuno diffonda il sospetto che dietro la morte del giovane ricercatore italiano ci sia la mano di chi sotto sotto ha più motivo di tutti di vendicarsi di un regime che li ha rimossi, repressi e messi al bando. In realtà, nella Cairo percorsa da dubbi, paure, depistaggi, veleni (ieri un sedicente pilota appartenente a una famiglia di poliziotti e inneggiante ai servizi segreti egiziani ha scritto sul suo profilo Facebook in arabo che “l’italiano era una spia” e che essendosi impicciato delle questioni interne di un altro paese “meritava di essere ammazzato in quel modo”) l’ipotesi della pista islamista circola già a vari livelli nei giornali governativi e nel passaparola dei lealistissimi: nessuna prova, nessun indiziato, ma, forte, il traino della domanda “a chi conviene?”, quella forsennata ricerca di una logica di qualsiasi genere che alimenta spesso dietrologie e teorie cospirative.

«Tra le piste accreditate in queste ore c’è anche quella di qualche gruppo islamista interessato a indebolire il sistema, il tentativo dei Fratelli Musulmani di distruggere il turismo per esempio non è nuovo e poi c’è da considerare il luogo in cui è stato fatto ritrovare il corpo di Giulio Regeni, vicino alla prigione della sicurezza nazionale, sembra fatto apposta» ragiona Saad Eddin Ibrahim, oppositore della vecchia generazione, esiliato negli Stati Uniti e tornato trionfante in Egitto all’indomani della rivoluzione del 2011 fino ad accompagnarne la deriva e appoggiare la cacciata dell’ex presidente Morsi, reo per la piazza (e per lui) di voler imporre al paese una impronta islamista. Il suo centro studi per i diritti umani si trova sulla collina cairota del Muqattam, di fronte alla Cittadella, a poca distanza dal quartiere generale dei Fratelli Musulmani dato alle fiamme all’inizio della rovente estate 2013.

«Quello di Giulio Regeni è un caso critico, un po’ come l’aereo russo abbattuto a Sharm el Sheik. Lo Stato cercherà fino all’ultimo di non condannare la sicurezza magari accusando i gruppi islamisti, forse arresteranno un paio di persone e li picchieranno fino a farli confessare l’omicidio. È un terreno pericoloso, perciò non credo che i Fratelli si esporranno su questa storia, finora non hanno emesso nessun comunicato stampa perché sanno che facendolo catalizzerebbero i sospetti e in questo periodo, divisi come sono, non ne hanno davvero bisogno». A parlare è Mohamed Abdel-Koddos, membro del direttivo del sindacato dei giornalisti e considerato dal regime assai vicino alla Fratellanza. Accennando alle divisioni interne allude al dibattito feroce in corso dentro al movimento dove le nuove generazioni patiscono fortemente la ricacciata nell’ombra post 2013, chiedono il ritorno alla politica, accusano i padri di attendismo, scalpitano, qualcuno ha scelto la lotta armata con i gruppi fondamentalisti.

Braccati, in clandestinità o fuggiti all’estero, i Fratelli seguono il braccio di ferro tra Roma e il Cairo preparandosi al peggio (se dovesse arrivare): dopo aver conquistato il potere attraverso elezioni democratiche nel 2011 (voto parlamentare) e nel 2012 (voto presidenziali) ed essere stati cacciati dall’esercito (prima che gli egiziani li andassero a cercare casa per casa) non escludono alcuno scenario. Neppure quello che li vede messi all’indice. Anzi. Ragionare con loro dell’assassinio di Giulio Regeni e di cosa possa significare per il regime, della ricerca di un colpevole o di un capro espiatorio, del vicolo cieco in cui si è infilato il paese, significa però triangolare tra chi vive nell’ombra al Cairo, chi sta in Qatar, chi in Turchia, tutti disposti a parlare solo a condizione dell’anonimato.

«Ovviamente cercheranno di fare in modo di alzare un polverone addossando la colpa all’opposizione, anche se stavolta il coinvolgimento di un paese straniero renderà le cose meno facili del solito. La propaganda tenta di attribuire qualsiasi cosa alla Fratellanza, lo fa dall’inizio del colpo di stato» dice uno sui trent’anni. E un altro, sempre della nuova leva: «E’ evidente che non ci può essere la Fratellanza dietro al delitto e neppure un’altra forza tra quelle in campo contro il regime, i gruppi anti regime sono anzi considerati “amici” di Giulio. D’altra parte bisogna ricordare invece che il regime militare è già ricorso alla violenza nei confronti degli stranieri, come l’insegnante francese violentata dalla polizia, e vi ricorre sistematicamente quando si tratta di egiziani, come l’attivista Shaima».

La tesi di membri attivi della fratellanza ma anche dei simpatizzanti è che si tratti di un delitto di Stato: «Siamo di fronte a un sistema criminale che ha ucciso Giulio e cerca ora di depistare suggerendo assurdità come l’incidente stradale. È un sistema che spesso uccide e tortura senza pensare alle conseguenze politiche, i militari sono fatti così». Paura, dunque? «Certamente abbiamo paura, molti di noi sono fuori dal paese perchè se fossero rimasti avrebbero fatto la fine di Giulio. Il ricercatore italiano non è il primo, dopo il colpo di stato del luglio 2013 ci sono 245 studentesse universitarie uccise dai soldati egiziani dentro gli atenei, ci sono 3.500 studenti detenuti senza possibilità di eseguire gli esami dal carcere, ci sono oltre 300 studenti sotto processo in un tribunale militare, 1000 studenti sono stati respinti dalle rispettive facoltà per le loro posizioni politiche. Giulio è uno delle migliaia di studenti oppressi da Sisi e anche dalla comunità internazionale, silenziosamente complice dei suoi crimini. Ma è arrivato il momento di sollevare il coperchio e vedere cosa bolle in pentola».

Cosa bolle in pentola? E’ la domanda che sta dietro alla morte di Giulio Regeni ma anche, a livello più ampio, quella che indaga il futuro dell’Egitto, l’ipotesi di una nuova più violenta rivoluzione di gente affamata, il ruolo dei sindacati indipendenti su cui pure lavorava il ricercatore italiano. Un Fratello della prima generazione sottolinea come davvero Giulio sia “uno di noi” nel senso di essere finito nello stesso gorgo repressivo: «Giulio è stato arrestato per le sue posizioni vicine ai sindacati indipendenti espresse negli articoli e negli scritti e sottoposto a torture non perché fosse coinvolto in azioni politiche dirette ma perché lavorava per descrivere il sistema. In realtà oggi in Egitto nessuno è lontano dalla politica. La resistenza al colpo di stato non è esclusiva dei partiti islamici e degli islamisti ma coinvolge tutti rappresentanti della rivoluzione, anche i sindacati. Siamo di fronte a un’autorità militare che considera ogni straniero e qualsiasi istituto straniero un pericolo, potenziali spie, forse Giulio è stato preso per una spia».

La nuova xenofobia del regime egiziano, alimentata proprio dall’associazione tra i Fratelli Musulmani e il Qatar, è un dato evidenziato anche dallo storico Khaled Fahmy: «L’Egitto è un regime di intelligence più che un regime di polizia come invece era la Siria di Assad o l’Iraq di Saddam. Vuol dire che il sistema di controllo egiziano si basa sul sospetto e sulla delazione e dopo il 2013 il sospetto verso gli stranieri è diventato paranoia, ong straniere espulse, studenti internazionali tenuti d’occhio, accademici e giornalisti internazionali sorvegliati».

Saad Eddin Ibrahim pensa però che il caso di Giulio Regeni possa rappresentare un punto di svolta: «Sisi è di fatto il più danneggiato in questo momento, è stato umiliato, ne emerge che non è nel pieno controllo del paese, per questo ha chiesto con forza un rapporto sull’accaduto. Chiunque sia il responsabile di questo assassinio barbaro, la domanda che è emerge oggi è: chi controlla lo Stato egiziano? Il “deep state”, l’apparato inossidabile? I servizi? Italia ed Egitto dovrebbero contenere la tentazione alla escalation diplomatica e lavorare insieme per tirare fuori la verità».
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » gio dic 06, 2018 9:04 pm

La guerra religiosa del presidente Sisi
Analisi di Zvi Mazel
(Traduzione di Angelo Pezzana)
Informazione Corretta

https://www.jpost.com/Opinion/President ... war-573361

http://www.informazionecorretta.com/mai ... QtEKCY8p50

Una guerra religiosa insidiosa si sta combattendo in Egitto e diventa sempre più virulenta di giorno in giorno. Non ha nulla a che fare con l'ostilità radicata di segmenti significativi della popolazione nei confronti della grande minoranza copta e gli episodi troppo frequenti di violenza contro i suoi membri. La guerra viene combattuta tra il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi e lo sceicco Al Azhar Ahmed el Tayeb intorno alla nuova interpretazione della narrativa islamica, cioè, in parole povere, se l'Islam deve tenere conto del tempo presente.
Durante la celebrazione del compleanno del Profeta nel Ministero degli affari religiosi (Awakf) il 18 novembre, c'è stato uno scontro pubblico tra i due. Alcune organizzazioni islamiche hanno poi organizzato delle proteste in favore di Sheikh el Azhar e indirettamente contro il presidente, che aveva attribuito i mali che affliggono oggi i musulmani all'errata interpretazione dei testi fondamentali dell'Islam.
Per questo, ha poi proseguito, i saggi islamici dovevano fare il possibile per trovare nella Sharia la via per redigere leggi adattate al tempo presente e alla modernizzazione, per aiutare la nazione e il mondo dell'Islam a progredire. Non vi era nulla di nuovo in quel discorso, Abdel Fatah al Sisi aveva detto le stesse cose nella stessa occasione tre anni prima, pochi mesi dopo la sua elezione. Poi aveva sorpreso l'Egitto e il mondo musulmano chiedendo una "rivoluzione" nell'Islam, rivedendo le interpretazioni tradizionali del Corano, valide da secoli, che però hanno dato vita a organizzazioni come Al Qaeda e lo Stato islamico, trasformando l'Islam in una religione portatrice di caos e distruzione nel resto del mondo.
Al Azhar, il più importane istituto di istruzione superiore del mondo sunnita, non ha risposto a quelle affermazioni. Al contrario, i suoi studiosi hanno sottolineato che non c'era nulla da cambiare o da modificare nella Sharia, che è valida in tutte le situazioni e su ogni argomento. Ma il presidente non ha mollato. In particolare, chiedendo a Sheikh al Azhar di dichiarare pubblicamente organizzazioni infedeli lo Stato islamico quali Ansar Beit El Makdess nella penisola del Sinai, che aveva giurato fedeltà all’ ISIS e ai Fratelli Musulmani, e di pubblicare una fatwa che condannava come infedele ogni musulmano o organizzazione che aderiva al terrorismo. Ahmed el Tayeb si è rifiutato, perchè non si può chiamare infedele un uomo che recita la Shahada – la professione di fede musulmana - e quindi conferma la propria fede in Allah e nei profeti. Al Azhar si è opposto in linea di principio a qualsiasi mossa che "punisca" un musulmano chiamandolo infedele fino a che non rifiuta i principi dell'Islam. Da quel momento in poi i rapporti tra il presidente e lo sceicco sono entrati rapidamente in contrasto, anche se gran parte dell’opinione pubblica non veniva a conoscenza di ciò che stava accadendo.

Intanto Al Sisi ha cercato di modificare la costituzione di Al Azhar per poter licenziare El Tayeb. Il conflitto è diventato pubblico lo scorso anno quando lo sceicco ha respinto l'iniziativa del presidente di rendere ufficiale il divorzio, facendo firmare alle parti un documento vincolante, eliminando così la separazione rimasta finora verbale. Allora il Ministero degli Affari Religiosi ha deciso che da quel momento in poi avrebbe preparato i sermoni del venerdì per tutte le moschee in modo che i giovani non fossero esposti all'estremismo e all'incitamento al terrore. Fu un duro colpo all'indipendenza di Al Azhar, che era tradizionalmente incaricata di inviare i sermoni alle migliaia di moschee sotto la sua tutela. Inoltre, il Ministero ha pubblicato nuovi libri religiosi senza sottoporli prima ad Al Azhar, come era la norma. La venerabile istituzione si è vendicata pubblicando nuovi libri propri che saranno presentati alla fiera del libro del Cairo il prossimo febbraio. La tensione era alta alla vigilia della celebrazione del 18 novembre. Imperterrito il presidente ha riaffermato la sua posizione. Era sostenuto dal Ministro degli Affari religiosi Mohammed Mokhtar Gomaa, che affermava con forza che era dovere degli studiosi di Al Azhar continuare a lavorare per eliminare le narrative estremiste e reinterpretare la Sharia per adattarla ai tempi moderni attraverso il rispetto dei principi veri dell'Islam. Tra le sue raccomandazioni c'era una nuova lettura della Sunnah, un corpo di testi e prescrizioni basate sulla trasmissione orale dell'insegnamento del Profeta. Ha poi informato che il suo ministero stava elaborando piani per istituire una nuova accademia religiosa per preparare uomini e donne alla predicazione. Sheikh el Azhar ha respinto tutti i tentativi di reinterpretare la Sunnah o di modificarla perché avrebbe portato i musulmani a contestare alcuni aspetti del Corano e delle sue prescrizioni, provocando una spaccatura all'interno dell'Islam. Annullò l'incontro privato che si sarebbe dovuto tenere con il presidente, rifiutandosi di stringere la mano al ministro.

Echi dello scontro divennero pubblici, mentre nello stesso giorno in uno spettacolo di sostegno a due distinte organizzazioni, l'unione delle tribù meridionali e quella dei diplomati di Al Azhar, ci furono preghiere speciali in una moschea nella città natale dello sceicco dell'Alto Egitto. Entrambe le organizzazioni volevano tenere una protesta fuori dalla moschea ma furono convinte a non farlo da un fratello minore dello sceicco, lui stesso una rispettata personalità religiosa. Si sono però impegnati a continuare la lotta per fermare gli "attacchi ad Al Azhar e la santa Sunnah". Può esserci un compromesso tra lo sceicco che non è pronto ad accettare alcun compromesso e il presidente che crede che l'Egitto deve liberarsi dalle catene di uno stile di vita stabilito al tempo del profeta per costruire un'economia forte e moderna e una società progressista? Nel frattempo Abdel Fatah al Sisi mantiene un dialogo diretto con i giovani del paese attraverso incontri in cui cerca di convincerli del loro ruolo nella creazione di una nuova società. Ha avviato un comitato nazionale della gioventù che si incontra ogni anno a Sharm a Sheikh e l'accademia religiosa progettata è l'ennesimo tentativo di aggirare Al Azhar e l'establishment islamico. Sebbene i movimenti islamici siano dotati di una struttura armata, gli egiziani ora sono consapevoli della situazione, devono prendere posizione.

Non c'è tradizione di democrazia e libertà di parola, la popolazione nel suo complesso è profondamente religiosa. Nelle prime elezioni successive alla cacciata di Mubarak, i Fratelli musulmani e i salafiti hanno ottenuto il 73% dei voti. Il presidente dovrà muoversi molto attentamente. Secondo voci insistenti, sta prendendo in considerazione una campagna mediatica contro lo sceicco Al Azhar. Una politica a doppio taglio. Come reagirà Al Azhar? Per come stanno le cose oggi il presidente dovrà promuovere una nuova e moderna legislazione senza il sostegno dell'establishment islamico, una soluzione che il presidente tunisino ha raggiunto nonostante la presenza contraria di queste forze, quando ha promulgato leggi che danno alle donne diritti uguali in materia di eredità. Sisi ha il sostegno dell'esercito e delle forze di sicurezza, che dovranno mantenere l'ordine e la stabilità qualora le proteste diventassero violente. Ma secondo il canale tv Al Arabia, un nuovo gruppo estremista, Morabitun, si è infiltrato nell'esercito, dando vita a dozzine di cellule segrete guidate da ufficiali. Nel Medio Oriente di oggi le speranze della primavera araba sono state infrante e potenti forze stanno ancora resistendo al progresso e alla democrazia sostenendo l'islam estremista. Le guerre fratricide stanno distruggendo gli stati arabi e l'Iran sciita ne sta approfittando. L'Egitto sta ancora affrontando l'insurrezione jihadista nel Sinai e gruppi terroristi continuano a seminare il terrore al Cairo. Il Presidente dovrà avere mano libera per attuare le riforme economiche mentre si occupa dell'islam tradizionale, cercando di ripristinare la cosiddetta Età dell'Oro dei Giusti Califfi e resistendo a tutti i tentativi che si oppongono al cambiamento.


Zvi Mazel è stato ambasciatore in Svezia dal 2002 al 2004. Dal 1989 al 1992 è stato ambasciatore d’Israele in Romania e dal 1996 al 2001 in Egitto. È stato anche al Ministero degli Esteri israeliano vice Direttore Generale per gli Affari Africani e Direttore della Divisione Est Europea e Capo del Dipartimento Nord Africano e Egiziano. La analisi di Zvi Mazel sono pubblicate in esclusiva in italiano su Informazione Corretta
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab gen 05, 2019 5:01 am

Egidia Beretta, la madre di Vittorio Arrigoni, da anni continua a diffondere odio contro Israele
Informazione Corretta
04.01.2019

http://www.informazionecorretta.com/mai ... 0&id=73254


Egidia Beretta, la madre di Vittorio Arrigoni, da anni continua a diffondere odio contro Israele in incontri pubblici e nelle scuole, propagandando l'idea che il figlio sia stato un eroico combattente per la libertà al fianco dei "martiri" arabi palestinesi, cioè i terroristi amici che le hanno sgozzato il figlio.
Vengono regolarmente taciute le cause della morte di Arrigoni, di chiara natura sessuale, ammazzato da quelli che fino a poco prima erano suoi amici terroristi. L’ultima tappa del 2018 di Egidia Beretta è stata presso la scuola superiore Vittorio Bachelet di Oggiono (vicino a Lecco). Il nostro lettore è andato a chiedere conto di questo invito al preside della scuola.


Ecco la sua lettera:

Buongiorno, ho sentito la preside della scuola. Mi ha detto che all’incontro con la signora Beretta hanno partecipato 4 professori, e nessuno di loro ha riscontrato problematiche né ha fatto segnalazioni. Mi ha detto inoltre che lo scopo dell’incontro non era politico, ma quello di fornire agli studenti strumenti per capire la realtà. L'impressione che ho avuto è che la preside non sapesse niente delle attività della Beretta, nè intenda fare indagini per saperne di più. Fatto sta che Arrigoni è stato presentato come un pacifista, cosa che non era.

Alessandro Parravicini
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » dom giu 23, 2019 7:46 am

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/06/2019, a pag.14 con il titolo "Tolto lo striscione per Regeni, Fedriga: non sarà più esposto" la cronaca (ideologica) di Lorenzo Padovan
Informazione Corretta

http://www.informazionecorretta.com/mai ... _QeviC0o70

Maha Abdel Rahman, docente membro della Fratellanza Musulmana di Giulio Regeni a Cambridge, è lei che l'ha mandato a morire ammazzato al Cairo

Per informarsi sui reali responsabili della orribile fine di Giulio Regeni, cliccare su http://www.informazionecorretta.com/mai ... 0&id=74458 il destino di Giulio Regeni quale vittima predestinata, approfittando della sua ingenuità circondata dagli ideali umanitari che gli impedivano di capire la realtà mediorientale, va cercato nell'Università di Cambridge, a mandarlo in Egitto con un incarico che equivaleva a privarlo della vita, è stata la sua docente, membro della Fratellanza Musulmana, il movimento terrorista fuorilegge in Egitto.
È questa la semplice verità sul caso Regeni, mentre gli striscioni sono solo propaganda ideologica di chiara provenienza.

Il ricordo del friulano Giulio Regeni sta sbiadendo proprio nella sua regione di origine. La richiesta di verità per il ricercatore di Fiumicello, torturato e ucciso in Egitto nel gennaio di tre anni fa, era stata avanzata con una serie di striscioni affissi anche sulle facciate dei palazzi delle istituzioni grazie a una campagna di Amnesty International. Da ieri il messaggio più significativo, quello all’esterno della sede della Regione, a Trieste, è stato rimosso. Per sempre. «Malgrado non condivida la politica degli striscioni e dei braccialetti, non ho fatto rimuovere lo striscione per più di un anno per non portare nell’agone politico la morte di un ragazzo - ha spiegato il presidente leghista Massimiliano Fedriga -. Ieri è arrivata l’ennesima pretestuosa provocazione, in conseguenza della nostra decisione di addobbare il palazzo per l’Europeo under 21. Perfino la Uefa mi ha dovuto scrivere impaurita da sterili tormentoni che non fanno altro che strumentalizzare il dramma. La mia attenzione non ha pagato, e ci si sente pertanto Unità d’Italia. Il primo a fare retromarcia fu invece il sindaco giuliano, Roberto Dipiazza, che poco dopo la propria elezione, sostenuto dal centrodestra, aveva deciso di rimuoverlo con le proprie mani. Ne ha seguito l’esempio, poche settimane fa, il suo omologo di Udine, Pietro Fontanini, leghista di lungo corso: in quel caso, dopo le polemiche che seguirono alla decisione, il primo cittadino fece sapere che si era trattato di un equivoco e dispose per il suo ripristino. «Rimaniamo sconcertati - è la reazione dell’ex sindaco di Udine Furio Honsell -. Sembra che ogni pretesto sia buono per eliminare un messaggio forte di giustizia e vicinanza alla famiglia».
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » gio dic 05, 2019 7:52 am

???

Regeni, si insedia la commissione d'inchiesta. Il presidente è Palazzotto di Leu
Vicepresidenti sono stati eletti Debora Serracchiani (Pd) e Paolo Trancassini (Fdi)
03 dicembre 2019

https://www.repubblica.it/politica/2019 ... h5v8n50gn8

ROMA - Al via il lavoro della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016. La Commissione parlamentare si è insediata poco fa a Palazzo San Macuto. Erasmo Palazzotto (Leu) è stato eletto presidente. Al termine della votazione Palazzotto ha spiegato di essere stato eletto con 11 voti favorevoli e 8 astensioni. Vicepresidenti sono stati eletti Debora Serracchiani (Pd) e Paolo Trancassini (Fdi). I segretari sono invece Massimo Ungaro (IV) e Roberto Turri (Lega). I segretari sono invece Massimo Ungaro (IV) e Roberto Turri (Lega).

"La commissione comincia a lavorare da oggi, stiamo già procedendo a fare il lavoro propedeutico per iniziare i lavori il prima possibile e per recuperare il tempo perduto perchè la ricerca della verità e di giustizia per l'uccisione di Giulio Regeni devono essere una priorità per questo paese". Così Palazzotto. La commissione è stata istituita con voto del parlamento il 30 aprile scorso ma non era ancora operativa a causa di uno stallo per l'accordo sull'elezione della guida dell'organismo bicamerale.

Sul rapporto con l'Egitto, il neo presidente afferma: "Noi abbiamo un grande lavoro politico da fare, lo stiamo cominciando, troveremo sicuramente la strada anche per cooperare con l'autorità egiziana e per cooperare in primo luogo sul piano politico e diplomatico, che è il compito in primo luogo del Parlamento". E per il presidente della Camera Roberto Fico un compito "duro e importante" attende la commissione.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab dic 12, 2020 9:11 pm

Patrick Zaky resta in carcere, udienza rimandata al 7 marzo
Rosa Scognamiglio - Dom, 23/02/2020

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/pa ... h_t5GSZFg0

Patrick George Zaky, lo studente di nazionalità egiziana impegnato in un master all'università di Bologna, resta in carcere per altre 2 settimane

Lo ha deciso il giudice del tribunale di Monsura dove, nella giornata di sabato 22 febbraio, si è svolta l'udienza a carico dell'attivista 27enne tacciato di propaganda sovversiva.

"Sono innocente, Conosco la legge e se fossi stato a conoscenza di qualsiasi illegalità non sarei tornato. Non capisco perché sono stato arrestato. Sono cristiano e avrei anche potuto chiedere asilo in Italia, ma non ho voluto", ha affermato Zaky ribattendo con piglio deciso alle accuse che lo hanno condannato ad una lunga e sofferta prigionia in Egitto. "Non ho mai scritto quelle cose", ha aggiunto prima di ricevere l'ennesimo contraccolpo. Il giudice, anche stavolta, ha respinto la richiesta di scarcerazione formulata dai suoi legali: resta in carcere fino al 7 marzo.

La legge egiziana prevede il rinvio del carcere fino ad un massimo di 200 giorni al fine di favorire il corretto svolgimento delle indagini. Ma Zaky è innocente e non smette di ribadirlo a gran voce: "Quel profilo Facebook non è il mio". Proprio ieri, L'Egyptian Initiative for personal rights, la ong con cui lo studente collabora, ha denunciato con una nota l'infondatezza dell'impianto accusatorio, la falsificazione del verbale di arresto e le violenze subite dal giovane durante l'interrogoratorio successivo al fermo in aeroporto al Cairo. Per questo motivo, i suoi legali - quattro, in totale - avevano fatto appello alla scarcerazione del giovane, detenuto nella prigione locae alla stregua di un prigioniero politico.

"Si tratta di una decisione crudele, immotivata e contraria persino al codice di procedura penale egiziano - ha denunciato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International all'agenzia Dire - Non 'è alcun motivo per cui Patrick George Zaky debba rimanere in carcere durante le indagini: non ha alcun potere di manomettere le indagini o alterare le prove, ammesso che ve ne siano. Non c'è nessuna garanzia di una procedura equa". In attesa di conoscere l'esito della prossima udienza, fissata per il 7 marzo, Amnesty ha annunciato che avvierà una campagna di sensibilizzazione "per tenere alta l'attenzione sulle prossime udienze - conclude Noury - La politica, i media e i cittadini che sono scesi in piazza a manifestare devono continuare a farlo. Non dobbiamo crederci sconfitti".

Alberto Pento
Non riesco a capire perché un egiziano cristiano copto possa trovarsi implicato in una situazione del genere.
Io avevo creduto (ignorantemente e stupidamente per non aver mai approfondito) che fosse un nazi maomettano e che come il sinistro Regeni (a cui è stato sempre associato dai media) se la facesse con i terroristi della Fratellanza Mussulmana che è contro al-Sisi che cerca a suo modo di proteggere la minoranza cristiana dall'oppressione del nazismo maomettano
.



Patrick George Zaki: chi è il giovane arrestato e torturato in Egitto
Enrico
Patrick George Zaky è un attivista e ricercatore egiziano di 27 anni arrestato e torturato al Cairo. Ecco tutto quel che c’è da sapere su di lui.

A quattro anni dal caso di Giulio Regeni, sulle cronache internazionali si riaffaccia il fantasma della tortura e dell’ingiustizia con la drammatica vicenda di Patrick George Zaky, il 27enne attivista e ricercatore egiziano anni arrestato e torturato al Cairo. Conosciamolo più da vicino.



https://www.viagginews.com/2020/02/16/p ... to-egitto/

Il profilo completo di Patrick George Zaki


Patrick George Zaki, all’anagrafe Patrick George Michael Zaki Suleiman, è un 27enne originario di al-Mansoura, in Egitto, appartenente alla comunità cristiana copta e impegnato come ricercatore per i diritti umani nell’ambito del programma Gemma all’università di Bologna. Per il programma Erasmus Mundus dell’Unione Europea ha preso parte al master in studi di genere e delle donne, coordinato dall’Università di Granada. Nel 2017 aveva iniziato a lavorare per l’Egyptian Initiative for personal rights, una tra le più grandi organizzazioni egiziane per i diritti. La collaborazione si era interrotta quando il giovane era partito per Bologna per dedicarsi ai suoi studi.

Il caso di Patrick George Zaki rientra probabilmente nei tanti episodi simili di violenza contro i copti e gli attivisti e ricercatori che spesso avvengono all’interno dell’aeroporto del Cairo. Era il 7 febbraio quando, rientrando da Bologna alla sua città natale per una breve vacanza, il giovane è stato arrestato nello scalo dalla NSA senza un apparente motivo, bendato e ammanettato, e gli agenti lo hanno sottoposto a un interrogatorio di 17 ore avente ad oggetto il suo lavoro nell’ambito dei diritti umani. Le accuse contro di lui vanno dalla diffusione di notizie false all’istigazione alla violenza e ai crimini terroristici e all’incitamento alla protesta. Durante l’interrogatorio il 27enne avrebbe subito violenze psicologiche e minacce, e sarebbe stato vittima di torture con scosse elettriche oltre che di pestaggio.

Il giorno successivo all’arresto di Patrick George Zaki, i giudici del tribunale di al-Mansoura hanno deciso per la detenzione di 15 giorni in attesa delle indagini. A quanto pare le accuse si riferiscono ad alcuni post che il giovane ricercatore ha pubblicato su Facebook, ma neppure il suo avvocato ha avuto il permesso di esaminare i contenuti in questione. Detenuto a Talkha, vicino alla sua città d’origine, Patrick George ha comunque potuto vedere la sua famiglia in attesa di comparire nuoasmente in tribunale il prossimo 22 febbraio. In tutta Italia, intanto, si susseguono le iniziative a sostegno della sua liberazione.




Alberto Pento
Questi dell'internazionale parlano dell'omosessualità, certo che associarlo al sinistro Regeni è improprio.



Il caso di Patrick Zaki e l’ambiguità delle relazioni tra Italia ed Egitto
Catherine Cornet
13 febbraio 2020

https://www.internazionale.it/opinione/ ... aki-italia


Il parallelo è agghiacciante. Mentre sono trascorsi quattro anni di impunità per gli agenti di sicurezza egiziani che hanno torturato a morte il ricercatore italiano Giulio Regeni, dal Cairo arrivano notizie del giovane egiziano Patrick Zaki, studente all’università di Bologna, torturato con scosse elettriche dalle stesse forze di sicurezza. Questa volta, però, l’Italia e l’Europa devono farsi sentire di più: questa volta, deve andare meglio.

Patrick George Zaki, 27 anni, ricercatore egiziano per i diritti umani, è studente del programma Gemma all’università di Bologna. Il suo master in studi di genere e delle donne (Gemma), coordinato dall’università di Granada, è finanziato dal programma Erasmus Mundus dell’Unione europea. Zaki è stato arrestato il 7 febbraio 2020 al suo arrivo in Egitto per una breve visita alla sua famiglia.

Il sito indipendente egiziano Mada Masr ha parlato a Samuel Thabet, l’avvocato di Zaki. Thabet ha spiegato che “Zaki è stato portato nell’ufficio dell’Agenzia della sicurezza nazionale all’interno dell’aeroporto, dove è stato bendato e trattenuto per 17 ore. È stato quindi trasferito in una sede della sicurezza nazionale della sua città di origine, Mansura, a circa 120 chilometri dal Cairo, dove è stato picchiato, spogliato e sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sulla pancia. È stato anche abusato verbalmente e minacciato di stupro”.

Nel commissariato di Mansura è stato interrogato in presenza del suo avvocato. Thabet spiega che gli agenti avevano degli screenshot della sua pagina Facebook e tentavano di accusarlo di aver pubblicato notizie false, incitato alla protesta, fatto appello al rovesciamento dello stato, di gestire un account sui social network che mira a “minacciare l’ordine sociale e la sicurezza e a incitare alla violenza e ad atti terroristici”. È stato anche interrogato a lungo sul suo lavoro sui diritti umani e sullo scopo della sua permanenza in Italia.

Una faccenda puramente egiziana?
Il primo elemento sottolineato dal comunicato ufficiale del ministero dell’interno egiziano è che Zaki non è italiano: “Quello che veicolano certi social network sul fatto che è stato arrestato un italiano di nome Patrick è falso. È stato arrestato un egiziano il cui nome completo è Patrick George Michel Zaki Suleiman in seguito a una decisione del procuratore di trattenerlo per 15 giorni mentre proseguono le indagini”.

Il quotidiano egiziano Al Masry al Youm scrive un articolo di quattro righe citando solo fonti di sicurezza. Si tratta chiaramente di ribadire che Zaki è di nazionalità egiziana e che l’Italia non c’entra. Mentre un altro quotidiano, Akhbar al Youm, riporta l’opinione di Nashat al Dihy, presentatore del programma Carta e penna trasmesso dalla tv satellitare egiziana Ten: Al Dihy pensa che l’organizzazione per i diritti umani Iniziativa egiziana per i diritti individuali serve a “diffondere l’omosessualità” e spiega in diretta che “questa faccenda è puramente interna all’Egitto”, approfittandone per fare un discutibile ritratto dello studente: “Questo Patrick è un omosessuale (l’omosessualità in Egitto è un crimine, ndr) che è andato a studiare per un master sull’omosessualità all’estero e che lavora per un’organizzazione di promozione dell’omosessualità”. Dopo avere anche insinuato che si tratta “sicuramente di un terrorista”, conclude: “È un cittadino egiziano, e il suo arresto è dunque una procedura al 100 per cento egiziana”. Il parallelo con un altro studente torturato a morte è inquietante: anche contro Regeni i mezzi d’informazione di regime egiziani avevano costruito una campagna di stampa con il pretesto dell’omosessualità.

Davanti al buio degli arresti e delle sparizioni, l’Italia e l’Europa rappresentano l’ultima possibilità di protezione

Purtroppo, lo scenario dell’arresto di Zaki è comune nell’Egitto del generale Abdel Fattah al Sisi. Molti altri attivisti e ricercatori sono stati arrestati direttamente al loro arrivo all’aeroporto. Amnesty international Italia, in un suo rapporto, intitolato Egitto: “Tu ufficialmente non esisti”. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo, rivela “una vera e propria tendenza che vede centinaia di studenti, attivisti politici e manifestanti, compresi minorenni, sparire nelle mani dello stato senza lasciare traccia”.

Per gli amici di Zaki che hanno creato la petizione online su Change è invece importante chiamare in causa l’Italia: sulla foto della petizione Patrick George Zaki è ritratto, sorridente, a piazza Venezia, a Roma. Davanti al buio degli arresti e delle sparizioni, l’Italia, l’Europa rappresentano l’ultima possibilità di protezione.

A Bologna, gli amici di Zaki hanno organizzato un flash mob in piazza, le associazioni di studiosi di Medio Oriente e alcuni storici italiani hanno scritto una lettera di protesta, l’Alma Mater di Bologna ha pubblicato un comunicato in cui auspica che il ritorno dello studente – che ha vinto una borsa di studio – avvenga al più presto. Giuseppe De Cristofaro, sottosegretario del ministero dell’università e della ricerca, è citato dai mezzi d’informazione egiziani per la sua decisione di allertare l’Unione europea sulla faccenda.

I grandi affari bellici
Il quotidiano panarabo Al Araby al Jadid è però pessimista: nonostante il caso Regeni, i rapporti economici tra Italia ed Egitto si sono intensificati, in particolare sul fronte dell’energia – in seguito alla scoperta dell’Eni dell’enorme giacimento di gas Zohr – e della cooperazione militare. Al giornale sono pervenute informazioni sulla “possibilità imminente di un accordo sugli armamenti tra il Cairo e Roma per un importo di nove miliardi di euro. Si sta anche aspettando l’approvazione del governo italiano per vendere due fregate della marina militare all’Egitto per un totale di 1,5 miliardi di euro. Queste due navi si uniscono a quelle che il Cairo aveva precedentemente acquistato da Parigi. Un terzo atto dovrebbe includere il vero ‘grande affare’, la vendita di elicotteri e aerei da caccia del tipo Typhoon. Fonti diplomatiche europee al Cairo hanno anche rivelato ad Al Araby al Jadid che il Cairo aveva informato, lo scorso autunno, Roma e Parigi del suo desiderio di ‘aumentare l’efficienza delle sue forze navali ed espandere la flotta di fregate multitasking’, e che l’Italia dispone di strutture per fregate, che può fornire all’Egitto al più tardi nella primavera del 2020”.

In questo gioco di specchi, l’abbraccio tra le società civili di Italia ed Egitto si rende sempre più necessario, come testimonia l’immagine del murales di Laika apparso l’11 febbraio sui muri di villa Ada a Roma, nelle vicinanze dell’ambasciata d’Egitto in Italia, in cui si vede Giulio Regeni che abbraccia Zaki e promette che “questa volta andrà meglio”.

Mentre si spera che sia effettivamente così, Zaki si sta aggiungendo a una schiera di “santi martiri della rivoluzione”, scrive il sito indipendente arabo Daraj: “Come un san Patrizio irlandese armato di un trifoglio, anche Patrick ha piantato una rivoluzione a tre foglie – pane, libertà e giustizia sociale – disturbando i serpenti egiziani. Certo, non indossando l’abito del santo ma piuttosto gli occhiali dell’osservatore che gli hanno permesso di monitorare le violazioni dei diritti dei cittadini egiziani, e in particolare gli attacchi contro i copti, i cristiani egiziani”. Patrick George appartiene infatti anche all’importante comunità cristiana copta che conta circa dieci milioni di persone. Abdel Fattah al Sisi si è presentato spesso come il loro protettore per giustificare la violenza contro i Fratelli musulmani e i suoi metodi autoritari. “Patrick Zaki è un giovane copto con un volto calmo, moderno, disciplinato ed equilibrato, ed è evidente che, nonostante i tentativi di zittirlo, non ha smesso di monitorare le violazioni subite dai copti d’Egitto, inclusi i trasferimenti forzati, le uccisioni, gli abusi e gli incendi delle chiese. Monitora ciò che succede giorno per giorno, ma la denuncia di un copto è fastidiosa e le autorità cercano sempre di metterla a tacere”.

L’arresto e la tortura di giovani egiziani e stranieri prelevati dai servizi egiziani è inaccettabile: l’Italia e l’Europa dovrebbero recuperare un minimo di fermezza morale nei loro rapporti diplomatici nel Mediterraneo.



Alberto Pento
Adesso che so che è cristiano e omosessuale, spero non comunista e non demosinistro, lo guardo con maggior simpatia, anche grazie al suo buon sorriso accattivante.
Ma se fosse anche sinistro-comunista oltre che omosessuale e cristiano mi passerebbe ogni simpatia.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab dic 12, 2020 9:12 pm

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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab dic 12, 2020 9:12 pm

La necessità di Al-Sisi
Niram Ferretti
12 Dicembre 2020

http://www.linformale.eu/la-necessita-di-al-sisi/

“In Medio Oriente nel corso degli ultimi dieci anni, due grandi correnti hanno tentato di dare una sorta di leadership politica alle lotte dei popoli della regione. In primo luogo, la crisi in Palestina rappresenta il lavoro incompiuto dai movimenti di liberazione nazionale degli anni 1950 e 1960. L’intifada rinnovata, e il ruolo chiave svolto da Fatah, il più grande blocco nazionalista dell’OLP, dimostrano la risonanza persistente di idee nazionaliste. In secondo luogo, il movimento islamista ha risposto alla crisi dell’imperialismo con una sorta di internazionalismo islamico, che contrappone gli attivisti islamici direttamente alle forze ‘crociate’ dell’imperialismo.

Di tutti i conflitti in Medio Oriente, nessuno simboleggia la lotta impari contro l’imperialismo meglio che l’intifada palestinese. L’immaginario della intifada – bambini contro carri armati, gli scontri nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, i funerali e le manifestazioni di massa – è stato bruciato nei ricordi di una generazione in tutto il Medio Oriente. Per un gran numero di gente comune, l’impotenza dei regimi arabi di fronte l’aumento dei livelli di brutalità da parte delle forze israeliane di occupazione è solo uno specchio della propria umiliazione.

Capire come l’intifada si collega alla lotta più ampia in Medio Oriente è una parte vitale per cogliere il vero potenziale di resistenza all’imperialismo occidentale e la repressione in casa propria. La debolezza della borghesia palestinese, e la superiorità militare ed economica completamente schiacciante di Israele hanno fatto sì che il movimento di liberazione nazionale palestinese non sia ancora riuscito a creare uno stato a sé stante. In molti modi l’esperienza della lotta palestinese è una testimonianza della capacità di recupero dei movimenti di liberazione nazionale, in quanto è il coraggio e la creatività del popolo palestinese comune. Eppure il corso dell’intifada dell’ultimo anno dimostra anche l’impotenza finale della lotta nazionale.”

Chi pronunciò queste parole è Anna Alexander la referente accademica a Cambridge di Giulio Regeni, la sua tutor. Troviamo nell’eloquio militante e fervoroso della docente inglese le parole d’ordine di conio sovietico che dal 1967 hanno determinato il lessico terzomondista e anti-occidentalista dei propalestinesi accaniti in servizio permanente.

“Imperialismo”, “liberazione nazionale”, “occupazione” sono i feticci verbali preferiti, corredati in questo caso da “crociata”, termine questo mutuato dal lessico musulmano. La tesi è quella arcinota e propalata senza sosta dai megafoni rossi avvolti dalla bandiera con la mezzaluna. Israele è una potenza imperialista la quale opprime un popolo autoctono che resiste con la lotta.

Questa tesi è quella che unisce in una alleanza tenace, solida e fanatizzata, la sinistra occidentale (non solo l’estrema sinistra) e l’Islam. Sì, c’è anche l’estrema destra che in nome del suo storico anticapitalismo e antiamericanismo è necessariamente antisionista, ma questa è un’altra storia, residuale, e che non preoccupa più di tanto visto l’irrilevanza politica mondiale delle formazioni di estrema destra. Ma veniamo alla Alexander per poi giungere a Al Sisi e a Regeni. Perché una cosa fondamentale è necessario capirla. L’attacco concentrico contro Al Sisi e l’Egitto come luogo di una brutale dittatura è stato cucinato con cura dai sodali dei Fratelli Musulmani, di cui la Alexander, come altri a sinistra, è estimatrice. Bisogna raccontare un attimo questo mondo capovolto per capire cosa bolle in pentola e chi sta con chi, e qual è la posta in gioco, perché se non si capisce questo non si capisce niente.

Tutto comincia con l’appoggio dato dall’amministrazione Obama ai Fratelli Musulmani. La scommessa spericolata riguardo all’Egitto fatta da quella amministrazione, fu di puntare su una formazione estremista le cui origini sono radicate nell’integralismo islamico fin dagli anni Trenta. Alle spalle di questa scelta c’è lo sdoganamento dell’Islam come “religione della pace” fatto da Obama al Cairo nel 2009. Non che la qualifica sia di Obama. Va detto. La eredita da Bush Jr., solo che la carica di una valenza ideologica e protettiva sconosciuta al suo predecessore.

Per Obama e i suoi consiglieri ultra-progressisti, l’Egitto sarebbe stato meglio stabilizzato se al potere fosse andata una formazione ultrareligiosa. La stessa che nella storia dell’Egitto contemporaneo è stata sempre ostracizzata da Nasser in poi, e quando, infatti, Morsi venne eletto dopo il vuoto lasciato da Mubarak, alla Casa Bianca si innalzarono festosi, i peana.

L’appeasement con gli estremisti fu una delle cifre fondanti della politica estera di Obama. Nessuno più di lui mandò in soffitta la massima di Churchill, “Un conciliatore è colui che nutre un coccodrillo sperando di essere l’ultimo a farsi divorare”. I Fratelli Musulmani sono, infatti, la cerniera con Hamas, costola palestinese del movimento egiziano che aveva in Yasser Arafat una delle sue punte di diamante. Dalla loro fondazione nel 1928 non hanno mai nascosto il loro antisemitismo. Fu il movimento egiziano a trovare una sponda ideologica con il nazismo e a diffondere nel mondo arabo il “Mein Kampf” e i “Protocolli dei Savi di Sion”.

La preferenza accordata da Obama ai nemici giurati di Israele, tra cui anche l’Iran, si fondava sulla convinzione che solo la negoziazione con gli estremisti avrebbe condotto al loro ravvedimento. Il coccodrillo avrebbe cessato di alimentarsi di carne umana, modificando la sua natura. In questo scenario che fa strame della realtà per mettere al suo posto il più disastroso wishful thinking si inseriva anche il dispositivo ideologico di una netta pregiudiziale anti-israeliana a cui è consequenziale un afflato per la causa palestinese.

La dottrina Obama rispecchiava fedelmente le pregiudiziali più incistate nella sinistra statunitense che vede in Israele un paese colonialista e oppressivo e negli arabi un popolo vittima che cerca di opporsi con la lotta armata. Se Israele è più forte militarmente e più tecnologicamente avanzato è una colpa che deve espiare nei confronti degli arabi i quali, in fondo, si facevano solo esplodere sugli autobus e nei locali pubblici e si sono poi “ridotti” a usare coltelli, pietre e autoveicoli per aggredire e uccidere i civili e i militari israeliani.

Al Sisi è agli antipodi di tutto ciò. Ha fatto strame dei Fratelli Musulmani, ha condannato a morte Morsi, ha tenuto a bada Hamas, e cosa ancora più radicale, ha osato l’impensabile, ha affermato che il terrorismo di matrice islamica ha le sue radici nella religione, che il problema è interno e non esterno. In questo è l’anti-Obama, il suo contrario speculare.

In poco tempo, Al Sisi ha scardinato la narrativa obamiana e messo in mora quella liberal che vede nei Fratelli Musulmani una risorsa e nel terrorismo palestinese un movimento di liberazione nazionale. Da quel momento il presidente egiziano è diventato un nemico, un feroce e sanguinario dittatore, peggio di Assad. Dopo che l’Iran venne sbiancato dall’amministrazione Obama, il problema divenne lui. È Al Sisi che viola i diritti umani. Al Sisi e, naturalmente, Israele. Contro di lui si scagliò la stampa embedded obamiana, New York Times in testa.

In questo scenario capovolto, si inserisce la morte del ricercatore italiano Giulio Regeni trasformato in un simbolo della violenza del dittatore e una vittima della libertà e della verità, così Al Sisi è diventato il Pinochet egiziano. Raramente una vittima è stata strumentalizzata più cinicamente e selvaggiamente di Giulio Regeni. I suoi assassini sono egiziani, ma i responsabili morali della sua tragica fine sono personaggi come la Alexander e l’altra sua tutor, Maha Mahfouz Abdel Rahman, nota attivista antigovernativa che, sempre a Cambridge, gli commissionò la ricerca sui sindacati egiziani indipendenti, con la consapevolezza di mandare il giovane ricercatore italiano su un campo minato.

Dietro l’esaltazione del povero Regeni come simbolo della lotta per la verità e la libertà ci sono gli osteggiatori del rais egiziano, i duri e puri antioccidentalisti e fiancheggiatori dei terroristi palestinesi e della fratellanza musulmana, c’è un’idea di mondo che vede nell’Islam, la più grande potenza colonizzatrice e imperialista degli ultimi 1400 anni, quella che più persistentemente ha coltivato e coltiva le proprie pretese suprematiste e totalizzanti, una vittima da salvaguardare.

Al Sisi è un militare e un uomo abituato alla brutalità e alla violenza in una regione e soprattutto in un paese in cui esse impregnano l’aria che si respira, ma è essenziale per arginare la deriva estremista e musulmana che già si era manifestata dopo la caduta di Mubarak. Quella stessa deriva contro cui Israele, dopo la caduta di Mubarak, aveva messo in guardia. È un alleato essenziale per Israele e necessario all’occidente.

Un figlio di puttana utile. Sì, per evitarne di assai peggiori.



LO SDEGNATO
Niram Ferretti
13 dicembre 2020

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Corrado Augias è davvero un uomo tutto di un pezzo. Ha restituito la Legion d'onore che gli era stata conferita, in solidarietà a Giulio Regeni. Nella lettera inviata all'ambasciata di Francia così motiva il suo gran rifiuto:
"La mia opinione è che il presidente Macron non avrebbe dovuto concedere la Legion d'onore ad un capo di Stato che si è reso oggettivamente complice di efferati criminali. Lo dico per la memoria dello sventurato Giulio Regeni, ma anche per la Francia, per l'importanza che quel riconoscimento ancora rappresenta dopo più di due secoli dalla sua istituzione. Quando il primo console Napoleone Bonaparte la istituì, non voleva ridare vita ad un ordine cavalleresco ma certificare il riconoscimento di un merito, militare o sociale. Questa distinzione è importante in relazione al caso di cui si discute. Dove e quali sono i meriti del presidente Al-Sisi?".
Il gesto è pomposo e demagogico, da palcoscenico, ma, ovviamente, Augias è libero di fare come crede. Al-Sisi avrebbe coperto gli assassini di Regeni e questo gli è insopportabile, e poi, appunto, dove sono i meriti del presidente Al-Sisi?
Forse quello di avere tolto di mezzo Morsi, avere represso drasticamente i Fratelli Musulmani, avere tenuto a bada Hamas, e cosa ancora più radicale, avere affermato che il terrorismo di matrice islamica ha le sue radici nella religione, che il problema è interno e non esterno all'Islam.
Certo, Al-Sisi è un dittatore, un uomo brutale. Su questo non ci sono dubbi. La morte di Giulio Regeni è una vicenda molto triste, ma lo sventurato ragazzo, e lo sdegnato Augias forse non lo sa, è stato mandato allo sbaraglio dalle sue tutor inglesi a Cambridge, una la terzomondista e antisionista Anne Alexander e l'altra Maha Mahfouz Abdel Rahman, di origine egiziana e attivista antigovernativa. Due feroci avversatrici del presidente egiziano che hanno indotto il ricercatore a infilarsi in un ambito estremamente pericoloso.
Prima di essere vittima dei servizi di sicurezza egiziani, Regeni è stato vittima delle sue tutors, del loro estremismo.
Ma, ovviamente, fa più scena restituire la Legione d'onore a Macron perchè l'ha data anche ad Al-Sisi, piuttosto che chiamare in correo le due tutors di Cambridge.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » mer dic 16, 2020 8:31 am

La Fratellanza Musulmana spiegata bene (a proposito di Zaki e Regeni)
15 dicembre 2020

https://www.francolondei.it/la-fratella ... -e-regeni/

In un momento in cui si parla molto di Giulio Regeni e di Patrick Zaky, un momento in cui il Presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, viene messo sulla graticola per la sua lotta alla Fratellanza Musulmana, pur senza nessuna intenzione di giustificare nessuno o alcunché ma per capire meglio anche quanto successo a Regeni e a Zaki dobbiamo partire con il capire cosa è veramente la Fratellanza Musulmana, perché al-Sisi la combatte e in seguito (prossimamente) vedere quali collegamenti ci sono tra i Fratelli Musulmani e i casi di Regeni e Zaki

Lo scopo principale di questo articolo sulla Fratellanza Musulmana (o Fratelli Musulmani) è quello di analizzarne la composizione, gli obbiettivi su scala globale, i pericoli che rappresenta, le attività in occidente e i suoi legami con il terrorismo islamico. Ma soprattutto vogliamo evidenziare le analogie tra gli obbiettivi dello Stato Islamico e quelli della Fratellanza Musulmana.
Cosa è la Fratellanza Musulmana

La Fratellanza Musulmana (Al-Ihkwan al-Muslimun) è emersa nell’ultimo secolo come una delle maggiori organizzazioni islamiche. Si tratta di una organizzazione sunnita con sede al Cairo che ha come obbiettivo principale l’instaurazione del califfato globale.

Il loro motto è: “Allah è il nostro Obiettivo. Il Profeta è il nostro Leader. Il Corano è la nostra Legge. La Jihad è la nostra Via. Morire sulla via di Allah è la nostra più alta Speranza”.

La Fratellanza Musulmana non è tuttavia una organizzazione prettamente religiosa quanto piuttosto un sofisticato connubio tra religione, politica, terrorismo e assistenza sociale, il tutto mirato a promuovere un ruolo totalitario dell’islam nel mondo.

Ufficialmente la Fratellanza Musulmana ha rinunciato alla violenza con un accordo risalente al 1971 raggiunto con l’allora Presidente egiziano, Anwar el Sadat. In realtà la Fratellanza Musulmana continua a sostenere la Jihad armata attraverso azioni dirette e il sostegno a diversi gruppi terroristici, tra i quali Hamas.

Grandi gruppi terroristici quali Al Qaeda e lo Stato Islamico (ISIS) si rifanno apertamente alla ideologia della Fratellanza Musulmana.

L’Egitto, dall’avvento del Presidente Abd al-Fattah al-Sisi considera i Fratelli Musulmani un gruppo terrorista e li ha dichiarati fuorilegge. La Fratellanza Musulmana è presente praticamente in tutto il mondo con oltre 80 sedi sparse nei maggiori paesi arabi, in Europa e nelle Americhe.
Ideologia e strategia

Gli obiettivi primari della Fratellanza Musulmano sono:

Informare il mondo sull’Islam e diffondere i suoi insegnamenti
Unificare il mondo sotto il vessillo dell’islam
Innalzare il tenore di vita e la giustizia sociale
Combattere le malattie, la povertà, l’ignoranza e la fame attraverso l’insegnamento dell’Islam
Liberare la nazione islamica (Ummah) dalle regole degli infedeli
Creare un mondo islamico (califfato)
Creare una nuova civiltà mondiale basata sulla Sharia e sull’Islam

Strategia per raggiungere gli obiettivi

L’obiettivo finale dei Fratelli Musulmani è la costruzione di un califfato globale (Stato Islamico) in cui il Califfo (monarca) regna applicando norme e leggi conformi alla Sharia (legge islamica). Tuttavia la strategia adottata dalla Fratellanza Musulmana per raggiungere gli obiettivi non è univoca e cambia a seconda delle circostanze pur rimanendo perfettamente indirizzata al raggiungimento dell’obiettivo finale.

In alcuni contesti la Fratellanza Musulmana usa la violenza o l’appoggio al terrorismo islamico, come per esempio in Medio Oriente. In altri contesti, come per esempio in Europa, si presenta con l’aspetto di un movimento politico e assistenziale che ha come missione quello di reclutare nuovi membri votati alla diffusione del messaggio dell’Islam (dawa o proselitismo). Solo in seguito, se necessario, viene contemplato l’uso della violenza (Jihad).

Il segno distintivo della Fratellanza Musulmana è la lenta ma costante crescita, il lento ma pragmatico lavoro di reclutamento.

La loro “maschera” sono gli istituti caritatevoli islamici, le banche islamiche apparentemente regolari e volte alla carità islamica (Zakat), i centri islamici, le scuole islamiche, i centri sportivi ed altri enti a duplice scopo, quello di diffondere il messaggio dell’Islam e allo stesso tempo promuovere lo Zakat volto a sostenere lo Jihad.

L’insegnamento dell’Islam, volto principalmente ai giovani, è una delle colonne portanti della Strategia della Fratellanza Musulmana.

Solo chi comprende a fondo gli insegnamenti dell’Islam può avviarsi alla Jihad. Proprio la Jihad armata rimane parte integrante della filosofia della Fratellanza Musulmana e lo è per statuto (la Nazione Islamica deve essere pronta a combattere i tiranni e i nemici di Allah come preludio per l’instaurazione di uno Stato Islamico).

I Fratelli Musulmani, considerati da molti come i fondatori dell’Islam moderno, benché ufficialmente considerino il capitalismo e il comunismo ostili all’islam in realtà attingono a piene mani dalle ideologie comuniste e fasciste del 20esimo secolo, a partire dall’odio dichiarato verso gli ebrei

“Gli Ebrei sono dietro il materialismo, la sessualità animale, la distruzione della famiglia e la dissoluzione della società” così scriveva nel 1951 Sayyid Qutb, leader dei Fratelli Musulmani, nel suo libro «la nostra battaglia contro gli Ebrei», libro di testo nelle scuole islamiche della Fratellanza Musulmana.

A livello religioso la Fratellanza Musulmana aderisce all’Islam sunnita. Al suo interno racchiude le due maggiori correnti dell’Islam sunnita, quella Wahabita o salafita e quella sufista manovrando a proprio piacimento e in maniera pragmatica ambedue le correnti.

I Fratelli Musulmani non fanno differenza tra religione e politica, la politica è basata completamente sulla religione e per questo risulta essere incompatibile con la maggior parte delle convenzioni riconosciute in Europa e nel mondo occidentale basate sulla laicità. La legge islamica viene prima di qualsiasi altra legge.

Il fondatore della Fratellanza Musulmana, Hassan al-Banna, è stato fortemente influenzato da pensatori e ideologi musulmani del livello di Jamal al-Afghani, Abul Ala Maududi, Muhammad Abduh e Rashid Ridah i quali hanno sviluppato la dottrina dei Fratelli Musulmani tra cui il concetto che si deve amare la morte e il martirio nel nome di Allah (Noi amiamo la morte più di quanto amiamo la vita. Slogan ripreso anche da Hamas).

Ci sarebbe poi da fare un lunghissimo discorso sul cosiddetto “revivalismo islamico” ma lasciamo tutto questo ad altra occasione dato per per affrontare questo discorso dovremmo ricostruire tutta la genealogia della Fratellanza Musulmana e il rapporto diventerebbe chilometrico.
Le differenze tra la Fratellanza Musulmana e gli altri gruppi islamici

Le differenza tra la Fratellanza Musulmana e gli altri gruppi islamici come Al Qaeda o lo Stato Islamico (ISIS) sono fondamentalmente tattiche e non ideologiche. L’obbiettivo è sempre lo stesso, quello della creazione del califfato globale, cambiano le tattiche per raggiungerlo.

Molti gruppi salafiti considerano la Fratellanza Musulmana “poco rigida”. Essi considerano la tattica del “cambiamento graduale” poco islamica e per questo la criticano anche se mezzi e obbiettivi sono sempre gli stessi. Invece la tecnica “gradualista” della Fratellanza Musulmana è molto furba perché si insinua in ogni parte del mondo fornendo una falsa sensazione di moderatezza tanto che in molti Paesi, compresa l’Italia, i Fratelli Musulmani vengono considerati l’Islam moderato.
Parola d’ordine “gradualità”

La gradualità è la strategia centrale per i Fratelli Musulmani. L’insinuazione progressiva nelle società occidentali sta alla base della strategia operativa della Fratellanza Musulmana.

Essi apparentemente rifuggono alla violenza, senza però mai condannarla apertamente, dando la falsa impressione di moderatezza e di apertura. In questo si differenziano dai salafiti che invece propendono per la conquista violenta e immediata.

I fondamenti teologici della strategia della gradualità sono stati delineati da Sheikh Qaradawi che nelle sue linee guida ha ricordato come la Sharia (legge islamica) vada introdotta in maniera graduale persino nei Paesi islamici (nessun taglio di mani nei primi cinque anni).

Una guida scritta denominata “progetto” che prevede l’imposizione della Sharia in 12 fasi è stata ritrovata dall’FBI durante una operazione volta a sgominare una organizzazione che finanziava il terrorismo islamico in America.

Nel documento tra le altre cose si poteva leggere: “il processo di imposizione della Sharia (islamizzazione) in America deve essere una sorta di Grande Jihad volta a distruggere la civiltà occidentale dal suo interno e «trasportare» la loro case dalle mani dei miscredenti a quelle dei credenti in modo graduale”.

Altri documenti scritti da Qaradawi sono venuti alla luce durante l’operazione condotta dall’FBI e hanno permesso di delineare con sufficiente precisione la “strategia della gradualità” della Fratellanza Musulmana. Detta strategia prevede due fasi principali divise a loro volta in altre fasi minori:

1: graduale sviluppo della comunità islamica in occidente

2: progressiva diffusione dell’Islam nella sfera politica occidentale.

Alle due fasi appena enunciate sono collegate le seguenti sotto-fasi:

Fase 1: Da’wa (letteralmente significa chiamata all’Islam). Questa prima fase è caratterizzata dalla formazione dei musulmani. I Fratelli Musulmani locali cercano di creare gruppi di studio tra tutti i musulmani insegnando loro i principi dell’Islam e la presentazione di una immagine pacifica e positiva dell’Islam da trasmettere all’esterno. Questo primo stadio non è violento e si concentra sulla costruzione di moschee o luoghi di preghiera e di comunità.

Fase 2: Da’wa parte seconda. Attivo proselitismo con mezzi pacifici dei non musulmani. Questa fase è volta a convertire quanti più settori della società occidentale attraverso la diffusione di letteratura islamica, conferenze e attiva collaborazione con la “comunità ospitante”. In questa fase è possibile usare anche una tattica offensiva e ingannevole denominata taqiyya che permette di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l’adesione a un gruppo religioso e di non praticare i riti obbligatori previsti dalla religione islamica per ingannare l’infedele.

Fase 3: Jihad. Uso della violenza, ove necessaria, per diffondere l’Islam. Questa fase introduce esplicitamente l’uso della violenza che all’inizio deve essere solo di carattere difensivo, cioè volta a liberare territori musulmani dagli infedeli. In seguito può diventare offensiva, cioè volta a conquistare i territori degli infedeli. La Jihad può essere lanciata contro i non musulmani o contro Governi musulmani che sono considerati “takfir”, cioè non rappresentativi del “vero Islam”.

Fase 4: Khalipha, il Califfato. Questa ultima fase è la ri-creazione di un califfato islamico e la diffusione dell’Islam in tutto il mondo. Il califfato è governato da un Califfo, un sovrano che governa in conformità con la Sharia.

Attuazione della strategia del gradualismo in occidente

La Fratellanza Musulmana sta seguendo con molto zelo la strategia del gradualismo in occidente e in particolare in Europa. Organizzano conferenza, interagiscono con le comunità al fine di instaurare un clima di fiducia. Appoggiano partiti politici supportando candidati con l’intento di prendere parte attiva alla vita politica. Compaiono spesso in televisione per diffondere l’idea di un “Islam moderato” e non di rado usano i media per raggiungere questo scopo.

Non esitano a usare la giurisprudenza occidentale per chiudere la bocca a coloro che vi si oppongono o per contrastare con mezzi legali i Governi che non li riconoscono, come l’Egitto.

Il ramo inglese della Fratellanza Musulmana ha assunto un team di avvocati internazionali di grido per portare il Governo egiziano davanti alla Corte Penale Internazionale.

Azioni legali contro chi osa contrastarli sono aperte in tutta Europa. Al momento si può dire che la Fratellanza Musulmana in Europa sia a metà tra la fase uno (Da’wa) e la fase due (Da’wa parte seconda). Il centro europeo della Fratellanza Musulmana è in Germania. Riprendo da un articolo di Rights Reporter:

Proprio in Germania è nata una delle più potenti organizzazioni islamiche europee, la Islamische Gemeinschaft Deutschland (Comunità Islamica di Germania, IGD) fondata nel 1958 da Sa’id Ramadan. E sempre in Germania è nata la Muslim World League un’Organizzazione ben finanziata che l’Establishment saudita usa per diffondere la sua Interpretazione radicale dell’Islam attraverso il mondo. Queste due potentissime organizzazioni riconducibili alla Fratellanza Musulmana hanno messo in piedi nel corso degli anni un vero e proprio sistema di raccolta fondi e di finanziamento dei gruppi terroristici tanto da meritare il monitoraggio dei maggiori servizi di intelligence del mondo. Fulcro della loro “opera” è il Centro Islamico di Monaco di Baviera, ma importanti diramazioni sono il Centro Islamico di Ginevra e altri centri islamici in tutta Europa. Tutto questo gira intorno alla Banca Al Taqwa, un potente conglomerato soprannominato dall’Intelligence italiana “Banca della Fratellanza Musulmana”, che si sospetta abbia finanziato Gruppi terroristi da metà degli anni Novanta. Fondata nel 1988 da Youssef Nada e dal nazista islamico di origine svizzera Ahmed Huber, la Banca Al Taqwa per anni ha raccolto i finanziamenti dei Paesi del Golfo per distribuirli ai gruppi terroristici e alle organizzazioni europee che fanno capo alla Fratellanza Musulmana creando un enorme reticolato di organizzazioni non governative islamiche, moschee e centri islamici facenti capo alla Fratellanza Musulmana. La Banca Al Taqwa è anche una delle maggiori fonti di finanziamento di diverse ONG islamiche sospettate di avere contatti con gruppi terroristici tra le quali la famigerata IHH (Insani Yardim Vakfi), una ONG turca potentissima già salita all’onore delle cronache per diversi controversi interventi a Gaza, in Somalia, in Sudan e attualmente a sostegno della ribellione in Siria.

Questo è solo un assaggio di quello che è attualmente la Fratellanza Musulmana in Europa. Hanno convinto intere schiere di politici di rappresentare l’islam moderato quando invece hanno chiaramente le stesse intenzioni dello Stato Islamico, cioè creare un califfato globale, solo che lo stanno perseguendo rispettando le regole che si sono dati, cioè in maniera graduale e apparentemente in modo pacifico. Oggi possiamo dire di avere lo Stato Islamico in casa senza accorgerci di questo dato di fatto.

Come si contrastano?

Facile a dirsi, difficile a farsi. Nella ideologia della Fratellanza Musulmana c’è una contraddizione di fondo rispetto all’occidente che pochi colgono: la Sharia. La legge islamica è nettamente in contrasto con tutte le leggi e i trattati europei. Basterebbe renderla fuorilegge come giusto che sia invece di tollerare la sua propaganda. L’ideologia della Fratellanza Musulmana mette la legge islamica al di sopra delle leggi nazionali e dei trattati internazionali. Tutto questo viene incredibilmente tollerato (a partire dalle violazioni sui Diritti delle donne). Mettere fine definitivamente a questa tolleranza significherebbe non solo far applicare i sacrosanti Diritti Umani ma significherebbe mettere in mostra il vero volto della Fratellanza Musulmana, un volto tutt’altro che moderato.
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Re: Falbi çitadini del mondo: V. Arrigoni, G. Regeni e altri

Messaggioda Berto » sab gen 02, 2021 12:22 pm

I genitori più comunisti del loro demenziale figlio che demenzialmente sosteneva i nazi maomettani della Fratellanza Mussulmana antisemita e anticristiana che in Egitto perseguita e stermina i cristiani copti.

Regeni, i genitori denunciano il Governo italiano per export di armi all’Egitto
31 dicembre 2020

https://www.lastampa.it/cronaca/2020/12 ... 1.39719289

I genitori di Giulio Regeni contro il Governo italiano. Una iniziativa giudiziaria senza precedenti nei confronti dell'esecutivo "reo", a detta dei genitori del ricercatore torturato ed ucciso al Cairo nel 2016, di avere concluso accordi commerciali con un paese che viola i diritti umani. Verrà depositato nei prossimi giorni, forse già la prossima settimana in Procura, a Roma, l'esposto-denuncia con cui Paola e Claudio Regeni accusano il Governo italiano di avere violato la legge 185 del 1990 in tema di vendita di armi ai Paesi esteri. Il provvedimento, redatto dall' avvocato Alessandra Ballerini, fa riferimento alla vendita alle autorità del Cairo di due fregate Fremm del valore di 1,2 miliardi di euro. Una delle due imbarcazioni è stata consegnata nei giorni scorsi. Secondo i Regeni il governo italiano ha violato quanto previsto all'articolo 1 della legge e in particolare il divieto di «esportazione ed il transito di materiali di armamento verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti».

La clamorosa iniziativa arriva a poche ore dalle dichiarazioni della Procura generale egiziana che ha definito come «immotivato» il processo che i pm di Roma si apprestano a chiedere nei confronti di quattro appartenenti ai servizi segreti del Cairo accusati del sequestro, delle torture e dell'omicidio di Giulio. Per i magistrati egiziani «per il momento non c'è alcuna ragione per intraprendere procedure penali in quanto il responsabile dell'omicidio resta sconosciuto». A loro avviso, inoltre, Regeni nel corso della sua permanenza in Egitto avrebbe tenuto comportamenti «non consoni al suo ruolo di ricercatore» e per questo sarebbe stato «posto sotto osservazione» dalle autorità locali.

Per i genitori del giovane queste affermazioni non fanno altro «che gettare fango» sulla memoria del figlio: parole che "confermano ancora una volta - hanno detto Paola e Claudia Regeni nel corso della trasmissione Propaganda Live - l'atteggiamento conosciuto bene negli ultimi 5 anni e dimostrano l'impunità di cui sentono di godere. È come se avesse parlato direttamente al Sisi, è uno schiaffo non solo a noi ma all'intera Italia". Dal punto di vista giudiziario entro le prossime settimane il sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco titolare del fascicolo di indagine, chiederà il rinvio a giudizio per i 4 appartenenti ai servizi segreti egiziani. Per il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif le accuse variano dal sequestro di persona pluriaggravato al concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nell'atto di chiusura delle indagini i pm parlano di sevizie durate giorni, avvenute in una struttura dei servizi, che causarono a Giulio acute sofferenze fisiche messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. I magistrati di piazzale Clodio hanno, invece, sollecitato l'archiviazione per Mahmoud Najem. «Per quest'ultimo non sono stati raccolti elementi sufficienti, allo stato, a sostenere l'accusa in giudizio», hanno affermato gli inquirenti capitolini.
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