Bufale dei meridionalisti

Re: Bufale dei meridionalisti

Messaggioda Berto » lun mar 04, 2019 10:23 pm

Il meridionalismo e la battaglia politica per il sud tra narrazioni vere e false
Alessandro Cannavale

http://www.ilcorsaro.info/in-crisi-3/il ... false.html

Antonio Bonatesta è ricercatore non-strutturato di Storia Contemporanea presso l’Università del Salento. Si occupa di divari regionali nell’ambito del processo di integrazione europea. Dal 2013 è segretario nazionale dell’ADI – Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani: l’ADI, va detto, è uno dei pochi avamposti nella difesa dei diritti dei precari della ricerca. Ho avuto modo di confrontarmi diverse volte, con lui, sulle tematiche del meridionalismo storico e, soprattutto, sull’attuale condizione del Mezzogiorno italiano. Condivido la necessità di pensare al Sud come a una parte d’Italia e non un’area destinata a divenire – o tornare – qualcosa di distinto. Condivido la necessità di decifrare progetti e tendenze in fieri. Soprattutto, con questa intervista, Voci Meridiane si sforza di aprire un dibattito importante sul tema. Noi del Corsaro ripubblichiamo l'intervista.

D. Da tempo la “questione meridionale” non è più una preoccupazione della classe dirigente italiana. Per quale motivo?

La “questione meridionale”, intesa come riflessione storica sul ruolo del Mezzogiorno all’interno della vicenda unitaria nazionale, non esiste più come idea-forza dello sviluppo del Paese. Essa si è incagliata nella fine delle politiche di intervento straordinario per il Mezzogiorno, a ridosso di una stagione politica segnata dalla forte discontinuità degli anni Novanta del Novecento. In quel tempo scomparvero non solo la cosiddetta Prima Repubblica ma anche i sistemi valoriali che vi erano sottesi. Mi riferisco alle grandi correnti del pensiero politico italiano: quella cattolica, quella liberale e quella social-comunista. Si tratta, non a caso, degli stessi grandi filoni che innervarono il meridionalismo classico – da Villari a da De Viti De Marco, da Sturzo a Fiore, da Salvemini a Gramsci – e del neomeridionalismo della seconda metà del Novecento, segnato da protagonisti come Saraceno, Compagna e molti altri.

La cosiddetta “fine delle ideologie”, a lungo decantata come la soluzione a tutti i mali del Paese, non è altro che una formula consolatoria utile a nascondere l’egemonia di un’unica ideologia globale: quella neoliberista del mercatismo finanziario. La crisi del meridionalismo italiano trova fondamento proprio nelle trasformazioni economiche mondiali degli anni Settanta del Novecento, nella fine dei cosiddetti “trenta gloriosi” e dell’organizzazione keynesiana delle relazioni economiche occidentali. Il passaggio a un ordine mondiale basato sulla conflittualità e la competizione economica internazionale ha cambiato le carte in tavola. Da questo punto di vista, la crisi del meridionalismo è prima di tutto il logoramento finale del primato della politica sull’economia, dell’idea che lo Stato possa intervenire nei processi economici per correggerne gli squilibri a livello sociale e territoriale. La fine di ogni progetto di governo dell’economia.

D. Il vuoto lasciato dalla scomparsa del meridionalismo sembra essere stato colmato da altre forme narrative sul Mezzogiorno, basate su pulsioni indipendentiste. Che ne pensa?

Come prima cosa sarebbe opportuno fare ordine. Chi oggi fa riferimento in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito, all’indipendenza statuale del Sud non è un meridionalista. Il meridionalismo classico e il neomeridionalismo hanno rappresentato posizioni intellettuali e progetti politici iscritti nella cornice unitaria nazionale ed europea. Il meridionalismo appartiene al campo della modernità politica. Le pulsionirevanchiste legate all’indipendentismo sudista sembrano piuttosto richiamarsi ad aspetti tipicamente legati al rifiuto della modernità e alla liquidazione della tradizione rivoluzionaria. Per questo il discorso indipendentista o “identitario” sul Mezzogiorno è un discorso revisionista, antefatto e appendice culturale di forme criptiche di lealismo borbonico. Come ha molto efficacemente sottolineato Domenico Losurdo, il bersaglio principale del revisionismo storico, nelle sue diverse versioni, è l’intero ciclo storico che dal 1789 conduce al 1917. Nel nostro caso, aggredire il Risorgimento italiano significa liquidare tutto ciò che è alle sue spalle: andando a ritroso, le rivoluzioni del 1848, l’esperienza napoleonica, la rivoluzione napoletana del 1799 e, infine, la stessa rivoluzione francese.

Non che non si debba rileggere la vicenda risorgimentale liberandola dalle incrostazioni agiografiche. A dire il vero questo è stato ampiamente fatto dalla storiografia – penso ai più recenti lavori di Alberto Banti, di Paolo Macry o di Salvatore Lupo – ma non capisco perché la stessa cosa non valga per il concetto di “identità” che agita, ad esempio, le pagine di Pino Aprile. Intendo semplicemente dire che anche l’appello identitario all’orgoglio o all’indipendenza dei meridionali va decostruito. Comprendo che esso possa suscitare fascinazione ma occorre essere consapevoli che dietro di esso si cela un universo culturale di matrice conservatrice e di critica reazionaria della modernità.

Prendiamo, ad esempio, la teoria del complotto di Gran Bretagna e Francia con cui si pretende di giustificare il collasso duosiciliano. Tale teoria implica la delegittimazione delle due rivoluzioni che si verificarono in questi paesi: quella liberale e quella giacobina. Stiamo parlando, in concreto, del portato del giusnaturalismo e dell’egualitarismo. Al contrario, quando in Giù al Sud si tessono in modo storiograficamente maldestro le lodi della flotta russa e del ruolo che essa ebbe nei soccorsi alla città di Messina dopo il terremoto del 1908, si fa riferimento all’Impero zarista nella sua duplice veste di baluardo contro-rivoluzionario della Restaurazione e di vittima del bolscevismo.

D. Come è possibile demolire decenni e decenni di storiografia sullo stato nazionale?

La produzione di senso storico è sempre legata, in un modo o nell’altro, a spinte valoriali e interessi collocati nel presente. Se questi moventi si inquadrano in un metodo scientifico, nel rigore delle fonti e nel confronto storiografico abbiamo forme di conoscenza sul passato. Diversamente, siamo nel campo del revisionismo o, peggio ancora, del negazionismo storico. Manipolando dati e fonti si può arrivare a negare l’olocausto o, magari, le ragioni dell’unità nazionale italiana su cui invece la storiografia si è interrogata per decenni. L’obiettivo di queste figure, non sempre dichiarato, è dunque uno: minare le basi unitarie dello Stato a partire dal Mezzogiorno. Per questo motivo ogni sforzo si concentra sul momento dell’unificazione, che viene costantemente sottoposto a una forte trazione: l’esaltazione di una presunta potenza industriale del Regno delle Due Sicilie, la polemica sui piemontesi invasori e la propalazione del “mito dei primati” duosiciliani, la demonizzazione di Garibaldi e dei Mille, l’oblio e la condanna dei patrioti meridionali fautori dell’unità, la politicizzazione – ben oltre i limiti del romanzesco – della vicenda del brigantaggio. Sono invece completamente disinteressati ai momenti cruciali in cui si è storicamente verificato l’allargamento del divario tra Nord e Sud: il protezionismo doganale di fine Ottocento, le due guerre mondiali e il fascismo. Eppure anche questi momenti potrebbero essere manipolati contro la validità storica dello stato nazionale. Il problema è che queste vicende mostrano chiaramente le responsabilità dei meridionali come classe politica e dirigente, dall’accordo protezionistico tra gli agrari del Sud e gli industriali del Nord al consenso garantito dai notabili meridionali al fascismo. Nulla si dice sulla meridionalizzazione della politica e degli apparati statali in età repubblicana. Il problema è esattamente questo: mentre il meridionalismo è un discorso sul Mezzogiorno e sulle responsabilità sue e degli altri nella vicenda unitaria, il negazionismo revanscista e “identitarista” è un discorso su tutto ciò che non è Mezzogiorno. Come tutti i negazionismi deve inventare nemici e usurpatori, creare capri espiatori e configurare complotti cui additare le responsabilità delle proprie insufficienze. Si tratta di un meccanismo potentissimo perché autoassolutorio, lo stesso che portò Hitler al potere dopo la crisi del 1929. La storiografia scientifica non è in grado, per statuto, di difendersi da questo genere di operazioni: la storia riconosce la complessità del passato, ripudia l’idea di verità e oggettività storica e questo non produce esattamente quei best seller tanto a ruba nelle librerie.

D. Eppure gli storici non hanno mai smesso, se vogliamo, di scrivere sul Mezzogiorno con metodo scientifico.

Esatto. Negli ultimi anni qualche tentativo di smontare tali forme di narrazione è stato fatto. Aprile nel suo libro si lancia nell’affermazione secondo cui il Regno delle Due Sicilie fosse la “terza potenza industriale mondiale”, ovviamente senza citare né fonti né dati. È piuttosto curioso, allora, che la statualità borbonica sia stata letteralmente schiantata dalla spinta di poche migliaia di patrioti. Evidentemente, le cause del crollo del Regno delle Due Sicilie non si possono spiegare con fantomatici complotti internazionali e vanno ricercate nelle sue debolezze e contraddizioni interne. E’ quello che ha dimostrato Renata De Lorenzo nel suo libro Borbonia felix. Anche Salvatore Lupo si è molto impegnato su questo versante: l’interpretazione della lotta per l’unificazione come “guerra civile” mi sembra che contribuisca molto bene a inquadrare le vicende militari del 1859-60 e, in parte, la repressione del brigantaggio, oggetto di costanti polemiche da parte soprattutto dei neo-borbonici.

Il problema però è più profondo e riguarda il ruolo del sapere scientifico nella società di oggi. Il discorso scientifico fa sempre più fatica ad opporsi ai negazionismi a causa della sua profonda crisi di legittimazione. Questa crisi investe in modo particolare le discipline umanistiche e, tra queste, soprattutto gli studi storici. Tali difficoltà non sono solo epistemologiche e cioè legate al fatto che le scienze umane e sociali, specie dopo la diffusione del decostruttivismo o del post-modernismo, si sono spesso risolte in impotenti constatazioni sull’impossibilità di ridurre la complessità e, di conseguenza, nel rifiuto di fornire sistemi generali di interpretazione della realtà (agibili dalla politica e fruibili anche dal grande pubblico). Queste difficoltà non sono cioè riconducibili solo a fattori interni al discorso scientifico. Esse riguardano anche le modalità attraverso cui la conoscenza scientifica produce senso comune. Questa specifica forma di produzione è oggi compromessa dalla rottura del rapporto tra intellettuali e politica. L’intellettualità ha storicamente trovato la sua fonte di legittimazione nel rapporto con la politica e ora, dopo averlo smarrito, si illude di poterne trovare una nuova nelle tecniche di valutazione della qualità della ricerca. In sostanza, il discorso scientifico sembra esprimere attualmente una dinamica autoreferenziale, per cui esso si produce non più in risposta a un problema di egemonia ma in risposta a un problema di legittimazione. Strette in questa crisi, le discipline umanistiche stanno perdendo le grandi arene (televisione e giornali) senza aver appreso come occupare le nuove, vale a dire i social media. Qui il senso storico non si costruisce attraverso i criteri canonici del metodo scientifico né viene validato dai sistemi di valutazione della qualità della ricerca. Così, mentre i ricercatori sono occupati a scrivere per essere valutati, sui social network il senso storico è ormai affare d’altri e si produce sulla base di dinamiche di ridondanza e di consenso. La partita vera credo si giochi qui.

D. Poi, come accennava sopra, c’è anche una partita politica. Il negazionismo si organizza?

Mi pare di sì e di questo occorre essere ben consapevoli. Il revisionismo neo-borbonico non è certamente un fatto nuovo in Italia. Esso ha annoverato sin dagli anni Settanta del Novecento innumerevoli pubblicazioni, case editrici, associazioni e circoli culturali senza però mai riuscire a sottrarsi all’isolamento in cui era confinato. Ora qualcosa è cambiato. C’è stato un salto di grado: esso non è più soltanto un fenomeno culturale ma esprime una percettibile tensione all’organizzazione, alla strutturazione e all’occupazione di spazi politici.

Quando è uscito Terroni di Pino Aprile io ero un dottorando al primo anno. Ricordo l’imbarazzo di molti docenti in università: veniva percepito come un fatto bizzarro, di folklore, una boutade editoriale che, per qualche motivo, aveva scavalcato il recinto in cui sono solitamente relegate le oscenità. Oggi Aprile è stato cooptato nel collegio degli esperti voluto da Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia. A Napoli, i neo-borbonici posano con la loro bandiera assieme a De Magistris, il quale parla di “capitale napoletana”. Si tratta, a ben vedere, di ponti lanciati verso quelle esperienze di governo municipale o regionale che, pur nella loro diversità e pur senza trovare al momento una precisa o definita collocazione, si stanno configurando nel Mezzogiorno come opposizione all’attuale governo. E’ significativo: il borbonismo è attualmente impegnato nella ricerca di sbocchi a livello politico. Difficile comprendere, al momento, chi stia strumentalizzando davvero questo rapporto, meno difficile capire dove voglia arrivare chi si sta impegnando con tutte le sue forze in un’opera demolitoria della storia unitaria nazionale.

La percezione è che un pezzo di establishment economico stia ora scommettendo sulla partita separatista o, probabilmente, su un’ulteriore rarefazione della statualità nazionale con l’obiettivo di aprirsi spazi di penetrazione finora negati. Il discorso negazionista sul Mezzogiorno è funzionale a questo obiettivo e viene alimentato attraverso una struttura capillare corroborata da risorse inedite e investita di numerosi compiti: presidiare la comunicazione digitale, cooptare dirigenti scolastici, costruirsi avamposti nei dipartimenti universitari, agganciare amministratori pubblici, mutare la toponomastica e l’intitolazione degli edifici scolastici. Si tratta di fenomeni che producono conseguenze sotto gli occhi di tutti ma che continuano a essere interpretati come deformazioni folkloristiche o maldestre forme di marketing territoriale. Non a caso il progetto ufficiale viene definito “identitario”. Gli “identitaristi”, così desiderano rappresentarsi i neo-borbonici, parlano dell’esigenza di ricostruire una statualità meridionale, di una ristrutturazione federale dello Stato, di “modello catalano” per il Mezzogiorno. L’ambiguità che si cela dietro queste affermazioni è amplissima ed è speculare alla violenza concettuale esercitata sul versante della negazionismo storico.

D. Quale futuro per il Mezzogiorno?

Bisogna prendere atto dell’esaurimento del portato storico del meridionalismo. Il vuoto che esso ha lasciato è ora occupato da due opposti che sembrano, al momento, prevalenti: da una parte, il pregiudizio antimeridionale che alimenta le rappresentazioni dei media ed è funzionale al progetto di governo neoliberista della società; dall’altra, per reazione, una nebulosa di sentimentale e genuino attaccamento alle sorti del Mezzogiorno, che nell’assenza di riferimenti rischia ogni giorno di più di essere attirata nella narrazione revanscista e nelle strumentalizzazioni del borbonismo.

Occorre rispondere sul piano dell’elaborazione e dell’organizzazione di una terza forza che possa produrre progettualità e risposte muovendo da scelte di campo ben precise. Uno dei temi principali è sicuramente quello della collocazione geopolitica del Mezzogiorno e della configurazione di un suo stabile sistema di interessi. I meridionali, per ripartire, hanno bisogno di superare il corto circuito dell’alterità dualistica tra il Nord e il Sud nazionale e aprirsi al Mediterraneo e alle prossimità regionali, confrontandosi con questo patrimonio di relazioni e identità plurime. I meridionali devono però accettare di fare i conti con il portato storico del sanfedismo e con le sue pulsioni pre-moderne. Il primo avversario da abbattere sono le narrazioni auto-assolutorie, il borbonismo organizzato in primo luogo, da decostruire con una capillare e costante azione di debunking.

intervista tratta da Metis magazine
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Re: Bufale dei meridionalisti

Messaggioda Berto » lun mar 04, 2019 10:32 pm

L'inciviltà meridionale


Il sud della penisola italica - i meridionali
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Mafie e briganti terronici
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Questa è l'Italia ed il suo stato dopo i mitizzati e cantati " Risorgimento (con i suoi falsi miti unitario romano e rinascimentale), Resistenza e Repubblica con la sua Costuzione"
I primati dello stato italiano e dell'Italia in Europa e nel mondo
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Sicania o Siçiłia (ladri e parasidi)
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Re: Bufale dei meridionalisti

Messaggioda Berto » lun mar 04, 2019 11:10 pm

4) Il vittimismo irresponsabile dei sudisti

Terroni?
di Michele Fabbri · 16 Dicembre 2016

https://www.centrostudilaruna.it/terroni.html

In Italia la malattia mentale della “correttezza politica” conosce una variante tutta particolare, legata alle vicende storiche di età contemporanea: il vittimismo meridionalista.

Come tutti sanno, nel “Belpaese” i meridionali hanno il controllo pressoché esclusivo dell’apparato statale. Mentre i nordisti sono quasi tutti impiegati nelle aziende private, sottoposte all’incertezza del mercato e al rischio d’impresa, i sudisti sono rappresentati con percentuali che si aggirano attorno all’80% nell’esercito, nella polizia, nella guardia di finanza, nell’impiego pubblico, nella scuola. In quest’ultimo settore, forse il più strategico di tutti, durante il governo Renzi le cattedre assegnate al Nord sono state vinte “casualmente” dai meridionali per circa il 90%…

Le pensioni di invalidità sono erogate con grande generosità al Sud, e quanto meno dall’inizio della storia repubblicana un fiume di denaro è stato indirizzato al meridione mentre, per contro, le cosche mafiose si sono infiltrate al Nord in maniera capillare…

Ovviamente per i canoni della “correttezza politica” le vittime sono…i meridionali!

È sintomatico a questo proposito lo straordinario successo di pubblico del libro Terroni di Pino Aprile. Questa pubblicazione infame, che da ogni parola gronda odio contro il Nord, evidentemente interpreta al meglio il risentimento che anima molti meridionali che, pur avendo il coltello dalla parte del manico, riescono a recitare la commedia del vittimismo, e a renderla credibile non solo per i loro conterranei, ma anche per i cittadini del Nord, inebetiti e abituati a vivere il loro stato di sottomissione senza nemmeno riuscire a immaginare di poter cambiare le cose…

La storia italiana recente presenta quindi un caso emblematico e particolarmente irritante di “correttezza politica”, un caso esemplificativo della sete di vendetta che anima le presunte vittime, e del clima di odio che si instaura fra gruppi sociali…

Il libro di Aprile pretende di raccontare una storia alternativa a quella risorgimentale che, secondo lui, sarebbe all’origine dei problemi del mezzogiorno. Le famose vicende del “brigantaggio” sono una realtà storica meritevole di attenzione, ma anche in questo caso sarebbe opportuno riferirsi ai Savoia e alla classe dirigente piemontese, mentre per Aprile la responsabilità di questi fatti deve essere genericamente addossata al “Nord”.

Inoltre nell’ottica di Aprile non si capisce il senso di queste recriminazioni, visto che, alla luce della storia più recente, lo stato unitario si è rivelato un vero e proprio Eldorado per i meridionali. Del resto Aprile sembra oscillare fra posizioni neo-borboniche e un generico astio verso il Nord che evidentemente solletica i più bassi istinti di tanti suoi lettori…

Naturalmente l’autore presenta le vicende da un punto di vista estremamente semplicistico e sempre funzionale alle sue tesi, e segue i canoni di una pubblicistica meridionalista ampiamente collaudata secondo la quale i meridionali sarebbero vittime di tutte le discriminazioni possibili e immaginabili. I cittadini del Sud sarebbero quindi assimilabili alle vittime di stermini e invasioni, e chi più ne ha più ne metta: dai pellerossa nelle riserve ai popoli colonizzati, dalle vittime di Stalin a quelle di Pol Pot, dagli ebrei dell’olocausto ai palestinesi di Gaza, la propaganda meridionalista è un vero e proprio festival del vittimismo…

Come ci si può aspettare non c’è pagina del libro che non contenga attacchi e invettive contro la Lega Nord (sebbene il partito indipendentista si sia dimostrato un cane che abbaia ma che non morde…). Oltretutto nella sua furia antileghista l’autore travolge anche personaggi che poco o nulla hanno da spartire con la dirigenza del Carroccio: Tremonti, Gelmini, esponenti di Forza Italia…

Anche il fascismo, che pure qualcosa ha fatto per la crescita civile e sociale del paese, sarebbe stato per Aprile l’ennesima manifestazione di uno stato costruito e gestito in chiave esclusivamente nordista. E perfino il lungo cinquantennio democristiano, che ha segnato il trionfo della classe dirigente meridionale, non avrebbe fatto altro che avvantaggiare il Nord…

Nella concezione meridionalista la seconda metà del ‘900 sarebbe il periodo in cui le masse meridionali sarebbero state “deportate” al Nord per fare la fortuna delle industrie settentrionali, ma in realtà questo esodo interno ha rappresentato la colonizzazione del Nord da parte dei meridionali!

Inoltre le notazioni sul ruolo della massoneria nel Risorgimento e sullo sviluppo in senso mafioso del sistema di potere massonico sono sostanzialmente un boomerang per Aprile, visto che proprio con quei metodi il Sud si è impadronito del Nord…

Chiaramente argomentazioni di questo genere possono far presa soltanto su un pubblico semi-colto che non è interessato alla valutazione critica dei fatti, ma che ha già in testa uno schema interpretativo e che aspetta solo qualcuno che lo esponga nei modi opportuni. Il libro di Aprile non è certo l’unica pubblicazione di questo genere, ma è inquietante il fatto che abbia trovato troppi appassionati lettori, soprattutto fra i tanti meridionali che vivono al Nord e che non fanno che glorificare e osannare la loro terra di origine, dalla quale tuttavia se ne vanno alla prima occasione, spesso per non tornarci mai più…

Il libro di Aprile può anche essere letto come ennesima testimonianza del fallimento dell’idea di Italia come stato unitario, e se non altro può avere la funzione di richiamare l’attenzione sulla storiografia revisionista che ha sfatato tanti miti risorgimentali, nonché su seri studiosi meridionalisti che hanno trattato il tema del Mezzogiorno in maniera più equilibrata e scientificamente attendibile.

Ma l’impressione che il libro suscita nei lettori più accorti è perfino controproducente rispetto alle intenzioni dell’autore poiché non fa altro che confermare il più radicato dei pregiudizi sui meridionali. Infatti Terroni è un libro scritto da un autore piagnone per lettori piagnoni!

Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme 2010, pp. 303.


Facci e il piagnisteo napolitano: "Ecco perché ve lo meritate"
3 Marzo 2017
di Filippo Facci

https://www.liberoquotidiano.it/news/it ... ate--.html

Eh, i napoletani. Mio padre dopo i cinquant' anni andò a lavorare a Napoli e prese casa vicino allo stadio di San Paolo; una sera stava rientrando in auto - mi raccontò - e incrociò la folla che lasciava lo stadio dopo che il Napoli le aveva buscate da una squadra del norditalia, non ricordo quale. L' auto aveva la targa di Milano. Un passante disse qualcosa a mio padre che si sporse verso la sinistra, ma era solo una scusa per distrarlo mentre un ragazzetto aveva infilato le braccia dal finestrino di destra e si era messo a frugare nel cruscotto; mio padre gridò «ladro!» e poi andò così: «chi ladro?»; «l' ha detto chillo»; «'o settentrionale ha detto che siamo ladri»; «ah, un razzista di Milano...». La faccio breve: è tanto se tornò a casa vivo.
Trovo esemplare questo raccontino ancor oggi: la frustrazione, l' aggressività, il vittimismo e poi ancora l' aggressività. Napoli. Di questa tendenza alla lagna ebbi modo di accorgermi anche quando passai qualche mese a Napoli per il servizio di leva, laddove conobbi molti napoletani nel bene e nel male: il problema è che ora dobbiamo parlarne nel male, viste le reazioni al titolo «Piagnisteo napoletano» che Libero ha pubblicato ieri. Ora non entro nel merito delle questioni affrontate negli articoli che sono, poi, capisaldi storici del napoletanismo: l' assenteismo cronico, le assunzioni indiscriminate, i funzionari pubblici in quantità sovietica, il complottismo calcistico, lo smercio delle tessere del Pd e non solo, gli illeciti creativi, la tendenza a fottere te e soprattutto quello Stato per cui il napoletano medio ha pochissimo rispetto, preso com' è, da secoli di storia, a doversene difendere come se fosse un eterno invasore. E poi Francesco Specchia, ieri, ha già descritto benissimo il pianto ecumenico dei partenopei, le sceneggiate lacrimevoli e a voce alta, quel napoletano medio che rischia di essere perpetuamente «mariuolo dentro» e vittimista strategico.

La persecuzione - Il problema è che di queste cose, con dei napoletani, non si può neppure parlare, perché alzano gli occhi al cielo e si avvoltolano in quel loro fatalismo plebeo e sanfedista che ancor oggi impedisce loro di essere un popolo. Perseguitati da tutti: dai Borboni, da sovrani e vicerè, dal fascismo, dagli americani, dai politici, dalla Regione, ora dalla omunità europea, poi naturalmente dagli arbitri e nel suo piccolo persino da Libero.
Io, come detto, non scrivo da una baita in montagna rigirando la polenta, credo di essere sufficientemente di mondo da non dovermi difendere da repliche anche educate tipo «Napoli è bellissima» e «devi studiare la storia di Napoli» e «vieni a Napoli», roba così. Le so queste cose, molti di noi le sanno. A Napoli ho un po' di amici (tutti molto signori, come a Napoli sanno essere incredibilmente) e a Napoli ho anche vissuto. Ogni tanto ci vado. Credo che a Napoli si possa vivere bene come in poche altre città del mondo, ma basta così, non è questo in discussione: si può vivere bene - mi assicura un amico che ci si è appena trasferito - anche a Caracas, il che non toglie che Caracas abbia certe caratteristiche per delle ragioni storiche che si possono discutere, ma che ha lo stesso.
Così come Napoli ha dei record che la rendono unica in tutta Europa: la disoccupazione soprattutto giovanile, l' astensione alle urne, le costruzioni abusive, i reati ambientali, quelli legati all' usura, gli scippi e i furti d' auto, e non sto neppure citando il suo più grande successo letterario d' esportazione: la camorra. E poi ha il piagnisteo, il vittimismo, l' autocommiserazione: una tendenza palese a de-responsabilizzarsi e a incolpare chicchessia, soprattutto i predoni razzisti del Nord. E sarà colpa del Nord se un' indagine del Sole 24 Ore, basata sulla qualità della vita nelle città (tenore di vita, affari e lavoro, servizi, ambiente, salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), ha messo Napoli al 107esimo posto, esattamente l' ultimo. Oppure se «Reddit» - un sito di social news frequentato anche da Barack Obama - ha messo Napoli ai vertici della classifica dei luoghi turistici più deludenti secondo chi c' è stato.

La classe dirigente - Tempo fa, per aver scritto certe cose e per aver detto che a Napoli la spazzatura impera ancora in tutti i vicoli - non lo scrissi certo io solo - sono stato addirittura querelato dalla «città di Napoli», in pratica il presidente della «Municipalità Napoli Nord».
Aveva pure chiesto un intervento dell' Ordine dei giornalisti.
Avevo scritto di quello di cui stiamo parlando: dell' inconsapevolezza di molti napoletani di ciò che Napoli oggettivamente è (dati alla mano) e di come è mediamente considerata, e poi mi ero permesso un' invettiva contro un consigliere napoletano che aveva lamentato «gli investimenti che non si fanno al Sud».
Vado testuale: «Che nel 2015 un consigliere napoletano abbia ancora il fegato di chiedere soldi senza andare a nascondersi sottoterra (sotto la spazzatura, vorremmo dire) mostra come la classe dirigente napoletana viva in una bolla completamente separata dalla percezione del reale».
Ecco, è così. Dopodiché sui cosiddetti «social» avevo ricevuto innumerevoli minacce varie, auguri di morte, parolacce, solita roba da straccioni anonimi. Insulti, sì. Ma soprattutto piagnisteo. Che dite, ricominceranno?


Mezzogiorno, è sempre colpa degli altri?
Luca Ricolfi
2015-08-09

https://www.ilsole24ore.com/art/comment ... id=ACp62Jf

Da quando sono state diffuse alcune anticipazioni del rapporto Svimez 2015, il parallelo fra Grecia e Mezzogiorno d’Italia ha conquistato le prime pagine dei giornali.
Molta attenzione, in particolare, ha attirato l’affermazione secondo cui “dal 2000 il Mezzogiorno d’Italia è cresciuto la metà della Grecia” (una frase che tutti attribuiscono alla Svimez, ma che in questa forma non sono riuscito a ritrovare in alcun documento ufficiale). Su questo presunto dramma – un Mezzogiorno che starebbe peggio della Grecia – si è poi innestato il consueto repertorio di interventi più o meno sdegnati che da decenni accompagna le analisi del Sud, con la altrettanto consueta richiesta di una “svolta” da parte del governo nazionale, reo di aver abbandonato il Sud ad un destino di marginalità e miseria. L’idea è sempre quella: descrivere in termini drammatici la situazione economica e sociale del Sud, per concludere che il Sud stesso è vittima della prepotenza e dell’indifferenza altrui, e che occorre un piano per salvare il Sud da un declino apparentemente irreversibile.

E allora cominciamo dai dati. Intanto occorre dire subito che, rispetto al 2000, non è il Sud ad essere andato peggio della Grecia, ma è l'Italia nel suo insieme, Nord compreso. Fatto 100 il Pil pro capite del 2000, la Grecia è sotto di 3 punti, mentre l'Italia lo è di circa 8, ma – attenzione – lo è sia nel Sud sia nel Centro-Nord. E' vero che durante la crisi il Sud è andato peggio del Centro-Nord, ma è altrettanto vero che negli anni pre-crisi, dal 2000 al 2007, il reddito pro capite del Sud era cresciuto a un ritmo quasi doppio di quello del Nord. Il risultato è che, fra il 2000 e il 2013, nulla di sostanziale è cambiato nei redditi pro capite delle due metà del paese. Il Pil pro capite del Sud resta, oggi come ieri, poco di più della metà di quello del Nord, ma le distanze attuali sono più o meno le medesime di 15 anni fa. Fatto 100 il reddito pro capite del 2000, nel 2013 il Sud è sceso a livello 91.3, il Centro-Nord a livello 91.9: due gocce d'acqua, sotto questo profilo. Quanto alla Grecia, il suo reddito era esploso fra il 2000 e il 2007, grazie alla droga del debito pubblico e privato, ed altrettanto rapidamente è imploso dopo il 2007, sotto i colpi della crisi.

Con questo non voglio certo dire che l’analogia fra Mezzogiorno e Grecia sia del tutto campata per aria. Tutt’altro. Ma la dinamica del reddito pro capite è l’elemento meno significativo. Le analogie importanti fra Grecia e Mezzogiorno, quelle che incidono davvero, a me paiono altre. Per esempio il peso dell’economia sommersa, che nel Sud è ancora maggiore che in Grecia. L’evasione fiscale, spettacolare in entrambe le realtà. Il clientelismo e la corruzione. L’incapacità di modernizzare il funzionamento della giustizia civile, della burocrazia, dei mercati. Il basso livello di istruzione della popolazione. La concentrazione del lavoro produttivo su una piccola minoranza di occupati. E, non da ultimo, se analizziamo l’andamento dei conti pubblici dopo il 2007, la comune strategia di rinunciare agli investimenti per sostenere la spesa pubblica corrente e i consumi.
Ma l’elemento comune più importante, fra Grecia e Mezzogiorno d’Italia, a me pare un tratto di tipo culturale. Robert Hughes lo avrebbe forse chiamato la “cultura del piagnisteo”, titolo del suo fortunato libro sulla abnorme proliferazione dei diritti delle minoranze (Adelphi 2003). A me pare invece che il tratto profondo, l’elemento che più caratterizza soprattutto le classi dirigenti di entrambe le realtà, sia un altro: la tendenza a imputare ciò che accade alla situazione o all’azione di forze esterne, piuttosto che alle proprie scelte e decisioni. La psicologia sociale ha addirittura costruito un test (si chiama scala di Rotter) per misurare la tendenza ad attribuire all’esterno o all’interno i nostri successi e insuccessi.

Ebbene, se potessimo misurare sulla scala di Rotter le attitudini delle classi dirigenti meridionali, ma anche degli innumerevoli studiosi, artisti, cantanti, giornalisti e scrittori che ne amplificano le lamentele, penso che troveremmo entrambi su valori estremi di “attribuzione esterna”. Se le cose vanno male, è sempre colpa di qualcun altro, preferibilmente di qualcuno che sta altrove e non ci ama: l’Europa e le sue regole brutali nel caso della Grecia, il Nord e il governo centrale nel caso del Mezzogiorno.
E invece no, forse dovremmo avere il coraggio di capovolgere lo schema. La politica nazionale ha ovviamente le sue responsabilità, prima fra tutte quella di non aver dotato il Sud di una rete infrastrutturale decente, ma nessuna analisi della questione meridionale è credibile se dimentica le gravissime responsabilità delle classi dirigenti locali, o sorvola sull’eccessiva tolleranza, assuefazione, e talora persino connivenza, che la gente del Sud ha nei confronti delle proprie classi dirigenti. Se il resto del paese è più ordinato (o meno disordinato) del Mezzogiorno, se gli sprechi della Pubblica amministrazione sono più contenuti, se le infrastrutture non impiegano decenni per essere terminate, è anche perché diverso è il rapporto fra l’opinione pubblica e la politica, fra la gente e gli amministratori locali.

Lo ha detto bene Giuseppe De Rita, uno dei pochi che in questi giorni non hanno ceduto alla retorica del vittimismo. Parlando della “droga dei piani europei” ha ricordato l’uso clientelare ed elettorale dei fondi, la loro dispersione in una miriade di micro-interventi: «Idee piccole affidate a piccoli imprenditori per fare rotonde, marciapiedi, lungomari. Soltanto opere di poco conto. Pura decadenza». Con la conseguenza di bloccare ogni vera modernizzazione del Sud: «ad esportare in Vietnam come gli imprenditori veneti non sarà l’aziendina che a Campobasso rifà il manto stradale. Quando ci si riduce ai progettini della ditta locale è la fine. L’abitudine al piccolo uccide l’economia».
E lo ha ribadito, nel suo stile diretto, Matteo Renzi alla direzione del Pd convocata per affrontare l’emergenza Sud dopo i dati del rapporto Svimez: «Se il Sud è in difficoltà non è colpa di chi lo avrebbe abbandonato. La retorica del Sud abbandonato è autoassolutoria. L’autoassoluzione è un elemento che concorre alla crisi del Mezzogiorno».
Sono parole cui, da parte del Governo centrale, dovranno seguire fatti e impegni concreti, ma intanto segnano un punto di non ritorno. Perché è la prima volta, a mia memoria, che un presidente del Consiglio parla del Sud senza ipocrisia. E dice quel che nessun premier aveva osato dire: che certe analisi del Mezzogiorno, sempre cieche di fronte alle responsabilità della società meridionale e delle sue classi dirigenti, non solo non sono la soluzione, ma sono una parte essenziale del problema.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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