La Repiovega Veneta a domegno venesian no ła jera federal

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Messaggioda Berto » ven gen 22, 2016 8:50 pm

La Serenissima e le sue classi sociali
13 maggio 2014 di Simonetta Dondi dall'Orologio

http://venetostoria.com/2014/05/13/la-s ... si-sociali

Il patriziato veneziano si distingueva da quello europeo per alcune caratteristiche peculiari:

era di origine mercantile anziché feudale la sua creazione e sopravvivenza era giustificata dalla sua costante partecipazione al Governo della Serenissima era formato da famiglie anziché da individui e la primogenitura era l’eccezione invece della regola non usava specifici titoli nobiliari

Daniele_IV_Dolfin_(Tiepolo)Si può ben dire che l’atto creativo del patriziato fu la Serrata del Maggior Consiglio nel 1297, per cui diventarono patrizie le famiglie i cui antenati avevano reso importanti servigi alla Serenissima dall’anno 810 (data del trasferimento della sede ducale da Malamocco a Rivoalto) in poi, o un cui membro aveva seduto nel Maggior Consiglio nei quattro anni precedenti la Serrata.

In tutto furono iscritte nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana, circa 220 famiglie.

Questo cambiamento della costituzione (che di fatto passò da repubblica democratica a repubblica aristocratica) non provocò le tensioni politico-sociali che ci sarebbe potuto aspettare.

In primo luogo perché esso confermava una situazione che già esisteva di fatto; inoltre trattavasi di un gruppo sociale omogeneo, attivo, di antica ricchezza, già abituato a servire gli interessi generali; infine era un gruppo numeroso, giacché corrispondeva a circa il 5% della popolazione.

mercanti_veneziani_carpaccioLa “classe mercantile” era formata da cittadini veneziani con diritto “de intus” o “de extra”, ossia abilitati a commerciare all’interno o all’esterno della città. I non veneziani potevano, se considerati degni, acquistare il diritto “de intus” dopo dodici anni di residenza e attività professionale, e il supplementare diritto “de extra” dopo diciotto anni.

Alla “classe mercantile” appartenevano sia “patrizi” sia “cittadini”.

La categoria dei “cittadini” assorbiva anche uomini di scienza e di legge, letterati, medici, funzionari amministrativi e commercianti, formando una classe borghese talvolta ricca, sempre agiata, che aveva comunque una propria rappresentanza politica.

Alle classi privilegiate va aggiunta la classe ecclesiastica, che corrispondeva a circa l’1% della popolazione.

La linea divisoria tra queste classi e il Popolo era il lavoro manuale.

A sua volta il Popolo era diviso fra membri delle “Arti” o “Scuole di Mestiere”, cioè lavoratori specializzati che accompagnavano il loro lavoro con una certa cultura tecnica, e tutti gli altri che invece vivevano solo del proprio lavoro manuale.

Pur privati di potere politico, i Popolani godevano in compenso di salarigrev_secolo16_w relativamente alti (rispetto al resto d’Italia e d’Europa), di cibo sicuro e a prezzi controllati dalla Serenissima; non temevano guerre civili o assalti di eserciti stranieri; non erano relegati in suburbi, poiché le loro abitazioni fiancheggiavano quelle dei patrizi e dei mercanti con cui si mescolavano nelle calli e nei campi, parlando la stessa lingua veneta.

Fieri dell’appartenenza ad uno Stato forte e libero, partecipavano alle feste pubbliche, civili e religiose, al Carnevale, alle Regate, alle cerimonie d’elezione dei Dogi e a quelle che accompagnavano le visite di personaggi illustri.
Si spiega così la quasi totale mancanza di movimenti sociali, la fedeltà alle istituzioni ed il senso di appartenenza di così lunga durata.



Comenti

Renato Tessarin 13 maggio 2014 alle 21:31

Le barchesse furono il vero punto di distinzione ,tra la Serenissima e l’europa feudale dei castelli – Un vero spartiacque tra le culture di allora – Le barchesse rimangono il segno forse piu evidente e forte che caratterizzo il modo di vivere dei Veneti di allora – Persino nelle zone Polesane dove i Patrizi veneti andavano per puro relax a cacciare o a rifugiarsi nei periodi di gravi pestilenze nella capitale , rimangono segni indelebili di pregiati manufatti , dalla caratteristica forma a due barchesse , dove i collaboratori , familiari o agricoltori e stallieri dei nobili , trovavano ospitalita e protezione – Fu la consuetudine di una cultura della condivisione degli spazi domiciliari , che rendeva onore anche al popolo seppur non ancora sovrano , ma in anni di despoti, fu quello uno dei principali nuovi segni di una civilta che si stava gia evolvendo in democrazia

Marco D'Aviano 28 settembre 2015 alle 17:17

Brava Simonetta, hai presentato uno scritto che denota conoscenza profonda della società veneziana e veneta. L’introduzione della costituzione aristocratica non provocò grandi tensioni politico-sociali dopo il 1297 (a parte la rivolta dei Tiepolo, dei Bocconio e dei Barozzi), perché i Veneti Patrizi si accollarono per intero il peso economico, lavorativo e di responsabilità nella conduzione dello Stato. Lavoravano gratuitamente e a tempo pieno per il governo e per l’amministrazione della Giustizia. A occuparsi degli affari pubblici si perdevano soldi, non si guadagnava nulla, si sostenevano pure enormi spese di rappresentanza. Erano l’ideale cristiano e l’ideale repubblicano a motivare quei grandi uomini. Rispondevano di persona sottostando a fitti, insistenti e a volte minacciosi controlli interni, pagando carissimo i propri errori. Ciò avveniva senza l’intervento di nessuna libertà di stampa, senza talk show, senza opposizioni e senza accuse pubbliche, che invece erano aspramente riprovate. L’aristocrazia è la vera forma di democrazia, perché governano i migliori nella forma migliore attraverso la preparazione, l’educazione e il controllo reciproco. Il popolo non è quasi mai interessato a quel che succede, pretende giustamente che i poltici governino bene, di solito solo pochi si preoccupano della cosa pubblica e persino si vota in modo svogliato e superficiale. Infatti, nell’odierno smerdaro democratico tutto diviene demagogia e l’opinione popolare è tirata in ballo solo quando qualche potente ha in serbo di strumentalizzarla.





???
A FINE ‘700 SI STAVA DELINEANDO IL FUTURO STATO VENETO MODERNO
3 gennaio 2016 di Millo Bozzolan

http://venetostoria.com/2016/01/03/a-fi ... to-moderno

il paese di Badoer è un grandissimo esempio della nuova politica dell’aristocrazia veneziana verso la terraferma. ma pochi lo spiegano a scuola, ai nostri tosi

… con la Terraferma come protagonista.
Assistiamo alla fine dell’epoca della repubblica di San Marco, al prorompere di nuove forze, tutte provenienti dall’entroterra, da cui Venezia ormai traeva tutto il suo sostentamento e motivo di esistenza.

Svanito lo stato da Mar, ridotto a una parte della Dalmazia e alle isole Ionie, il porto di Venezia era diventato il naturale sbocco dell’entroterra; “era una Repubblica che si rivolgeva alla Terraferma dove l’agricoltura offriva margini notevolissimi di miglioramenti e dove si potevan realizzare alti redditi e per giunta meno aleatori di quelli ottenuti dal commercio marittimo:
“ i veneziani si volgevano dunque sempre più verso la terraferma per acquistarvi campagne e costruirvi case, soprattutto per curare i loro interessi di propietari fondiari .. e vi andavano ad abitare non solo per i periodi di villeggiatura, ma, quando potevano, per tutto l’anno; né si trattava solo di nobili e ricchi borghesi, finivano nei paesi di campagna anche sacerdoti e professionisti (come medici e chirurghi) che vi trovavano possibilità di guadagno superiori a quelli offerti dalla Dominante.. il governo favoriva questo rivitalizzarsi della campagna (Cozzi) “
(fonte G. Distefano)
La mia idea è che, mancando la calamità rappresentata da Napoleone, l’aristocrazia veneziana sarebbe finalmente, dolcemente implosa, e non avendo più le risorse finanziare e morali per reggere il governo dello stato, nella prima metà dell’800 avrebbe aperto il Gran Consiglio alla nobiltà della terraferma prima, e poi a tutte le componenti produttive della società veneta.

Dell’antico ordine aristocratico sarebbe certamente rimasto un simulacro, come è accaduto in Inghilterra, con la Camera dei Lord, a testimonianza della continuità dello stato millenario, in cui le istituzioni moderne sono tuttavia espressione della Tradizione di un popolo con una storia plurimillenaria, quale è la Nazione veneta. Ma tutto questo ci è stato tolto, sta a noi saper ricostruire il nuovo collegandoci alla nostra storia plurimillenaria. Storia unica in ambito europeo.


I conti a cogna farli co ła storia e no co ła fantaxia: ła storia ła conta ke l'arestograsia venesiana anvençe de darghe la soranedà połedega a tuti i veneti ła ghe ła ga dà a Napołeon.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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La Repiovega Veneta a domegno venesian no ła jera federal

Messaggioda Berto » mar mag 10, 2016 6:21 pm

Comun, Arengo, Mexoevo, Istitusion
viewtopic.php?f=172&t=273

Arengo/rengo e arena, concio, conçilio, concilio, thing, ekklesia, appella, alia, pil-
viewtopic.php?f=44&t=74



Comoun, viçinia, regołe e statudi de Posoło de Viçensa ai ani del domegno venesian

http://www.zovencedo.com/web/colliberic ... eziano.pdf

Dagli atti dei notai che dal 1400 al 1800 hanno rogato a Pozzolo o nei paesi vicini, conservati nell’Archivio di Stato di Vicenza, e dal Libro degli instromenti dell’Archivio Parrocchiale, che raccoglie una cinquantina di atti che vanno dal 1592 al 1789, possiamo ricostruire alcuni aspetti della vita quotidiana del paese dal XV al XVIII secolo. Da questi documenti, relativi a statuti, compravendite, divisioni, permute, livelli, testamenti, stime di dote, procure, petizioni, possiamo scoprire quanto costava allora un campo, come veniva coltivato, quali erano le monete correnti, i pesi e le misure, i nomi delle famiglie, degli abitanti, delle contrà, dei boschi, delle fontane.
...
Gli atti dei notai di Pozzolo vengono di solito redatti nell’abitazione del notaio stesso, alla Costa (che è la contrà più importante de l paese, tanto che in alcuni verbali della
Vicinìa si parla di «capi di famiglia di questo loco e Costa» di Pozzolo), ma anche a casa dell’interessato, o vicino alla Chiesa di S.Lucia e in qualche caso persino «sopra le mure del cimiterio» o «dietro il campanile della chiesa parrocchiale». Fanno da testimoni gli amici, i vicini di casa e, in caso di necessità, anche i parenti o gli inservienti del notaio.
...
1. Gli Statuti comunali del 1545

Durante la repubblica veneta (1404-1797) la Serenissima esercitò il proprio dominio in modo diretto solo nei capoluoghi e nelle città di maggior rilievo attraverso i Rettori, cioè il Podestà (con prerogative civili e giudiziarie) e il Capitano (al quale competeva il comando delle milizie ma anche il controllo dell’intero Territorio o –diremmo oggi – Provincia), mentre rispettò l’autonomia locale delle comunità minori lasciando a tutte amplissima libertà di dotarsi di un proprio Statuto, di scegliere cioè come governarsi, di stabilire le regole della convivenza, purché queste naturalmente non andassero contro le leggi della Signoria di Venezia e fossero comunque garantite le quote di gravezze o imposte dirette.
L’organizzazione della vita civile nei Comuni rurali era regolata fin dal Medioevo da norme e da consuetudini tra mandate spesso in forma orale e abbastanza simili tra paese e paese.

...
Gli Statuti rurali mostrano un’organizzazione comunale più economica e sociale che politica, una associazione di uomini liberi (piccoli proprietari, coltivatori della terra e artigiani) diretta a proteggerli e ad affrancarli dalle servitù feudali; contenevano pertanto le regole entro cui i responsabili della villa, i governatori, e gli homines o capifamiglia potevano o dovevano agire.
Il decano, eletto dall’assemblea, era il rappresentante legale del Comune: «non aveva nessun potere di carattere politico, ma aveva nelle sue mani l’amministrazione in tutti i suoi aspetti».
Convocava la vicinia (o convicinia o visinanza) per mezzo di un banditore o di un comandador che a voce alta o col suono della campana o battendo delle tavolette o anche, nei piccoli comuni, passando di porta in porta, diffondeva l’annuncio. Il decano doveva inoltre far osservare gli Statuti e gli ordini della comunità, denunciare coloro che non volevano assolvere le collette e i tributi, passare periodicamente in rassegna i confini del Comune, ispezionare di persona le osterie, rimproverare coloro che disturbavano davanti alle porte della chiesa senza entrare, controllare uno per uno i camini delle case (moltissime erano paleate, cioè con il tetto di paglia, e quindi era alto il rischio d’incendio), far costruire un determinato tratto di strada, far eseguire gli ordini impartiti dalla Città in materia di imposte e di servizi a favore della stessa. Alla fine del mandato doveva render conto del proprio operato. Nell’espletamento del suo incarico era coadiuvato dai consiglieri, che con lui componevano in pratica la civica amministrazione, e da addetti a specifiche mansioni.
Gli estimatori avevano il compito di valutare i danni perpetrati alle proprietà pubbliche e private da persone e da animali, e in occasione di estimi e vendite dovevano stabilire il valore delle case, dei campi, degli animali, del vino, dell’olio e l’ammontare dei redditi in generale. I sindaci controllavano la gestione contabile del Comune, sindacavano cioè sulle spese effettuate; i saltari o guardie campestri sorvegliavano i campi, i prati, i boschi, i beni della comunità in genere, di giorno e di notte. Il taglio abusivo di un fascio d’erba, la sottrazione di legna, il danneggiamento di piante e siepi, il furto di messi o di frutta venivano puniti con pesanti multe. Dei danni provocati dagli animali dovevano rispondere i proprietari. Con le entrate provenienti dalle multe, dagli affitti, dai dazi e dalle imposte d’estimo il Comune provvedeva a corrispondere le indennità agli amministratori e gli stipendi ai funzionari.
Gli incarichi erano obbligatori: non era consentito agli eletti di rifiutare la carica, anzi ai renitenti erano minacciate pene e multe. E obbligatoria era anche la partecipazione alla vicinia.
Gli Statuti potevano essere periodicamente rivisti, integrati, modificati, a seconda delle nuove esigenze che si manifestavano nella comunità.
Il 24 agosto del 1545, un lunedì, gli homeni della villa di Villaga, Toara, Belvedere e Pozzolo, convocati in publica visinanza , approvano all’unanimità nove capituli o Statuti del Comune, che precisano le regole di comportamento su alcune materie, confermando tuttavia «ogni altro antiquissimo et usitato consueto nostro in altre materie et cause osservato» che non fosse in contrasto con i predetti capitoli.
Degan principale è Domenego Ronchin, sindici generali et conseglieri del prefato comun Domenego Lugan, Lorenzo Ferraro, Bartholamio dalle Oche, Zorzo di Polati, Lorenzo Bertuzzo e Zandonà di Rappi; sono presenti come testimoni messer Lodovigo Buso «cittadin de Vicenza» e Zambaptista Calderaio, pure di Vicenza.
Il Comune era formato dai quattro colonnelli di Toara, Belvedere, Pozzolo e Villaga, ognuno con una propria visinanza presieduta da un proprio degan, ma si riunivano insieme in un’unica assemblea sotto la presidenza del degan principale, quello di Villaga.
Viene prima spiegato il motivo che ha spinto la visinanza ad approvare nuovi Statuti. Spesse volte era capitato di convocare i capifamiglia del Comune, e specialmente quelli che avevano l’incarico di provvedere sia alle disposizioni della Signoria di Venezia e dei suoi Rettori, Vicari, Giudici, Deputati, Ufficiali ed altri suoi comessi o inviati, sia all’ordinaria amministrazione e alle quotidiane necessità del Comune, ed era successo che alcuni di questi si erano rifiutati di comparire, e per la loro assenza talvolta il Comune non aveva potuto provvedere ai bisogni della popolazione, anzi aveva subìto «gravissimi danni et spese».
Per rimediare a tali inconvenienti e a molti altri, e per migliorare i capitoli del passato, «per comun beneficio» ne vengono stabiliti di nuovi così che da ognuno per l’avvenire siano osservati «inviolabilmente, senza alcuna remissione alli contrafacenti». E i denari riscossi per le multe dovevano andare «in colte a universal beneficio de tutto il comun, sì di li contrafacienti come de cescheduno altro del ditto comun».
Ma quali erano queste nuove «regole» che si voleva dare la comunità?
Quando era necessario, come di consuetudine, convocare la visinanza perché giungeva un inviato della Serenissima o dei suoi Rettori e bisognava quindi ottemperare ai loro mandati, tutti i deputati homeni dovevano essere convocati indicando il giorno stabilito, se in mattinata o nel pomeriggio, a seconda dell’importanza dell’argomento da trattare: chi non si fosse presentato (a meno che non fosse ammalato o non si trovasse nel territorio comunale al momento della citazione) incorreva nella multa di dieci soldi di moneta vicentina; si riducevano a cinque se l’assenza era relativa alle altre visinanze, quelle che trattavano argomenti pertinenti la comunità, come metter colte o tasse, fare gli estimi, affittare i beni comunali, stabilire i piovegi (prestazioni lavorative a favore della comunità, che tutti erano chiamati a fornire in determinati periodi dell’anno, come fare manutenzione di strade, costruire ponti, riparare argini, scavare fossati).
E se il comandador del Comune quando passava per la convocazione di porta in porta non trovava per caso nessuno in casa (e capitava spesso, considerando che la popolazione era per la gran parte dedita all’agricoltura), sotto pena di dieci o cinque soldi doveva fare sull’uscio dell’abitazione una croce con la calce, col carbone o con qualsiasi altra cosa. Il capofamiglia vedendo il segno doveva considerarsi convocato, e non poteva per questo presentare una qualche scusa.
Il decano e gli stessi consiglieri erano tenuti più degli altri ad osservare e a far osservare gli ordini contenuti negli statuti: in caso di loro inosservanza avrebbero pagato il doppio della pena che aspettava a ciascun altro contrafaciente.
I fossati dovevano essere mantenuti puliti, scavati e non impediti da piante o sbarramenti;
quando venivano dati in appalto i lavori del Sirone (il corso d’acqua che scorre nel territorio di Villaga) il decano o un suo delegato doveva, prima di pagare gli operai, controllare se i lavori erano stati ben fatti, sotto pena di pagare lui stesso una multa di venti soldi, sempre «da esser spesi a beneficio comun». Se invece i lavori venivano eseguiti direttamente, ciascuno per la sua parte, il decano principale del colonnello di Villaga doveva ordinare ai suoi capi de desena (insieme di dieci capifamiglia) cosa dovevano fare, e far fare ad ognuno la sua porzione di Sirone, e poi ordinare agli altri decani di Toara, Belvedere e Pozzolo di fare e far fare la stessa cosa ai propri uomini entro tre giorni. Se il lavoro non veniva terminato entro tale termine, tutti coloro che non avevano fatto la propria parte incorrevano nella multa di dieci soldi ciascuno. Non si accettavano scuse, né per malattia, né per altre cause: chi non poteva, doveva trovarsi a proprie spese un sostituto che si accollasse la sua porzione di fiume, in modo che «il particular beneficio non deroge al generale, et chel comodo de uno non sia incomodo a molti». E se il decano principale non faceva rispettare quanto stabilito, avrebbe pagato del suo venti soldi, e così pure gli altri decani, i capi de desena e ciascun altro inobediente, se non avessero finito i lavori entro i tre giorni.
Tutte le decisioni della vicinia si dovevano prima «balotar a bussoli et balote», cioè mettere ai voti inserendo delle palline colorate in un’urna: un colore indicava i volenti
(i favorevoli), un altro i contro (i contrari). Se i favorevoli risultavano in maggioranza, la delibera veniva approvata. Non si dovevano naturalmente discutere né tantomeno votare le occurentie della illustrissima Signoria di Venezia, dei suoi Rettori, della magnifica città di Vicenza e dei Deputati, ma anzi «con ogni maggior prestezza nostra, si come semo obligati si deba immediate obedir».


Degan, Degani, Degano, Decano
viewtopic.php?f=41&t=2290
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Messaggioda Berto » gio lug 21, 2016 10:46 am

???

Un tipo di governo mai visto al mondo. Quello della Serenissima
21 Jul 2016
di ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/un-ti ... erenissima

Il pesce è buono, ma il pesce è un cibo che nutre il cervello e chiunque ingurgitasse tre buone dosi di cibo per il cervello lascerebbe i partiti o movimenti o fronti di liberazione dediti all’indipendenza del Veneto all’istante, e lo stesso dicasi per i vari autogoverni; dovesse andarsene a nuoto attraverso il Canal Grande.

Molti parlano di federalismo, ma quando si accenna ad approfondire l’argomento si ascoltano le teorie più eccentriche. In particolar modo da parte di molti esponenti della Lega Nord, tanto da convincere più di un interlocutore che la parola federalismo altro non sia stata che una sorta di “Apriti Sesamo” per entrare nelle istituzioni di quello Stato italiano da cui si voleva secedere.

Molti anni fa, Paolo Bonacchi con alcuni amici trovò una casa editrice che pubblicò la traduzione “Del principio federativo” di P.J. Proudhon. Fallito l’editore il libro è gratuitamente scaricabile da Internet [http://www.progettoitaliafederale.it/Del_Principio_Federativo.htm ]. È un libro che ogni autentico federalista avrebbe dovuto leggere, e che alcuni in verità asseriscono d’aver consultato; ma per verificare se ciò è vero o quanto in esso contenuto è stato compreso, basta chiedere loro cosa vuol dire la parola “sinallagmatico”. Alcuni addirittura fanno precedere la parola da risate o motti di scherno. Riflettendo, invece, la parola porta a chiarire in questi termini il suo significato ultimo agli effetti dell’«Ordine sociale».

Per il diritto il Synallagma costituisce il punto di equilibrio raggiunto dalle parti in sede di formazione di un “contratto” che abbia come obbiettivo la congiunta volontà dei contraenti di scambiarsi diritti e obbligazioni attraverso lo scambio di una prestazione con una controprestazione. Questa definizione è valida sia per i contratti di scambio del sistema economico, sia per i “contratti” di scambio nell’ordine politico.

Se il contratto è politico (o “di Federazione”) il nesso di reciprocità (synallagma) ne costituisce il fondamento, e il sistema resta in equilibrio dinamico producendo progresso e bene comune.
Se, diversamente il nesso di reciprocità viene spezzato, come generalmente avviene prima o poi negli Stati sovrani centralisti e unitari in cui la forza di costrizione è la regola, il sistema dell’ordine sociale va fuori equilibrio e genera inevitabilmente violenza fra le parti che compongono il sistema, o guerra.

La rottura del “nesso di reciprocità” in politica avviene ogni volta che si contraddice una legge di natura, che venga violata la sovranità delle scelte politiche personali della maggioranza sui fatti certi, conosciuti e votati, che venga ignorata la condizione di uguaglianza nella libertà e nella diversità, che vengano violati i diritti naturali delle persone, che esista una ingiustificata differenza fra ricchezza estrema e povertà estrema, che sia impedita la pacifica manifestazione del pensiero, che venga usata l’autorità per imporre comportamenti obbligatori non condivisi dalla maggioranza, che la quantità di ricchezza personale necessaria a organizzare il governo della comunità sia superiore ai benefici che ognuno ricevere sotto forma di servizi e prestazioni ecc. ecc.

La rottura del “nesso di reciprocità contrattuale” in politica, genera violenza nell’ordine sociale e avvia il sistema al fallimento o alla guerra civile. Pertanto non si tratta ora “di immaginare”, di combinare nel nostro cervello un sistema: il sistema di governo non si riforma così. La società non può correggersi che da se stessa, adottando nelle istituzioni di governo il “nesso di reciprocità politica”, ovvero il synallagama.

Da Filippo Mazzei [https://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Mazzei ] era il federalista che attraverso Thomas Jefferson contribuì alla nascita degli USA. Nelle “Istruzioni dei possidenti della Contea di Albemarle ai loro delegati alla Convenzione degli stati uniti d’America” (1776), ebbe tra l’altro a scrivere:

«Sicché se non stiamo in guardia contro le conseguenze di tali pregiudizj mediante salutari leggi costituzionali, vedremo perpetuare alcune cospicue famiglie, e i loro congiunti clienti, e ridurre il governo sostanzialmente a un’aristocrazia e magari oligarchia insolentemente esercitata all’ombra della libertà. Per evitare quindi un tal gran male, per rendere ognuno conscio della propria importanza come membro della comunità uguale a chiunque altro nei suoi diritti naturali, per renderci più competenti in materia di leggi e più felici sotto di esse, deliberiamo: […] Che le leggi fatte dai nostri rappresentanti non possono essere dette né devono essere leggi del paese fintanto che non saranno approvate dalla maggior parte del popolo.» In Italia la legge per antonomasia: la Costituzione, non è mai stata votata dal ‘popolo sovrano’.

Spostando il punto d’osservazione all’etica e alla tradizione, osserviamo che nella “Storia semiseria della Repubblica di Venezia” c’è scritto: «Un tipo di governo mai visto al mondo: basato sul caso. Che Stato bizzarro Venezia! Nessuna di quelle ambizioni di gloria o di conquista che prudono gli altri potentati dell’epoca, anche o più minuscoli. Nessuna traccia di fiamme ideologiche, guerre dinastiche o di religione. Mai visto un guelfo o un ghibellino!
E che governo bizzarro a Venezia; mai un tiranno, mai una famiglia che si imponga durevolmente, come gli Scaligeri a Verona, o i Medici a Firenze o i Visconti a Milano.
La Serenissima è diversa. Perché? Perché è soprattutto una “enorme” società commerciale.
Incredibile? Ascoltate, signore e signori […]
Nei primi tempi di Venezia, il doge veniva eletto direttamente dall’assemblea di tutti i cittadini: il massimo della democrazia.
Ma aumentando il numero di abitanti, la procedura divenne di difficilissima applicazione e pregna di disordini. La si abbandonò solo per queste ragioni pratiche. Il famoso Gran Consiglio non fu affatto “espressione di tirannide”, ma proprio il contrario. Nacque per impedire che qualche facinoroso, aizzando il popolo, conquistasse un potere assoluto.

Il discorso sulla necessità di proteggere il popolo dai suoi stessi eccessi l’abbiamo sentito fare nel corso della storia dai tiranni più rinomati e dai regimi più “progressisti”, proprio che poi il popolo lo fanno marciare a scariche di tortorate sul groppone.
La realtà romanzesca nel caso di Venezia è che il Gran Consiglio (agli esordi, solo un’assemblea dei cittadini più abili e responsabili) ha sempre mantenuto la promessa. Ma come? Il Doge, il Consiglio dei Dieci e tutta quella gente intabarrata, piena di mistero che canta nei melodrammi, non erano i detentori di un potere terribile e intransigente?

Lo lasciavano credere. Storia di tener calmo il colto e l’inclita di dentro e di fuori. Occhiacci per impressionare ma in realtà nessuno poteva ritenersi depositario di qualche potere a Venezia.
Nessuno contava niente. Non contava la nascita, non contava la competenza, l’abilità politica, (anzi, era una nota negativa) e soprattutto non contavano gli appoggi e le amicizie, perché tutta la vita pubblica della Serenissima si svolgeva all’insegna di una sola cosa: del caso».

In realtà le cose erano un po’ differenti. Le cariche di governo erano estratte a sorte con un complicato meccanismo (vedi qui: http://www.miglioverde.eu/gli-indipende ... ei-partiti ), ed ogni pubblico ufficio aveva il suo controllore. Altro che, per esempio, l’odierno Difensore Civico, il quale laddove è istituito è il controllato a nominare il suo controllore. Quis custodiet ipsos custodes?

Infine, quando gli indipendentisti parlano di federalismo affermano quasi sempre di voler instaurare un sistema di tipo svizzero. Ebbene, l’Esecutivo svizzero – chiamato Consiglio federale – è composto da sette persone. I sette ‘ministri’ – denominazione informale, ma sempre più usata – sono eletti dalle Camere federali (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati) osservando una distribuzione di seggi che rappresenti le principali forze politiche del Paese. Attualmente, non sono noti gli equivalenti svizzeri nei 4 o 5 autogoverni del popolo veneto, né alcuna attività indipendentista genericamente definita “governo ombra”. Eppure senza legge non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è libertà o autodeterminazione.



Alberto Pento
Sì ma ła jera na repiovega arestogratega a domegno venesian e no de tuti i veneti ke lè stà el debołe e ła so peca.
Li omani łi conosce i contrati o pati e ła reçiproçetà tra łe parti da miłiara e miłiara de ani vanti dei greghi, non xe el moto grego "Synallagma" kel ga xenerà i contrati e ła reçiproçetà.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » mar ott 25, 2016 8:40 pm

IL PROTO FEDERALISMO DELLA REPUBBLICA SERENISSIMA
di ENZO TRENTIN

In alcuni ambienti indipendentisti, sicuramente in buona fede, ci si azzarda a definire “federalista” l’organizzazione istituzionale della Repubblica di Venezia, ma pare più opportuno ripiegare, eventualmente, sulla definizione di proto federalismo.

Quando si parla di federalismo, infatti, quasi nessuno tiene a mente che esso si basa due principi fondamentali:

1. La sovranità che tramite il voto i cittadini conferiscono ai rappresentanti, è inferiore alla sovranità che riservano per se stessi sui fatti.
2. Gli oneri che il “foedus” implica devono essere inferiori (o quanto meno uguali) ai benefici che se ne ricavano.

Se ci si pensa un po’, il primo è il principio cardine della democrazia, il secondo è una «assicurazione» civica.

Il padre del moderno federalismo è Pierre-Joseph Proudhon che nel suo libro «Del Principio Federativo» [scaricabile gratuitamente qui] lo definisce anche “Contrattualismo”. Infatti cos’è il Federalismo se non governo del popolo senza Stato e la Sovranità il diritto naturale di ogni cittadino a partecipare con potere prevalente sugli organi elettivi, alla formazione delle leggi che riguardano tutti?

Ciò premesso andiamo ad osservare alcuni aspetti della Repubblica del leone. Per esempio, secondo G.I. Cassandro, “La Curia di Petizion e il diritto processuale di Venezia” (Venezia 1937, pag. 8) «Il legislatore veneziano considerò, anche, le curie giudiziarie sotto l’aspetto politico, vale a dire sotto un aspetto generale. Non si chiese e non volle chiedersi quale funzione speciale esse fossero chiamate a svolgere: il giudice fu visto non come tale, ma come uno qualsiasi degli officiali della Repubblica, membro dell’aristocrazia dominante.»
L’aristocrazia veneziana temeva le novità, e massime quelle che apparivano suscettibili di metter a repentaglio l’ordine repubblicano: postulava in tutti i membri del patriziato eguaglianza di possibilità e di capacità di giudicare, in virtù dell’equità di cui erano depositari. Le riforme del diritto che si proponevano, con lo sfondo culturale su cui si profilavano, facevano intravvedere una diversa concezione del giudice veneto e del suo modo di giudicare. Questo richiedeva in primo luogo il problema di esigere da tutti una adeguata preparazione di carattere giuridico: di diritto romano e canonico, nonché di diritto veneto.
A tutti era richiesta – cioè, non solo da coloro che solitamente avevano possibilità di provvedervi, in virtù delle loro fortune private – una certa cultura, da integrare ora con quella specificamente giuridica; ma anche da coloro, e non erano pochi, che mezzi per istruirsi non ne avevano: e alla preparazione di questi avrebbe dovuto provvedere la Repubblica stessa, assumendone tutto il carico, organizzativo e finanziario.

A fornire una educazione anche al patriziato povero si finirà col pensarci, indipendentemente dalla questione che qui interessa particolarmente, all’inizio del 1600, quando qualche patrizio illuminato comprenderà che, dato l’evolversi della società e insieme delle esigenze e dei compiti dello Stato, non si poteva continuare ad affidare la gestione della cosa pubblica anche ad uomini che non disponevano delle cognizioni indispensabili per farlo decorosamente. L’assunto della costituzione veneziana era che i patrizi avessero, in ciascuno dei posti in cui venivano a trovarsi, le capacità essenziali di un politico, cogliere il nucleo delle questioni, e valutarlo, pur senza prescindere dalle leggi che regolavamo la materia in oggetto, al lume di considerazioni generali di interesse collettivo, ossia politico, lasciando alla categoria subordinata – cancellieri, segretari, notai – l’aver cura degli elementi più tecnici. (1)
Ciò si materializzò in privilegi e particolarismi delle città e dei territori sudditi. Uno degli aspetti più sorprendenti dell’amministrazione della giustizia nella terraferma veneta era costituito dalla varietà e dall’estensione dei privilegi, anche tra centri vicini, che la “Dominante” aveva accordato sin dai tempi della dedizione. La Repubblica, pur mantenendo il potere sovrano, aveva concesso alle città suddite di conservare le antiche strutture giudiziarie che queste già possedevano, anche se con un lunghissimo processo finì per vanificarle, accostando loro similari istituzioni che finirono per sostituirsi ad esse.

In numeri e svariati erano i privilegi di natura giudiziaria nel Friuli, dove un ben radicato feudalesimo prosperava da secoli. In questa zona, a differenza di quanto era avvenuto in gran parte dell’Italia centro-settentrionale, a causa dell’inconsistenza di energiche forze economiche ascendenti e per l’esiguità dell’apporto dei vassalli minori, le organizzazioni comunali non erano riuscite ad intaccare in modo sostanziale il potere del patriarcato aquileiese e ad opporsi efficacemente alla supremazia giurisdizionale dei feudi (2).

Venezia, al momento della dedizione, aveva rispettato la rappresentanza del parlamento friulano, suddiviso nei tre membri del clero, nobili castellani e comunità, sottraendone però le attribuzioni più importanti e inviando un proprio rappresentante a governare la Patria con il titolo di luogotenente generale, con sede in Udine (3).
A differenza di quanto aveva attuato in altri luoghi della terraferma, la Repubblica preferì non concentrare nella persona del proprio rappresentante l’autorità giudiziaria ordinaria, confermando i privilegi giurisdizionali dei giusdicenti locali (4). Ogni, benché piccola, giurisdizione possedeva la facoltà di formare processi e di pronunciare sentenze intorno a qualsiasi tipo di delitto, senza l’obbligo d’informare il luogotenente veneziano, anche se la Repubblica aveva concesso al proprio rappresentante l’appello di tutte le sentenze emesse dai giusdecenti locali (5), pensando in tal modo di eroderne i poteri più consistenti; ma la vastità delle giurisdizioni e, ancor più, una sorda e tenace resistenza, avevano impedito una sicura attuazione di questa volontà politica (6).

Nel 1578 la Repubblica restringeva notevolmente la sfera giurisdizionale dei feudatari, obbligandoli, in tutti i casi in cui fosse stato usato l’arcobuso, ad informare il luogotenente veneziano, il quale avrebbe provveduto ad inviare il proprio giudice del maleficio a formare processo. Se il delitto fosse stato particolarmente grave, dopo la rituale informazione a Venezia, i Consiglio dei dieci avrebbe provveduto alla sua avocazione o delegazione; in caso contrario il processo sarebbe stato proseguito dai giusdicenti locali, con l’obbligo, prima della pubblicazione della sentenza, di sottoporlo alla visione del luogotenente (7).
Maggiori poteri al proprio rappresentante e interventi diretti del potere centrale erano dunque i mezzi con cui Venezia cercava di erodere l’enorme potere giudiziario goduto dai feudatari. Il compito non si presentava facile e spesso le intenzioni erano destinate a rimanere tali; l’amministrar giustizia nell’ambito delle singole giurisdizioni feudali era un mezzo di potere troppo ambito perché potesse essere facilmente scalzato: prima di essere strumento di pressione nei confronti dei propri sottoposti, esso era soprattutto uno strumento finanziario efficacissimo, che permetteva un rilevante gettito di denaro attraverso la comminazione di ingenti pene pecuniarie, facilmente dilatabili a seconda delle occorrenze.
Tra l’altro la Repubblica doveva affrontate la tenace opposizione del Patriarca d’Aquileia, che espandeva la propria giurisdizione anche sul territorio arciducale. Assoggettato nel secondo decennio del 1400, il patriarcato aquileiese costituì per lungo tempo motivo di attriti e di tensioni con la Chiesa. Nel 1445 la Repubblica compiva un passo determinante togliendo al Patriarca il diritto d’infeudare (8), dopo altre lunghe controversie, finalmente nel 1552 otteneva dal Pontefice il riconoscimento ufficiale del proprio dominio sul Patriarcato (9).
L’analisi di altri aspetti e peculiarità ci porterebbe assai lontano dalla nostra opera giornalistica per approdare alla ricerca. Ciò che ci pare interessante sottolineare è che, a parte i grossi centri urbani dove il patriziato veneziano era chiamato alle funzioni di Podestà e di Luogotenente, in tutto il dominio di terraferma erano mantenuti gli Statuti e le libertà comunali proprio per la carenza di “rappresentanti”.
Alan Sandonà è un avvocato bresciano, dottore di ricerca in storia del diritto medioevale e moderno, arrivato a Caltrano (VI) per conoscere la storia dei suoi avi partiti per la città lombarda, inizia a “scavare” nell’archivio parrocchiale. Frequenta anche la Biblioteca Bertoliana di Vicenza dove, fra l’altro, s’imbatte negli antichi statuti caltranesi del tutto sconosciuti in paese e, pare, anche fra gli studiosi. Nasce così “Leges et statuta communis Cartrani – Gli Statuti di Caltrano del 1543″, Editrice Veneta (10).
Che il comune alto-vicentino, con relativo patrimonio montano, si fosse costituito già verso il 1200 già lo si rilevava da altre pubblicazioni. Con questo suo lavoro Sandonà fa un decisivo passo avanti. Inquadra storicamente e giuridicamente quella realtà che quasi cinque secoli fa venne sancita da questi statuti approvati dall’apposita commissione operante a Vicenza per conto della “Dominante”.
Questa sua operazione preliminare consente di comprenderli meglio valutandone così l’importanza per i circa ottocento caltranesi dell’epoca. Succede così che quando si arriva a leggere la trascrizione in italiano di queste regole che la comunità caltranese aveva deciso di darsi per un logico bilanciamento fra diritti e doveri in funzione del bene comune e della sostenibilità economica si è già immersi nell’atmosfera locale e veneta del 1543.
All’epoca la situazione era veramente difficile. Dall’inizio di quel secolo guerre ed invasioni avevano interessato il Vicentino riducendo i più alla pura sopravvivenza legata alla “terra”. Vicenza mirava a spuntare il massimo dal “contado”. A sua volta Venezia necessitava di risorse per sostenere i conflitti in cui era impegnata. Una realtà in grado di ridurre le libertà e gli spazi di manovra dei cittadini caltranesi. Gli “statuti” rappresentarono un antidoto a questo rischio. Erano importanti perché prevedevano l’elettività delle cariche da parte dell’assemblea cittadina, tutelavano il patrimonio comune tramite l’uso civico, sanzionavano i trasgressori, fissavano multe e tasse. Su quest’ultimo versante la differenza con l’oggi è assai differente.
È per tale motivo che gli attivisti dell’indipendentismo veneto dovrebbero allertarsi. Imitando quanto è stato fatto recentemente a Monteviale (VI) dovrebbero presentare Istanze e Petizioni per la modifica degli Statuti comunali di tutti i territori che vogliono indipendenti. Un brogliaccio per le loro azioni lo possono rilevare da qui: [vedi qui allegato]
C’è da dire che l’iniziativa non è nuova, e dove è stata materializzata i risultati sono stati pochi. Tuttavia, laddove s’impegnassero, gli indipendentisti darebbero un duplice segnale: alla partitocrazia per metterla alla berlina circa la sua presunta democraticità, e alla popolazione che, portata a conoscenza delle proposte di riforma, avrebbe la possibilità di vagliare la consistenza e la qualità dell’«offerta» insita nell’autodeterminazione da loro proposta.
* * *
NOTE:
1. Gaetano Cozzi “Stato società e giustizia nella repubblica veneta (Sec. XV-XVIII)”, Editrice Jouvence, 1981.
2. A. Tagliaferri, “Struttura e politica sociale di una comunità veneta del ‘500”, Milano 1969, p, 16.
3. P. S. Leicht, “Parlamento friulano”, Bologna 1956, p, XVI. Al luogotenente spettavano gli appelli presentati dalle sentenze dei feudatari (castellani), le cui giurisdizioni erano più o meno ampie.
4. Nella sua descrizioni del Friuli del 1567 Girolamo Di Porcia enumerava, descrivendone i confini e i privilegi, 72 giurisdizioni, di cui 14 appartenenti al clero, 41 ai feudatari e 17 alle comunità (G. Di Porcia, “Descrizione della Patria del Friuli”, Udine 1897).
5. Se la sentenza veniva vagliata dal luogotenente, il caso ritornava ai giusdicerti di prima istanza (Ibid., pp. 21-24).
6. Il luogotenente Renier Foscarini riferiva nel 1640 che molte giurisdizioni, nella visita periodica che il rappresentante veneziano doveva compiere nel corso del proprio reggimento, non venivano «visitate, sì per la brevità del tempo strettamente assegnato nel fare quella fontione, che a pena concede in alcuni luoghi il solo spatio di un desinare, sì anco per essere remote dal giro ordinario et per esser d’inferior commando et conditione» (A.S.V., “Relazioni”, busta 49).
7. Ibid., “Relazioni”, busta 49: relaz. di Federico Sanudo, 1635 e di Marino Contarini, 1679.
8. G. Bonturini, “Avvenimenti della Repubblica di Venezia per la soppressione del potere temporale dei patriarchi d’Aqaileia”, Venezia 1868, pp. 9-12.
9. F. Di Manzano, “Annali del Friuli”, VII, Udine 1879, p. 147 .
10. Il Giornale Di Vicenza, Mercoledì 26 Novembre 2014


Alberto Pento

Manco mal ca te ło ghè ciamà "proto"; na mexa via, on colpo al sercio e naltro a ła bote. Me despiaxe, ma de federałixmo no ghe jera gnente, łe xenti venete no łe gheva gnaona soranedà połedega e prasiò no ghe jera gnaon federałixmo: l'aotomia aministradiva, i priviłej, łe exension ... no łe xe segni, espresion, manefestasion, istitudi, forme de soranedà połedega. Me despiaxe tanto ma łe parołe łe ga tute el so bon senso e par coanto ke łe se para torno o ke se ghe jera torno sto senso nol canvia de on skeo.
De fato a deçidar el termene de ła Repiovega Serenisima no xe stà i veneti, tuti i veneti, ma lomè i venesiani, o mejo na parte de l'arestograsia venesiana ke anvençe de scondarse o de scanpar ła xe ndà a Pałàso Dogal par dreketar l'abdegasion de ła so Soranedà en favor de ła Moneçepałedà Provixora d'ispirasion Napoleonega.
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La Repiovega Veneta a domegno venesian no ła jera federal

Messaggioda Berto » gio nov 23, 2017 8:36 pm

La idiozia dei venezianisti che Venezia fosse federale e democratica quando in Europa gli altri stati avevano la monarchia assoluta



Carmelo Ferrante
Alberto Pento, la Repubblica non era "federale" e "democratica"? :O e chi te le ha raccontate queste cose?
Certo che se la misuri con il metro odierno, qualche sbavatura la puoi trovare, ma dovresti tener conto dell'epoca cha va duecentoventi anni fa all'indietro, dove la norma erano le monarchie assolute.
Giudichiamo le cose all'interno della loro realtà storica, per piacere!



In Gran Bretagna già nel 1660, 129 anni prima della rivoluzione francese e 137 anni prima della caduta di Venezia è stata istituita la Camera Bassa o Camera dei Comuni e non vi era alcuna monarchia assoluta
https://it.wikipedia.org/wiki/Camera_de ... egno_Unito)
https://it.wikipedia.org/wiki/Camera_dei_comuni


Poi vi è la Confederazione Svizzera che non era certo una monarchia assoluta
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_Svizzera
https://it.wikipedia.org/wiki/Vecchia_Confederazione
https://it.wikipedia.org/wiki/Confedera ... to_cantoni
https://it.wikipedia.org/wiki/Svizzera


Anche la Svezia non era una monarchia assoluta
https://it.wikipedia.org/wiki/Riksdag_(Svezia)
Le radici dell'attuale Riksdag affondano nella riunione del 1435 della nobiltà svedese nella città di Arboga. Questa organizzazione informale fu modificata nel 1527 dal primo re moderno della Svezia, Gustavo I Vasa, per includere le rappresentanze anche degli altri stati: nobiltà, clero, borghesia e proletariato. Questa forma di rappresentazione Ständestaat durò fino al 1865, anche se il Parlamento nel senso moderno del termine fu stabilito verso la fine del primo decennio del XX secolo.



Monarchie assolute
https://it.wikipedia.org/wiki/Monarchia ... ituzionale

Il Regno Unito fu la prima monarchia in cui il Re era limitato nei suoi poteri a causa della "Magna Charta".
https://it.wikipedia.org/wiki/Magna_Carta

https://it.wikipedia.org/wiki/Monarchia_costituzionale
La monarchia costituzionale ha avuto origine in Inghilterra in seguito alla Gloriosa rivoluzione e al Bill of Rights del 1688-1689 che insediò sul trono Guglielmo d'Orange, col nome di Guglielmo III d'Inghilterra.
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Re: La Repiovega Veneta a domegno venesian no ła jera federa

Messaggioda Berto » gio mar 07, 2019 6:11 am

SAN MARCO FEDERALISTA, ECCO COME FUNZIONAVA
6 Marzo 2019 di Millo Bozzolan

https://www.venetostoria.com/?p=14496

Giuseppe Gullino, grande e apprezzato storico della repubblica di Venezia, ci spiega in questo brano come tante comunità, così diverse, potevano integrarsi tra di loro e con lo stato veneto, che era il garante della libertà comune. Se penso che nella “democratica” Italia, un minimo di autonomia del Veneto viene visto come un attentato all’unità dello stato, mi vien da ridere (o da piangere).

Uno dei segreti del successo di Venezia era il decentramento amministrativo per cui tanti piccoli mondi convivevano entro un’unica unità superiore. Si innescavano in tal modo dei meccanismi difensivi, che rendevano elastico il rapporto stato-società.

A Palazzo Ducale il Senato governava, ma non amministrava. L’amministrazione, infatti, era affidata alle forze locali; nel Padovano, ad esempio, Camposampiero, Monselice e Montagnana avevano i loro statuti. le loro magistrature, persino i loro pesi e misure, così come la stessa Padova, o Treviso, Pordenone, Belluno e Vicenza. Il governo centrale si limitava a mandarvi uno o due rettori che amministravano la giustizia e provvedevano alle milizie incaricate di riscuotere dazi e badare alla difesa esterna.

Inoltre, all’interno delle singole comunità vi erano ulteriori forme di autogoverno, facenti capo alle corporazioni di arti e mestieri, (ognuna con un proprio gastaldo ossia presidente; con propri organi elettivi, detti “banca”, propri regolamenti, e alle scuole e confraternite assistenziali, queste ultime numerosissime.

A Venezia, ad esempio, gli Arsenalotti – o lavoranti dell’Arsenale che nel ‘500 fu probabilmente il maggior organismo industriale dell’Europa, con circa 4.000 addetti-; gli arsenalotti, dicevo, si autogovernavano, disponendo i loro turni di lavoro, le paghe, le carriere, assegnando le case messe loro disposizione dallo Stato ( ci sono ancora e meritano di essere viste, sulle fondamenta che circonda l’Arsenale, con scritto sugli stipiti Capo mistro alli foghi, Capo mistro alle vele), provvedendo ai turni della cassa integrazione,; avevano persino una loro moneta al loro interno.

Si autoreggeva anche l’università a Padova, con gli studenti che si dividevano in varie “nazioni” legalmente riconosciute; quella alemanna, inglese, polacca, con larghe autonomie e diritto di extraterritorialità.

Gli esempi potrebbero continuare: si pensi ai ghetti degli Ebrei, ai fondaci dei Tedeschi, dei Turchi, dei Persiani, degli Armeni; alle scuole dei Greci, degli Albanesi, degli Schiavoni, dei Lucchesi, dei Lombardi, ecc… Ancora mi emoziono, quando mi capita di trovare, in qualche fondo archivistico, delle ‘Terminazioni’ (Decreti) del Senato redatte in italiano e croato, o in italiano ed albanese o italiano e greco, con il foglio diviso verticalmente a metà e sormontato dal leone marciano.

Così scrive Giuseppe Gullino, e mi vien da pensare a Roma che redige leggi e regolamenti in italiano.. e in veneto. E capisco quanto sia una realtà oppressiva ed irriformabile lo stato che ci tiene in pugno dal 1866.



Alberto Pento
Il decentramento amministrativo non è federalismo, il titolo è fuorviante e fa parte della demenziale propaganda venetista-venezianista che falsifica la storia. La Repubblica Veneta a dominio veneziano non era federale e ha contrastato demenzialmente e arrogantemente l'evoluzione democratica finendo così nella polvere travolta dalla storia.
Recuperare la Storia in modo corretto, equilibrato senza mitismi mitomaniaci e reinterpretazioni falsificanti.
Certo la Storia di Venezia è parte della Storia d'Europa, dei veneti, dell'area italica e di quella mediterranea, ma è insensato e demenziale fare di questa storia una idolatria politica.
Recuperare la storia, tutta la storia dei veneti, di tutte le genti venete anche quella non veneziana e non solo quella "gloriosa" di Venezia imperiale ma anche quella ingloriosa che le ha fatto perdere l'impero e l'indipendenza e la sua responsabilità nel non aver promosso una vera nazione dei veneti, l'unità vera di tutti i veneti e uno stato veneto a sovranità di tutte le genti venete, delle terre storicamente venete che non vanno confuse con i territori dominati dall'impero veneziano che in gran parte non erano veneti.
Io amo molto la storia della Svizzera che pur non avendo avuto una storia imperiale gloriosa, ha conservato attraverso i secoli la sua indipendenza e sovranità ed è uno dei paesi più democratici, civili e felici del Mondo.
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